Ma quelle celle sono ancora sovraffollate di Patrizio Gonnella* Il Giorno, 21 agosto 2020 Non è facile immaginarsi cosa potrebbe essere il settembre carcerario italiano. Una cosa è certa, però: bisogna assolutamente evitare che gli istituti penitenziari italiani si trasformino nei nuovi focolai, come è avvenuto per le residenze per anziani nei mesi di marzo e aprile. Per evitare tutto questo, va ridotto il tasso di affollamento che rende impossibile il distanziamento fisico. L’ideale sarebbe avere un sistema dove ci siano meno detenuti rispetto alla capienza regolamentare (oggi abbiamo, invece, circa 53 mila detenuti rispetto agli effettivi 47 mila posti letto), nonché la disponibilità in ogni carcere di mini-reparti dove poterli isolare nel caso di quarantena (da prevedere per ogni nuovo giunto), di sopravvenuta positività o, comunque, qualora i reclusi presentino sintomi che facciano pensare al Covid. Inoltre, deve essere offerta periodicamente un’informazione medica puntuale, sia allo staff che alla popolazione detenuta (anche in lingua non italiana visto che un terzo dei detenuti è straniero) sulle misure igieniche da prendere nella quotidianità. Infine, si spera che ogni agente di Polizia penitenziaria, educatore, direttore, medico, infermiere, cappellano, disponga di mascherine e guanti. E che ai detenuti, oltre ai dispositivi di protezione individuale, siano dati a sufficienza sapone, detersivi per igienizzare la cella e gel per le mani. Il settembre carcerario impone anche che la vita dentro riprenda nel segno della normalità, affinché i detenuti non siano condannati all’ozio. La vita scolastica e universitaria dovrebbe usufruire di quei supporti tecnologici che fanno parte della didattica a distanza Si tratta di riempire con attività culturali, formative, educative dotate di senso il tempo trascorso in carcere, ma fuori dalla cella, affinché non diventi uno spazio insalubre di vita, sia dal punto di vista fisico che psichico. *Presidente Associazione “Antigone” “I detenuti sono esasperati e abusano di psicofarmaci” di Viviana Lanza Il Riformista, 21 agosto 2020 Il Covid prima, con il lockdown, il distanziamento e l’isolamento che ha determinato. E l’estate poi, con il personale in ferie, lo stop delle attività trattamentali, il caldo e il sovraffollamento nelle celle. Di mezzo la solitudine e la disperazione dei detenuti e un nuovo fenomeno: l’abuso di psicofarmaci. Lancia l’allarme Luigi Romano, presidente di Antigone Campania. Dal lockdown in poi c’è stata una sospensione di tutto quello che riguarda il reinserimento e la componente rieducativa delle strutture penitenziarie, come se il carcere avesse subìto, con il lockdown e le strette securitarie che ci sono state all’interno anche di una rigenerazione del Dap, una militarizzazione”. Nelle più recenti circolari emanate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria viene riscontrata una particolare attenzione ai temi e ai problemi della polizia penitenziaria. Anche se carente, il personale della polizia penitenziaria è in sostanza l’unica forza realmente presente all’interno delle strutture detentive”. È come se ci fosse uno sbilanciamento, eppure bisognerebbe puntare su rieducazione e reinserimento dei detenuti almeno quanto su sicurezza e repressione. Invece appare una contraddizione di fondo. E il Covid ha messo a fuoco questa contraddizione - osserva Luigi Romano. Il problema è che non esiste una programmazione, non c’è un’organizzazione di attività secondo quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione”. Antigone è un’associazione da sempre attenta alle tematiche che riguardano la sfera del carcere e dei diritti dei detenuti. Dopo quello delle violenze in carcere e dei pestaggi che sarebbero avvenuti dopo le proteste durante la fase più acuta dell’emergenza Covid, l’associazione ora si sta occupando di una nuova emergenza: l’abuso di psicofarmaci. Il fenomeno si è aggravato durante il lockdown e il trend continua a essere in preoccupante crescita. Antidepressivi, ansiolitici, antipertensivi sono tra i farmaci sempre più diffusi tra i detenuti e anche quando si tratta di terapie blande sono casi che destano allarme e aprono a una serie di riflessioni. C’è un abuso allarmante di psicofarmaci, sono l’ozio forzato in cui i detenuti versano, soprattutto da quando sono stati sospesi gli ingressi dei volontari e le attività trattamentali - spiega il presidente di Antigone Campania - Abbiamo riscontrato una crescita nei consumi di psicofarmaci e ansiolitici in carcere e monitoriamo questa situazione. Molto incide anche l’ansia sociale legata alla imprevedibilità della pandemia, al timore di una nuova ondata. Sentimenti che in carcere sono amplificati”. E poi ci sono le misure di distanziamento, i colloqui con i familiari per mesi sospesi e ora in lentissima ripresa. Insomma, lì, nel mondo di chi sta dentro, le sfere emotive hanno consistenze e dimensioni diverse. La condizione di sospensione e di separazione dal mondo di fuori impedisce di gestire il proprio tempo e di capire come direzionare le proprie forze, e acuisce la tensione soprattutto tra un particolare tipo di detenuti, cioè i detenuti comuni, che sono la maggior parte della popolazione carceraria - aggiunge. I detenuti che hanno già una condanna a un percorso detentivo più sostanzioso hanno una maggiore idea del proprio percorso ma rappresentano una minoranza rispetto ai detenuti comuni che provengono dalle marginalità delle nostre metropoli”. Quali proposte sono possibili? Servono educatori - dice Romano - e serve un’idea di carcere diversa. Il carcere inteso come massima sicurezza, come reclusione e separazione non funziona più. Bisogna cominciare a pensare a un carcere inclusivo, che abbia la capacità di parlare con i tessuti sociali, di organizzare le proprie forze, anche economiche, e investire sui profili trattamentali. Dobbiamo immaginare un carcere che non sia solo un serbatoio dove recludiamo, separiamo e teniamo lontani, ma come un elemento di trasformazione. Quanto possiamo contenere con i dati sulla criminalità, con l’ipertrofia della sfera penale dove ci sono sempre più illeciti e sempre più reati? Il carcere come contenitore è destinato a scoppiare”. “Le procure vogliono soltanto potere e nessuna responsabilità” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 agosto 2020 Tullio Padovani, avvocato penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa è tra i pochissimi accademici del suo campo ad essere stato invitato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei. In questa lunga intervista affronta i temi attuali di politica giudiziaria senza molti giri di parole. Cosa ne pensa della riforma Bonafede del Csm? Il Presidente dell’Ucpi Caiazza ha parlato di una riforma dalla “gravità inaudita” che consegna il Csm in mano alle Procure... Condivido pienamente il punto di vista di Caiazza, è demoralizzante quello che ho letto. Mi chiedo chi scriva certe “riforme”. Dobbiamo chiederci se ha senso riformare il Csm senza prima aver risolto il problema della separazione delle carriere. In caso contrario avremo un Csm che sarà comunque dominato dalle Procure. A meno che non si adotti il sorteggio puro contrario alla Costituzione - i pm domineranno perché sono i magistrati più visibili, quindi saranno i più votati, anche perché incutono più rispetto e timore. L’illusione di sradicare le correnti attraverso meccanismi elettorali somiglia tanto a quella illusione, che a suo tempo Giovanni Sartori dileggiava, secondo cui con la legge elettorale si potesse determinare la conformazione dei partiti: ad esempio favorire il bipartitismo con il sistema uninominale. Il sistema elettorale non è in condizioni di determinare l’assetto degli attori in gioco. Questo vale di più per i magistrati perché le correnti della magistratura hanno la forma dell’acqua: puoi inventare tutti i recipienti del mondo, sempre acqua sarà. Dunque con questa riforma si vuol far finta di riformare. Come diceva Tancredi nel Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ma i tempi per la separazione delle carriere sono maturi? Si tratta di un dato ormai conquistato dall’opinione pubblica più sensibile, più consapevole; però non è un ostacolo facile da superare per una serie molteplice di ragioni, non ultima quella che i pm si renderebbero conto di perdere potere, e dico potere nel senso negativo del termine: oggi dominano la scena. Le indagini preliminari esauriscono in pratica il procedimento, quello che avviene dopo interessa fino ad un certo punto. La ragione della loro contrarierà è rappresentata dal dire che non vogliono finire sotto l’Esecutivo. Ma la proposta di legge depositata dall’Ucpi non prevede questo... Avverrebbe solo se lo si volesse ma non è questo il caso. In Francia avviene perché si vuole che sia così. Ogni sistema si può impostare secondo gli obiettivi da raggiungere. Da noi non solo non c’è quell’obiettivo ma non lo si deve raggiungere. Ci sono Paesi in Europa da cui trarre spunto per meccanismi alternativi: in Olanda, ad esempio, c’è un sistema della separazione delle carriere con l’azione penale non obbligatoria e una procedura che consente un controllo interno sull’esercizio delle procure, con una responsabilità politica al vertice. A proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale le Procure escono rafforzate anche dal potere che il ddl conferisce loro di definire priorità fra i reati da perseguire... I manuali inglesi di procedura penale iniziano dicendo che la pubblica accusa deve scegliere, non si può perseguire tutto perché il sistema non è in condizioni di farlo. Quindi è necessario fare una scelta per non ingolfare la macchina della giustizia. La scelta come va organizzata? E qui arrivano i dolori: loro pensano di cavarsela con le “priorità”: sono una balla, sono un inganno, una frode direi. Quando un pm dice “prima perseguo una cosa e le altre le metto in fila” si presuppone logicamente che prima o poi tutte le ipotesi di reato dovranno essere vagliate. E nel nostro caso quando arriva il turno di coloro che sono ultimi in questa fila? Si presuppone così che i processi siano eterni: verranno posposti i processi che si terranno forse dopo 30 anni. La situazione si è aggravata ulteriormente con la riforma che ha reso la prescrizione pressoché inesistente... Infatti riempiamo gli armadi di fascicoli. Prima avevamo l’amnistia e l’abbiamo abolita, poi è arrivata la prescrizione per supplire ad una mancanza di discrezionalità ordinata. Si diceva ‘“ scegli cosa è importante e il resto va in prescrizione”. Adesso neanche più la prescrizione! Quindi cosa rimane? La morte del reo. Allora non parliamo di priorità; dobbiamo trovare un meccanismo che stabilisca cosa si persegue e cosa no. L’obiettivo è selezionare cosa va a giudizio e cosa non ci va. L’articolo 112 della Costituzione dice che l’azione penale è obbligatoria senza aggiungere altro... Non entrando nel dettaglio - come, quando, con quale intensità processuale - dice sostanzialmente che l’azione penale è arbitraria: fate quello che volete. Intanto è obbligatorio fare tutto e le altre cose aspetteranno perché noi non possiamo dire che non le perseguiremo ma lo faremo in un dopo indefinito. La resistenza contro l’abolizione dell’obbligatorietà deriva proprio da non volere superare questo regime di arbitrarietà: fa comodo ora agire con assoluta discrezionalità senza limiti né controlli. Sarebbe importante dunque un controllo sull’operato delle Procure? Un sistema controllato e guidato consentirebbe anche la verifica dell’efficienza dell’operato rispetto a quello che decidi di portare a giudizio. Come è andata a finire? Perché è fallito il processo? Perché hai deciso di perseguire Tizio o Caio? O questo tipo di reato? Perché le prove non sono state sufficienti? E perché, se non lo erano, hai deciso di andare avanti lo stesso? Un meccanismo del genere responsabilizzerebbe molto. Mia cara, nessuno in questo Paese vuole una responsabilità. Tutti vogliono il potere che deve essere insindacabile. Si tratta di una logica che si sta imponendo. A proposito di visibilità dei pubblici ministeri e Csm, cosa ne pensa della querelle Di Matteo-Bonafede sul Dap? Sono polemiche miserabili, roba squallida di provincia. Di Matteo e Bonafede sono due personaggi di un’antica commedia che purtroppo è stata inaugurata in epoca repubblicana. Uno dei mali nato con il regime repubblicano è che a dirigere l’esecuzione penitenziaria ci va per lo più un pubblico ministero. Ma siamo matti? L’esecuzione penale a tutti può andare ma non ad un pm perché è colui che ha portato nel processo un punto di vista, quello dell’accusa, e quindi non può avere la sensibilità di gestire la condanna, che casomai proprio lui ha ottenuto, a prescindere dalla colpa. La condanna in linea di principio dovrebbe prescindere dalla colpa: quest’ultima rimane alle spalle, pensiamo al futuro del detenuto. Ma il pm non è l’organo del futuro, è quello del passato. L’Italia liberale mai avrebbe pensato di mettere a capo dell’amministrazione penitenziaria un pm: è un pensiero osceno. Si ricordi che nell’Ottocento noi abbiamo avuto fior di penitenziaristi di livello europeo, gente che veramente ha fatto compiere passi straordinari al pensiero penitenziario: erano grandi funzionari dello Stato che dirigevano l’esecuzione penale. Le faccio un nome: Martino Beltrani Scalìa. Un altro tema enorme è quello dei magistrati fuori ruolo, in particolare di quelli distaccati presso il Ministero della Giustizia con buona pace del principio della separazione dei poteri... Chi le parla ha lavorato per il Ministero della Giustizia per 25 anni. Il mio ingresso fu propiziato da un giovane e brillante magistrato che ai tempi stava all’ufficio legislativo: Giorgio Lattanzi. Ho prestato questo servizio con gioia, avevo accanto molti colleghi e anche magistrati con cui abbiamo costruito diversi tavoli e commissioni. Il problema in realtà sta qui: perché il Mini- stero della Giustizia deve essere gestito solo da magistrati? Ma non dovrebbe proprio essere così. Chi deve decidere, il giudice, non può amministrare proprio niente: deve essere nelle condizioni di dirimere un conflitto che vede da un lato la Repubblica e dall’altro il signor Rossi. Per questo il giudice è terzo e le carriere devono essere separate, perciò il giudice deve essere immune da un rapporto con le due parti che lo coinvolga addirittura in termini di colleganza. Le pare che chi ha questo compito va a dirigere qualche ufficio al Ministero? Oggi sembra che nessuno conosca Palamara o che gli abbia chiesto favori. La sua espulsione dall’Anm e l’eventuale radiazione bastano a sanare la questione? Palamara comincia a farmi simpatia: buttata via la pecora nera rimane un gregge di pecorelle bianche. Ci sono o ci fanno? Palamara aveva il potere di fare tutto quello che è accaduto da solo? O aveva bisogno di una miriade di rapporti, di relazioni, di complicità, di connivenze? E infatti la sua lista testimoniale evoca questa rete sociale. Han fatto bene i suoi avvocati: Palamara non era solo. Sarà anche colpevole ma la sua colpa va inserita in un contesto in cui non ha agito da furfante solitario ma come esponente di un sistema nel quale ha assunto un ruolo non certo da unico protagonista. Siccome questa linea di difesa è sconvolgente nel senso che sconvolge equilibri e distrugge l’idea della solitaria pecora nera da sacrificare, ora non sanno a che santo votarsi: come faranno a non ammettere questi testi? Secondo me alla fine troveranno un modo, altrimenti sarebbe devastante per l’intero sistema. Ora vogliono solo isolare il tumore senza riconoscere le metastasi: si tratta di un tumore piccolo di un organo periferico, lo asportano e pensano che l’organismo guarisca. Non stimo Palamara ma vederlo così vilipeso e così isolato mi spinge ad essere dalla sua parte, perché da radicale sto dalla parte dei più deboli. Appunto, Lei è radicale dal 1956. Da questa sua prospettiva come giudica questa alleanza tra Movimento 5 Stelle e Pd? Si tratta di una delle cose più tristi che siano accadute in Italia negli ultimi 50 anni. Qualcosa di inqualificabile. Perché siamo arrivati a questo risultato lo sappiamo tutti. Non posso non pensare senza una fitta al cuore a come il Pd ha gestito la riforma penitenziaria della Commissione Giostra. Il Partito Democratico aveva la possibilità di approvarla e se l’è venduta per un piatto di lenticchie, aveva paura che alle elezioni avrebbe perso. E ha perso lo stesso. Come disse Winston Churchill sugli accordi di Monaco del ‘ 38: ‘ Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra’. Una ultima domanda in relazione all’emergenza Covid: cosa ne pensa dell’Associazione Nazionale Prèsidi che ha chiesto di rivedere la responsabilità penale imputabile ai dirigenti? Fanno benissimo, li capisco perché noi viviamo in un Paese dove i paradossi sono la normalità, dove è facilissimo finire nell’orbita di un procedimento penale da cui ti potrai difendere in non si sa quanti anni. Questa situazione li allarma ma in un Paese civile tutto si ridurrebbe alla constatazione dell’aver eseguito le istruzioni che sono state impartite per la gestione della prevenzione. Se poi si verifica un contagio come si fa a stabilire che è dipeso dall’inosservanza di quelle cautele? Non sono mica chiusi in una istituzione totale i bambini: vanno a casa, comunicano tra loro, frequentano altri luoghi. L’attribuzione di una colpa è un gioco a cui assistiamo ogni giorno. Giustamente i prèsidi vogliono una garanzia scritta perché non vogliono finire in un tritacarne. So da avvocato quanto l’esercizio dell’azione penale possa essere devastante nella vita di una persona. Prezzi gonfiati del 4.250 per cento, gli affari degli sciacalli del Covid di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 21 agosto 2020 Indagine dell’Anticorruzione. Spesi 6 miliardi tra marzo e aprile. In Lombardia camici pagati il quadruplo a 70 chilometri di distanza. Legnano e Lodi sono nella stessa regione, distano 70 chilometri e le aziende sanitarie rispondono allo stesso assessorato. Eppure sembrano su pianeti diversi, quando acquistano camici per medici e infermieri. A Lodi li pagano 1,80 euro l’uno; a Legnano 7,90 euro. Una differenza del 339%. Non l’unica: dalle visiere alle mascherine, le variazioni di prezzi corrisposti da Regioni e aziende sanitarie in tutta Italia oscillano tra 300% e 800%. Con punte del 4250% sui guanti. L’indagine sulla spesa sanitaria in emergenza condotta dall’Autorità Anticorruzione, la prima di questo tipo, conferma quelle che il commissario straordinario Domenico Arcuri anche ieri ha definito “vergognose speculazioni”. Oms e guanti monouso: sono davvero pericolosi? Ecco perché li sconsiglia - Dai primi di marzo, il codice degli appalti è stato di fatto congelato. Le trattative private con le imprese, senza confronto di prodotti e prezzi, da eccezione sono diventate regola in nove casi su dieci. I controlli sui fornitori si sono fatti “superficiali” quando non “assenti”, salvo constatare “frequentemente”, ma a cose fatte, che non erano in grado di rispettare i tempi concordati (ritardi riscontrati nel 25% dei contratti), non potevano garantire l’intera fornitura o non avevano alcun requisito di affidabilità professionale. Truffe e operazioni di sciacallaggio non sono mancate. Coronavirus, vendevano mascherine destinate alla Protezione Civile - Di fronte alla tutela della salute se non della vita, non si è badato a spese. Tra marzo e aprile sono stati spesi per l’emergenza sanitaria 5,8 miliardi di euro attraverso 61.341 contratti. Più della metà per mascherine; il 22% per gli altri dispositivi (guanti, camici, tute); il 7,3% per i ventilatori polmonari che hanno consentito di portare i posti nelle terapie intensive da 5mila a oltre 9mila. Solo il 3%, pari a 178 milioni, per i tamponi, a conferma di una risposta iniziale alla pandemia prevalentemente “ospedalocentrica”, a scapito della diagnostica di massa che viceversa ha funzionato soprattutto in Veneto. Il ruolo di Arcuri - Anche se diventato operativo solo nella seconda metà di marzo, il commissario Arcuri è stato il principale acquirente pubblico nell’emergenza. Ha speso oltre 2 miliardi su 5,8. La Protezione Civile, incaricata nella prima fase di provvedere per tutti, è riuscita a spendere solo 332 milioni. Anche la Consip ha avuto difficoltà con i suoi bandi. Tra le Regioni, quelle che hanno speso di più in valore assoluto sono Lombardia (6,8% del totale nazionale), Toscana, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto. Insieme un terzo della spesa complessiva. Ma per spesa pro capite stravince la Toscana: 101 euro a residente, quasi il doppio del Piemonte mentre la Lombardia è indietro, a 39 euro. Per spesa per contagiato stravince la Campania: oltre 76mila euro, quindici volte quella della Lombardia. Lo scorporo dei dati illumina le diverse risposte dei sistemi sanitari. Toscana e Campania hanno il primato di spesa per mascherine e ventilatori. Emilia Romagna e Veneto per tamponi (insieme il 21% del totale), per l’efficace strategia basata su diagnostica territoriale precoce. La Lombardia, viceversa, ha speso poco per i tamponi (quanto la provincia di Trento, avendo una popolazione venti volte superiore) e molto per gel igienizzante (12% del totale). Le omissioni - Con questionari più specifici, l’Anac ha approfondito l’analisi sui singoli acquisti. Hanno risposto 163 amministrazioni su 182 interpellate, sia pure con “omissioni di informazioni sostanziali” che impediscono comparazioni. Per esempio sugli acquisti di disinfettanti basta non indicare la capacità del flacone acquistato (un litro, mezzo o due?) per vanificare la valutazione obiettiva di congruità del prezzo. Ciononostante, l’Anac è riuscita a scorporare le differenze di prezzi su prodotti uguali. Quella sui camici colpisce sia perché il minimo e il massimo sono nella stessa regione, la Lombardia, sia perché si tratta del dispositivo di protezione su cui indaga la Procura di Milano. La vicenda è quella della fornitura concordata dalla Regione con la Dima Spa, azienda del cognato e della moglie del governatore Attilio Fontana. Secondo i dati Anac, l’Azienda sanitaria di Legnano ha pagato i camici 7,90 euro l’uno. Quella di Lodi solo 1,80, grazie a un “acquisto centralizzato”, ovvero gestito a livello regionale. Dove però, contemporaneamente, si pagavano 6 euro l’uno i camici prodotti dal cognato del governatore. E addirittura 9 i set composti da camice, cappellino e calzare (ma senza specificare l’incidenza di ciascun pezzo sul prezzo finale). Anche sui copri-calzare, peraltro, si possono fare ottimi affari. Il Policlinico San Martino di Genova li ha pagati 0,03 euro; gli Ospedali Riuniti di Foggia ben 1,28. Le visiere variano da 1,40 (Reggio Calabria) a 12,25 (Trapani): nove volte di più, neanche fossero Rayban. Le tute da 6,60 (Modena) a 27,90 (Bolzano). Le mascherine chirurgiche da 0,40 (Bolzano) a 1,82 (Foggia); quelle filtranti FFP2 da 1,33 (Trento) a 9 (Lecce); quelle FFP3 da 3,80 (Siracusa) a 20,28 (Foggia). Anche sui ventilatori polmonari c’è una forte differenza di prezzo pagato da Asl della stessa Regione: meno di 7mila euro a Ferrara, quasi 40mila a Bologna. Su tutti i dispositivi “il range di prezzi è abbastanza ampio”, scrive l’Anac. In alcuni casi, soprattutto nella prima fase, “l’elevata variabilità” è giustificata dalla crisi dell’offerta e dallo “stravolgimento dei valori di mercato”. In altri no. “Situazioni estreme” da verificare. Tanto che l’Anac ha deciso di svolgere “un supplemento di istruttoria” su 35 appalti “in cui sono state riscontrate criticità di particolare rilevanza”. Alla fine l’Autorità potrà infliggere sanzioni ed eventualmente segnalare alla magistratura. L’incertezza del diritto di Serena Sileoni Il Foglio, 21 agosto 2020 Innocenti per il giudice penale, colpevoli per l’Antitrust. Il caso Avastin/Lucentis mostra i problemi delle nostre regole. Sono state depositate le motivazioni che hanno indotto il giudice penale di Roma ad assolvere con formula piena i vertici di Roche e Novartis dall’accusa di rialzo fraudolento dei prezzi nel caso Avastin/Lucentis. La vicenda riempìnel2014lepaginedeigiornalisottoititoli accigliati della lotta contro “Big Pharma”: l’Antitrust aveva comminato la più esosa multa ac arico di due società farmaceutiche, Roche e Novartis, accusate di intesa orizzontale (pratica concorrenziale scorretta) per aver ostacolato l’uso off label di un farmaco di Roche, col fine di lucrare sul maggior prezzo di un diverso farmaco di Novartis molto più costoso. La decisione venne poi confermata definitivamente in sede amministrativa, anche se le imprese hanno presentato ricorso al Consiglio di stato, di cui non si ha ancora l’esito (come non si ha ancora l’esito di altri giudizi collegati dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla Cassazione e alla Corte dei conti). Nel frattempo, il caso finiva davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in Parlamento si accumulavano interpellanze e interrogazioni, il ministero della Salute chiedeva persino un risarcimento di danni di 1,2 miliardi di euro alle due aziende e il ministro Beatrice Lorenzin, sotto la forte pressione mediatica del momento, modificava la disciplina della rimborsabilità dei farmaci in uso off label. Il caso finiva anche davanti al giudice penale con l’accusa di aggiotaggio, ossia di rialzo artificioso dei prezzi. La massimizzazione dei guadagni sarebbe derivata, per Novartis, dalle vendite dirette del farmaco più caro e dalla presunta partecipazione del 33 percento in Roche (in realtà par isolo al 6 percento); quanto a Roche, dalle royalty ottenute sulle vendite tramite la controllata Genentech, che aveva sviluppato per prima il farmaco più caro per cederne la commercializzazione a Roche e poi a Novartis. L’interesse al caso non è semplicemente per amore di cronaca giudiziaria, ma per constatare le conseguenze del caotico policentrismo normativo e istituzionale del nostro paese. La sentenza del giudice penale conferma infatti, se letta parallelamente alle decisioni dell’Antitrust e dei giudici amministrativi, l’impressione di una sorta di fallimento regolatorio, anziché di mercato. Rispetto a una diffusa opinione secondo cui il settore farmaceutico è alla mercé delle scelte aziendali, la realtà è quella di una forte regolazione del settore, che è stata alla base, paradossalmente, di una condotta ritenuta an ti concorrenziale e persino criminosa per taluni organi giudicanti, mentre doverosa per altri. Di conseguenza, in un contesto così fortemente regolato, l’accusa di comportamenti an ti concorrenziali rischia di essere un’ accusa non alle aziende, per il momento assolte perché il fatto non sussiste, ma alla regolazione. Difatti, le ipotesi sono due: o è possibile alterare i prezzi nonostante il fortissimo controllo pubblico, anche sui prezzi, e quindi lo spazio per comportamenti scorretti compromette la capacità stesse delle regole e dei soggetti chiamati a farle rispettare; o il pedissequo rispetto di quelle regole diviene esso stesso fonte di comportamenti sospetti, generando una disastrosa incertezza su come ci si deve comportare. Nel primo caso, ritenere che le aziende riescano a mettersi d’accordo alterando i prezzi e il mercato implica anche un giudizio negativo a carico delle regole e degli organi di regolazione del settore farmaceutico a cui è affidato, con un sistema europeo e nazionale molto complesso, la verifica della sicurezza terapeutica e della correttezza delle imprese. Nel secondo caso, è proprio l’architettura così complessa e onerosa delle regole e delle procedure che appare come un’arma a doppio taglio per chi si attiene in maniera ligia al loro rispetto. La seconda ipotesi è quella che risalta maggiormente mettendo a confronto il giudizio amministrativo e quello penale. Quello che emerge infatti dalla sentenza penale, e che fuoriesce quindi dalle opinioni personali per entrare nella verità giudiziaria, è che nel caso Avastin/Lucentis tali comportamenti appaiono essere stati provocati proprio dall’approccio prudenziale delle due società nell’accreditare l’uso off label del farmaco meno costoso ma con più probabilità di eventi avversi. In sostanza, ciò che per il giudice amministrativo e l’accusa penale avrebbe rappresentato un’ intesa an ti concorrenziale e persino criminosa per incassare maggiori guadagni, trattando in maniera strumentale la questione della sicurezza terapeutica e la percezione dei rischi avversi collegati all’uso off label del farmaco meno costoso, per il giudice penale avrebbe rappresentato solo il cauto rispetto delle regole che avrebbe portato i due amministratori delegati a scambiarsi informazioni e opinioni sull’ inopportunità di incentivare l’ uso off label del farmaco terapeuticamente meno sicuro. Chi ha ragione, nelle verità giudiziarie, lo stabilisce solo il giudice. Talora, come in questo caso, i giudici sono più di uno, ognuno per profili diversi e verità processuali diverse, in base alle proprie competenze. Tuttavia, il fatto alla base delle valutazioni dei giudici, ognuno per la propria parte di diritto, è lo stesso, e ciò che è interessante notare è che la medesima vicenda e i medesimi comportamenti sono stati ritenuti dall’Antitrust e dal giudice amministrativo nel senso di illecito concorrenziale, mentre da quello penale, dotato di maggiori poteri di accertamento, e dall’allora Agenzia del farmaco (Aifa) in senso diametralmente opposto di comportamento doveroso (oltreché penalmente irrilevante). Posto che per il reato di aggiotaggio comune deve esserci un’alterazione artificiosa dei prezzi, anche laddove siano controllati, e che invece l’intesa orizzontale si configura anche solo nella concertazione finalizzata a ottenere un reciproco vantaggio tra imprese concorrenti, resta che entrambe le categorie giuridiche hanno alla base un tentativo di alterare il mercato che dall’autorità antitrust e dal giudice amministrativo è stato ritenuto provato dallo scambio di comunicazioni tra le aziende circa la pericolosità degli effetti avversi e dall’ atteggiamento prudenziale rispetto all’uso off label del farmaco meno costoso. Gli stessi elementi probatori, al termine di un’attenta istruttoria, hanno invece portato il giudice penale a ritenere la condotta delle aziende non solo legittima quanto a interessi imprenditoriali, ma persino doverosa rispetto alle prescrizioni normative, europee e italiane, sulla sicurezza terapeutica. Fa pensare che decisioni e comportamenti assunti nell’ambito di attività di farmacovigilanza possano essere interpretati in due modi contrapposti: come decisioni rispettose delle norme sulla responsabilità, tipiche di un atteggiamento precauzionale che eviti, nell’incertezza delle conoscenze scientifiche, il pericolo di danni alla salute e la responsabilità di chi quel pericolo ha cagionato; e, viceversa, come prova indiziaria di un’intesa orizzontale an ti concorrenziale. Ciò non vuol dire che non sia possibile ricavare, da una serie di comportamenti leciti, una condotta illecita, specie in materia concorrenziale. Tuttavia, in un sistema giuridico contaminato dall’incertezza normativa e dalla confusione istituzionale, il fatto che a distanza di anni la verità giudiziaria penale sembri così lontana da quella amministrativa richiama la difficoltà a capi reco sala legge consente e cosa no, difficoltà che esula dall’interesse delle aziende coinvolte e sollecita tutti a un supplemento di riflessione. No ai domiciliari perché padre, madre e fratelli del detenuto sono tutti in carcere tusciaweb.eu, 21 agosto 2020 Impossibile che possa scontare la pena detentiva agli arresti domiciliari “posto che tutti i diretti familiari del detenuto, ivi compresi padre, madre e fratelli, risultano ristretti in carcere”. Protagonista un esponente di spicco della criminalità pontina, Giuseppe Pasquale di Silvio, tra i 36 reclusi, 11 italiani e gli altri romeni, coinvolti nella maxirissa di Capodanno del 2014 nel carcere di Mammagialla, il cui bilancio fu di 12 feriti a coltellate, tra i quali uno degli agenti intervenuti, trasferiti a Belcolle a scaglioni, a bordo di altrettante ambulanze, il cui passaggio a sirene spiegate tra la Teverina e la Sammartinese non passò inosservato. “Posto che tutti i diretti familiari del detenuto, ivi compresi padre, madre e fratelli, risultano ristretti in carcere”, si legge nelle motivazioni della sentenza con cui la cassazione, lo scorso 17 luglio, ha dichiarato inammissibile il ricorso contro l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza di Roma, il 21 gennaio 2020, ha rigettato la richiesta avanzata “per gravi motivi di salute psichiatrica” dai difensori. Oltre a Giuseppe Pasquale Di Silvio, 32 anni, fu coinvolto nei disordini di Mammagialla anche il fratello Ferdinando alias “Pupetto”, anche lui personaggio di spicco della malavita pontina. La posizione di Pupetto, giudicato “troppo pericoloso” per presenziare al processo assieme agli altri, come avrebbe voluto fare, è stata stralciata il 4 ottobre 2019, affinché possa essere giudicato a parte in collegamento video. Entrambi facevano parte della “banda” degli 11 detenuti italiani. Giuseppe Pasquale Di Silvio, chiamato a scontare un cumulo di condanne dal tribunale di Latina e nel frattempo trasferito in un carcere capitolino, ha chiesto il differimento facoltativo della esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare da eseguirsi presso una struttura per trattamenti psichiatrici intensivi, ovvero presso il domicilio paterno con obbligo Dsm. Ma lo scorso 5 ottobre - il giorno successivo all’apertura del processo di Viterbo per la maxirissa a Mammagialla - il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato la richiesta. “Le sue condizioni di salute - si legge nell’ordinanza - risultano adeguatamente fronteggiabili nella sezione detentiva dei minorati psichici in cui si trova attualmente ristretto”. Il magistrato di sorveglianza, con l’occasione, sottolinea il notevole profilo di pericolosità del condannato, richiamato nelle motivazioni della sentenza della cassazione. Notevole profilo di pericolosità evidenziato dalla nota della questura di Latina del 7.6.19, che riferisce del suo inserimento con poteri sempre maggiori nell’omonima associazione di criminalità organizzata e della frequente irregolarità della sua condotta penitenziaria, caratterizzata dalla partecipazione ad una rissa aggravata con undici detenuti nel carcere di Viterbo e da due vicende durante la detenzione nel carcere di Velletri, per concorso in resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento oltreché per avere incitato i familiari durante un colloquio a commettere un attentato per dimostrare il potere criminale del clan di riferimento”. Il magistrato di sorveglianza concludeva definendo “impraticabile” anche l’ipotesi di detenzione domiciliare: “Posto che tutti i diretti familiari del detenuto, ivi compresi padre, madre e fratelli, risultano ristretti in carcere”. Concorda la cassazione che, giudicando inammissibile il ricorso, ha condannato Di Silvio al pagamento delle spese processuali nonché a una sanzione pecuniaria di tremila euro. 41bis: scoppia la “guerra” del pacco famiglia e il boss sconfigge il ministero ternitoday.it, 21 agosto 2020 Niente scambi di oggetti fra detenuti sottoposti al regime del 41bis, possono essere usati per lanciare messaggi all’esterno. Esponente della mafia presenta ricorso e vince. Secondo il ministero della giustizia, la regola introdotta nel 2009 che vieta lo scambio di oggetti - anche di natura alimentare - fra detenuti sottoposti al regime del 41bis, risponde alla ratio di “impedire posizioni di predominio tra i detenuti, evitando in modo assoluto che vengano occultati oggetti, beni o messaggi diretti a mantenere i contatti con il sodalizio criminoso”. Un provvedimento contro il quale il boss Carmelo Giambò, esponente della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto e pluripregiudicato, condannato per estorsione e omicidio e detenuto nella casa circondariale di Terni, ha presentato ricorso al tribunale di sorveglianza di Spoleto che a marzo del 2018 gli ha dato ragione. L’ordinanza è stata impugnata dal ministero attraverso l’avvocatura di Stato sul presupposto che “lo scambio di generi alimentari infragruppo non realizzasse alcuna lesione del diritto dei detenuti sottoposti al regime del 41bis a fruire di una minima socialità con i compagni”, ma anzi rispondesse proprio ai criteri per i quali il regolamento era stato introdotto. A settembre del 2018, il tribunale di sorveglianza di Perugia ha rigettato il reclamo del ministero, sostenendo che “lo scambio di oggetti di modico valore, quali i generi alimentari pervenuti attraverso il circuito interno dell’istituto o con il cosiddetto pacco famiglia, non avrebbe potuto recare alcun vulnus alle esigenze sottese al regime differenziato; tanto più che gli scambi, quando erano ancora autorizzati secondo la normativa precedente, non avevano mai previsto la traditio diretta del bene tra un detenuto e l’altro, essendo inibito ai reclusi di portare con sé degli oggetti all’uscita della stanza detentiva; e sussistendo, in ogni caso, il filtro del controllo visivo quale ulteriore meccanismo a presidio di eventuali comunicazioni fraudolente”. Palermo. Carcere Pagliarelli, detenuto arrivato da pochi giorni trovato impiccato in cella di Riccardo Campolo palermotoday.it, 21 agosto 2020 Un uomo di 45 anni si è tolto la vita approfittando del momento in cui il suo compagno di cella si trovava fuori per l’ora d’aria. Inutili i tentativi di rianimarlo da parte dei medici e dei sanitari del 118. Un altro suicidio in carcere. Un detenuto di 45 anni, Roberto Faraci, ieri si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella al Pagliarelli, l’istituto penitenziario di piazza Cerulli in cui era entrato da pochi giorni. A nulla è servito l’intervento dei medici e del personale del 118 che hanno tentato una serie di manovre per rianimarlo. Ad accorgersi della tragedia che si stava consumando sarebbero stati altri detenuti lavoranti che hanno lanciato l’allarme. Secondo una prima ricostruzione il 45enne, originario della Provincia e coinvolto in una vicenda di maltrattamenti, avrebbe approfittato di un momento in cui si trovava da solo. Il suo compagno di cella infatti si trovava fuori per l’ora d’aria. Appena una settimana fa un altro detenuto del Pagliarelli, dentro per stalking e maltrattamenti, si era suicidato. L’uomo già in passato aveva avuto problemi con la giustizia e per questo era finito precedentemente in carcere. Tornando a casa con la moglie e i figli sarebbero iniziati i problemi. Una storia di violenza domestica, con liti frequenti e minacce. Lecce. Suicidio in carcere, Damato (Osapp): “È il fallimento del sistema carcerario” corrieresalentino.it, 21 agosto 2020 Ieri mattina si è verificato l’ennesimo suicidio nel carcere leccese di Borgo San Nicola: un anziano detenuto, secondo alcune indiscrezioni che circolano, si sarebbe tolto la vita con un lenzuolo all’interno del bagno. “La perdita di una vita umana è la sconfitta di tutto il sistema carcerario-spiega il vicesegretario regionale e segretario provinciale Osapp, Ruggiero Damato-Ormai i problemi del carcere si incancreniscono sempre di più perché da troppi anni invece di affrontarli chi dovrebbe intervenire li ignora. I suicidi sono anche un problema nelle file della polizia penitenziaria perché manca il supporto di figure professionali da affiancare ai poliziotti, uomini e donne, padri madri, mariti che vivono per tante ore della giornata (visto il ricorso continuo agli straordinari) la vita da reclusi. La carenza di personale sta facendo molti danni collaterali: la polizia penitenziaria non può tenere sotto controllo un carcere così grande e così popolato senza un numero ragionevole di agenti. Ci trasciniamo dietro gli stessi problemi ormai da oltre un decennio, incluso quello della differenziazione dei detenuti (gente con reati minori mischiata a mafiosi: il risultato è che il carcere diventa fucina di nuovi criminali). Tra rivolte e criminalità in crescita il sistema rischia di esplodere. Il sistema carcerario dev’essere riformato prima che sia troppo tardi, iniziando dalla custodia cautelare che dovrebbe essere strutturata sul modello americano (oggi, invece, gli innocenti finiscono nei giri dei criminali): bisogna differenziare per età e reati e prevedere di figure professionali tra la polizia penitenziaria per il trattamento dei detenuti”. L’Osapp combatte anche la battaglia per la nomina di un capo della polizia autonomo e coordinato con i direttori del carcere (che sono civili). “Il carcere per alcune personalità può essere devastante bisogna puntare sull’applicazione reale delle misure alternative alla detenzione - scrive Damato. Inoltre, la polizia penitenziaria deve avere voce nei comitati di ordine e sicurezza con un suo rappresentante. È improcrastinabile una riforma strutturale della polizia penitenziaria sulla falsa riga di quella scritta da Gratteri quando era candidato alla guida del Ministero della giustizia”. La polizia penitenziaria chiede una svolta da molto tempo e sottolinea anche il fallimento della sorveglianza dinamica, che si traduce in sorveglianza a distanza con meno personale, “quindi nel dominio di alcuni gruppi criminali interni al carcere e nell’incapacità di monitorare soggetti più fragili, che poi finiscono per suicidarsi”. Modena. Rivolta in carcere, morti per overdose 5 dei 9 reclusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 agosto 2020 Lo ha stabilito l’autopsia, che non ha riscontrato segni di percosse. Per ora c’è certezza che 5 delle nove morti tra i detenuti della rivolta al carcere Sant’Anna di Modena dell’8 marzo, sono decessi dovuti dall’overdose di metadone e psicofarmaci. Questo è ciò che risulta dai recenti referti dell’autopsia condotta dal professore Enrico Silingardi. Non sono stati invece riscontrati segni di ecchimosi o lesioni interne ed esterne quindi non ci sono segni di percosse. Ma la vicenda non si chiude qui. Adesso si tratterà di capire come procederanno i due magistrati che seguono le indagini, ovvero Francesca Graziano e Lucia De Santis che stanno indagando sui tre filoni. Per quanto riguarda i 4 deceduti nel trasporto in altri istituti che stavano già male per via del metadone, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio ha confermato che sono in corso indagini, e nel caso di Sasà Piscitelli, 40enne detenuto e attore di teatro che è morto ad Ascoli due giorni dopo la rivolta, ha confermato che procede la procura marchigiana. Si tratta infatti di ricostruire il complesso iter che ha portato Piscitelli dallo star male durante la rivolta alla presa in carico del personale in carcere. Andrà accertato se ci sia stato o meno il nullaosta della visita medica prima del viaggio sul furgone fino ad Ascoli, alla sua permanenza in cella in quel carcere al ricovero nelle ore più disperate prima del decesso. Una storia che però riguarda gli altri tre deceduti durante il trasporto nelle altre carceri. Un quesito posto da Il Dubbio fin dall’inizio, ripercorrendo i viaggi e le ore annesse per lo spostamento. Resta aperta anche la questione delle denunce per percosse successivamente alla sedazione della rivolta. Due detenuti avevano infatti presentato esposti alla Procura di Modena denunciando di essere stati picchiati brutalmente dagli agenti. A queste due denunce si aggiunge ora la lettera trovata dall’agenzia stampa Agi che verrà probabilmente acquisita nella quale si parlava di Piscitelli che veniva picchiato poche ore prima di morire, ma anche di altre percosse subite da altri detenuti e dall’autore stesso della lettera. A questa lettera se ne affianca un’altra - sempre resa pubblica dall’Agi - di un altro detenuto proveniente da Modena e trasferito da un altro carcere, che in modo indipendente raccontava episodi analoghi, di essere stato spogliato e picchiato davanti a tutti e che i pestaggi sarebbero continuati anche durante il tragitto verso la destinazione con delle manganellate di agenti che avevano messo un passamontagna per non farsi riconoscere. Messina. Ha gravi patologie, ritenuto compatibile con il carcere: ora è in coma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 agosto 2020 Dopo il rigetto dell’istanza per i domiciliari ha attuato lo sciopero della fame e della sete il caso segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus. C’è un detenuto, in attesa di giudizio, che ha la salute gravemente compromessa. Ha molte patologie e aveva chiesto i domiciliari in piena emergenza Covid-19, vista l’incompatibilità con il carcere riconosciuta dai medici. Il gip del tribunale di Brescia, però, ha ritenuto che fosse compatibile e che il pericolo era evocato “solo in termini astratti”. Il recluso, in attesa di giudizio, per protesta ha attuato lo sciopero della fame e sete e ora è in coma. A portare alla luce questa grave situazione è l’Associazione Yairaiha Onlus che nella giornata di ieri ha segnalato il caso ai ministeri della Giustizia e della Salute, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al garante regionale dei detenuti della Sicilia e a quello nazionale. Parliamo di Carmelo Caminiti, detenuto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Messina ed attualmente in coma presso l’ospedale Papardo nel reparto di rianimazione. “Premesso che il sig. Carmelo Caminiti è stato arrestato dalla procura di Firenze a novembre 2017 - si legge nella segnalazione dell’associazione Yairaiha - a maggio 2018 gli vengono concessi gli arresti domiciliari per varie patologie (tra cui diabete, stenosi, canali atrofizzati e altre) per le quali gli è già stata riconosciuta invalidità civile; a novembre del 2018 viene arrestato nuovamente dalla procura di Reggio Calabria. L’11 marzo 2019 gli arriva un mandato di cattura dalla procura di Brescia con le stesse accuse di Firenze. Viene trasferito al carcere di Messina al centro clinico”. Durante l’emergenza Covid 19 gli avvocati presentano istanza in quanto soggetto a rischio. I tribunali di Firenze e Reggio Calabria, vedendo la relazione medica del dirigente sanitario del carcere di Messina riconoscono l’incompatibilità carceraria, ma il gip di Brescia - pur riconoscendo le sue gravi patologie - rigetta l’istanza, non concede gli arresti essendo un “soggetto pericoloso” ai sensi dell’articolo 7. Ma la situazione si aggrava. I legali fanno ulteriori istanze per la concessione dei domiciliari. Il 30 maggio Caminiti inizia a fare lo sciopero della fame e sete perché si sente vittima di un sopruso. “I familiari erano molto preoccupati - scrive l’associazione Yairaiha Onlus - in videochiamata lo vedevano sempre più debole e malconcio. Il 27 luglio la direzione del carcere avvisano i familiari che il sig. Carmelo è stato ricoverato al reparto detenuti dell’ospedale Papardo di Messina. Il primo agosto al colloquio viene portato in carrozzina con un secchiello in mano per il vomito e faceva fatica a stare seduto”. I famigliari rifanno colloquio l’8 agosto e le condizioni risultano sempre più gravi: lo hanno visto che non si reggeva nemmeno da seduto, non ci vedeva più, la testa accasciata sul tavolo e vomitava. “Da premettere - segnala sempre l’associazione che i familiari avevano fatto richiesta alla Direttrice, informando anche il garante regionale, di poter fare colloquio in camera anziché nella sala colloqui per evitare di farlo alzare dal letto, ovviamente con tutte le precauzioni del regime carcerario ma non hanno ricevuto nessuna risposta. Nei giorni a seguire chiamavano in ospedale per avere notizie ma nessuno dava informazioni dicendo che non era un loro diritto”. L’11 agosto i familiari si recano a colloquio ma quando arrivano al reparto detenuti, la polizia penitenziaria comunica loro che Caminiti durante notte era peggiorato: entra solo il figlio e lo trova privo di conoscenza e con l’ossigeno. Sono rimasti fuori dal reparto fino alle 22 di sera senza poterlo vedere. Al ritorno a casa (vivono a Reggio Calabria), verso le 23, arriva la telefonata dalla dottoressa della rianimazione: comunica che Carmelo è entrato in coma. L’avvocato ha presentato quindi un’altra istanza urgente, ricordando il rigetto delle istanze precedenti nonostante le documentate gravissime patologie che già presentava il detenuto. Ha ricordato come il Gup, motivando il mancato accoglimento dei domiciliari, scrisse che “il pericolo per la salute del detenuto in relazione all’emergenza sanitaria in atto è evocato solo in termini astratti”. L’avvocato Italo Palmara del foro di Reggio Calabria, nell’istanza, ha anche fatto presente di aver conferito con la dottoressa, la quale ha definito la situazione “gravemente compromessa”. Sono passati giorni e ancora non si conosce l’esito dell’istanza. L’associazione Yairaiha Onlus, nella segnalazione alle autorità, riferisce le diverse domande poste dai familiari. “Perché - si legge - dal 30 maggio si è aspettato così tanto per portare il loro caro in ospedale? Perché gli agenti debbono entrare nel reparto privi degli adeguati dispositivi di protezione, ovvero con la sola mascherina e la divisa d’ordinanza anziché camici sterili? Si sottolinea che il sig. Carmelo è in coma, intubato e immobilizzato al letto, di quale pericolosità si parla a questo punto?”. Latina. Tartaglia (Dap) in visita alla Casa circondariale ansa.it, 21 agosto 2020 Il vice capo Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria Roberto Tartaglia ha visitato nel pomeriggio la Casa circondariale di Latina dove è stato accolto dalla direttrice Nadia Fontana e dal comandante di Reparto Pierluigi Rizzo. Tartaglia si è soffermato a parlare con il personale dell’Istituto, profondamente scosso dalla recente e traumatica perdita di due colleghi molto amati e di grande esperienza. Il personale ha anche rappresentato in maniera diretta e informale le condizioni di lavoro all’interno dell’Istituto. “Viviamo in un momento in cui alle conseguenze, anche emotive, del lockdown, si aggiungono i problemi di sempre, ai quali tutti noi proviamo a dedicare ogni giorno il massimo impegno - ha dichiarato Tartaglia al termine della visita nel carcere di Latina - Ritengo importante, per questo, portare la vicinanza dell’Amministrazione al personale degli istituti, soprattutto di quelli, per vari motivi, più in sofferenza. Ho apprezzato molto il fortissimo senso di comunità trasmesso oggi dal personale di polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di Latina, a maggior ragione in questo momento doloroso. Ed è lodevole che anche in una giornata come questa siano arrivati rilievi e indicazioni che ne confermano la grande competenza e la determinazione a superare questo difficile momento con la consueta professionalità”. Aosta. “Liberare” le parole e le riflessioni dei detenuti di Orlando Bonserio aostasera.it, 21 agosto 2020 La missione di Serenella con i volontari del carcere. Quella di Serenella Brunello, insegnante di lettere in pensione, con l’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario è “un’esperienza eccezionale, incredibile” per combattere l’ignoranza. La racconta per la rubrica “Straordinaria quotidianità”. “Il loro desiderio è sempre stato quello di far arrivare fuori dal carcere le proprie parole e le proprie riflessioni sul loro vissuto, per una necessità umana ed esistenziale di comunicazione ma anche perché questo possa servire agli altri”. Quella di Serenella Brunello, insegnante di lettere in pensione, con l’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario (Avvc) è “un’esperienza eccezionale, incredibile”. Serenella fa parte della redazione di Pagine Speciali, un inserto del Corriere della Valle che dà voce ai detenuti, che riflettono sulla loro vita “prima”, su quello che vivono in carcere, ma anche su temi più ampi. I volontari che hanno partecipato alla redazione sono, insieme a lei, Vilma Jacquin (deceduta a febbraio), Ettore Jaccod e Luciana Pramotton. La redazione ha interagito col gruppo lettura coordinato da Dina Squarzino. “Essere messa di fronte alle loro problematiche di vita ma soprattutto alla loro umanità ha fatto saltare le mie presunte sicurezze iniziali. Stai lì a sentirli, e ti senti piccola piccola rispetto alla loro esperienza, all’elaborazione mentale e sentimentale alla quale sono arrivati e che ti arriva diretta al cuore”. “Ho iniziato a lavorare con l’Avvc nel 2012, sono arrivata un po’ indirettamente per dare una mano ad un’amica che faceva con loro attività manuali artistiche”, racconta. “L’esperienza mi interessava, ma quando ho saputo dell’esistenza della redazione ho capito che lì avrei avuto un ruolo più consono alle mie capacità. Ho conosciuto bene Vilma Jacquin, colonna portante della redazione e mancata a febbraio, e mi si è aperto un mondo: pensavo di arrivare lì per fare l’insegnante, spiegando ai detenuti come scrivere e come riordinare le idee per trasformarle poi in un articolo, ma in realtà c’è subito stato uno scambio molto ricco che mi ha fatto scoprire un’umanità ricchissima e capire tante cose. Ho a che fare con persone di estrazioni e provenienze diversissime, ma è impossibile spiegare la ricchezza della loro esperienza umana che sono in grado di esprimere, anche superando le barriere linguistiche”. Non sono solo gli episodi che raccontano, ma anche la modalità, tanto che se ne potrebbero creare dei racconti (ed a breve uscirà il libro Storie di marginalità e riscatto, a cura di Lindo Ferrari ed edito da END Edizioni). Serenella Brunello ha sempre lavorato nel sociale, facendo l’insegnante “di strada” nella Milano degli anni 70 fatta di (allora) nuove migrazioni dal Sud Italia, con mentalità, culture ed abitudini nuove. Proprio il suo ruolo nella scuola - “combattere l’ignoranza” è la sua missione, e durante l’incontro lo ripete più volte - l’ha portata a capire molte cose: “L’istituzione rischia di tenere i ragazzi in una bolla, ma confrontati con la vita reale riescono anche loro a tirare fuori delle parti di sé insospettabili. Le principali reazioni a Pagine Speciali si sono avute, oltre che con gli anziani, anche tra i giovani, così in varie scuole superiori e medie della media e bassa Valle abbiamo avviato dei progetti di incontri ma soprattutto uno scambio di corrispondenza tra studenti e detenuti, con dei risultati incredibili in termini di riflessioni”. Il 13 febbraio di quest’anno sul Corriere della Valle è uscito un numero speciale della rubrica, con la pubblicazione di questi scambi epistolari: “Un numero molto bello e ricco, senza frasi fatte o pregiudizi, ma con un confronto aperto su tanti argomenti. Detenuti, giovani e anziani hanno delle reazioni quasi “miracolose” se stimolati nella giusta maniera, dall’analfabeta che scrive un racconto presentato ad un concorso letterario, al vecchietto quasi in stato vegetativo che esprime riflessioni filosofiche, al ragazzino che dimostra una sensibilità ed un’umanità mai esternate. Queste esperienze mi hanno confermato che la lotta all’ignoranza non è fatta solo di proclami e programmi di intervento nelle scuole. Certo, bisogna lavorare bene e coinvolgere ragazzi, ma non emergono le stesse reazioni che hanno quando sono confrontati con situazioni di vita reale”. Questa missione ha orientato la vita di Serenella Brunello, come evidente dalle sue esperienze con gli anziani nelle case di cura, nel Gruppo Cultura di Chatillon o come attuale presidentessa del Circolo del Cardo: “Questo è il mio modo di intendere il volontariato. Come si lotta contro l’ignoranza? Intervenendo in situazioni in cui puoi trovare ascolto, collaborazione, voglia di fare. Bisogna stimolare la gente nel modo giusto per arrivare ad un cambio di mentalità”. Quello di dare voce ai detenuti è solo uno dei tanti campi d’intervento dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario. “Tra soci sostenitori e persone operative siamo in molti, una cinquantina, e ci muoviamo su tantissimi fronti”, illustra Serenella Brunello. “C’è chi fornisce abiti e beni di prima necessità ai detenuti, chi si occupa della biblioteca con consigli di lettura, chi fa un gruppo di lettura collegato alla redazione, ma anche gruppi e cooperative che coinvolgono i carcerati nella lavorazione dell’orto, nell’apicoltura, nella produzione di biscotti, nel lavaggio delle lenzuola, nell’alfabetizzazione, nei corsi d’intaglio con opere vendute alla Fiera di Sant’Orso e alla Foire d’Eté”. “In carcere ho capito che non sali in cattedra ad insegnare ai detenuti a vivere o pensare”, conclude la sua riflessione. “Un conto è la cultura legata ai libri, un conto quella legata alle esperienze ed alle persone, alla vita vera, vissuta”. Roma. Biblioteche e aree verdi, non si ferma il progetto “Mi riscatto per…” di Cosimo Damiano De Matteis gnewsonline.it, 21 agosto 2020 Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha annunciato nei giorni scorsi sul suo profilo Facebook il rinnovo della Convenzione per l’impiego dei detenuti in lavori socialmente utili, stipulata con il Tribunale Ordinario di Roma. In base all’accordo 57 detenuti potranno essere impiegati nella manutenzione delle zone verdi della Capitale e, soprattutto, in compiti di archiviazione, accoglienza e promozione all’interno delle Biblioteche di Roma. Questo tipo di iniziative permette al detenuto-lavoratore di acquisire competenze che potranno essere utili in vista del suo reinserimento sociale al termine della pena. E, tra gli esempi più virtuosi di protocolli tra amministrazioni locali e il Ministero, va segnalato tra gli altri l’accordo tra il Comune di Verona e il Tribunale locale in cui i detenuti vengono impiegati in attività all’interno di musei, biblioteche e nel settore sportivo. Iniziative analoghe si registrano anche a Genova, Livorno, Napoli, Padova, Palermo, Potenza, Siena e Torino. A Roma da anni ai detenuti del carcere di Rebibbia è data la possibilità di impegnarsi in attività di giardinaggio, manutenzione del verde (lo hanno fatto anche nei giardini accanto al Quirinale per poi essere ricevuti dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) e del manto stradale in diverse aree della periferia. Nel giugno dell’anno scorso, come primo consuntivo del progetto “Mi riscatto per… “, diversi sindaci - tra questi Virginia Raggi e Leoluca Orlando - avevano espresso giudizi estremamente positivi sulla valenza sociale di queste attività. Trieste. Murales a Cervignano, pensato dai detenuti contro il vandalismo di Luca Visentin Il Piccolo, 21 agosto 2020 Un progetto innovativo per rivitalizzare una delle zone di Cervignano spesso oggetto di atti vandalici e di deturpamento del patrimonio architettonico. Il muro del centro civico che si affaccia nello spazio verde antistante l’edificio della biblioteca, oggi pesantemente danneggiato, rinascerà artisticamente attraverso un grande murale realizzato dall’artista trevigiano Mattia Campo dall’Orto tra il 26 e il 30 agosto prossimi. L’iniziativa fa parte del progetto “aPIEDElibero. Strategie creative di sopravvivenza alla lettura” condotto dalla cooperativa Itaca nell’istituto penale per i minorenni di Treviso, che ha coinvolto 18 giovani detenuti, impegnati a descrivere sentimenti ed emozioni attraverso attività di lettura e scrittura creativa. Il laboratorio, svoltosi tra dicembre 2019 e febbraio 2020 e condotto da due professionisti della cooperativa Itaca, ha offerto un’opportunità ai lettori giovani detenuti che andasse in direzione di sperimentare emozioni sentimenti attraverso i libri e la lettura ad alta voce. I materiali prodotti dai giovani sono stati utilizzati da Campo dall’Orto per dare forma a un libro d’artista che sarà diffuso gratuitamente online. Il murale di Cervignano segue l’esperienza di Gradisca d’Isonzo dove l’artista veneto ha già realizzato un’opera nella corte interna di casa Maccari lo scorso luglio sul tema della scuola. A Cervignano il titolo dell’opera sarà “Acqua che scorre forever” e avrà come tema l’amicizia, argomento carico di significati per tutti i giovani che vogliono riscoprire la fiducia nel prossimo. Proprio grazie agli elaborati dei detenuti di età compresa tra i 14 e i 25 anni, durante i laboratori, nascerà questo grande disegno che ridarà decoro e senso estetico a tutta l’area. L’opera si sposa col desiderio del Comune di riqualificare lo spazio adiacente la biblioteca Zigaina. L’assessora Alessia Zambon ha lungamente caldeggiato l’intervento: “Lavoriamo per la costruzione di una città felice e confortevole e le opere d’arte urbane contribuiscono a questo nostro disegno: escono dalle gallerie per raggiungere le piazze e i giardini pubblici concorrendo alla rigenerazione sociale architettoniche della città”. Migranti. Respingimenti, galere libiche e trafficanti di esseri umani: incubo senza fine di Alberto Infelise e Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 21 agosto 2020 Dalla Libia si continua a partire, anche se in questo caso i migranti oltre che in Italia possono finire pure a Malta. Un flusso che, tra alti e bassi, va avanti ininterrottamente da anni ma che in questi ultimi mesi è meno intenso: secondo molti osservatori a causa dell’emergenza Covid, secondo altri proprio perché, come hanno accertato i pm, alcuni trafficanti hanno trasferito oltre il confine con la Tunisia i loro affari. In Libia ci sono le organizzazioni criminali di trafficanti più pericolose, i sovraffollati centri di detenzione dello Stato e le terribili “connection house” degli organizzatori delle traversate, uomini senza scrupoli spesso annidati nell’organizzazione del Paese, milizie guidate da persone ricercate in mezza Europa che in Libia agiscono indisturbate, a volte dall’interno della stessa Guardia costiera: uomini che prima mettono in mare su barche e gommoni decine di migranti e poi li vanno a riprendere al largo con le motovedette donate dall’Italia, con le buone o, molto più spesso, con le cattive. Almeno settemila le persone riportate indietro solo quest’anno, secondo l’Oim. A volte, come accaduto lunedì 17, le imbarcazioni in avaria non vengono soccorse in tempo e i migranti muoiono annegati: l’altro giorno hanno perso la vita 45 delle 82 persone, 5 erano bambini, che erano su un gommone. Per le associazioni umanitarie è il naufragio più grave avvenuto nel 2020. Da inizio anno l’Oim calcola almeno 302 morti su questa pericolosa rotta. Se poi le barche di disperati riescono ad allontanarsi dalle coste libiche, ben più distanti da quelle dell’Europa di quanto non siano quelle tunisine, e a finire nelle zone Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) di competenza di Paesi europei, Italia e Malta anzitutto, può accadere anche l’inverosimile. È della scorsa primavera la denuncia di alcune associazioni umanitarie che hanno documentato alcune azioni di “respingimento” da parte delle autorità maltesi, con i migranti riportati in Libia, agevolando l’attività della Guardia costiera libica e perfino mettendo su una piccola flotta di finti pescherecci che, una volta presi a bordo i migranti, li ha riportati in Libia invece di sbarcarli a Malta. Rivelazione che ha messo in seria difficoltà il governo della Valletta e ha determinato l’apertura di una inchiesta della magistratura. Quella dei respingimenti è una pratica vietata dalle norme internazionali e più volte denunciata dall’Unhcr e anche dall’Oim, l’organizzazione per le migrazioni delle Nazioni unite che nei giorni scorsi ha calcolato quanti migranti quest’anno sono stati intercettati in mare e riportati indietro dalla Guardia costiera libica, 6989: “La maggior parte di questi migranti finisce in stato di detenzione. Alcuni sono dispersi. È urgentemente necessaria un’azione europea per porre fine ai rimpatri in Libia”, ha detto l’Oim. Anche l’Italia, stando a diverse denunce, non sarebbe immune da certe pratiche; non è più da tempo un mistero che ai numeri di telefono della Guardia costiera libica per anni abbiano risposto militari della Marina italiana a bordo di una nave ancorata a Tripoli. E d’altronde, di fondi italiani alla Libia ne arrivano tanti, proprio per contrastare l’immigrazione clandestina. Appena un mese fa, il 16 luglio, la Camera ha approvato il rifinanziamento delle missioni internazionali, compresa quella in Libia, che il 7 luglio aveva già avuto il sì del Senato. Alla Libia arriveranno 58 milioni di euro: 10 milioni, tre in più dello scorso anno, sono proprio per la missione bilaterale di formazione, addestramento e assistenza alla Guardia costiera libica, una cifra che porta a 22 i milioni la spesa affrontata da Roma per questo delicato settore da quando, nel 2017, fu firmato il memorandum Italia-Libia. La “rotta balcanica” - Da qualche mese a questa parte, gli arrivi in Italia - meglio sarebbe dire i “transiti” per l’Italia - avvengono anche dalla “rotta balcanica”, quella via terra che parte da Siria, Turchia e Grecia e arriva fino al confine di Gorizia. Nulla a che vedere con i numeri molto alti del 2015 ma le continue “restituzioni” alla frontiera friulana con la Slovenia, queste sì ammesse dai trattati Ue (in particolare, lo prevede quello di Dublino), dicono che quella rotta si è rianimata. Migliaia di migranti sono segnalati ammassati a Bihac e Velika Kladusa, due località all’estremo Nord Ovest della Bosnia-Erzegovina al confine con la Croazia, da sempre considerate “terminal” per chi vuole entrare in Europa. E in Macedonia del Nord è stato imposto lo stato di emergenza per un mese nelle regioni a Nord e a Sud del Paese, ai confini con Grecia e Serbia. In Italia, governatori e sindaci del Nord Ovest da settimane lamentano una situazione che va peggiorando. E d’altronde, basta andare dall’altra parte del Nord Italia, al confine italo-francese di Ventimiglia, per avere le conferme. “La maggior parte di chi arriva qui e vuole andare in Francia - dice Simone Alterisio, che lì coordina un progetto migranti per la chiesa valdese - e che resta in attesa sotto i ponti del fiume Roja, arriva dalla rotta balcanica”. Anche i tunisini che sbarcano a Lampedusa hanno in mente la Francia, o un altro Paese francofono. Ma prima devono poterci arrivare, al confine di Ventimiglia: la crisi sanitaria del Covid li costringe a restare chiusi sulle navi noleggiate dal governo o nelle strutture di accoglienza, per trascorrere la quarantena. Poi, legalmente, dovrebbero chiedere asilo (che quasi certamente verrebbe respinto dato che sono migranti economici) ma non lo fanno proprio perché vogliono andare altrove. Il risultato è che in tanti si aggirano per il Paese in clandestinità e che, se anche poi riescono ad attraversare il confine grazie a “passeur” a pagamento o a qualche ora di distrazione della polizia francese, spesso vengono bloccati a Mentone, e perfino nella più lontana Nizza, come accaduto qualche settimana fa a una famiglia, e restituiti all’Italia attraverso il varco di Ponte San Luigi. Da un mese, il numero giornaliero di chi è rispedito in Italia è aumentato dai “soliti” 40-50 ad oltre cento. Loro, poi, ci riproveranno ancora e ancora, ma l’effetto è che restano clandestini e dunque più difficilmente controllabili. Molti rimangono in attesa a Ventimiglia, in condizioni molto disagiate e senza assistenza se non quella della Caritas, dei Valdesi e di qualche altra associazione, soprattutto da quando lo scorso luglio, complice l’emergenza Covid, il campo della Croce Rossa attivo da anni è stato smobilitato e chiuso. I decreti Salvini e la sanatoria - Quello della clandestinità di molti migranti arrivati in Italia nell’ultimo anno è un problema che si è aggravato. “I decreti Salvini hanno reso tutto più difficile - dice l’avvocato Rosa Emanuela Lo Faro che a Catania assiste legalmente decine di migranti e anche alcune Ong. Di fatto non c’è più l’accoglienza perchè non ci sono più i permessi di soggiorno. Allo scadere, i migranti si sono ritrovati nella situazione o di dover chiedere un permesso umanitario che quasi sempre le Commissioni rifiutano o un permesso di lavoro, ostacolato spesso dagli stessi datori di lavoro. Ci sarebbe anche il permesso di un anno per cure mediche e pure quello per calamità, come per il Covid, ma nonostante le richieste è stato applicato davvero molto poco”. L’avvocato Lo Faro cita poi un caso limite, come quello della chiusura del Cara di Mineo: “In molti sono finiti nelle baraccopoli della Puglia e sono in mano ai caporali”. La sanatoria varata dal governo durante l’emergenza pandemia non sembra incidere più di tanto. Delle 600 mila domande che ci si attendeva, al 31 luglio scorso ne sono state presentate 148.594, solo una minima parte (19.875) riguarda lavoratori dell’agricoltura e della pesca, il resto (128.179) sono lavoratori domestici anche se, analizzando i Paesi di provenienza, probabilmente molti sono finti colf e badanti. La sanatoria sembra aver attirato anche migranti da oltre confine, spesso proprio dalla Francia, se è vero che l’ufficio immigrazione della polizia di Ventimiglia da alcune settimane registra un fenomeno relativamente nuovo: l’aumento delle “restituzioni” dall’Italia alla Francia, secondo quanto previsto dal Trattato di Dublino sul Paese di primo ingresso. Chi arriva e chiede asilo, va nei centri di accoglienza e nei centri della rete Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati, gli ex Sprar) sparsi per il Paese in attesa che la propria posizione venga esaminata. Al momento sono 86 mila (fonte Viminale). A differenza degli hotspot, dove i migranti vengono identificati e dove restano solo il tempo necessario al loro trasferimento e sono quasi tutti in Sicilia, le altre strutture si trovano principalmente al Centro-Nord. La Regione che ospita più richiedenti asilo è la Lombardia, con 11 mila persone, il 13 per cento del totale, seguita dall’Emilia Romagna con 8691 (10%) e da Lazio e Piemonte rispettivamente con 8112 e 7864, ciascuna con il 9% del totale. Le Ong - Al momento, comunque, di navi Ong nel Mediterraneo centrale non ce n’è nessuna, o perché in manutenzione o perché sotto sequestro. Per ultima è toccato alla Ocean Viking di Sos Mediterranee che, come la Sea Watch 3, è a Porto Empedocle; entrambe le navi sono state fermate dalla Guardia costiera per “gravi irregolarità” a bordo, dopo una missione di salvataggio e i 14 giorni di quarantena. La nave Mare Jonio della Ong italiana Mediteranea saving humans è ad Augusta, dissequestrata già da sei mesi ma in attesa di completare dei lavori e di imbarcare un nuovo equipaggio. Le navi Open Arms, dell’omonima Ong catalana, Aita Mari della basca Salvamento maritimo humanitario e Alan Kurdi della tedesca Sea-eye sono ferme in Spagna. Le prime due hanno potuto raggiungere il loro porto di destinazione grazie a una sorta di salvacondotto delle autorità italiane che, dopo averle fermate a Palermo, lo scorso giugno hanno consentito il solo trasferimento in Spagna. Nel giorno di Ferragosto è partita dal porto spagnolo di Burriana, ormai divenuto il rifugio principale delle Ong, la Sea Watch 4, nave molto più grande della “3” e per la quale la Ong tedesca ha appena raggiunto un accordo di collaborazione con Medici senza frontiere che, fatti scendere i suoi team dalla Ocean Viking all’inizio dell’estate, adesso li fa salire sulla nuova nave tedesca; arriverà nel mare davanti alla Libia entro domani. Il 18 agosto è salpato da Badalona, a nord di Barcellona, anche Astral, il veliero di Open Arms che naviga a supporto della nave principale. C’è infine la Iuventa, della Ong di Berlino Jugend Rettet, sotto sequestro a Trapani da tre anni, al centro di una delle più clamorose inchieste sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che però sembra ormai ferma. Come ferme o quasi risultano anche le altre inchieste, a partire da quella di Catania che tanto scalpore fece nel 2017: “Dei 18 filoni d’inchiesta aperti nei confronti delle Ong tra aprile 2017 e oggi - scrive l’Ispi nel suo rapporto - cinque sono stati archiviati, mentre dei 13 rimanenti nessuno è ancora giunto in tribunale (quelli attivi sono dunque tutti ancora fermi alle indagini preliminari)”. Migranti. I testimoni: “I libici hanno sparato contro la barca e causato la strage” di Nello Scavo Avvenire, 21 agosto 2020 In cinque giorni tre naufragi con decine di morti. Scontro di potere tra milizie libiche mentre l’Unione europea fa finta di niente, mentre le Ong fanno quello che possono per salvare vite. Non una, ma tre stragi di migranti in cinque giorni. La peggiore delle ipotesi si è materializzata quando le testimonianze dei superstiti e la comparazione delle posizioni dei barconi ha mostrato la presenza di più gruppi di fuggiaschi caduti in mare. E confermato che almeno in un caso qualcuno ha sparato contro un gommone con la chiara intenzione di uccidere un gran numero di persone. Avere conferme dalle autorità libiche è impossibile. Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, aveva spiegato che il 17 agosto “circa 37 sopravvissuti, principalmente da Senegal, Mali, Ciad e Ghana, sono stati soccorsi da pescatori locali e in seguito detenuti dopo lo sbarco”. I superstiti “hanno riferito allo staff dell’Oim che altri 45, tra cui 5 bambini hanno perso la vita”. Due giorni prima Alarm Phone aveva ricevuto e registrato un’altra richiesta d’aiuto. I volontari del servizio telefonico di emergenza dopo varie chiamate avevano ascoltato le urla disperate. Il racconto dei sopravvissuti è filtrato attraverso le carceri libiche. Hanno raccontato di essere stati avvicinati da un motoscafo con cinque uomini armati a circa 30 miglia da Zuara. Hanno chiesto la consegna del telefono satellitare e del motore, con la promessa che li avrebbero trainati in salvo. Ma al momento di sganciare il motore sarebbe nata una colluttazione. Così dal motoscafo hanno sparato contro le taniche di carburante provocando un incendio e l’affondamento del gommone. Alla fine si conteranno oltre 40 morti annegati. Non è la prima volta che a Zuara le milizie, che fungono anche da polizia marittima e sorvegliano le piattaforme petrolifere, usano motoscafi veloci per colpire i migranti che si erano affidati ai trafficanti delle cosche concorrenti. Così sarebbero partiti dei colpi in direzione del gommone, facendo finire in acqua decine di persone. Si tratterebbe, dunque, di episodi diversi avvenuti a due giorni di distanza. A cui se ne aggiunge un terzo, segnalato il 18 agosto e del quale le autorità libiche non forniscono dettagli. In quest’ultimo caso circa 100 profughi, in gran parte eritrei e sudanesi, sono caduti in acqua dopo che un tubolare è scoppiato. Un peschereccio libico avrebbe soccorso diversi superstiti, riportandoli a terra, ma non è ancora certo il numero dei dispersi né in quale campo di prigionia siano stati condotti. “Rimane la continua assenza di un programma di ricerca e salvataggio dedicato e guidato dall’Ue. Temiamo che senza un aumento urgente della capacità di ricerca e soccorso, si rischiano altri disastri”. Lo scrivono in una nota congiunta Unhcr-Acnur e Oim. “Le navi delle Ong hanno svolto un ruolo cruciale nel salvare vite umane in mare nel mezzo della forte riduzione degli sforzi degli stati europeo”, si legge ancora. Istituzioni a cui le agenzie Onu confermano il rimprovero finora inascoltato: “L’imperativo umanitario di salvare vite umane non dovrebbe essere ostacolato”. Migranti. Sindaci contro la Regione Fvg: “Ha smantellato l’accoglienza” di Marinella Salvi Il Manifesto, 21 agosto 2020 L’obbligo di quarantena dovuto alla pandemia complica l’accoglienza dei migranti, sempre più giovani, che continuano ad entrare in Friuli Venezia Giulia, ora più a nord, nell’udinese, per evitare il respingimento immediato in Slovenia che scatta inevitabile al confine di Trieste o Gorizia. Non si può dire che non sia un problema. Difficile affermare, però, che non esistano spazi per gestire almeno il periodo di quarantena. La scorsa settimana il sindaco di centro-destra di un paesino in provincia di Udine, Gonars, si è fatto vedere in parecchie televisioni mentre contestava con toni drammatici l’assenza del governo: nella sua cittadina erano stati rintracciati dieci ragazzi, registrati come minori dalla polizia, e lui non sapeva dove metterli. Dieci degli 800 entrati in regione dall’inizio dell’anno. Il sindaco aveva fatto sapere che li aveva rifocillati a spese sue, che era “diventato matto” un’intera notte per trovare dove farli stare confinati e che li avrebbe portati personalmente a Roma se qualcuno non li portava immediatamente via dal suo paese. Lo stesso giorno, una telefonata dal ministero dell’Interno gli aveva fatto sapere che c’era disponibilità ad accoglierli a Bologna e lui aveva dichiarato tutta la propria soddisfazione sui social. Poi, questo dettaglio gli è evidentemente uscito di mente. Tant’è che ha preso il pulmino del comune, ci ha fatto salire il capo della polizia locale e cinque migranti e ha dichiarato al mondo che li avrebbe scaricati a Palazzo Chigi perché “sto meno a fare la strada fino a lì che a trovare un luogo di accoglienza in Friuli”. Ed è partito, infatti, pieno di determinato furore, per poi invertire la rotta a Sasso Marconi: “Ho avuto assicurazione dal ministero che saranno alloggiati a Bologna. La mia protesta è servita! Ora bisogna ripristinare le frontiere”. Tutto contro il governo romano incapace, assente, colluso. Ma non sono forse le regioni titolate a intervenire per supportare i comuni nella gestione dei minori migranti? Risulta così, tant’è che ventotto sindaci di centro-sinistra hanno voluto sottoscrivere una dichiarazione pubblica: “Basta utilizzare l’immigrazione come tema elettorale di scontro con il governo. La Regione lascia soli i comuni nell’emergenza e così aumentano il malcontento ed il rischio sanitario”. “L’Amministrazione regionale - scrivono i 28 sindaci- non si occupa in alcun modo di fare la sua parte nel reperire strutture in cui i minori non accompagnati possano fare la quarantena. Questa Regione ha smantellato il sistema di accoglienza diffusa, togliendo tutte le risorse, dopo che l’allora ministro Salvini aveva posto paletti economici e operativi insostenibili per gli enti gestori. Ammassare un numero spropositato di persone nei grandi centri, sapendo che prima o poi sorgeranno problemi, favorisce il malcontento della popolazione e diventa funzionale ad un clima di paura”. Bastano le detenzioni bestiali all’ex caserma Cavarzerani a Udine o al Cpr di Gradisca, per capire quanto è vero. I 28 ne hanno anche per il sindaco di Gonars: “L’irresponsabilità di manifestazioni carnevalesche che non rispondono al rispetto delle istituzioni è molto rischioso e un’azione come quella compiuta da un singolo sindaco friulano, di esclusivo impatto mediatico, non ha portato a nessun risultato concreto creando solo un inutile polverone”. L’assessore regionale leghista alla sicurezza ha subito dichiarato che la cosa più urgente da fare è modificare la legge che impedisce il rimpatrio dei minori non accompagnati. Nessun commento dal presidente Fedriga, mentre lunedì è prevista la visita a Trieste della ministra Lamorgese che incontrerà anche alcuni sindaci. Sarà un bel dibattito, chissà. Il coronavirus? Un detonatore politico, dal Libano alla Bielorussia di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 21 agosto 2020 In Mali il primo golpe dell’era Covid. La pandemia ha messo in evidenza disuguaglianze sociali e fallimenti dei governi, alimentando la rabbia popolare. Ma è più facile rimuovere vecchi regimi corrotti che sostituirli con qualcosa di nuovo. In Mali si è consumato il primo colpo di stato al tempo del coronavirus. Certo le ragioni che hanno portato a estromettere il presidente Keïta e il suo governo precedevano di gran lunga l’arrivo della pandemia. Il Paese ai piedi del Sahara, tra i più poveri al mondo, è noto da anni per la sua instabilità politica e la grave insicurezza per i frequenti attacchi terroristici e i conflitti intercomunitari. Il virus ha quindi piuttosto fatto da detonatore di una crisi già in atto, come del resto accaduto in altre zone del mondo: dal Libano, dove il premier si è dimesso su pressioni della piazza dopo la tragica esplosione al porto di Beirut, alla Bielorussia dove i manifestanti chiedono il passo indietro del presidente-dittatore. La paura dei contagi non ha fermato le proteste nemmeno in Tailandia e negli Stati Uniti, con migliaia e migliaia di persone mobilitate. In Mali era da mesi che montava lo scontento popolare verso un presidente che si era insediato dopo un golpe, nel 2012, con la promessa di liberare il Paese dalla morsa degli estremisti islamici, dare pace e rimettere in sesto l’economia. La tensione è salita lo scorso marzo quando, nonostante il lockdown, Keïta ha voluto comunque che si svolgessero le elezioni parlamentari. Il rapimento del leader dell’opposizione durante la campagna elettorale prima e poi l’annullamento del risultato in una trentina di collegi da parte della Corte costituzionale hanno acceso rabbia e proteste, poi degenerate a luglio negli attacchi al Parlamento e alla tv nazionale: tre giorni di disordini civili con una decina di morti. Le restrizioni imposte per la prima volta a marzo hanno portato a un’ulteriore devastazione economica di quello che era già uno dei paesi più poveri al mondo. Senza peraltro arginare la crescente ondata di violenza di matrice jihadista e intercomunitaria, nonostante la presenza di oltre 4500 militari francesi e circa 13 mila peacekeepers dell’Onu. Non stupisce così che molti dei manifestanti che da mesi scendono in piazza a Bamako chiedendo la cacciata di Keïta in nome di un maggior benessere e la fine delle violenze abbiano dato il benvenuto al colpo di stato militare. In realtà, avverte anche il Washington Post, questo golpe potrebbe ostacolare il raggiungimento di entrambi gli obiettivi nel breve periodo. Gli analisti mettono in guardia che questo colpo di mano - condannato da più parti: Unione Africana, Nazioni Unite, Ue e leader europei, prima di tutti il presidente francese Macron - potrebbe danneggiare il commercio d’oro, asset dell’economia maliana, più di quanto abbia fatto finora il coronavirus: Parigi potrebbe essere riluttante a lavorare con chi ha cacciato un alleato chiave; le leggi Usa vietano espressamente di aiutare governi post golpe. Insomma la pandemia ha messo in evidenza le disuguaglianze sociali e le inadeguatezze, i fallimenti di molti governi. Ma sembra più facile rimuovere vecchi regimi corrotti che sostituirli con qualcosa di nuovo. Russia. Navalny è in coma, per il suo staff è stato avvelenato di Yurii Colombo Il Manifesto, 21 agosto 2020 Il blogger e politico liberal e anti-corruzione russo era in volo verso Mosca. Non si conoscono ancora i risultati dei test tossicologici. Alexey Navalny, il celebre blogger liberal-populista moscovita sta lottando tra la vita e la morte in un ospedale di Omsk - nella Siberia centrale - dopo aver perso conoscenza durante un volo di linea Tomsk-Mosca ieri mattina all’alba. Dopo che il velivolo ha effettuato un atterraggio di emergenza, il politico russo è stato ricoverato in rianimazione dove gli è stato diagnosticato uno stato di coma mentre la respirazione gli viene garantita da un ventilatore polmonare. Secondo i medici “si sta facendo di tutto per salvargli la vita” ma sui motivi del malore tardano ad arrivare le analisi tossicologiche. La sua addetta stampa Kira Yarmysh che viaggiava con lui è convinta che si tratti di avvelenamento e sostiene che gli sarebbe stato sciolto nel tè bevuto all’aeroporto prima di decollare. Una tesi, quella del tentativo di omicidio, avvallata dal giornale più influente dell’opposizione russa Novaya Gazeta e dai giuristi del Comitato anticorruzione, una front organization del partito di Navalny che chiedono l’immediata apertura da parte della magistratura di un’inchiesta penale per tentato omicidio. Al contrario il canale Telegram Life Shot - come anche un’anonima fonte dell’agenzia ufficiale Tass - sostiene che l’attivista moscovita avrebbe bevuto alcoolici fino a tarda notte in un locale e poi ingerito anti-depressivi che avrebbero provocato il suo crollo fisico. Un’ipotesi respinta con sdegno dalla sua addetta stampa. La mancanza dei risultati delle analisi, le difficoltà create alla moglie giunta subito a Omsk, la massiccia presenza di addetti del Fsb in ospedale stanno facendo montare tensioni e illazioni di ogni tipo. Il medico di Navalny ha chiesto l’autorizzazione a trasportarlo con urgenza in una clinica specializzata a Stoccarda. I motivi non sono strettamente legati alle cure più sofisticate che Navalnly potrebbe ricevere in Germania ma a tutela del fatto che non possano essere inquinate le possibili prove del suo avvelenamento. Tuttavia i medici in serata hanno respinto la richiesta parlando di “non trasportabilità del paziente”. Il portavoce di Putin Dmitry Peskov, in mattinata aveva affermato che “se Navalny avrà bisogno di cure all’estero, le eventuali richieste saranno prontamente prese in considerazione dal Cremlino”. Allo stesso tempo Peskov aveva affermato che essendo l’ipotesi dell’avvelenamento è ancora solo un’ipotesi era necessario attendere pazientemente i risultati del test. Il braccio destro di Putin, dopo aver fatto i migliori auguri all’avversario ha dichiarato però che se verrà accertato l’avvelenamento la magistratura “aprirà sicuramente un’inchiesta”. Ricordiamo che i servizi russi sono stati accusati nell’era Putin da parte della stampa internazionale e di alcuni governi di aver avvelenato due suoi ex agenti: nel 2006 Alexander Litvinenko e nel 2018 Sergey Skripal. E nel 2015, un altro politico dell’opposizione liberale è stato freddato da un commando omicida a pochi centinaia di metri dalla Piazza rossa. Se dovesse essere accertato l’avvelenamento le ricadute politiche potrebbero essere devastanti e le voci e le ipotesi sui possibili esecutori e mandanti si moltiplicherebbero. Navalny è da sempre un politico molto controverso e discusso. Asceso alle cronache come uno dei leader delle proteste contro i brogli alle presidenziali del 2012 in una prima fase si posizionò vicino alle formazioni neofasciste e xenofobe della Russky Marsh che però ben presto rinnegò. Poi, grazie al profilo liberal e populista, ottenne nelle elezioni a sindaco di Mosca il 27% dei suffragi. Fu animatore delle manifestazioni nel centro di Mosca del marzo 2018 dove più di mille giovani vennero fermati e decine arrestati. Non fu ammesso come candidato per condanne penali alle presidenziali del 2018 per condanne considerate da molti osservatori prefabbricate. Negli ultimi giorni, Navalny aveva visitato alcune città nella Siberia centrale e incontrato i candidati in corsa per le elezioni autunnali. Un programma fitto di comizi in una zona dove il blogger ha un seguito e dove il no al referendum costituzionale voluto da Putin è stato più alto della media nazionale. Il 15 agosto era arrivato a Novosibirsk, poi aveva raggiunto Tomsk. A settembre, in queste due città si terranno le elezioni dei parlamenti cittadini, a cui partecipano i rappresentanti del suo partito. In entrambe le regioni i suoi sostenitori sono registrati come indipendenti e puntano a raccogliere quella protesta anticentralista - che in alcuni casi si colora di ambientalismo - che sta infiammando le regioni oltre gli Urali. A Novosibirsk si candida il leader locale del suo partito Sergey Boyko e a Tomsk Andrey Fateev. Russia. L’incubo Bielorussia può aver spinto Putin alla mossa azzardata di Enrico Franceschini La Repubblica, 21 agosto 2020 La Russia ha usato il veleno a più riprese negli ultimi anni. Se vi ha fatto di nuovo ricorso ora è per cautelarsi da proteste simili a quelle di Minsk. L’avvelenamento è un metodo di assassinio che evoca tempi lontani come le congiure dei Borgia, ma la Russia lo ha riportato d’attualità usandolo almeno due volte in poco più di un decennio, in particolare per cercare di eliminare all’estero, in Inghilterra, dissidenti o “traditori”, così li ha chiamati Vladimir Putin, in entrambi i casi ricorrendo spregiudicatamente ad armi non convenzionali: polonio radioattivo e gas nervino. È possibile che ora vi abbia fatto di nuovo ricorso, stavolta in patria, per colpire il più noto leader dell’opposizione, Aleksej Navalnyj, in coma dopo avere bevuto una tazza di tè all’aeroporto prima di un volo interno dalla Siberia a Mosca. Le circostanze restano da chiarire, ammesso che ci sia la volontà di farlo. Ma un elemento rappresenta come minimo una coincidenza sospetta: la crisi in Bielorussia. Le massicce manifestazioni di protesta e gli scioperi nelle fabbriche a Minsk, come risposta alla rielezione chiaramente fraudolenta di Aleksandr Lukashenko nelle presidenziali che lo opponevano a Svetlana Tikhanovskaja, rappresentano per Putin un dilemma di non facile soluzione. Rispondere con la forza, inviando l’esercito russo a ristabilire l’ordine, come fece l’Armata Rossa sovietica a Budapest e a Praga all’epoca della guerra fredda, è rischioso: non solo per le ripercussioni internazionali da parte dell’Occidente, ma per l’incertezza sull’esito di una repressione militare di fronte a una nazione intera che si ribella contro un tiranno. L’impopolarità di Lukashenko è talmente evidente che il capo del Cremlino si è finora astenuto dall’esprimergli personalmente sostegno. E la Bielorussia non è l’Ucraina, dove il 40 per cento della popolazione è russofona, la Crimea fu regalata a Kiev da Kruscev come gesto simbolico di fratellanza fra popoli socialisti e le sirene della Ue facevano temere un passaggio formale nello scacchiere occidentale. Ma anche lasciare che gli eventi facciano il loro corso, assistendo senza reagire a un’eventuale caduta di Lukashenko, comporta dei rischi per Putin: l’esempio venuto dal proprio vicino di casa, con il quale sperava di ricomporre, insieme a una parte dell’Ucraina, quella “unione slava” che costituiva il cuore dell’Urss, potrebbe contagiare la Russia. Se una pacifica rivolta popolare può fare crollare un regime quasi trentennale a Minsk, lo stesso potrebbe accadere a Mosca a un regime in carica da vent’anni e avviato a rimanerci, dopo la recente riforma costituzionale, per altri sedici. Nell’incertezza su come comportarsi in Bielorussia, dove il braccio di ferro continua, la priorità per Putin potrebbe essere cautelarsi in Russia, distruggendo il potenziale oppositore in grado di apprendere e imitare la lezione di Minsk. Un’azione preventiva, per disfarsi di Navalnyj e ammonire i suoi seguaci che a fare cadere Vladimir Vladimirovic non basterebbe una “rivoluzione di velluto”. In modo che, qualunque sia la sorte di Lukashenko, a condizione di una “non ingerenza” occidentale già richiesta a Merkel e Macron, il capo del Cremlino salvi almeno la faccia e, cosa che più conta, il posto. Neanche questo è tuttavia garantito. Proprio quando credeva di avere vinto, Putin si trova davanti a un bivio pericoloso. I prossimi giorni diranno se Navalnyj si riprenderà, se è stato avvelenato e se c’entra la crisi bielorussa. Un indizio è un indizio, insegna Agatha Christie, due sono una coincidenza, ma tre fanno una prova. In un caso come questo il polonio nel tè o il gas nervino nel profumo potrebbero davvero diventare la versione russa del famoso “arsenico e vecchi merletti”. Medio Oriente. Gaza, il rapper di 11 anni che denuncia la vita dura nella Striscia di Davide Frattini Corriere della Sera, 21 agosto 2020 Il ragazzino canta in inglese ed è diventato famoso su Youtube. In questi giorni i palestinesi sono senza gas e luce dopo che Hamas ha ricominciato il lancio di aquiloni con bombe incendiarie. I suoi primi giorni di vita sono stati i ventidue di guerra tra Israele e Hamas nel gennaio del 2009. Così adesso che di anni ne ha 11 canta: “Il primo suono che ho sentito è stato uno sparo. Con il mio primo respiro ho assaggiato la polvere da sparo”. Abdel-Rahman Al-Shantti inanella parole alla velocità delle raffiche di mitra eppure le sue canzoni - spiega - vogliono promuovere la pace. A rappare (e a farlo in inglese) ha imparato da solo ascoltando Eminem, Tupac Shakur, Dj Khaled. A differenza dei suoi idoli non indossa catene d’oro e giubbotti di pelle: i video che su Youtube lo hanno reso famoso fuori dalla Striscia lo riprendono con indosso la camicia azzurra e i pantaloni blu scuro, la divisa della scuola media che frequenta. Si considera il “messaggero di Gaza” - dal titolo di una sua canzone - perché “sono qui per dirvi che la nostra esistenza è dura. Abbiamo strade distrutte e bombe nei cortili”. In questi giorni anche case senza luce. Le scorte di gasolio che fanno girare l’unica centrale elettrica del corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’Egitto e il Mediterraneo sono ridotte al minimo. L’energia distribuita è razionata a quattro ore al giorno, ben pochi dei 2 milioni di abitanti possono permettersi un generatore privato. Il governo israeliano ha deciso di ridurre la quota di carburante che lascia entrare per spingere i capi di Hamas a riportare l’ordine sul confine: da qualche settimana i miliziani hanno ricominciato il lancio di aquiloni e palloncini con attaccate bombe incendiarie. Il caldo di agosto, il vento e la siccità fanno il resto: i campi dei villaggi attorno a Gaza prendono fuoco, gli interventi di esercito e pompieri sono decine al giorno. I fondamentalisti che spadroneggiano sulla Striscia dal 2007 - ne hanno tolto il controllo con le armi all’Autorità palestinese - vogliono alzare la pressione (anche con i lanci di razzi) per ottenere concessioni dal premier Benjamin Netanyahu. Yahiya Sinwar, il leader dell’organizzazione, scommette di riuscire a ottenere il via libera a più valigie - e con più dollari dentro - che ogni mese l’ambasciatore del Qatar consegna dall’altra parte del reticolato. L’aviazione israeliana ha risposto agli attacchi colpendo le postazioni di Hamas. Come sempre sono intervenuti gli egiziani per negoziare un ritorno alla calma. Gli analisti sono convinti che nessuno dei due contendenti sia pronto a un’altra guerra: Gaza è per ora rimasta protetta dalla pandemia e Hamas sembra più preoccupata a mantenere immuni i 365 chilometri quadrati di territorio, chiunque abbia incontrato martedì i mediatori arrivati dal Cairo è stato costretto all’isolamento. Netanyahu vuole capitalizzare i progressi diplomatici dopo l’annuncio dell’accordo con gli Emirati Arabi Uniti e un conflitto con i palestinesi di Gaza rischierebbe di far saltare le trattative con altri Paesi del Golfo. Egitto. Riprenderanno le visite dei parenti ai detenuti, ma non per tutti focusonafrica.info, 21 agosto 2020 Stando a quanto annunciato il 15 agosto dal ministero dell’Interno egiziano, il 22 agosto dovrebbero riprendere le visite e le comunicazioni telefoniche tra le famiglie e i detenuti. Tantissime famiglie tireranno un sospiro di sollievo, dopo oltre cinque mesi trascorsi con scarse se non nulle informazioni sulla salute dei loro cari. Le visite saranno sottoposte a una serie di restrizioni: ogni detenuto potrà incontrare un solo visitatore per 20 minuti al mese e le visite dovranno essere prenotate in anticipo. Ufficialmente, queste limitazioni sono motivate dalla necessità di contrastare la pandemia da Covid-19 ma va sottolineato che nei mesi scorsi nessuna misura particolare (se non un limitato decongestionamento, che non ha comunque risolto il problema del sovraffollamento) è stata presa per evitare che la pandemia irrompesse nelle prigioni del paese, causando morti tra i detenuti e il personale interno. Vi è poi il forte sospetto che le visite non riprenderanno per tutti. Per prenotare le visite, il ministero dell’Interno ha pubblicato i numeri telefonici dei centralini di 44 prigioni: dall’elenco sono escluse le famigerate sezioni di massima sicurezza Tora 1 (nota come “Lo scorpione”) e Tora 2, dove tantissimi difensori dei diritti umani, attivisti, dissidenti, giornalisti e avvocati sono detenuti per false accuse di terrorismo. Quando i parenti dei detenuti di Tora, recuperato il numero di telefono, hanno chiesto informazioni, la direzione del centro penitenziario ha risposto di non aver ricevuto alcuna istruzione per far riprendere le visite familiari. Del resto, il diniego di visite ai parenti in carcere vige per molti detenuti da ben prima dello scoppio della pandemia, in molti casi da anni. Ad esempio, l’avvocata per i diritti umani Hoda Abdelmoniem non riceve visite in carcere dal 2 novembre 2018, ossia dal giorno dell’arresto. Essam el-Erian, vicepresidente del Partito giustizia e libertà affiliato alla Fratellanza musulmana, è deceduto in carcere il 13 agosto, in circostanze tutte da accertare, senza poter avere da marzo contatti telefonici o epistolari con la sua famiglia. Somalia. Sommossa in carcere di Mogadiscio, arrestate 27 persone agenzianova.com, 21 agosto 2020 Almeno 27 persone, tra cui 12 guardie carcerarie, sono state arrestate in Somalia con l’accusa di contrabbando di armi in un carcere della capitale Mogadiscio. Lo ha annunciato in conferenza stampa il ministro della Giustizia somalo, Hassan Hussein, dopo che una squadra investigativa speciale ha terminato un’indagine sulla sommossa avvenuta la scorsa settimana nel carcere centrale di Mogadiscio, in cui sono morte almeno 15 persone. Le armi sequestrate, ha confermato il ministro, sono state utilizzate nella sparatoria dopo essere sono state introdotte di nascosto nella prigione. Il primo ministro ad interim della Somalia, Mahdi Mohamed Guled, ha istituito una task force di cinque persone per indagare sulla rivolta di un gruppo di detenuti, ritenuti affiliati ad al Shabaab. Secondo le prime ricostruzioni, le violenze sono scoppiate dopo che uno dei prigionieri ha sfilato una pistola ad un guardiano del carcere e che un gruppo di detenuti ha fatto irruzione nell’armeria. Le vittime sono morte in seguito ad un violento scontro a fuoco scoppiato tra gli agenti della sicurezza ed i detenuti del carcere di massima sicurezza, che ospita alcuni leader riconosciuti del gruppo jihadista al Shabaab. Per sedare la rivolta, le autorità hanno dispiegato un’unità speciale di polizia. Il direttore della prigione, il colonnello Adan Hussein Kulmiye, e il suo vice sono stati licenziati e in seguito arrestati. Nelle ultime settimane molti detenuti di al-Shabaab sono stati arrestati e rinchiusi nella struttura con processi svolti in tribunali militari in procedura accelerata.