Quando il carcere uccide. Lesioni e mancanza di dignità nei penitenziari italiani di Giacomo Puletti e Giulia Ciancaglini Il Dubbio, 20 agosto 2020 Un’indagine di data journalism analizza il rapporto tra sovraffollamento e suicidi. Dal 2010 al 2019 il numero “ufficiale” di suicidi nelle carceri italiane è 499, ma a questa cifra vanno aggiunti i 52 casi “non riconosciuti” dallo Stato. Cinquantadue detenuti che probabilmente hanno deciso di togliersi la vita ma che il ministero della Giustizia non considera suicidi. Oltre a questi, una serie di decessi classificati come “da accertare”, sui quali anche dopo anni non si è fatta ancora chiarezza. Nomi e cognomi sono inseriti in un report dalla rivista Ristretti Orizzonti, accanto a data e modalità di morte. Il giornale è stato fondato nel 1997 da Ornella Favero nella casa di reclusione di Padova, dove da quell’anno i detenuti contribuiscono alla sua realizzazione con la scrittura e l’impaginazione degli articoli. All’attività di redazione si affianca quella educativa, con testimonianze dei detenuti nelle scuole e visite degli studenti nelle carceri. La redazione spiega che il ministero considera a volte come tentato suicidio l’atto di un detenuto che non riesce subito a togliersi la vita, ma muore poco dopo in ospedale. I morti per asfissia da gas che lo Stato classifica spesso come “overdose”, ad esempio, per Ristretti Orizzonti sono invece dei veri e propri suicidi, o comunque sono atti che esprimono un disagio estremo. Grazie a una fitta rete di contatti all’interno delle carceri italiane formata da familiari delle persone detenute, volontari, operatori e garanti, il report cerca di ricostruire quanto accaduto, portando alla luce in alcuni casi verità scomode. Dal 2000 Ristretti Orizzonti tiene infatti il conto di tutte le morti dei detenuti, focalizzando l’attenzione sui suicidi. A prescindere dal luogo e dalle modalità, a chi si occupa del conteggio interessa capire se la decisione di togliersi la vita sia in qualche modo riconducibile alle condizioni della detenzione. “Il report è nato con l’idea di comunicare con la società - spiega Favero, che è anche la direttrice del giornale - Uno dei temi più delicati e drammatici rispetto alla realtà del carcere è quello dei suicidi e dei tentati suicidi”. Favero ragiona sulla disparità tra quelli registrati da loro e quelli pubblicati dal Ministero. “L’istituzione tende sempre ad autotutelarsi - racconta la giornalista - conta più questo che la realtà. Perché la trasparenza fa così paura?”. Indicare il nome e il cognome del detenuto suicida, oltre alla data e alla modalità della morte, serve per dare una dignità a chi ha scelto di compiere il gesto estremo. I detenuti suicidi smettono di essere soltanto numeri e diventano essere umani con una propria storia di vita, che merita di essere raccontata fino alla fine. “Per lo Stato la privacy giustifica qualsiasi silenzio - conclude Favero - mentre noi pensiamo che le persone suicide o che hanno tentato il suicidio abbiano comunque il diritto di essere chiamate per nome”. Sovraffollamento - Lo spazio che dovrebbe essere garantito a ogni detenuto nelle celle collettive è di 4 metri quadri, quarantamila centimetri quadrati, meno di quanto la legge indica per i suini. “I recinti per i verri devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di girarsi e di avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini. Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 mq”, così infatti è scritto in una legge del 2004 sul benessere degli animali. Se i detenuti fossero suini, quindi, avrebbero a disposizione più spazio. Ma anche per arrivare alla misura di 4 mq c’è voluta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’8 gennaio 2013 la causa di sette persone contro la Repubblica italiana, che lamentavano le condizioni negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, ha generato una “sentenza pilota”. Prima di allora, l’ordinamento italiano parlava di “ampiezza sufficiente”, senza specificare uno spazio minimo. Con la sentenza Torreggiani del 2013, che prende il nome da uno dei ricorrenti, l’Italia è chiamata ad adottare il parametro dei 4 metri quadrati. Mino Torreggiani, detenuto nel carcere di Busto Arsizio per 1.635 giorni, dal 13 novembre 2006 al 7 maggio 2011, ha vissuto sulla sua pelle l’impatto di un sovraffollamento al 249 per cento: la struttura aveva nel 2010 una capienza regolamentare di 167 persone, ma ci vivevano 415 detenuti. Proprio il sovraffollamento è una delle risposte dei dati alla domanda “Perché in carcere ci si toglie la vita?”. Il ministero della Giustizia rende pubblici per ogni anno i numeri della capienza regolamentare di tutti gli istituti penitenziari e quelli della popolazione detenuta. Quanti dovrebbero essere e quanti in realtà sono. Da questi due numeri, con una semplice divisione, si ottiene la percentuale di sovraffollamento. Accostando il dato nazionale ai suicidi registrati da Ristretti Orizzonti negli ultimi dieci anni si scopre che i due fenomeni sono legati: il tasso di correlazione è 0.73, in un range che va da -1 a 1. Alto, troppo alto. Dal 2010 al 2015 il sovraffollamento negli istituti penitenziari è diminuito di anno in anno, anche per effetto dei provvedimenti presi a seguito della sentenza Torreggiani. Di pari passo è calato anche il numero dei suicidi. Nel 2010, con un sovraffollamento al 151 per cento, sono stati registrati 66 suicidi in carcere; nel 2015, con un tasso del 105 per cento, 43. Da allora, entrambi i paramenti sono tornati a crescere insieme. Fino al 2019, che ha registrato un tasso di sovraffollamento del 120 per cento e 53 suicidi. Di questi, 49 sono avvenuti in carceri sovraffollate. Ma le celle fanno da scenario anche ad altre storie di dolore. “Negli ultimi 20 anni gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno sventato più di 21mila tentati suicidi e impedito che quasi 170.000 atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Sono parole di Antonio Cannas del Sindacato auto- nomo polizia penitenziaria (Sappe). Gli unici dati che tengono il conto degli atti di autolesionismo nelle carceri italiane sono quelli resi disponibili da Antigone, ong per i diritti dei detenuti che da anni si occupa di produrre report sulle loro condizioni di vita. Dal 1998 l’organizzazione è autorizzata dal Ministero a entrare negli istituti penitenziari italiani. Tra le 95 carceri visitate lo scorso anno, Antigone ha registrato 4.023 atti di autolesionismo in 72 istituti, riferiti al 2018. La correlazione matematica tra sovraffollamento e atti di autolesionismo è 0.22, quindi più bassa di quella tra sovraffollamento e suicidi. Ma è ragionevole pensare che il legame di causa effetto tra i due dati sia comunque valido. L’analisi dei numeri offre infatti degli esempi utili. La casa circondariale di Campobasso aveva un tasso di autolesionismo del 110 per cento (180 casi di autolesionismo su 163 detenuti), con un sovraffollamento al 150 per cento. Al contrario, la casa di reclusione di Arbus, in Sardegna, non ha registrato alcun atto di autolesionismo sui 106 detenuti presenti, che occupavano poco più della metà della capienza (176 posti). Esempi che mostrano come, a volte, garantire più spazio ai detenuti abbassa il rischio che si verifichino, non solo suicidi, ma anche casi di autolesionismo. Condizioni di detenzione - Maltrattamenti, celle putride e spazi ristretti. E poi mancanza di luoghi all’aperto, di acqua calda e di riscaldamento. Fino al wc nello stesso ambiente della cella. In alcuni istituti penitenziari dove le condizioni di vita risultano molto al di sotto della media, gli atti di autolesionismo sono più frequenti, come nel caso di Campobasso e Pesaro. Come riporta Antigone nel report 2019, nella casa circondariale del capoluogo molisano non c’è uno spazio di almeno 3 mq per detenuto, non c’è un medico a disposizione nelle 24 ore e non ci sono detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale. Nel 2018 il carcere ospitava 163 detenuti e sono stati registrati 180 atti di autolesionismo. Allo stesso modo, la casa circondariale di Pesaro, che non garantisce l’acqua calda in tutte le celle e manca di un reparto separato per detenuti con infermità psichica, aveva un tasso di autolesionismo del 47 per cento. E se autolesionismo e condizioni di vita sembrano essere collegati in senso negativo, è vero anche il contrario. Nelle carceri dove “si vive meglio”, gli atti di autolesionismo scompaiono. Come a Laureana di Borrello e a Volterra. La casa di reclusione abruzzese non è sovraffollata, ha un protocollo per la prevenzione dei suicidi e un terzo dei detenuti lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: con queste condizioni, nel 2018 non c’è stato neanche un caso di autolesionismo. Così come nel carcere toscano, dove c’è un’area verde per i colloqui estivi, il wc in ambiente separato in tutte le celle e il 59 per cento dei detenuti partecipa a corsi di formazione scolastica. “Negli ultimi anni stiamo dando per scontato che, oltre alla libertà, il carcere debba privare i detenuti anche della dignità, della salute e dei legami familiari - dice Michele Miravalle, coordinatore degli osservatori di Antigone - Abbiamo trasformato questo comportamento istintivo nella regola costitutiva del sistema”. Questo lavoro non piace a tutti perché il carcere deve rimanere per alcuni un luogo oscuro e poco trasparente, come spiega Miravalle. “Siamo volutamente partigiani - continua il ricercatore - soprattutto quando sono in gioco i diritti fondamentali delle persone, ma non abbiamo mai ceduto all’istinto di lanciare una storia in prima pagina”. Secondo Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti di Lazio e Umbria e portavoce nazionale dei garanti, che è anche professore di diritto penale all’Università di Perugia, l’assistenza sanitaria è proprio uno dei diritti che più spesso viene negato ai detenuti, assieme alla possibilità di avere contatti con i propri familiari e a quella di accedere a corsi di formazione scolastica o professionale. “Le risorse che il Sistema sanitario nazionale riesce a dedicare alle carceri non sono molto significative - spiega il professore - e la popolazione detenuta ha delle domande di salute molto complicate. In carcere finiscono tante persone che hanno storie diverse di tossicodipendenza e incuria”. Da garante dei detenuti, Anastasìa pensa che il sovraffollamento sia il vero cancro da estirpare dal sistema penitenziario italiano, perché condiziona tutto il suo funzionamento. In un carcere che ha spazi ridotti gli educatori non possono avere colloqui con tutti i detenuti, che a loro volta spesso non vedono garantito l’accesso ai corsi o alle cure mediche. Quando un istituto è sovraffollato “tutto quanto ne risente, tutto, dall’inizio alla fine”, sottolinea il Garante. Una realtà che conferma questa idea è quella del carcere di Poggioreale. La casa circondariale nel centro di Napoli è quella dove negli ultimi dieci anni si è verificato il numero più alto di suicidi: 49, secondo i dati di Ristretti Orizzonti. “Noi sappiamo che in carcere ci si suicida circa 17 volte di più che fuori e l’evento può essere scatenato anche dalla mancanza di rapporti con l’esterno conclude il garante - di recente mi sono occupato della storia di un ragazzo nigeriano che a Viterbo si è tolto la vita dopo essere stato in carcere 18 mesi senza avere colloqui con nessuno. Con nessuno”. Riina è sepolto, la barbarie 41bis è viva e vegeta di Iuri Maria Prado Il Riformista, 20 agosto 2020 “Io da sedici mesi, diciassette mesi isolato da tutti e da tutto. Ogni tanto mi si attacca una televisione e poi mi si stacca sette mesi, otto mesi perché mi debbo pentire. Io non ho niente da pentire, è inutile che mi trattano così”. Era Totò Riina, in uno sfogo a conclusione di un’analisi solo parzialmente condivisibile quando osservava che i responsabili della giustizia di cui si lamentava “sono i comunista” (in realtà “i comunista” cui lui si riferiva volevano mettere in galera quelli che lo avevano arrestato). Ma analisi a parte - che non era affatto male anche se addebitava “ai comunista” meno responsabilità rispetto a quelle che essi effettivamente portavano - importante era quella sua lamentazione: un anno e mezzo di isolamento, poi un po’ di Tv ma solo se si pente, e altrimenti gliela tolgono. Di questi tormenti pare che non si possa parlare perché a soffrirne è chi ne ha inflitti a sua volta, e ben più gravi, alle vittime dei suoi delitti: dunque non deve muovere a pietà, figurarsi a indignazione, se il mafioso è torturato. Pensa a quanti ne ha ammazzati, e come. E nemmeno si pente. E si noti che l’inibitoria a fame anche solo materia di discussione non viene soltanto dalle vittime, cui più ampiamente bisogna concedere, ma dalla reazione comune e diffusa e ancora dai sacerdoti della demagogia antimafia, quelli che rivendicano la piena bontà dei rigori carcerari perché prima del 41bis “i criminali stavano come al grand hotel”. Nemmeno l’obiezione secondo cui quel regime di barbarie si imporrebbe per l’esigenza di impedire al criminale di organizzare dalla prigione altri delitti, nemmeno questa ricorrente e facile risposta si aggrappa a una giustificazione accettabile: perché anche la mordacchia gli impedirebbe di parlare e anche la corda gli impedirebbe di spiegarsi con i gesti, ma l’efficacia non renderebbe ammissibili questi rimedi. È “un super-criminale”, fu detto di Riina, e fu detto per giustificare il trattamento che subiva e per pretendere che morisse in carcere (il senatore Matteo Renzi, royal baby del garantismo egoriferito, rivendicò con orgoglio di aver fatto morire in prigione sia Provenzano sia Totò Riina, perché “era doveroso per rispetto delle vittime e delle sentenze”). Ed evidentemente per parlare della barbarie carceraria è necessario che essa si incattivisca sugli innocenti. L’occasione, in teoria (anche in pratica), non mancherebbe visto che le gabbie ne sono piene, ma è come militare contro la pena di morte perché c’è caso che porti all’assassinio di chi non ha fatto nulla il guaio è che non si fa nemmeno questo: e il carcere duro, incensurabile perché serve contro i cattivi, diventa incensurato anche quando punisce i buoni. Totò Riina non c’è più, e non si chiede a nessuno di dispiacersene. C’è ancora la giustizia che competeva con la sua ferocia, e questo dovrebbe dispiacere a tutti. Se anche la giustizia se ne va in cassa integrazione di Costantino Ferrara* Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2020 Il primo luglio scorso il governo ha deciso di dare un concreto impulso alla fase 3 del post covid, con la quasi normalizzazione nel funzionamento di ristoranti, bar, pizzerie, prima sottoposti a rigidissimi paletti. A fronte di ciò, tuttavia, la cittadinanza non ha potuto ignorare (per usare un eufemismo) il fatto che, contemporaneamente, non si sia provveduto a regolare lo svolgimento dell’attività nei Tribunali e, in generale, dell’intero sistema giustizia, rimasto praticamente al palo. Nonostante i 4 mesi di sostanziale lockdown dei Tribunali, il ministro Bonafede ha pensato bene di confermare, come per un anno normale, la sospensione dell’attività giudiziaria (udienze) sino al 2 settembre. Alla fine di quest’anno la magistratura avrà lavorato circa 6 mesi; e non per questo il sistema giustizia avrà “assorbito” meno risorse, mantenendo inalterati i suoi costi, i suoi stipendi, i suoi emolumenti, pur in situazione di paralisi. Ciò si inserisce in un contesto già di per sé vischioso, con processi infiniti e sanzioni per ritardata giustizia. Da magistrato onorario presso il Tribunale di Latina, mi è capitato sovente di prendere in carica ed emettere sentenze per centinaia di cause civili, lasciate in vita anche per 15 anni (in qualche caso anche di più). Uno Stato con la “s” maiuscola, una classe politica e dirigente che si rispetti dovrebbe fissare come priorità quella di garantire ai cittadini la certezza del diritto e processi che si definiscano in tempi ragionevoli. Ormai è noto a tutti che lo Stato Italiano (e quindi i cittadini) spende milioni di euro, su condanna dell’Europa, per denegata e ritardata giustizia. È inaccettabile, perché questa falla del sistema grava direttamente sui cittadini (di cui le casse erariali sono una mera estensione), chiamati a pagare per delle colpe non loro. La produttività del sistema giustizia è un tema che va assolutamente affrontato, superando dei dogmi e mettendo in discussione posizioni sinora ritenute intoccabili. La deriva è confermata dai recenti scandali dell’ANM e delle nomine dei togati. Non è da escludere, a parere di chi scrive, anche di intervenire su una forma di retribuzione che si basi sulla produttività e sul lavoro effettivamente svolto dai magistrati. Addirittura negli Stati Uniti, i magistrati vengono democraticamente eletti e alla scadenza del loro mandato non vengono confermati se non hanno “prodotto” giustizia; ciò sarebbe inattuabile nel nostro contesto, è un’utopia, ma almeno cerchiamo di adottare un sistema incentivante che possa portare i Tribunali e gli organi di giustizia in generale a definire, in tempi accettabili, le cause. Lo stesso scrivente ha più volte avanzato proposte capaci di incidere direttamente sulla durata dei processi, garantendo dei termini ben precisi entro cui trattare le cause. In estrema semplificazione, propongo “provocatoriamente” tre articoli: art. 1- i processi penali vanno definiti in primo grado entro tre anni dalla notitia criminis; art. 2- i processi civili vanno definiti entro due anni dalla citazione; art. 3- i giudici che non ottemperano ai suddetti articoli sono sottoposti a procedimenti di controllo volti all’accertamento di eventuali responsabilità. Del resto, anche la magistratura è regolata dal testo unico del 1957, si tratta di dipendenti pubblici e, come tali, non è escluso che siano assoggettati a scadenze o anche a sanzioni per il lavoro non svolto a dovere. Va ripensato un po’ tutto, anche gli aspetti legati alle ferie che, peraltro, si cumulano con l’ulteriore periodo di sospensione feriale dell’attività giudiziaria già previsto dal sistema. Se il meccanismo attuale non consente di smaltire il lavoro in tempi accettabili, ogni ingranaggio della macchina va messo in discussione. Anche la Giustizia, dunque, è chiamata a rimboccarsi le maniche come tutti ed a sfruttare al meglio le proprie forze, magari andando a recuperare quelle risorse di magistrati che, pur vincitori di concorso, svolgono tutt’altre funzioni (si richiami ancora lo scandalo dell’ANM…). In questo contesto fuori dal normale dettato dalla pandemia, poteva essere opportuno abolire la sospensione dell’attività nel consueto periodo feriale e mandare un segnale positivo a cittadini, rimboccarsi le maniche ed impegnarsi a smaltire l’arretrato dei processi civili e penali, per la lentezza dei quali siamo fanalino di coda in Europa. *Magistrato Riforma del Csm: le due cose che non convincono di Cesare Mirabelli Quotidiano del Sud, 20 agosto 2020 La modifica della legge elettorale e il divieto di costituire gruppi consiliari al centro del testo per l’organo dei magistrati. Alla crisi della giustizia si intende dare una prima e parziale risposta con il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri per la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Tuttavia è da prevedere che i tempi per portare a conclusione questo percorso non saranno brevi. La strada prescelta è quella di proporre al Parlamento una legge che, come la costituzione consente, fissi solamente i principi e i criteri direttivi della disciplina da adottare, attribuendo al Governo il potere di completare, in forza della delega ricevuta, il disegno normativo e di esercitare entro un anno il potere che gli viene delegato. Ai tempi dell’esame parlamentare e dell’emanazione della legge, si aggiungeranno quelli previsti per l’esercizio della delega, che lascia al Governo una più o meno ampia discrezionalità, che consente di attutire o amplificare l’impatto degli stessi principi e criteri direttivi. Con il rischio che, in materie nelle quali i dettagli sono particolarmente rilevanti, se permangono differenze di vedute all’interno della maggioranza, accantonate grazie alla genericità dei principi contenuti nella legge, i contrasti si manifestino o riaffiorino per la approvazione dei decreti delegati da parte del Governo. I nodi politici di maggiore rilievo riguardano il Consiglio superiore della magistratura. La crisi di autorevolezza che ha investito questo organo, per effetto delle modalità del suo funzionamento, rese evidenti dalle recenti cronache giudiziarie, ha dato impulso alla iniziativa governativa e in qualche modo ne ha circoscritto gli obiettivi. Il punto di forza vuol essere il superamento, forse anche solo il contenimento, della presa delle correnti della Associazione nazionale magistrati sul Consiglio. Gli strumenti prefigurati a questo fine sono due. La modifica della legge elettorale e il divieto di costituire gruppi consiliari. Sotto il primo aspetto il disegno di legge governativo propone la formazione di diciannove collegi uninominali, ed in ciascuno di essi la elezione con sistema maggioritario a doppio turno. Verrebbe in tal modo superato il collegio unico, con liste contrapposte e sistema elettorale proporzionale, quale è quello attuale, che di fatto consente solamente a gruppi organizzati, appunto le correnti associative, di presentare e sostenere candidati che devono raccogliere voti su tutto il territorio nazionale. Con l’effetto, che viene denunciato, di indurre le vecchie e nuove correnti ad acquisire e coltivare ciascuna il proprio elettorato anche mediante l’attività dei propri eletti in Consiglio, prestando attenzione agli appartenenti alla corrente, in particolare nel loro interesse per la nomina ad uffici direttivi. Il collegio uninominale e il sistema maggioritario dovrebbero costituire l’antidoto per questa “deviazione dalla funzione”. Deviazione delle correnti, che si sarebbero trasformate da luoghi ideali di dibattito ed elaborazione culturale coltivata da aggregazioni interne ad una storica associazione privata, quale l’Associazione nazionale magistrati, in meccanismi di esercizio del potere. Deviazione del Consiglio superiore, che vedrebbe esercitato al suo interno il potere delle correnti associative, tradotte di gruppi consiliari, quanto meno nel governo delle carriere dei magistrati. É evidente che collegi elettorali composti da una o più piccole Corti d’appello, tra di loro vicine, permettono una conoscenza diretta tra i magistrati che vi operano e i candidati al Consiglio, non affidata necessariamente ai meccanismi di corrente o alla notorietà acquisita per le iniziative giudiziarie condotte. Il sistema elettorale maggioritario dovrebbe inoltre rendere meno difficile la elezione di chi raccolga espressioni di stima personale, pur non essendo esponente di una corrente. Tuttavia, prestando attenzione ai dettagli, c’è da chiedersi se il sistema, così come è congegnato garantisca il raggiungimento dell’obiettivo. I meccanismi elettorali consentono spesso a gruppi organizzati operazioni che non sono state immaginate da chi li ha disegnati. É recente l’esperienza delle sole quattro candidature presentate dalle correnti per la copertura dei quattro posti di componente del Consiglio da attribuire ai magistrati del pubblico ministero: difficile qualificare questa come elezione. Il disegno di legge governativo intende prevenire una simile forza spartitoria delle correnti prevedendo che in ogni collegio uninominale vi siano almeno dieci candidati, e forza in questa direzione prevedendo un sorteggio integrativo delle candidature da attivare ad integrazione di quelle presentate, se fossero meno di dieci. E tuttavia non si può prescindere dalla accettazione della candidatura da parte di chi fosse sorteggiato. D’altra parte è ben possibile che siano presentate dalle correnti candidature riempitivo o “a perdere”, per evitare la sgradita integrazione. Un altro elemento di dettaglio destinato ad incidere sull’effettivo funzionamento del sistema è costituito dalla percentuale di voti eccessivamente elevata richiesta per essere eletti al primo turno, vale a dire il 65%, e dalla ammissione al secondo turno, per il ballottaggio, dei quattro candidati con il maggior numero di preferenze. Combinare questi elementi significa che, venendo escluso che sia eletto al primo turno anche chi sia stato votato dalla metà più uno dei colleghi, si intende affidare di fatto al primo turno solamente la selezione delle candidature. Congegnare il ballottaggio non ristretto ai primi due più votati, ma ammettere al secondo turno i primi quattro, che senza fantasia si può immaginare in prevalenza esponenti di corrente, significa stimolare coalizioni tra correnti, con la novità di anticiparle al momento elettorale, tra primo e secondo turno, con un vincolo più forte delle mutevoli posizioni all’interno del Consiglio. Le perplessità che possono suscitare questi esempi invitano a sollecitare un esame sereno e approfondito del disegno di legge, anche per i molti aspetti che non sono stati qui toccati, senza pregiudiziali adesioni o rifiuti. É questo il ruolo del Parlamento, nel quale tema istituzionali, quale è quello della giustizia, dovrebbero trovare il contributo positivo, anche quando critico, di tutte le componenti. Come pure ci si attende che, il modello adottato dal Parlamento nel rispetto della costituzione, sia attuato dalla magistratura senza eluderne i contenuti. Così gli avvocati entreranno nel cuore pulsante del Csm di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 20 agosto 2020 Le novità della riforma voluta dal ministro Bonafede. All’indomani dello scandalo legato all’ex Presidente di Anm, Luca Palamara, la Magistratura ha vissuto - e tutt’ora vive - un delicato momento che necessita profonde riflessioni. Come si legge in alcune intercettazioni effettuate sul telefono del PM succitato, si è appreso, in maniera del tutto casuale, un vero e proprio sistema avente ad oggetto gli incarichi dirigenziali delle Procure italiane, secondo una spartizione fra le varie correnti interne al Consiglio Superiore della Magistratura. Ciò ha prodotto delle forti reazioni che hanno condotto il Governo ad affrettare l’adozione di una legge- delega, auspicata per anni, dettata proprio dalla “alla necessità di rimodulare, secondo principi di trasparenza e di valorizzazione del merito, i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi”. Nella riforma presentata dal Guardasigilli, articolata in 41 articoli, si legge un piccolo dettaglio - ma di portata epocale - che cambierà il volto del Csm. Per la prima volta, anche avvocati e professori universitari potranno entrare a far parte dell’Ufficio studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli che, tra i suoi numerosi compiti, ha quello di compilare i documenti e i materiali di interesse consiliare, fra i quali figurano anche i fascicoli dei candidati alle nomine. L’art. 25 del ddl precisa, difatti, l’apertura ad un numero non superiore ad 8 esterni, individuati, nei limiti delle proprie risorse finanziarie, mediante procedura selettiva con prova scritta aperta ai professori universitari di ruolo di prima e di seconda fascia e agli avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. In altre parole, la presenza di avvocati nei ruoli tecnici del Csm che rafforza la visione relativa al ruolo dell’Avvocato, quale figura necessaria dell’ordinamento giudiziario. Tale apertura non può e non deve essere considerata una indebita “invasione di campo” da parte del ceto forense nella vita del corpo togato, come qualche cieca polemica ha tentato di addurre. Essa, invero, deve essere letta nell’ottica di un riequilibrio della giurisdizione, appannaggio esclusivo, sino ad ora, di un solo peso, quello della magistratura. Una collaborazione rivolta anche a scongiurare potenziali intrusioni della politica nella sfera di autonomia di tale organo. Appare ictu oculi l’importanza della presenza anche degli avvocati nei processi decisionali tecnici della magistratura, che tanto incidono sulla vita del paese, dentro e fuori le aule di giustizia. Questo volge al senso tanto auspicato della presenza in Costituzione dell’Avvocato: solo un anno fa, David Ermini quale Vice Presidente del Csm, ad una tavola rotonda organizzata dallo scrivente a Torino, evidenziava l’indispensabilità di tale introduzione nella Carta Fondamentale. Una presenza che, seppur in “punta di piedi”, garantisce la commistione di punti di vista ed esigenze differenti, se non addirittura confliggenti a volte, visto che dovranno interfacciarsi membri appartenenti ai due schieramenti opposti del “campo di battaglia” rappresentato, figuratamente, dai tribunali. È indubbio che ci si trovi di fronte ad una preponderanza della figura del magistrato su quella dell’avvocato senza il quale, però, la macchina della giustizia non può essere nemmeno concepita. Ad una lettura più attenta però, la riforma portata avanti dal Governo può essere considerata solo un primo passo, ancorché claudicante, verso una reale - e necessaria - riforma strutturale della giustizia. Di certo, questo intervento può essere accolto, come si legge in alcuni commenti, come una iniziativa fortemente innovativa e neanche foriera di soluzione a tutte le problematiche relative alla vita di quel tanto fondamentale organo di autogoverno della magistratura. Basti in tal senso pensare alle perplessità, a parere di chi scrive pienamente condivisibili, avanzate dall’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, circa la prevista abolizione delle “categorie riservate” nel sistema elettorale del Csm. Ciò comporterebbe il rischio che vengano eletti al Csm principalmente Pubblici Ministeri con la logica conseguenza di porre l’organo di autogoverno nella sfera di influenza delle Procure italiane, senza sterilizzare il rischio di nuovi casi come quelli indicati ad esordio. Un primo passo, che necessita coraggio per risolvere problemi strutturali del sistema- giustizia e che necessità dialogo con la stessa Avvocatura. *Avvocato e Direttore dell’Ispeg “I trafficanti di droga ora puntano al mercato dei beni sanitari” di Maria Pirro Il Mattino, 20 agosto 2020 “Con l’aumento della domanda di forniture mediche e dispositivi di protezione individuale, la pandemia ha dato nuove opportunità di business alle organizzazioni criminali. Approfittando della scarsità di beni essenziali, questi gruppi si sono infiltrati nella catena degli appalti attraverso la produzione e la distribuzione di prodotti, mettendo sul mercato prodotti spesso scadenti e, nel caso delle mascherine, per lo più inadatte a fornire alcuna protezione dal virus”. Antonia Marie De Meo, neodirettrice dell’Unicri, Istituto per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia delle Nazioni Unite, lancia l’allarme sull’aumento dei reati. E, nell’intervista esclusiva al Mattino, la prima da quando si è insediata nel suo ufficio a Torino, affronta anche le altre principali emergenze internazionali, e annuncia una visita a Napoli. Da qui, la sua famiglia paterna è emigrata negli Stati Uniti (“Cento anni fa, oggi non conosco i miei parenti. Ma mi piacerebbe approfondirne la storia”). Con il Covid-19, i clan mettono a repentaglio la salute dei più deboli. Come riescono ad accedere al settore? “Imprenditori, intermediari, broker e avvocati corrotti sono “punti di ingresso” nella sfera economica e politica per il reinvestimento di capitali, in aggiunta la criminalità si avvale dei canali commerciali che controlla da decenni e che coinvolgono il commercio di prodotti contraffatti”. E Napoli è la centrale del mercato illegale… “Ha un ruolo nella rete transnazionale, come emerge da una ricerca che abbiamo condotto con la Procura di Napoli e la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo: la cooperazione tra paesi dunque è fondamentale per contrastarli. Negli ultimi tre mesi, abbiamo formato 1000 operatori in tutto il mondo sulle sfide associate alla pandemia”. Parla di sfide al plurale, perché? “In questi mesi gruppi criminali e terroristici (inclusi i trafficanti di droga), hanno distribuito cibo e mascherine e usato i social per apparire come i Robin Hood della situazione. Alcune organizzazioni criminali hanno tentato di sostituirsi alle istituzioni governative, adottando misure come il lockdown. In Messico, i gruppi criminali hanno etichettato le cassette degli aiuti con il loro nome o logo. E, da gennaio ad aprile 2020, l’Interpol ha rilevato 907.000 messaggi di spam, correlati al Covid-19”. Un’altra emergenza è il Libano, dopo le esplosioni. È preoccupata? “Sì, molto. Con le autorità libanesi e l’Ue, stiamo lavorando per mitigare i rischi chimici, biologici, radiologici e nucleari. Qui, e in altri 61 Paesi, cerchiamo di dare forma a nuovi modelli e standard di cooperazione internazionale basati su una percezione comune delle minacce, proprio per prevenire incidenti dovuti all’uso improprio di materiali pericolosi”. La Libia è un’altra polveriera, anche per la questione dei migranti… “La migrazione di per sé non è un problema e dovrebbe essere gestita nel rispetto dei di ritti umani e delle leggi umanitarie internazionali. Nella mia precedente veste di rappresentante dell’Ohchr mi sono occupata del fenomeno dovuto a povertà, disoccupazione e violenza diffusa. Ma incide anche la proliferazione di informazioni imprecise sui social, che evidenziano solo le rare storie di successo, nullificando le campagne di sensibilizzazione nei paesi di origine”. Le nuove tecnologie possono essere un valido alleato nella lotta al crimine? “Con il sostegno del Cern e la Dda, abbiamo dimostrato come i Big Data possano consentire di individuare correlazioni criminali nascoste”. C’è un nesso tra migrazione irregolare, criminalità organizzata e terrorismo? “Sì, ma il problema non sono i migranti e i rifugiati. In Libia, ad esempio, criminalità e conflitti sono spinti da gruppi armati. Anche il terrorismo non è direttamente collegato al fenomeno, ma i migranti sono esposti al reclutamento a causa della loro vulnerabilità”. Ritiene siano efficaci le sanzioni contro la violazione dell’embargo sulle armi in Libia annunciate da Italia, Francia e Germania? “Non è sufficiente nemmeno il sostegno finanziario e tecnico in Libia per contrastare i flussi migratori, soprattutto di fronte a violazioni e abusi dei diritti umani contro i migranti e i rifugiati da parte degli enti governativi. È essenziale affrontare le cause profonde delle vulnerabilità dei paesi di origine, promuovere il rafforzamento economico e l’integrazione dei migranti nelle comunità locali”. Legge antiscarcerazione: Gianfilippi rimanda gli atti alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2020 Il magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha ritenuto ancora fondata la illegittimità. Il mese scorso la Corte costituzionale ha rinviato gli atti al magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, chiedendogli se il decreto legge sulle scarcerazioni lo ritenesse ancora incostituzionale. Detto, fatto. Il magistrato ha ritenuto ancora fondata la questione di legittimità costituzionale e ha rinviato gli atti alla Consulta. Ma cosa è accaduto? Ricordiamo che dopo le polemiche, secondo molti giuristi del tutto strumentali, sulla cosiddetta “scarcerazione” (in realtà detenzione domiciliare per gravi motivi di salute) di circa 500 reclusi per reati di mafia, il ministro della Giustizia - in maniera frettolosa sull’onda emotiva dello “scandalo” - ha varato due decreti legge. In sostanza prevedono che quando un condannato per uno dei delitti indicati (mafia e terrorismo) è ammesso alla detenzione domiciliare o usufruisce del differimento pena per motivi connessi all’emergenza Covid-19, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato tale provvedimento, acquisito il parere del procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine dei quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il Dap comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare. In quel caso il magistrato di sorveglianza può decidere di revocare la misura e il provvedimento è immediatamente esecutivo. Ma qui c’è il problema della lesione del diritto alla difesa. Perché? Il procedimento avviene senza spazi di adeguato formale coinvolgimento della difesa tecnica dell’interessato, senza alcuna comunicazione formale dell’apertura del procedimento e con una conseguente carenza assoluta di contraddittorio, rispetto alla parte pubblica. Ma non solo. Nel decreto Bonafede non è previsto che alla difesa sia data contezza dei risultati istruttori e la stessa è privata della facoltà di confrontarsi con i contenuti delle note pervenute: non può ad esempio sapere dove il Dap ritenga che cure adeguate possano essere svolte in favore dell’assistito e in quale modo. Non può verificare se queste cure siano le stesse che i medici dell’interessato considerano efficaci e risolutive. Non può confrontarle con quelle che, in ipotesi, abbia già intrapreso durante il periodo trascorso in detenzione domiciliare. Non può, soprattutto, prendere atto dei contenuti del parere della parte pubblica, che invece ha potuto leggere l’intera istruttoria pervenuta e svolgere autonomi approfondimenti istruttori, e quindi la difesa non può fornire al magistrato di sorveglianza le proprie repliche. La Consulta però, nel frattempo, ha preso atto che la norma - durante la conversione in legge - è stata parzialmente modificata con l’obbligo da parte del tribunale di sorveglianza di pronunciarsi sulla revoca del provvedimento, ove emessa dal magistrato di sorveglianza, entro il termine di 30 giorni. Tutto nell’ambito di un procedimento in cui la difesa ha pieno accesso agli atti. Per questo motivo ha chiesto al magistrato Gianfilippi una nuova valutazione. Quest’ultimo però ritiene ancora rilevante e manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale, perché rimarrebbe intatto il vulnus del diritto alla difesa. Oltre a tutti i punti precedenti, non modificati durante la riconversione e quindi tuttora irrisolti, la questione è che se in trenta giorni, pur con un contributo della difesa, la magistratura di sorveglianza non riesce ad assumere una valutazione compiuta, viene confermata in automatico la revoca dei domiciliari nei confronti di una persona con gravi problemi di salute senza ulteriori approfondimenti. Oppure, altra questione, quando il magistrato dispone un approfondimento, la misura di revoca scade, il detenuto nel frattempo quindi usufruisce della detenzione domiciliare e poi eventualmente ritorna dentro. Il tutto è irragionevole e non garantirebbe un contraddittorio pieno tra le parti. Quindi, di nuovo la parola alla Consulta. Misura cautelare in tempi brevi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2020 In caso di rinvio il termine di 10 giorni decorre dall’arrivo degli atti in cancelleria. Fa fede il momento di arrivo in cancelleria degli atti trasmessi dalla Cassazione, in caso di annullamento di ordinanza che aveva disposto o confermato una misura cautelare personale. In questo modo le Sezioni unite penali, con informazione provvisoria, rispondono alla domanda posta con l’ordinanza n. 4125 di quest’anno sul momento dal quale fare decorrere il termine perentorio di 10 giorni previsto dall’articolo 311 del Codice di procedura penale, per l’adozione della decisione da parte del giudice del rinvio: “se (...) dalla data in cui il fascicolo relativo al ricorso per Cassazione, comprendente la sentenza rescindente e gli atti allegati, perviene alla cancelleria generale del tribunale competente o alla cancelleria della sezione del tribunale competente per il riesame ovvero dalla data in cui il tribunale riceve “nuovamente” gli atti dall’autorità procedente richiesti ai sensi dell’articolo 309, comma 5, Codice di procedura penale”. Per le Sezioni unite deve così essere smentita la lettura proposta dall’indirizzo maggioritario che, facendo decorrere il dies a quo del termine perentorio per la decisione, non dalla ricezione degli atti dalla Cassazione, ma dal ricevimento degli atti nuovamente richiesti al pubblico ministero, dunque da un adempimento, processualmente e cronologicamente, successivo alla ricezione dei primi atti, realizza inevitabilmente un’estensione temporale della limitazione della libertà personale. Interpretazione che la stessa ordinanza di rinvio alle Sezioni unite considerava di difficile compatibilità con il principio costituzionale del minimo sacrificio della libertà personale. Campania. Nemmeno il Covid-19 basta a svuotare le prigioni di Viviana Lanza Il Riformista, 20 agosto 2020 Da marzo solo 920 su 6.400 detenuti hanno beneficiato di misure alternative alla detenzione. Più di 100 attendono ancora l’ok della Sorveglianza. Intanto, d’estate, il clima in cella si fa rovente. Sono stati 920, in Campania, i detenuti che hanno beneficiato di misure alternative al carcere per effetto delle iniziative governative adottate a seguito dell’emergenza Covid. Su un totale di 6.400, perché tanti sono gli uomini e le donne reclusi nei penitenziari della regione, 920 non è un grande numero. All’indomani dell’adozione delle misure governative, i risultati in termini di riduzione degli indici di sovraffollamento e di contenimento del rischio sanitario sono stati, come previsto, assai modesti”, si legge nella relazione firmata dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello per tirare le somme degli ultimi mesi di vita negli istituti di pena della Campania. Le misure emergenziali sono scadute il 30 giugno, ma ancora in Campania c’è oltre un centinaio di casi pendenti per i quali si attende la decisione dei giudici della Sorveglianza. Per analizzare gli effetti del decreto sulle carceri, bisogna partire dalla fase del lockdown. Aprile scorso: la pandemia era in corso, l’emergenza sanitaria era ancora a livelli allarmanti. A metà mese, nell’istituto di Poggioreale, a fronte di 120 istanze avanzate con riferimento al decreto “Cura Italia”, solo 14 avevano ricevuto accoglimento, di cui dieci nell’interesse di detenuti già sotto i sei mesi di pena residua da scontare, mentre quattro sono rimaste sospese in attesa di dispositivo di controllo elettronico, cioè di quel braccialetto elettronico tanto necessario per quanto difficile da reperire. Calcolando altre 12 ordinanze di rigetto che non hanno consentito di accogliere le richieste, sono state solo 26, sull’iniziale totale di 120, le richieste scrutinate dal Tribunale di Sorveglianza. Tutte respinte, invece, le 48 istanze presentate per motivi di salute: nessuna è stata accolta. Inoltre, delle 19 istanze di detenzione domiciliare per detenuti con più di 70 anni di età sono state solo quattro quelle valutate e accolte, mentre le altre 15 sono pendenti. E la situazione non è stata molto diversa nel carcere di Secondigliano, dove l’amministrazione ha avanzato 110 istanze sulla base del decreto “Cura Italia” e solo otto sono state accolte, mentre delle 233 richieste avanzate personalmente dai detenuti per motivi di salute sono state sei quelle vagliate favorevolmente. Mentre esiguo (circa una ventina) è il numero delle scarcerazioni concesse per attenuazione della misura cautelare. A fronte di questi dati, il garante campano dei detenuti ha evidenziato l’alto numero di richieste sospese di liberazione anticipata. Richieste che, se valutate con tempismo, consentirebbero la scarcerazione immediata di un numero considerevole di detenuti. A Napoli, Poggioreale resta un carcere sovraffollato sebbene la popolazione detenuta, nella prima metà dell’anno, sia sensibilmente diminuita rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. Un dato, questo, che viene valutato assieme alla riduzione del numero di persone sottoposte a misura cautelare entrate in carcere da marzo a giugno. Quasi che l’emergenza sanitaria avesse ricordato il ruolo di extrema ratio riservato nel nostro sistema processuale alla custodia cautelare in carcere”, sottolinea il garante regionale. Meno nuovi ingressi in carcere rispetto al passato, dunque. Ma anche tempi più lunghi per le decisioni giudiziarie. Nella relazione del garante Ciambriello si punta l’attenzione sui mancati provvedimenti di scarcerazione, sulle tante istanze pendenti (a eccezione di quelle che interessano i detenuti di Pozzuoli e Aversa per i quali i magistrati di Sorveglianza competenti hanno valutato tutti i casi). Molte restano le zone d’ombra su cui né il ministro né l’amministrazione penitenziaria hanno ancora fatto luce, impegnati probabilmente a discutere di scarcerazioni eccellenti (come se le altre vivessero una sorta di deminutio) e responsabilità da rimpallare, blindare o “murare”, chiosa Ciambriello esaltando il ruolo svolto da realtà sociali e di volontariato. Gli effetti della pandemia e di tutto quello che ha prodotto in termini di chiusure, stop delle attività, distanziamenti, sono ancora evidenti. E la sensazione - conclude il garante - è quella che si stia perdendo un’occasione per riportare il trattamento e le misure alternative alla detenzione al centro delle politiche carcerarie”. Campania. Con un maggior ricorso a misure alternative possibili risparmi per 50 milioni l’anno di Viviana Lanza Il Riformista, 20 agosto 2020 Nel carcere di Poggioreale si contano 18 funzionari giuridico-pedagogici, 11 psicologi, un mediatore culturale e 100 volontari a fronte di una popolazione carceraria di 1.975 detenuti. Nel carcere di Secondigliano ci sono 12 funzionari che accompagnano i detenuti nel percorso riabilitativo, 7 psicologi, 56 volontari tra educatori e assistenti sociali e 17 mediatori culturali. A Pozzuoli ci sono 2 psicologi, 2 funzionari, 278 volontari e nessun mediatore. A Santa Maria Capua Vetere 4 psicologi, 5 funzionari, 80 volontari, nessun mediatore. Questi sono i dati relativi ai principali istituti di pena della Campania, ma la situazione non cambia di molto se si guarda anche alle altre strutture che ospitano detenuti sul territorio regionale. A fronte di reclusi che sono migliaia, il personale addetto alla rieducazione, all’assistenza psicologica e al sostegno dei reclusi è esiguo. Bisogna investire sul personale, ribadisce chi conosce bene il mondo del carcere. Dal recente rapporto Antigone è emerso che un detenuto costa in media circa 150 euro al giorno (il costo comprende la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno. A livello nazionale il ricorso a misure alternative al carcere farebbe risparmiare almeno 500 milioni di euro, oltre ad avere ritorni positivi per la sicurezza collettiva visto che una persona in misura alternativa ha un tasso di recidiva tre volte inferiore rispetto a una persona che sconta per intero la pena in carcere, sempre secondo dati Antigone. In Campania si stima una percentuale pari a circa il 10% del dato nazionale, per cui si avrebbe un risparmio in termini di spesa per detenuto che potrebbe consentire di utilizzare quei soldi per assumere più educatori e potenziare le attività trattamentali in carcere. Nel corso del 2019, in Campania, sono stati attivati 23 corsi di formazione professionale che hanno coinvolto 236 iscritti con un incremento rispetto al 2018 di 134 soggetti coinvolti, secondo dati del garante regionale. Di questi corsi 16 sono stati promossi dalla Regione Campania e altri sette sono stati realizzati da organizzazioni no profit e soggetti del terzo settore. Le attività formative interessano attualmente appena il 2% della popolazione detenuta, troppo pochi. Diverso è il discorso per i minori, settore in cui nel 2019, in Campania, si è registrata una percentuale di partecipazione ai corsi di formazione professionale pari al 73% dei soggetti sottoposti a misure restrittive. Un dato ritenuto positivo tenuto conto che su scala nazionale in passato veniva conclusa in media meno della metà dei corsi di formazione, mentre negli ultimi anni questa percentuale è salita fino a raggiungere e superare anche l’80%. In tutti gli istituti di pena, inoltre, non solo in quelli minorili, nel tempo è aumentata anche la domanda di istruzione in cella: se fino ad alcuni anni fa interessava i detenuti già studenti che proseguivano il percorso di formazione avviato prima di finire in carcere, in questi ultimi tempi le attività di formazione hanno coinvolto sempre più anche detenuti con condanne medio-lunghe, ed è correlativamente cresciuta l’attenzione nei confronti dell’istruzione nel mondo carcerario. Gli incrementi di iscrizione più significativi sono stati registrati nelle strutture di Poggioreale, Secondigliano, Avellino e nell’istituto minorile di Nisida. Un trend al quale dovrebbe accompagnarsi un adeguato investimento in mezzi e risorse, in educatori e figure formative, ma anche in spazi culturali e aree destinate ad attività sportive per risolvere e superare i ritardi di ristrutturazione e di allestimento segnalati in varie carceri. Caltagirone (Ct). Un “suicidio annunciato” nel carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2020 Si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone, dove era detenuto dal 13 agosto scorso, Giuseppe Randazzo, il ceramista di 50 anni arrestato dalla polizia per l’uccisione della moglie 46 enne, Catya Di Stefano, dalla quale si stava separando. L’uomo si è impiccato nella sua cella. Il Gip di Caltagirone aveva convalidato il suo arresto ed emesso nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Sulla morte dell’uomo ha aperto un’inchiesta la Procura di Caltagirone. “Stiamo svolgendo tutti gli accertamenti necessari - ha reso noto il procuratore Giuseppe Verzera - per verificare se ci siano state responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria”. Il legale dell’uomo, l’avvocato Christian Parisi, parla di “suicidio annunciato”, spiegando che Randazzo “più volte durante la permanenza in carcere aveva detto di voler morire”. “Per questo - rivela il penalista - era stato trasferito in una cella senza suppellettili all’interno, per evitare che si potesse fare del male. Invece, c’è riuscito lo stesso”. Il detenuto si è tolto la vita impiccandosi alla finestra della cella. Della morte della moglie, ricostruisce l’avvocato Parisi, “non aveva alcun ricordo, Randazzo aveva rimosso tutto quello che gli era accaduto quel giorno; non ricordava neppure se fosse andato a lavorare, un vero e proprio blackout mentale…”. L’uomo era accusato di avere ucciso, al culmine di una lite, la donna davanti la porta d’ingresso della sua casa. La vittima aveva avviato le pratiche per la richiesta della separazione, ma il marito non si era rassegnato. Randazzo voleva riallacciare la relazione, ma la ex era determinata ad andare avanti. Il pomeriggio di cinque giorni fa Randazzo era andato ad attenderla davanti casa per l’ennesimo tentativo di riappacificazione. Ne è nato, invece, un violento alterco, finito in tragedia. Lui è stato trovato dalla polizia accanto alla moglie, sotto choc, in lacrime e in evidente stato confusionale. Agli agenti non ha saputo fornire alcuna spiegazione sull’accaduto. La vittima, un’operatrice socio sanitaria che lavorava nell’assistenza di disabili del Calatino, presentava delle lesioni e l’uomo aveva dei segni di colluttazione. Dopo un lungo interrogatorio la Procura di Caltagirone aveva deciso di disporne l’arresto, poi convalidato del Gip. Sarà l’autopsia a chiarire l’esatta causa della morte di Catya Di Stefano. Esame medico legale al quale è probabile possa essere sottoposto anche il marito. Roma. Carcere di Rebibbia, 55 detenuti rischiano il processo Corriere della Sera, 20 agosto 2020 Chiuse le indagini dopo la rivolta di marzo per le norme anti Covid. Indagini chiuse sulla rivolta di Rebibbia, 55 detenuti rischiano il processo per reati che vanno, a seconda delle posizioni, dal danneggiamento al sequestro di persona, dalla rapina alla devastazione. I pm Eugenio Albamonte e Francesco Cascini hanno notificato in questi giorni relativi avvisi agli indagati. Prossima alla chiusura anche l’indagine parallela sui fatti analoghi, ma meno gravi, avvenuti in contemporanea a Regina Coeli. La rivolta di Rebibbia, cominciò il 9 marzo sull’onda di quanto accadeva nelle carceri di tutta Italia e andò avanti nei giorni seguenti, rinforzata anche dai disordini dei familiari dei detenuti all’esterno del penitenziario. In trecento circa vi presero parte, tra cui i 55 indagati. Tra questi figurano, come presunti capi della rivolta, due nomi di peso nella criminalità romana. Leandro Bennato, 40 anni, complice negli affari di droga di Fabrizio Piscitelli “Diabolik”, nonché vicino al nipote di Carmine Fasciani, Alessandro, e già condannato per narcotraffico. Con lui, il coetaneo Daniele Mezzatesta, una condanna definitiva nel 2017 a oltre 14 sono stati individuati dai pm: si va dal danneggiamento al sequestro di persona, dalla rapina alla devastazione anni per possesso di sei chili di tritolo, un kalashnikov, tre mitragliatori, un fucile a canne mozze, una sfilza di pistole, 71 chili di cocaina e 143 di hashish: non ha mai rivelato per conto di chi custodisse questo arsenale. Per il ruolo prominente nei giorni della rivolta i due vennero trasferiti d’urgenza nel carcere di Secondigliano (Napoli) appena tornata la calma. La rivolta nelle carceri scoppiò col diffondersi dell’allarme tra i detenuti per l’impossibilità di rispettare le norme anti Covid nelle celle sovraffollate. A Rebibbia la sommossa partì dal “nuovo complesso”. Decine di detenuti nel reparto G11 diedero fuoco a materassi e coperte. In tanti riuscirono a uscire dalle celle riversandosi nei corridoi. Riportata a fatica la calma, due piani vennero stati dichiarati inagibili. La simultaneità con le altre rivolte fece pensare a una regia unica o a una forma di coordinamento strumentale ad ottenere scarcerazioni anche per detenuti “eccellenti”. Un’ipotesi per ora non dimostrata ma non ancora tramontata. Napoli. Carcere di Poggioreale sovraffollato, eterno male per la città di Giovanni Meola Il Mattino, 20 agosto 2020 Il problema del sovraffollamento delle carceri. Un problema spesso rimosso, troppo spesso sottovalutato. Rimosso perché tutti noi in realtà non riteniamo affatto che il sovraffollamento sia un chissà quale grande problema, alle prese come siamo con mille altre questioni (tra cui il sovraffollamento della città e dei quartieri), ingigantite dall’arrivo improvvido e imprevisto di mr. Covid; sottovalutato perché quando anche vi poniamo mente lo derubrichiamo a problema di seconda o terza fascia. Quelli di prima fascia sono ben altri: ordine sociale, servizi pubblici efficienti, stato di manutenzione delle strade e così via. E invece... Invece, questo è un problema che dovrebbe occupare stabilmente le menti dell’intera città e riguardare incessantemente proposte e risoluzioni. Proposte e risoluzioni indirizzate a risolvere la questione non per motivi banalmente buonisti ma per quello che mi piace immaginare, e chiamare, l’altruismo dell’egoismo. Riusciamo, con uno sforzo, ad immaginarci in una cella con sei posti (e già la convivenza con altre cinque persone in uno spazio ristretto e con un solo bagno non è proprio cosa agevole) in... dodici? Sì, perché mediamente è questa la realtà della Casa circondariale di Poggioreale, una struttura enorme con un sovraffollamento abnorme. È disumano immaginarsi con altri undici corpi, come ammassati, senza uno spicchio di aria tutto per sé, senza uno spicchio di spazio tutto per sé. Una realtà in cui, di argomenti dei quali parlare o con i quali impegnare le proprie lunghe e sempre uguali giornate, ce ne sono pochi, a parte le proprie vicende personali, ovvero criminali o malavitose. Quando si dice che il carcere è l’università del crimine mica lo si dice per fare una battuta? E come entrare in un girone infernale e, in cerchi concentrici sempre più stretti, venire risucchiati giù verso l’apice inferiore della piramide conica capovolta (Dante immaginava così il suo Inferno) che è il malaffare. Senza alternative (valoriali, effettuali, pratiche), non resta che quello: imparare a fare meglio ciò per cui si è stati arrestati e condannati, per poterlo rifare cercando` di non correre di nuovo il rischio di essere reincarcerati e ricondannati. Si tratta di una coazione a ripetere che in tanti, in troppi, vivono in maniera automatica appena varcata la soglia di quell’edificio. Ho avuto modo di condurre un laboratorio di scrittura e recitazione con i detenuti del reparto Napoli, nel quale vengono concentrati quelli con lo stigma della “pericolosità sociale”. Un laboratorio molto intenso, come sanno tutti gli operatori teatrali e culturali che si sono ritrovati a lavorare nel chiuso di un istituto carcerario in qualunque parte d’Italia. Ma qui lo è ancora di più. I motivi? L’irrevocabilità della loro condizione, che li condanna ad un’incapacità di distanziare la mente, occupandola quindi in potenziali attività migliorative sul lungo periodo, da quelli che sono i loro perenni problemi quotidiani, ovvero lo spazio e le relazioni, lo spazio vitale e le relazioni umane. Non uno solo, tra quelli con cui sono venuto in contatto durante i mesi di incontri e lavoro, è riuscito ad evitare di sottolineare la mancanza di spazio vitale e la mancanza di ascolto. Se sono anche solo minimamente riuscito a stabilire una connessione profonda con queste persone è stato perché la mia innata curiosità (personale e professionale) all’ascolto altrui li ha fatti sentire prima di ogni cosa esseri umani senza alcun aggettivo ulteriore (malavitoso, incriminato, incarcerato, ecc.) a denotarli. Queste persone, che hanno sbagliato, che devono pagare, che stanno pagando, vengono così private delle uniche due cose che potrebbero permettere loro di rimarginare ferite e buchi neri. Vengono private del presente e del futuro. Del presente perché vivere in condizioni di sovraffollamento li fa incarognire e, ancor di più, impedisce loro di potere anche solo immaginare una strada diversa che consenta loro di rientrare nell’alveo della società civile. Del futuro perché, in assenza di ascolto, inaridiscono a loro volta la loro capacità di ascolto, chiudendosi quindi alla possibilità del dialogo e, di conseguenza, della comprensione concreta e profonda di ciò che significa società civile. Insomma, un corto circuito esiziale che li priva di chance reali di risalita: una volta cominciata la china verso il basso, quella piramide conica capovolta è peggio delle sabbie mobili. Tuttavia, spesso dimentichiamo l’altro lato della medaglia. Ed è davvero strano che questo accada, perché l’altro lato della medaglia... siamo noi. Ma sì, noi, cittadini ed istituzioni della Cosiddetta società civile, per di più di una città-mondo quale è Napoli, nella quale siamo sempre tutti, perennemente, in bilico su un terreno scivoloso e melmoso, nel quale si confondono i piani, nel quale non sappiamo mai davvero stabilire se le nostre singole piccole devianze siano la summa delle devianze della città e le rappresentino o se invece siano figlie della devianza irredimibile della città-leviatano stessa. Sì, noi cittadini ed istituzioni, e suoi corpi intermedi, incapaci di capire che un carcere in buona salute, in grado di ripartorire persone pronte non già più a delinquere di nuovo e alle stesse condizioni di prima (perché alle prese con la stessa realtà che le ha generate e le ha rese devianti), ma pronte a cercare di reinserirsi nuovamente nel tessuto connettivo civile della città, non fa bene solo a loro ma fa bene, e tanto, anche e soprattutto a noi. Quindi, non solo perché è anche ciò che prevede la nostra eccezionale Costituzione (all’art. 27, comma 3, recita appunto che: “...le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), ma soprattutto per un nostro profondo, univoco, insopprimibile tornaconto, dovremmo adoperarci con diabolica costanza affinché queste persone escano dal carcere migliori di come ci sono entrate, meno incattivite, meno incarognite, meno vendicative. Bando al buonismo, bando all’ipocrisia: queste persone sono da recuperare alla società civile affinché la società civile non si ritrovi ad essere, tra qualche decennio, in una imbarazzante inferiorità numerica, al centro di una tragica contrapposizione tra “noi” e “loro”. E se i “loro” saranno diventati molto più dei “noi”, allora non sapremo che farcene del finto buonismo ma rischieremo un’esplosione sociale dalle inimmaginabili conseguenze. Bologna. Carcere della Dozza, detenuto positivo al coronavirus bolognatoday.it, 20 agosto 2020 Positivo al Covid-19 un detenuto campano recluso nel carcere di Bologna. Lo rende noto il segretario generale del sindacato Spp Aldo Di Giacomo. “Siamo molto preoccupati per un eventuale propagarsi del virus in considerazione dell’imminente riapertura dei processi e delle relative traduzioni ma soprattutto dai colloqui con i familiari. Siamo dell’opinione - dice - che non bisogna abbassare la guardia perché l’eventuale contagio creerebbe problemi non solo di natura sanitaria ma soprattutto di ordine e sicurezza”. “Auspichiamo che vengano forniti a tutti i poliziotti penitenziari i presidi indispensabili come mascherine e guanti che attualmente risultano inesistenti in gran parte degli istituti della nazione. Dal canto nostro abbiamo già sentito il ministro della Giustizia ed il capo del Dap per renderli parteci delle nostre preoccupazioni”. Bologna. Lavoro ai detenuti: solo 1 azienda su 30 è disposta a collaborare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2020 La denuncia degli operatori che operano alla Dozza. I percorsi proposti danno la possibilità di percepire 150€ al mese, ma anche di essere assunti in azienda, una volta terminato il tirocinio. Il lavoro è utile per il reinserimento del detenuto nella società, ma sono poche le aziende disposte ad accoglierlo. Ancora tanti pregiudizi, poca sensibilità nell’assumersi questa responsabilità. Abbiamo l’esempio di Bologna tramite l’Asp pubblica per i servizi alla persona, un ente pubblico non economico disciplinato dall’ordinamento regionale. La Asp progetta e gestisce servizi sociali e socio-sanitari a favore delle persone anziane, minori e famiglie, adulti in difficoltà e immigrati, in ottica di un miglioramento continuo dei servizi ai cittadini e di lavoro di rete. Tale ente collabora anche con gli operatori Cefal, figure che operano all’interno del carcere La Dozza di Bologna per attuare, appunto, percorsi di inclusione lavorativa per i detenuti. L’Asp di Bologna fa sapere che gli operatori Cefal sono coloro che in carcere si occupano principalmente di detenuti, in particolare della loro inclusione lavorativa in alcuni progetti finalizzati ad un reinserimento corretto e graduale nella società. Si tratta di un percorso per il recluso che può prevedere sia la formazione in aula sia tre mesi di tirocinio, ma che in alcuni casi può prevedere solo il tirocinio. Gli operatori inizialmente incontrano i detenuti e propongono loro determinati percorsi, scelti in base alle capacità e alle attitudini di ciascuna persona. E la particolarità è che i percorsi che vengono proposti non solo garantiscono la possibilità di percepire 150 € al mese (ovvero l’indennità), ma prevedono inoltre la possibilità di essere assunti in azienda, una volta terminato il tirocinio. “È chiaro che l’azienda non è mai obbligata ad assumere i tirocinanti - spiega l’Asp - ma in passato vi sono stati alcuni casi di successo che hanno trovato possibilità di assunzione dopo il percorso di tirocinio. Mediamente è un processo che si verifica una o due volte su dieci, ma quando ciò accade è naturale che sia un successo”. Ma ci sono difficoltà. Quelle più grandi che gli operatori Cefal riscontrano nel proprio lavoro è il pregiudizio, non solo dei cittadini ma delle aziende con le quali si cerca di collaborare. La Asp di Bologna sottolinea il fatto di come sia difficile trovare aziende disponibili per i tirocini e ad assumersi la responsabilità di inserire nell’organico un ex detenuto. “Quando gli operatori Cefal cercano un’azienda idonea per l’inserimento di un detenuto - denuncia sempre l’Asp - circa 1 azienda su 30 è disposta a collaborare”. Molto spesso se la persona in questione è straniera la difficoltà è maggiore. Ma nonostante tutto c’è un elemento positivo, perché quando gli operatori Cefal individuano un’azienda disponibile vuol dire che all’interno di questa azienda ci sono persone eccezionali: riescono a farsi carico del reinserimento del detenuto nella società con grande accoglienza e disponibilità. Augusta (Sr). Carcere senza acqua, protesta dei detenuti: “Nelle celle sporcizia e insetti” siracusapost.it, 20 agosto 2020 La carenza idrica e conseguentemente di igiene alla base della protesta di ieri al carcere di Augusta. Per quanto i detenuti abbiano espresso il loro malcontento in forma pacifica, non sono mancati i momenti di tensione, subito sedati dall’intervento degli agenti di Polizia penitenziaria. Sull’accaduto interviene Sebastiano Bongiovanni, dirigente federale nazionale del Sippe: “La mancanza d’acqua sarebbe la causa scatenante e sicuramente i detenuti fautori della protesta non hanno perso l’occasione per creare una situazione a grave rischio e solo grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria si è potuto assicurare l’ordine e la sicurezza. La situazione nel carcere resta, comunque, difficile per via dell’emergenza idrica che dura da più di 20 anni, a cui si aggiunge il problema di zanzare e insetti vari. C’è il pericolo di nuove tensioni dietro le sbarre. Ci auguriamo un immediato intervento da parte delle autorità dirigenti, del Prap e del Dap, nell’auspicio che siano presi provvedimenti seri e risolutivi che garantiscano le minime condizioni igieniche, oggi mancanti. La Casa reclusione di Augusta - conclude Bongiovanni - oggi contiene un numero di detenuti più del doppio della sua capienza; di contro il personale penitenziario è inferiore almeno di 70 unità: è evidente che questa situazione è insostenibile, pronta ad esplodere da un momento all’altro”. Pavia. Detenuti recuperati, aiuto alle vittime di Manuela Marziani Il Giorno, 20 agosto 2020 Comune e ministero insieme per il sostegno psicologico ai condannati e alle donne che hanno subito violenza. Promuovere l’adozione della giustizia riparativa come modello di giustizia che coinvolga la donna vittima di violenza e il recupero del colpevole alla ricerca di soluzioni che consentano un’effettiva riparazione del torto. È questo l’obiettivo che si pone il progetto “Ri-parando si impara”, al quale il Comune ha partecipato, in qualità di ente capofila, di concerto con i servizi dell’amministrazione della giustizia e con la collaborazione del centro servizi formazione e della Cooperativa Liberamente. L’iniziativa, finanziata dalla Regione, prevede la presa in carico degli autori di reato, con finalità di trattamento psico-socioeducativo, laboratori e gruppi per gli autori di reato, altri per le vittime e condivisione di informazioni specifiche che agevolino l’autonomia personale. Inoltre, si dovranno predisporre percorsi formativi all’interno degli istituti scolastici in modo da sensibilizzare gli studenti sul tema della violenza di genere e il potenziamento dei servizi legali a favore di donne vittime di violenza. Per le famiglie degli autori di reato dovrà nascere uno spazio d’ascolto e confronto, oltre a un percorso formativo rivolto a operatori sociali o dei Servizi dell’amministrazione della giustizia. Nel progetto, inoltre, è stato inserito un potenziamento del servizio di reperibilità telefonica del Centro antiviolenza in situazioni di “codice rosso”, con la possibilità che vi possano ricorrere anche gli operatori di Torre del Gallo. “L’obiettivo numero uno è quello di fornire un sostegno più efficace a chi è già stato vittima di violenza e prevenire violenze future, anche con percorsi di recupero degli autori, soprattutto quando si tratta di minori - ha detto l’assessore ai servizi sociali del Comune, Anna Zucconi (nella foto) - Per farlo, è necessario affiancare agli strumenti tradizionali della giustizia penale nuove forme di intervento. Come amministratrice e come donna, mi sono spesa per l’adesione a questo progetto, di cui seguirò anche l’attuazione. La violenza, in ogni sua forma, è un male da estirpare, e scelte innovative possono fare la differenza. Non lascerò nulla di intentato per aiutare chi l’ha sofferta e per impedire che altri debbano subirla”. Prato. Carcere ancora in emergenza: “Subito riposte” La Nazione, 20 agosto 2020 La visita del consigliere Tinagli (Pd) e del radicale Giusti alla struttura “Serve più personale”. Due interrogazioni parlamentari presentate lo scorso inverno, con il ricordo delle rivolte dei detenuti scoppiate a marzo ancora vivo. A distanza di mesi, la situazione non ha più raggiunto quei picchi di criticità, ma l’attenzione deve restare alta. È il pensiero del consigliere di maggioranza Lorenzo Tinagli (Pd), che insieme a Matteo Giusti dei Radicali ha fatto visita al carcere della Dogaia. I due, guidati dal comandante Barbara D’Orefice e dell’ispettore Donato Nolé, hanno visitato diverse sezioni della casa circondariale e si sono confrontati sia col personale carcerario che con i detenuti. Le difficoltà maggiori restano legate alla carenza di risorse umane ed economiche: il personale è ridotto al minimo e sottoposto a pesanti turni lavorativi. “Nell’ultimo anno abbiamo collaborato a stilare un paio di interrogazioni firmate dall’onorevole Roberto Giachetti proprio sulla Dogaia - commenta Tinagli - Abbiamo poi scritto sia al governatore Rossi che al ministro della Giustizia Bonafede”. Tanti i rappresentanti delle istituzioni e della società civile che avevano dato la loro disponibilità a partecipare alla visita e garantito il loro impegno per il miglioramento del carcere pratese. La normativa di contrasto al Covid ha tuttavia costretto a ridurre a due il numero degli ingressi. Patascuola, il nuovo biennio per operatori di teatro-carcere di Alice Facchini Redattore Sociale, 20 agosto 2020 Un programma biennale che prevede un anno di didattica teorica e uno di tirocinio pratico, con l’accompagnamento dei registi del Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna. Paolo Billi (Teatro del Pratello): “Per insegnare teatro in carcere non basta essere attori: bisogna conoscere l’istituzione carceraria e sapere come muoversi al suo interno”. “Per insegnare teatro in carcere non basta essere attori: bisogna conoscere come funziona l’istituzione carceraria per sapersi muovere al suo interno, altrimenti il rischio è di rimanerne schiacciati. Non ci si può improvvisare: bisogna avere una preparazione molto specifica”. Paolo Billi, regista e autore, da più di vent’anni realizza spettacoli tra le mura del carcere minorile del Pratello a Bologna. Oggi è uno degli insegnanti della Patascuola, il nuovo corso organizzato dal Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna, che ha tra i soci fondatori anche il Teatro del Pratello. Il programma è biennale: il primo anno i partecipanti studieranno gli elementi teorici necessari all’insegnamento del teatro in carcere, mentre il secondo anno verranno organizzati tirocini in istituti penitenziari di tutta la regione: Bologna, Modena, Castelfranco Emilia, Ravenna, Forlì, Parma, Ferrara, e presso il carcere minorile del Pratello e i servizi della giustizia minorile dell’Emilia-Romagna. “Il teatro in carcere non è uno strumento riabilitativo, ma un’esperienza formativa e artistica a 360 gradi, che contribuisce alla crescita della persona - afferma Paolo Billi. Tre sono gli elementi fondamentali: l’ascolto, il silenzio e lo sguardo. Nel momento in cui l’operatore entra nel contesto della prigione, deve infatti avere la capacità di ascoltare, di gestire i silenzi, ma anche saperli provocare, e di saper osservare, guardare. Fondamentale è sospendere il giudizio, altrimenti il percorso perde di senso. Il nostro obiettivo è quello di far nascere, far emergere, fare in modo che dalla persona affiori quello che dentro c’è già”. Il corso prevede incontri mensili da novembre 2020 a giugno 2021, in cui si svilupperanno i temi fondamentali per operare in carcere attraverso il teatro. Nel primo anno, i sei registi del Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna diventeranno le anime docenti dell’intera Patascuola: insieme a Paolo Billi anche Horacio Czertok (Teatro Nucleo - Teatro Julio Cortazar), Sabina Spazzoli (Con...tatto Forlì), Eugenio Sideri (Lady Godiva Teatro), Stefano Tè (Teatro dei Venti) e Corrado Vecchi (Le Mani Parlanti). Oltre a loro ci saranno tecnici che svilupperanno elementi particolari: Laura Bisognin Lorenzoni parlerà di spacial dinamics, Francesca Figini farà un approfondimento sull’allenamento dell’attore, Marco Luciano si concentrerà sulla drammaturgia, mentre Filippo Milani lavorerà sulla scrittura e Elvio Pereira De Assunçao sul ritmo e sullo spazio. Infine, ci saranno dei consulenti teorici di spicco, che contestualizzeranno il discorso teatrale all’interno dell’istituzione carceraria: Cristina Valenti (teatro sociale e carcere), Giuseppina Speltini (psicologia dei gruppi), Mariarosa Dominici (vittimologia), Paola Ziccone (giustizia riparativa), Stefania Carnevale (diritto dell’esecuzione penale) e Vittorio Iervese (sociologia dei conflitti). “Per l’operatore di teatro carcere, mettersi in gioco è fondamentale - conclude Billi. Se tu non ti metti in gioco, non puoi chiedere alla persona che ti sta davanti di farlo: se non dai, non puoi ricevere. Il detenuto che è chiuso dentro vede in te la possibilità di ‘curarsi’, di volersi bene, di fare finalmente un’esperienza per sé stesso. È proprio quando comprende che fare teatro non serve a nulla, che il teatro serve: in prigione di solito si fanno le cose solo per averne un utile. Invece qui io faccio una cosa solo perché mi piace farla: ecco perché allora mi metto in gioco davvero. È questa la vera crescita personale”. “The Hater”, un thriller fra odio social e fake news Corriere della Sera, 20 agosto 2020 Il film del regista polacco Jan Komasa, disponibile su Netflix, si ispira a un fatto vero e ci riguarda tutti da vicino. “The Hater” del polacco Jan Komasa è un film istruttivo e ci riguarda tutti da vicino perché osserva il fenomeno degli hater, gli odiatori di professione che sui social organizzano campagne di odio e diffamazione basate su fake news ottenendo così infami scopi. La bugia primo comandamento. Tomasz, arrivato dalla campagna a Varsavia, espulso dall’università perché ha copiato la tesi, vuol fare la bella vita e si dedica, azzerando il suo comune senso del pudore, alla creazione di non casuali menzogne. Assunto da una società che, attraverso social e falsi profili comprati in India, denuncia influencer, politici e chiunque capiti a tiro, diventa il giovane rampante che lavora in piena falsità di coscienza alla campagna elettorale contro sovranismi e populismi del sindaco Pawel Rudnicki, creando scandali e insanguinando una serata di beneficenza insieme a uno youtuber in cerca di soldi e fama: i due comunicano attraverso un videogioco, confondendo non a caso realtà e finzione. Sarà massacro morale e materiale, dal quale il peggiore vien premiato: fosco ma non inverosimile presagio che non vale solo per la Polonia. Sui social e sui backup dei computer si trova terreno fertile per ogni sorta di reato, un infernale processo di follia tecnologica che ha del “metodo”. Non è affatto difficile coniugare questo bellissimo film, che entra nelle pieghe della Polonia di oggi a quello che succede altrove, denunciando ignoranti bugie che trovano eco pericolosa sui social. Premiato al Tribeca, si ispira a un fatto vero, l’omicidio del sindaco di Danzica nel 2019 ma segue, narrativamente e moralmente, gli insegnamenti di un grande cinema realista che qui si avventura nella piovra del mondo virtuale. Il protagonista Maciej Musialowski ha la crudeltà infantile del ragazzo incosciente del mondo. Migranti. Caserma Serena di Treviso, arrestati i 4 “leader” delle rivolte di Silvia Madiotto Corriere Veneto, 20 agosto 2020 Il sindaco di Treviso: “Si deve continuare ad usare il pugno di ferro con chi delinque”. I quattro profughi africani che avevano fomentato i disordini all’ex caserma Serena di Treviso sono stati arrestati dagli uomini della questura. Ora non possono più guidare le rivolte interne e (così sperano tutti) le tensioni andranno scemando. I giovani sono finiti in carcere al termine dell’indagine giudiziaria sulle violenze dell’11 e 12 giugno scorsi con l’accusa di sequestro di persona, devastazione e saccheggio. “Ci auguriamo che questo possa convincere gli ospiti della necessità di mantenere dei comportamenti corretti e collaborativi per definire una situazione di rilevanza sanitaria” ha commentato il questore Vito Montaruli. Tutti avvisati. E il percorso di richiesta dell’asilo per tutti e quattro potrebbe interrompersi rapidamente. L’operazione condotta ieri mattina presto dagli agenti della Digos di Treviso con la squadra mobile, l’unità di soccorso pubblico e reparti di rinforzo è un passaggio importante nelle dinamiche interne alla Serena, oggi uno dei focolai più grandi del Veneto. La cronaca è nota: a metà giugno un operatore della società che gestisce la Serena su incarico della Prefettura, Nova Facility, era stato trovato positivo al virus e l’Usl 2 aveva avviato uno screening sui trecento ospiti, posti in quarantena con divieto di uscire. Ne era nata una violenta protesta contro tamponi e isolamenti: tredici medici e operatori si erano dovuti chiudere in guardiola per sfuggire ai facinorosi che impedivano loro di uscire dai cancelli, fra spinte, minacce e lanci di pietre. Gli ostaggi erano stati liberati dalle forze dell’ordine e quel fatto, grave e violento, si è rivelato solo l’inizio: gli stessi rivoltosi avevano poi devastato alcune stanze e saccheggiato dei distributori di generi alimentari. “Episodi senza precedenti, i più gravi da quando è stato creato il Cas alla Serena” dicono in questura. Sono state fondamentali le denunce, le testimonianze e le immagini riprese dalle telecamere. Al momento dell’arresto due profughi si trovavano nelle loro stanze, uno era uscito volontariamente dal percorso di protezione; il quarto è già in carcere dal primo agosto per reati successivi e la devastazione dell’infermeria. Hanno fra i 23 e i 31 anni e provengono da Gambia, Mali, Costa d’Avorio e Senegal. Dopo due mesi l’indagine della Digos, condivisa con la Pm Andreatta e il Gip Zulian, si è conclusa ma il caso Serena non è chiuso. Il 31 luglio il focolaio si è riacceso arrivando a 257 positivi fra profughi e operatori e le violenze sono ricominciate con lanci di sassi e proteste, rendendo impossibile mettere in atto il piano di prevenzione disposto dalla Prefettura e dall’Usl 2 che prevedeva la divisione di positivi e negativi. Pare che siano sempre stati quei quattro facinorosi a impedire di attuare il piano e sono in corso ulteriori accertamenti investigativi per capire se anche gli episodi seguenti sono da imputare agli arrestati. Ora si spera almeno che le rivolte siano definitivamente concluse senza i “leader” che tenevano sotto scacco gli altri migranti e la caserma. “Ora è necessario continuare ad usare il pugno di ferro - dice il sindaco Mario Conte - per far capire che chi delinque finisce in carcere” e ringrazia polizia e magistrati il gestore Gian Lorenzo Marinese: “Questo ci consentirà di seguire finalmente le indicazioni dell’autorità sanitaria che fino ad oggi, per la presenza di quei soggetti da noi denunciati, non siamo riusciti ad attuare”. Droghe. L’Agenda Eu e la nuova enfasi sul “law and order” di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 20 agosto 2020 Che le politiche sulle droghe facciano parte del “pacchetto sicurezza” delle politiche globali, e che il consumo sia letto come fenomeno criminale si sa, e si sa anche che la Commissione europea non fa eccezione. E tuttavia a livello comunitario la ricerca di un “bilanciamento” tra interventi sull’offerta e sulla domanda, e tra politiche repressive e politiche sociali, educative e sanitarie, ha caratterizzato una strategia aperta, che può giocarsi a livello globale come (moderatamente) progressiva contro gli eccessi della war on drugs. Una mediazione che nell’ultimo Piano d’azione 2017-2020 si era concretizzata in una crescente attenzione alla Riduzione del danno (RdD), ai diritti umani, alle alternative al carcere, allo sviluppo della ricerca, fino ad arrivare a una promettente lista di indicatori che avrebbero potuto gettare luce su successi e insuccessi delle politiche comunitarie e dunque su un loro possibile aggiornamento. Era stato, questo, anche un successo del Civil Society Forum on Drugs (Csfd), che aveva fornito valutazioni e input in parte ascoltati. Ben poco di tutto questo è stato accolto dalla nuova Commissione nella Agenda sulle droghe 21-25 (si chiama così, ora) e tanto meno nell’allegato, laconico Action Plan e nell’anche più misera lista di indicatori. Varato nell’ambito della Security Union Strategy, insieme ai piani contro gli abusi sui bambini e il traffico di armi, il documento presenta una nuova enfasi, fin dal linguaggio, sull’approccio law & order sulle droghe, mostra di investire soprattutto sulla repressione, tenendo in poco conto quanto emerso dalla valutazione indipendente che essa stessa aveva promosso (qui il Report) e dal fitto dialogo con il Csfd: la precedente Strategia non aveva raggiunto gli obiettivi né di riduzione dell’offerta né della domanda, l’approccio andava ripensato, la “bilancia” delle politiche europee doveva pendere meno a favore delle politiche repressive, che tra l’altro si mangiano la quota maggioritaria delle risorse, lasciando gli ambiti sociale e sanitario scoperti in molti stati membri. La nuova Strategia riproduce l’immagine impresentabile di un consumo di droghe che è gesto criminale o condizione patologica e non fenomeno sociale complesso e normalizzato; rilancia, è vero, la RdD - e in questo può essere appiglio per i paesi più arretrati- ma come misura di seconda linea in attesa di una Europa drug free, del tutto ancillare all’approccio repressivo, e non una strategia di governo di un fenomeno sociale per come è via via andata configurandosi. Dato questo approccio, non vi è traccia, nemmeno la più timida, di ipotesi di decriminalizzazione delle condotte personali, e si è persa anche quella piccola conquista del CSFD sulla cannabis, quando nel precedente Piano era stato inserito l’obiettivo di documentare e analizzare le proposte di politiche alternative, come la legalizzazione, aprendo per la prima volta un varco in un documento programmatico comunitario. La ricerca stessa, poi, appare molto ridimensionata, e gli indicatori continuano a essere di processo e non di risultato: come dire, una Strategia e un Piano che non vogliono essere valutati davvero. Tra l’altro, è in corso l’aggiornamento di obiettivi e compiti dell’Emcdda da parte della Commissione, c’è da augurarsi che anche qui non vi siano passi indietro. Adesso, dovrebbe svegliarsi la politica, Consiglio e Parlamento europei devono dire la loro, almeno per ridurre il danno di questa deludente Agenda. *Forum Droghe, delegata Csfd Russia. Navalny in terapia intensiva: “È stato avvelenato in aereo” Corriere della Sera, 20 agosto 2020 Il leader dell’opposizione stava andando a Mosca. Improvvisamente si è sentito male. Ora è ricoverato in terapia intensiva ed è incosciente. Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny è incosciente ed è ricoverato in terapia intensiva in ospedale dopo essere stato apparentemente avvelenato, ha detto oggi la sua portavoce. Kira Yarmysh spiega che Navalny stava volando dalla Siberia verso Mosca e il suo aereo ha effettuato un atterraggio di emergenza quando si è sentito male. “Pensiamo che Alexei sia stato avvelenato con qualcosa mescolato nel suo tè - afferma Yarmysh -. Quella era l’unica cosa che ha bevuto la mattina. I medici dicono che il veleno è stato rapidamente assorbito mediante il liquido caldo”, ha aggiunto. Navalny è nell’unità di terapia intensiva per pazienti tossicologici nell’Ospedale di emergenza n.1 di Omsk, ha confermato l’agenzia di stampa statale Tass. Il 44enne, noto per le sue campagne anti-corruzione contro alti funzionari e per le critiche esplicite al presidente Vladimir Putin, ha subito attacchi fisici in passato. Bielorussia: “Noi, seviziati da agenti di Lukashenko” di Michela A.G. Iaccarino e Stefano Vergine Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2020 Mani incrociate dietro la testa, seduti con ginocchia alla bocca, occhi rivolti al pavimento. È la prozedura degli Omon, la polizia anti-sommossa bielorussa che ha chiuso la gioventù ribelle di Minsk nelle sue carceri. Due hanno raccontato al Fatto cosa è accaduto loro. Ivan Makarov, 29 anni, è stato preso dalla polizia di Lukashenko il 10 agosto mentre portava acqua e cibo a chi manifestava contro la frode elettorale del presidente. “Su Telegram i ragazzi si erano dati appuntamento nei pressi delle fermate della metro”. Quando la camionetta militare dai vetri oscurati è arrivata, Ivan non è riuscito a nascondersi in una delle case che di solito danno rifugio ai manifestanti. “I militari con gli scudi dividevano la folla in piccoli gruppi che l’anti-sommossa catturava”. Trascinato in caserma con altre dieci persone, Ivan è stato pestato con il manganello dagli Omon che “si vantavano e chiedevano l’uno all’altro: tu quanti punti hai fatto? Cioè: quanti ne hai catturati? Era come nel videogioco Counterstrike”. Picchiati, appena smettevano di fissare il pavimento, gli camminavano addosso come fossero “sacchi di patate”. “Ho tenuto le ginocchia all’altezza della bocca per ore. Poi hanno detto: toglietevi i lacci dalle scarpe, le croci dal collo. Ci hanno fatto alzare in piedi uno per uno e ci hanno filmato mentre ripetevamo nome, cognome, luogo in cui ci avevano arrestato”. Un archivio di sguardi sbigottiti dal terrore: “Ho cercato di essere obbediente perché sentivo cosa accadeva a chi non lo era: ti denudavano, ti premevano la faccia sul pavimento”. Non solo i pugni, gli arrestati hanno segni di bruciature da fili elettrici e organi interni danneggiati: “alcuni ragazzi sono stati denudati e violati con il manganello”. Memorie sonore: delle mazze sulle sbarre e poi sulle loro teste, delle porte che si aprono e chiudono. Ivan ricorda: “Non potevo alzare lo sguardo, ma sapevo che c’erano i militari perché avevano stivali e pantaloni di colori diversi rispetto agli agenti”. Quando il mattino dopo lo rilasciano, Ivan rimette piede nelle strade furiose di una città che reclama i suoi figli, mariti, fidanzati. Ci sono ancora un centinaio di desaparecidos e negli ospedali alcuni manifestanti sono stati colpiti così forte da non poter essere riconosciuti e identificati. Stessi metodi e violenze le enumera su Telegram John Galt. Usa il nome del protagonista del romanzo distopico de “La Rivolta di Atlante” il pallido ingegnere digitale di nome Rodion, 27 anni, baffi biondi a bicicletta. “Il 9 agosto ho partecipato alla protesta: alle frodi elettorali purtroppo siamo abituati, è la tradizione bielorussa”. È stato arrestato la domenica delle urne al centro commerciale Galerya quando “sono arrivati i kosmonavzy, i cosmonauti: a volte chiamiamo così i poliziotti perché sono talmente bardati da elmi e parastinchi da sembrare pronti per volare nello spazio”. Rinchiuso nella camionetta, Rodion sentiva granate ed esplosioni: “Chiedevamo cosa succedeva, se stava scoppiando la guerra”. Il protokol della tortura che subisce è uguale: ginocchia in bocca, occhi a terra. Quando Rodion li alza vede lo sguardo perduto di qualche Omon troppo giovane: “Erano i più anziani a mostrare come urlarci contro, dove picchiarci, ma gli agenti, ragazzi come noi, non erano pronti per quello che stava succedendo”. A noi ripetevano: “Chiudete la bocca, se la aprite vi aspetta il servizio speciale”. Un metodo che Rodion subisce tre volte. “Aprivano le porte della camionetta per spruzzare spray al peperoncino e chiuderle subito dopo mentre ci mancava il respiro. Un uomo piangeva perché era sceso in strada con suo figlio piccolo, rimasto solo. Un altro che era nella camionetta perdeva sangue dal cranio spaccato, si è accasciato come un morto, è stato portato via, non so se era ancora vivo”. Tra i detenuti c’è un ragazzo ucraino che hanno picchiato più forte degli altri: “Gli dicevano: sei venuto a portare Maidan qui e rovinare il nostro Paese? C’era anche un reporter russo a cui urlavano che i giornalisti sono spazzatura umana. Ci dicevano, se lo fate di nuovo, vi mutiliamo. O vi ammazziamo”. Una delle ragazze arrestate assieme a Rodion era incinta: “L’ho sentita piangere per mezz’ora. Le dicevano: puttana perché non sei rimasta a casa a guardare la tv?”. Rinchiuso nel carcere di Okrestina, Rodion rimane cinque giorni in una cella dall’aria viziata da sudore, paura. “Il primo giorno con quatto letti eravamo in 19, il secondo giorno 25, il terzo 27. Tenevano la luce accesa giorno e notte, un perenne stordimento. Gli arrestati continuavano ad arrivare e la polizia per fortuna si è dimenticata di noi. Sentivo i poliziotti litigare perché i secondini non trovavano più posti dove stipare persone”. Quando hanno perso il conto dei detenuti, gli agenti hanno cominciato a enumerare i cellulari requisiti per contare i manifestanti stretti tra corridoi, celle, cantine e depositi. Sente dopo giorni l’ordine del comandante: fare liste dei nomi dei detenuti “altrimenti la folla fuori assalterà la prigione. Alla fine non c’è stato tempo, ci hanno rilasciato senza neppure un documento che io abbia subito quella violenza, quell’ inferno, come se niente fosse accaduto”. Quando ha varcato i cancelli dell’okrestina, Rodion ha visto volontari con cibo, acqua, sorrisi, andargli incontro. In mezzo alla folla ha distinto sua moglie in lacrime che lo pensava ferito, mutilato, morto. Non ha visto uscire il ragazzo alto che aveva la schiena come un enorme cicatrice rossa e blu, quello che non stava zitto nel cortile dove li picchiavano, che diceva: “Un giorno saremo noi ad arrestarvi e arriverà il vostro turno”. Medio Oriente. Cibo e preghiere, quei ponti segreti gettati dagli ebrei negli Emirati di Sharon Nizza La Repubblica, 20 agosto 2020 La svolta diplomatica con Israele è stata preparata dal lavoro delle comunità locali. L’antico detto ebraico “due ebrei, tre opinioni” trova una sua emblematica affermazione persino in un luogo dove nell’immaginario collettivo non c’è nemmeno un ebreo, ovvero gli Emirati Arabi Uniti: anche nel Paese del Golfo che ha appena annunciato la normalizzazione dei rapporti con Israele, esistono non una, ma due comunità ebraiche. Ed entrambe hanno un curioso legame con l’Italia. Giacomo Arazi rappresenta la quintessenza di quell’ebraismo itinerante e cosmopolita che ha saputo reinventarsi tra una tappa e l’altra della vita. Nato a Beirut, cresciuto a Napoli, emigrato a Londra, nel 2008 si stabilisce per lavoro a Dubai. “All’inizio la mia famiglia era scioccata. La loro generazione vive ancora il grande trauma della fuga dai Paesi arabi a seguito della nascita d’Israele”, ci racconta al telefono da Londra, dove è tornato a vivere dopo otto anni negli Emirati. A Dubai, incontra qualche collega ebreo e altri li scova cercando su Linkedin i cognomi che paiono famigliari. Inizia a ospitare nella sua villa la preghiera dello Shabbat per un gruppetto di famiglie di espatriati, europei e americani, che con gli anni arriva a includere un centinaio di persone. “Con l’eccezione del Bahrain, siamo la prima comunità ebraica formatasi in un Paese arabo o musulmano dopo svariati secoli”, ci spiega Alex Peterfreund, belga, a Dubai dal 2014, portavoce del Consiglio ebraico degli Emirati (JCE) - così si chiama la comunità formalizzata nel 2013, che continua a riunirsi nella ex villa di Giacomo. Un paio di anni fa è nata un’altra comunità, il Jewish Community Center, tra i cui pilastri c’è Ilan Uzan, italo-israeliano di origine libica, a Dubai dal 2004. Anche loro hanno la loro sinagoga e qualche anno fa Ilan ha coordinato un’operazione semi-clandestina per portare a Dubai un rotolo della Torà da Roma. L’apertura graduale verso la comunità ebraica locale è stata una sorta di banco di prova per ciò che il Paese si appresta ad affrontare con l’avvio delle relazioni con Israele. “Abbiamo rapporti con le istituzioni, in particolare con il ministero della Cultura e della Tolleranza, ma non ci occupiamo di politica. Le voci di un accordo con Israele circolavano da tempo, ma l’annuncio improvviso ci ha colti di sorpresa, pensavano che sarebbe successo tra qualche mese. È l’inizio di una nuova coesistenza”, ci dice Ilan. Non è sempre stato tutto rose e fiori. “Quando mia figlia è nata qui nel 2009, l’ho registrata come cristiana. Per anni non abbiamo rivelato quasi a nessuno la nostra religione. Quando c’è stato il caso Mabhouh (l’uccisione a Dubai di un capo di Hamas da parte del Mossad nel 2010, nrd) il clima era pessimo, abbiamo davvero temuto”, ricorda Giacomo. Oggi negli Emirati si contano un migliaio di ebrei, quasi tutti a Dubai, dove c’è anche una piccola scuola di studi ebraici per i bambini della comunità e persino un catering kasher, “Kosherati”, che spopola anche tra i musulmani. Ad Abu Dhabi è in costruzione una sinagoga, parte di un progetto iniziato nell’Anno della Tolleranza, dichiarato nel 2019 in vista della visita di Papa Francesco. La comunità degli expat di Dubai rievoca una storia che ha caratterizzato quest’area nel passato: di peregrinazioni di mercanti ebrei nel Golfo Persico, crocevia di commerci sulla via della seta, si ha testimonianza ancora dall’Alto Medioevo. Beniamino di Tudela, esploratore ebreo spagnolo dell’XI secolo, descrive nelle sue cronache le comunità locali. La piccola comunità del Bahrain di oggi, una trentina di persone, discende da famiglie di commercianti iracheni e iraniani stabilitesi a Manama verso la fine dell’800. I reggenti emiratini conoscono i vantaggi di un’apertura verso il mondo ebraico e probabilmente è anche in questa chiave che vanno letti i rapporti instaurati sottobanco con Israele già dagli anni ‘90, con l’inizio del processo di Oslo. Non a caso il nome scelto per la nuova alleanza è “Accordo di Abramo”, padre di Isacco e Ismaele, come a simboleggiare il rinnovo dell’antica fratellanza. Libano. Sentenza per l’omicidio Hariri: alla fine ha vinto la realpolitik di Giorgio Ferrari Avvenire, 20 agosto 2020 Un solo colpevole, diverse riflessioni da fare. Non ci sono prove del coinvolgimento di Hezbollah né della Siria nel brutale assassinio di Rafiq Hariri e della sua scorta. Non c’è un mandante e non ci sono colpevoli punibili, visto che tre dei quattro imputati cui il Tribunale speciale per il Libano attribuiva la responsabilità materiale dell’attentato del giorno di San Valentino del 2005 sono stati assolti per insufficienza di prove e il quarto, Salim Ayyash, l’unico ritenuto responsabile di tutte le accuse, è rimasto come gli altri al sicuro nell’impenetrabile hezbollahland che si estende dalla periferia meridionale di Beirut fino al confine con la Galilea. La sentenza, resa nota ieri pomeriggio e per la quale si sono spesi 15 anni di indagini e quasi ottocento milioni di dollari, ha quanto di più filisteo e farisaico si potesse immaginare. Ma proprio per quel suo vacuo possibilismo (“La Siria e Hezbollah potrebbero aver avuto motivi per uccidere il premier”) ha il pregio politico di criogenizzare la vicenda amputandola di quel capro espiatorio - il Partito di Dio guidato dallo sceicco Nasrallah - che avrebbe finito per incendiare il Paese, già in ginocchio per la terribile esplosione di quindici giorni fa (casualmente, alla vigilia della sentenza…) e per il default politico ed economico. Preso alla lettera, il dispositivo del Tribunale (2.500 pagine) vorrebbe convincerci che un unico cittadino di credo sciita e di militanza hezbollah avrebbe organizzato da solo e senza alcuna copertura da parte dei meglio attrezzati servizi di intelligence siriani e iraniani un sofisticatissimo attentato alla vita del premier libanese, laddove due dei tre coimputati si sarebbero limitati a sviare le indagini. Nessuno ci crede e tutti fanno finta di crederci, anche se rimpianti, rancori e polemiche non mancheranno. Eppure dietro il sudario della sentenza di ieri s’intravede la progressiva smobilizzazione dell’influenza iraniana nella regione. Gli hezbollah, lo sappiamo bene, sono emanazione diretta di Teheran e hanno agito da sempre sia come braccio armato degli ayatollah sia come domestico cane da guardia in Libano, allestendo una sorta di anti-Stato all’interno del Paese dei Cedri. Anche la Siria faceva parte di quella mezzaluna sciita che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente, un cuneo che (grazie anche al fattivo apporto russo e alla protezione assicurata da Putin al regime di Bashar al-Assad) penetrava nel mondo sunnita annodando i propri rapporti anche con Hamas a Gaza fino a spingersi nello Yemen. Questo mosaico ora è in crisi, e lo era anche prima dell’arrivo del Covid, del default libanese e della fatale esplosione del porto di Beirut. La crisi sciita ha due facce, quella interna e quella regionale. È in crisi il mondo hezbollah in Libano e la popolarità di Nasrallah è in vistoso calo, suffragata anche dal sospetto che il materiale esplosivo stivato per anni nei magazzini portuali fosse parte integrante dell’arsenale del Partito di Dio. Ma in particolar modo è in crisi la Mezzaluna iraniana, colpita al cuore del recentissimo accordo fra Israele e gli Emirati del Golfo, che con il sodalizio già in atto con l’Arabia Saudita serra il cerchio intorno alle mire di Teheran, ridimensionandone l’influenza regionale e costringendo i vertici politici e religiosi iraniani a un totale ripensamento della propria strategia. La mancata accusa diretta a Nasrallah e agli ayatollah non cambia assolutamente nulla. Il Libano, così come la questione palestinese (fatalmente passata in secondo piano dopo le intese fra Netanyahu, gli emiri e Riad) appaiono due entità bisognose di urgente rifondazione. Il ridisegno stesso del risiko regionale lo impone. La sentenza dell’Aja, pur nella sua elusiva ambiguità, non fa che confermarlo. Inutile indignarsi dunque per questo verdetto. Era già pronto da mesi (e in questo Nasrallah e gli hezbollah avevano ragione) e chi contava su un lancinante atto d’accusa nei confronti della Siria e dei suoi manovratori iraniani peccava di troppo ottimismo, per non dire che era un illuso. Alla fine la Realpolitik ha avuto la meglio sulla giustizia. Ma questo in fondo accade quasi sempre Yemen. Detenuti torturati nelle carceri saudite ilfarosulmondo.it, 20 agosto 2020 L’organizzazione umanitaria Sam denuncia il trattamento atroce e crudele dei civili yemeniti da parte dell’Arabia Saudita, spesso per ragioni bizzarre. L’organizzazione per i diritti umani ha rivelato i dettagli della detenzione in Arabia Saudita di centinaia di reclute yemenite sul suo territorio, in condizioni disumane. Secondo l’organizzazione Sam, il regno saudita ha arrestato circa 500 reclute yemenite in una prigione di Jizan, le ha torturate con apparecchiature elettriche e ha negato loro l’accesso al mondo esterno e all’assistenza sanitaria. Tawfiq al-Hamidi, capo dell’organizzazione Sam, ha dichiarato che più di 500 dei detenuti erano reclute che in precedenza avevano combattuto contro il governo di salvezza nazionale e al servizio saudita. 28 di loro sarebbero stati arrestati semplicemente perché avevano chiesto un giorno libero durante la festa islamica di Eid al-Fitr. Al-Hamidi ha aggiunto che le loro condizioni di detenzione non sono soggette ad alcuna forma di controllo giudiziario e tra gli arrestati vi sono pescatori yemeniti detenuti per ragioni sconosciute e consegnati all’esercito saudita. L’organizzazione ha dettagliato alcuni dei casi di ex detenuti, che hanno confermato di essere stati torturati e picchiati con cavi elettrici, oltre a essere stati tenuti in celle individuali per mesi. Sam ha chiesto alle autorità saudite di rilasciare immediatamente tutti i detenuti, o di consegnarli alla polizia e alle istituzioni giudiziarie yemenite se responsabili di atti illegali. Non ci sono statistiche ufficiali sui detenuti yemeniti nelle carceri saudite, ma migliaia di mercenari ai confini sauditi hanno iniziato a ribellarsi circa a causa dei maltrattamenti da parte degli ufficiali sauditi. Molti di questi sono riusciti a attraversare il confine con lo Yemen, per sfuggire ad arresti e torture. Mali. L’imbarazzante colpo di stato di Bamako di Alberto Negri Il Manifesto, 20 agosto 2020 Golpe in Mali, fallimento atlantico. Il mondo cambia ma ce ne accorgiamo sempre con un impercettibile ritardo. Se è vero che i militari giunti al potere a Bamako hanno confermato con il loro portavoce, il colonnello Ismail Wagué, gli impegni internazionali del Paese, è evidente che sono saltati i rapporti fiduciari tra la Francia e l’ex presidente Ibrahim Boubakar Keita. D’estate quando gli altri generali fanno i golpe come in Mali i nostri politici e loro capi di stato maggiore probabilmente sonnecchiano nell’afa. Hanno appena deciso in Parlamento di inviare un contingente di 200 militari italiani in Mali per combattere jihadismo e terrorismo nell’ambito della missione Takuba nel Sahel e c’è da augurarsi che si siano accorti che il presidente Ibrahim Boubakar Keita è stato appena defenestrato, il governo dimesso e disciolta l’Assemblea parlamentare, con allegata promessa, da parte dei golpisti, di prossime elezioni. Il tutto, per ora, senza spargimento di sangue ma con grave imbarazzo occidentale. Takuba sarebbe - il condizionale è d’obbligo - la terza missione italiana in Africa dopo quella in Libia (400 militari) e in Niger (290), tutte dimostratesi finora discretamente inutili. Quella libica, con un ospedale da campo a Misurata, poi sta diventando quasi ridicola: è come se fossimo affacciati al pertugio di una finestra a osservare di sguincio Erdogan che sta impiantando la sua base militare nel porto più strategico del Paese. Il putsch di Bamako è un brutto colpo per la Francia che considera il Mali e questa regione la sua riserva di caccia, per l’Europa e l’Italia che finanziano le missioni militari, per l’Onu che qui ha una missione di peacekeeping di 12mila uomini tra forze militari e di polizia, e in generale per un Occidente che si vede sfuggire oltre a “Francafrique” un sistema un tempo imperniato sull’influenza di Parigi e sull’ordine imposto da Gheddafi fino al 2011, quando i francesi decisero, insieme ad americani e inglesi, di sbarazzarsi di un pericoloso concorrente. Le frontiere africane e del Sahel allora sono sprofondate nel deserto di oltre mille chilometri, i Paesi della regione sono precipitati nell’instabilità, il jihadismo si è impadronito con gli attori locali, come i Tuareg ribelli, delle vie commerciali e del narcotraffico, lo Stato Islamico ha sequestrato intere provincie mentre in Libia, ormai è certo, l’alleanza tra Sarraj, la Turchia e il Qatar ha portato due basi militari ad Ankara e sull’altro fonte è schierata la Russia alleata in questo caso di un Paese Nato, la Francia, nel sostegno al declinante generale Haftar. Insomma un successone per gli strateghi atlantisti. Il mondo cambia ma ce ne accorgiamo sempre con un impercettibile ritardo. Se è vero che i militari giunti al potere a Bamako hanno confermato con il loro portavoce, il colonnello Ismail Wagué, gli impegni internazionali del Paese, è evidente che sono saltati i rapporti fiduciari tra la Francia e l’ex presidente Ibrahim Boubakar Keita che era sostenuto non soltanto da Parigi ma anche dalle Nazioni Unite con la missione Minusma, al punto che il Palazzo di Vetro aveva appena pubblicato un rapporto in cui l’Onu si schierava decisamente con Keita e appoggiava la sua azione contro alcuni militari di alto rango corrotti. La Francia aveva così rafforzato la sua presenza militare nella missione Barkane condotta in cooperazione con altri cinque Paesi - Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania, Niger - aumentando gli effettivi a 5.500 uomini, una forza importante ma non ancora sufficiente - in un’area vasta e ostile tra Mali, Niger, Burkina Faso - a sconfiggere diversi gruppi jihadisti, da Al Qaida nel Maghreb, che in giugno aveva perso il suo capo, l’algerino Abdelmalek Droukdel ucciso dai francesi, allo Stato Islamico, ai Boko Haram, ai Tuareg ribelli nel Nord del Mali, essenziali per controllare le vie commerciali e del narcotraffico. Anche i più ottimisti tra gli osservatori occidentali non hanno mancato di rilevare che questa missione Barkane, affiancata adesso da Takuba e basata proprio in Mali, presenta un intricato nodo politico: gli occidentali sono pur sempre percepiti come degli impenitenti colonialisti e sta crescendo l’insofferenza da parte della popolazione del Sahel per la loro presenza anche perché i governi in carica, sostenuti dalle missioni internazionali, hanno pesanti responsabilità e nell’azione di repressione del jihadismo i loro eserciti si sono macchiati di torture e uccisioni, fino ad arrivare a indicibili accordi con i ribelli che hanno reso dilagante la corruzione e stritolato i civili nella spirale del ricatto e della paura. Ecco perché il golpe in Mali dovrebbe risvegliare la nostra attenzione. Con una domanda ovvia: chi comanda adesso a Bamako? La mente del golpe sarebbe il colonnello Malick Diaw che ha guidato l’ammutinamento nella caserma di Kati, alle porte di Bamako, la stessa dove ebbe inizio il colpo di stato che nel 2012 portò alla destituzione dell’allora presidente Dioncounda Traoré. Un altro ufficiale che ha svolto un ruolo importante è il colonnello Sadio Camara, scuola militare in Russia, secondo alcuni simpatizzante della Turchia di Erdogan, mentre il terzo golpista eminente è considerato il generale Cheick Fanta Mady Dembele, laureato all’Accademia militare francese di Saint-Cyr. Ma il regista, che tutti considerano il vero capo dell’opposizione, potrebbe essere l’imam salafita Mahamoud Dicko, il cui nome è stato scandito con entusiasmo dai manifestanti di Bamako. Carismatico religioso originario di Timbuctù, è considerato il vero mediatore con i jihadisti: è stato lui, togliendo il sostegno all’ex presidente, a determinare la crisi politica maliana. Non sarà probabilmente solo il potere militare a determinare la direzione che prenderà il Mali: ma non si ancora se per i nostri strateghi questa è una buona o una cattiva notizia. Mali. L’insuccesso militare della Francia ora minaccia la missione italiana di Vincenzo Nigro La Repubblica, 20 agosto 2020 L’invio di un contingente di 200 uomini per sostenere Parigi nella lotta ai jihadisti rischia di saltare. Il colpo di Stato in Mali era in preparazione da troppo tempo. Era visibile a occhio nudo, da lontano perché oggi non possa essere considerato uno smacco clamoroso per la diplomazia francese. Da mesi agenti segreti e agitatori turchi e russi erano in Mali, attivissimi nel sobillare contro il governo del presidente. Nel mobilitare innanzitutto i militari e le famiglie dei soldati morti nella lunga guerra contro i jihadisti che infestano quel Paese. Un insuccesso della Francia per il quale nessuno in Europa può gioire: l’Italia per prima. Perché i problemi che il Mali riversa sui Paesi del Sahel e su quelli della fascia immediatamente a Nord (Algeria e Libia) sono problemi che arriveranno sulle coste italiane. E quindi di tutta l’Europa. Dal 2014 la Francia combatte in Mali e nel Sahel una guerra contro i jihadisti di vari gruppi armati. Per offrire un aiuto a Parigi in questa battaglia solitaria, in luglio il governo Conte, nella disattenzione e nel disinteresse del Parlamento, aveva approvato la partecipazione di un contingente militare alla missione “Takuba”. È una missione europea parallela, a guida francese che affianca la missione “Barkhane”, creata nel 2014 per agire in Mali, Burkina Faso e Niger. Parigi con il sostegno degli eserciti di questi tre Stati assieme a quelli di Mauritania e Ciad, sta provando a contrastare il terrorismo jihadista, gli autonomisti tuareg armati e le potentissime bande criminali con cui i primi si alleano. I Paesi di questo “G5” sono tutte ex colonie francesi, da anni invischiate in quel rapporto, quell’intreccio di politica ed economia che è la Françafrique da anni criticata, innanzitutto da alleati di peso della Francia come la Germania. Anche per questo l’Italia aveva sempre risposto di “no”. Negli anni più volte i governi francesi avevano chiesto all’Italia un aiuto militare nel Sahel: avvenne con Hollande che chiese soldati a Renzi dopo gli attentati del Bataclan. Una delle ultime era stata la ministra delle forze armate Florence Parly, che nel 2017, nel suo primo incontro con Roberta Pinotti, le aveva detto: “Noi vi vogliamo con noi a combattere i jihadisti: ma sia chiaro, se venite lì si va a sparare, a combattere!”. L’essere stati messi di fronte ai rischi di una guerra vera e maledetta, aveva sempre convinto i governi italiani a rinunciare all’impegno. Salvo quello che è successo tra fine 2019 e inizio 2020, quando il governo Conte si è convinto che un appoggio alla Francia in Mali sarebbe stato utile anche per aiutare a stabilizzare la situazione in Libia. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, dopo il suo ultimo incontro con la ministra francese, ha dato direttive al suo Stato maggiore: gli italiani dovrebbero inviare un contingente di 200 uomini nella missione “Takuba”, con alcuni elicotteri da combattimento e per evacuazioni mediche. Assieme a contingenti di truppe speciali. Tutto questo era vero fino all’altro ieri, fino a quando il presidente Keita e il suo governo corrotto e traballante rimanevano comunque il riferimento nei contatti con il resto del mondo. Cosa diranno adesso ai francesi di “Barkhane”, agli europei di “Takuba” i nuovi capi militari che si sono presi il potere a Bamako? Sui media francesi circolano i primi segnali inevitabili: i militari francesi sono pronti a ritirarsi, ad abbandonare il Mali portandosi dietro tutti i loro civili. La partita è aperta. Sarà lunga e complicata.