Servono con urgenza istituzioni credibili di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2020 Istituzioni che “scendano dal piedistallo” e non abbiano paura di “sviluppare forme di giustizia, di potere e di relazione più orizzontali possibile”. Leggo con desolazione la nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che ha come oggetto “Aggressioni al personale, linee di intervento”. Non c’è uno straccio di riflessione su quello che sta succedendo, nelle carceri, ma anche nella società. Allora voglio provare io, volontaria in un luogo, il carcere, in cui i volontari contano pochissimo e dipendono per tutto dall’amministrazione penitenziaria, a portare qualche riflessione diversa. Sono rientrata in carcere dopo quattro mesi di assenza per la pandemia e ho trovato tante persone detenute arrabbiate con il mondo, negative in tutto, piene di recriminazioni nei confronti dei magistrati, degli operatori, dei politici. Una prima riflessione che ho fatto è che un percorso di rieducazione dovrebbe significare ripensare alla responsabilità, saper analizzare le proprie scelte, anche quelle più profondamente sbagliate, mettersi in discussione, ma alle persone detenute spesso viene richiesto soprattutto di ammettere i propri reati, di fare la “revisione critica” e di farla come si aspetta che tu la faccia chi ti ha condannato e chi poi ti fa scontare la pena. Ma come si fa a chiedere alle persone detenute di essere responsabili, quando i primi a non farlo a volte sono proprio quelli che lo pretendono da te? Oggi ci sono parti consistenti delle istituzioni, penso a certi dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, a magistrati, a esponenti delle forze dell’Ordine, che non sanno accettare una critica, che si sentono su un livello superiore, e perfino di fronte a responsabilità gravissime di molti soggetti istituzionali non sanno far altro che tirar fuori la spiegazione delle “mele marce”. Io con una parte consistente delle istituzioni oggi sono arrabbiata: sono una cittadina, esponente di quella società civile che ha deciso di entrare in carcere e lavorare con gruppi di detenuti per fare informazione e per contribuire a un compito che mi sembra fondamentale, quello di ridurre i danni prodotti dal carcere, e quindi operare perché da lì non escano persone peggiori, più pericolose per la società stessa. Avendo a che fare con persone che le Istituzioni spesso non le riconoscevano, che ritenevano di essere in guerra con lo Stato e che quelli erano i loro nemici, mi impegno ogni giorno per far ragionare le persone detenute, e farle smettere di generalizzare, attaccando intere “categorie”, i magistrati, i poliziotti, i giornalisti, e dimenticandosi che loro stesse non vogliono essere qualificate come categorie, i delinquenti, i “mafiosi”. Un detenuto della mia redazione ha provato a commentare quella circolare. Io gli ho chiesto se vuole che pubblichi il suo commento, e l’ho fatto con la consapevolezza che lo potrebbe danneggiare, perché l’istituzione carcere, che pure risponde a un Ordinamento che dice che “il trattamento penitenziario si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”, in realtà a volte accetta “a denti stretti” che il detenuto abbia un pensiero autonomo, una capacità critica. Però Giuliano le sue riflessioni le ha fatte, e secondo me, oserò fare una affermazione forte, i due nuovi Capi del DAP farebbero bene a leggerle. E a leggere anche quello che Adolfo Ceretti, criminologo, grande esperto di Giustizia riparativa, scrive nella sua autobiografia “Il diavolo mi accarezza i capelli”: “Da parte mia si trattava di accettare la scommessa di posizionarmi dentro le istituzioni, pur nella consapevolezza (…) della violenza che le istituzioni contengono ed esprimono. Io per primo abitavo questa violenza, e tuttora la abito, ed è una contraddizione che da sempre mi provoca angoscia. Ma cerco di risolverla provando a sviluppare forme di giustizia, di potere e di relazione più orizzontali possibile. Vorrei dire che questo è il modo in cui combatto la mia battaglia quotidiana, in cui gioco la scommessa che allora decisi di accettare: questo è il senso della mia ricerca, del mio lavoro: la costruzione, per quanto mi è dato, di una giustizia “mite”, che nella mia vita ha preso le forme della Giustizia riparativa, nella quale mi impegno da più di vent’anni”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Dove nasce la violenza in carcere, di Giuliano Napoli, condannato all’ergastolo all’età di 22 anni I detenuti sono violenti! Aggrediscono agenti di Polizia Penitenziaria, infermieri e chiunque si avvicini loro, come se fossero dei selvaggi senza controllo, senza nessun rispetto per le regole e per le persone che gli si avvicinano. DEVONO ESSERE PUNITI. Questo viene fuori, in estrema sintesi, dall’ultima circolare D.A.P. a firma del Capo e del Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di recente nomina, i due magistrati Antimafia Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia. Forse è un bene che i vertici della direzione di un sistema complicato come quello delle carceri rivolgano una particolare attenzione agli eventi violenti, che di tanto in tanto scuotono le coscienze dell’opinione pubblica, ma che molto spesso, forse troppo, si diffondono all’interno degli istituti di pena da Nord a Sud, senza che se ne parli davvero seriamente. Ricordiamo però anche i fatti di Santa Maria Capua Vetere e Torino (per il 2020, ma di fatti simili ce ne sono stati tanti negli anni), di questi eventi non si accenna nella circolare, ma mi sembra doveroso dare una visione più ampia del problema “violenza all’interno delle carceri” per permettere alla società civile di riflettere, e anche di provare a “immedesimarsi” in ambedue le parti, i detenuti a volte violenti e gli Agenti di polizia penitenziaria, anch’essi a volte violenti. Tuttavia far ricadere sempre e comunque le responsabilità in negativo sui detenuti non mi sembra intellettualmente e moralmente corretto, si scivolerebbe nella banalità e si rischierebbe di far credere all’opinione pubblica che dal 1975, anno in cui venne riformato il carcere con la legge N. 354 sull’ordinamento penitenziario, non si è fatto nient’altro che alimentare quella rabbia, quella frustrazione che è già insita nelle persone che sono costrette a scontare una condanna con la privazione della libertà, ammettendo di fatto che il sistema ha completamente fallito sotto ogni punto di vista, soprattutto quello rieducativo previsto dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Non dimentichiamo che la Costituzione è quella carta che è nata anche dal dolore e dalla sofferenza di persone che il carcere lo hanno vissuto sulla propria pelle, è grazie anche a quelle persone se oggi molti stati riconoscono la Costituzione Italiana come una tra le più belle al mondo, vi invito ad ascoltare i monologhi sulla Costituzione di Roberto Benigni, è sempre molto importante comprendere di cosa si parla prima di dare giudizi frettolosi. Ma a proposito della circolare, di seguito cercherò di spiegare dei fatti che ho visto, delle situazioni che ho vissuto e non sentito dire, come per esempio: la disperata corsa ad avere un lavoro nei vari istituti che ho conosciuto. Ci sono stati innumerevoli eventi violenti di persone detenute che chiedevano per mesi e mesi di poter avere un’occupazione, ma che sono rimaste inascoltate, senza risposte, poi dopo mesi e mesi di richieste, domandine, colloqui e molto altro, SENZA OTTENERE RISPOSTE, si sono rese protagoniste di azioni violente prima contro se stessi, con atti di autolesionismo, dopo con atteggiamenti violenti nei confronti del prossimo (agenti e chiunque rappresenti una istituzione). Il risultato che hanno spesso ottenuto dopo tutta questa prassi oramai stabilizzata nel sistema? Il LAVORO. Altre situazioni simili si vengono a creare, per esempio, quando un detenuto sta male e a volte i medici non arrivano, allora a questo punto il detenuto spesso inizia a lamentarsi con forza, inutilmente poiché può anche capitare che qualche medico sia convinto che finge di star male, allora inizia a fare casino, distruggere la cella, rivolgersi con disprezzo nei confronti degli agenti per poi finire con l’ennesima aggressione, verbale o fisica che sia sempre di aggressione si tratta, ma dopo tutto questo il risultato qual è? Tutte le visite o le pastiglie di cui ha bisogno gli arrivano. Un’altra situazione che può venirsi a creare e che ho visto molto spesso riguarda le telefonate, al detenuto vengono richieste innumerevoli documentazioni per essere autorizzato a sentire i propri cari, a volte impossibili da reperire, e così inizia il solito tran tran, richieste, domandine colloqui inutili per poi arrivare alle solite: discussioni altrettanto inutili, il tono di voce aumenta, gli animi si scaldano il detenuto dà in escandescenze, si taglia a volte, altre aggredisce ma subito dopo per calmarlo cosa si fa? Gli si dà la telefonata ed è tutto risolto. A questo punto, dopo decenni che i detenuti hanno capito che è inutile continuare a fare richieste spesso inascoltate, dare spiegazioni che non vengono prese in considerazione, fare colloqui con chi non ha interesse per i loro problemi, si sono fatti “furbi” vanno subito al punto perché hanno visto che spesso l’unico modo per essere ascoltati è usare la violenza, dare in escandescenze, è anche per questo che nell’ultimo decennio i casi di violenza e autolesionismo sono aumentati. E non solo perché chi sta in carcere è CATTIVO E VIOLENTO A PRESCINDERE. Spesso sento parlare di rieducazione, comportamento corretto, buona condotta e quant’altro, ma i ristretti non ci capiscono poi così tanto di questi discorsi, i loro problemi sono pratici e le soluzioni non possono essere affidate alla burocrazia, per il motivo che se il detenuto sta male, adesso, perché non può sentire la famiglia, perché non lavora e non può mantenersi e allo stesso tempo non riesce a dormire e sente il bisogno di ricorrere a psicofarmaci, tutto questo amplificato da quella rabbia e frustrazione a cui accennavo sopra, come si può pensare che una situazione del genere possa essere gestita con superficialità come capita molto spesso? Come si può pensare che l’indifferenza sia un bene? Come si può pensare che l’utilizzo di sistemi meramente repressivi, come il ricorso a sanzioni disciplinari sistematiche, sia la soluzione? È vero che la violenza deve essere combattuta e non si può tollerare, ma se si fosse agito prima e con gli strumenti di cui l’amministrazione penitenziaria già dispone nel suo Ordinamento da oltre 40 anni, siamo davvero sicuri che oggi saremmo a parlare di un sistema dopo anni e anni ancora fossilizzato sulla repressione anche nell’esecuzione della pena, dopo aver arrestato, processato, condannato e imprigionato, mentre i paesi del Nord Europa parlano di mediazione, riparazione, inclusione, lavoro (a 360°) e si va verso la sperimentazione di pene completamente diverse da quelle che ancora oggi sono presenti nel nostro sistema? Penso che anche in Italia l’esecuzione penale dovrebbe cercare strumenti più intelligenti di quelli esclusivamente repressivi, la repressione non credo si concili con la rieducazione. La ricetta di Antigone per il Dap: tutela della dignità e zero violenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2020 Il documento con i suggerimenti dell’Associazione per un nuovo modello custodiale. L’associazione: “è interesse di tutti che il carcere non sia una fabbrica di criminali, ma un luogo di legalità riproduttivo della vita ordinaria”. La dignità umana prima di tutto. Mentre il Dap, con l’ausilio dei sindacati di polizia penitenziaria, sta elaborando un “nuovo modello custodiale” in carcere, l’associazione Antigone ha inviato un suo contributo ai vertici dell’amministrazione penitenziaria affinché si metta al centro la Costituzione e i principi delle carte internazionali. “È interesse di tutti che il carcere non sia una fabbrica di criminali, ma un luogo di legalità riproduttivo della vita ordinaria”, si legge nel documento di Antigone. Sottolinea che la pena non deve mai tramutarsi in vendetta e che “il rispetto della dignità umana è la pre-condizione di ogni modello organizzativo della vita carceraria”. Il miglior modo per valorizzare il difficile, faticoso e importante lavoro di coloro che hanno compiti di sorveglianza nelle carceri consiste - sempre secondo Antigone - nell’affrancarli da una logica meramente custodiale e costruire professionalità integrate, multi-tasking e capaci di affrontare situazioni complesse, con competenze sia operative e di sicurezza interna, ma anche psicologiche, sociali, educative, linguistiche. In questo modo il personale di Polizia penitenziaria “sarebbe ben più gratificato rispetto a opzioni meramente di sorveglianza statica, legata ad aperture e chiusure di celle”, sottolinea Antigone nel documento. Prima di tutto, Antigone chiede l’applicazione della cosiddetta “sorveglianza dinamica” in tutti gli istituti. Quest’ultima, legata al fatto che i detenuti devono stare il meno possibile dentro una cella, prevede un sistema più efficace per assicurare l’ordine all’interno degli istituti, senza ostacolare le attività trattamentali, fondato sulla semplificazione, la razionalizzazione, la qualificazione dei carichi di lavoro, la distinzione dei livelli di competenza, la condivisione dei flussi informativi tra le diverse figure professionali. Ciò presuppone un personale - non solo civile ma anche di Polizia, che ha la possibilità di trascorrere più tempo con i detenuti - attento, che interagisca in maniera positiva con i detenuti e li coinvolga in attività costruttive al fine di anticipare e prevenire i problemi prima che essi si presentino in forme talvolta drammatiche. L’interazione con i detenuti e lo sviluppo di un rapporto positivo aiuta il personale a conoscere i detenuti, le dinamiche dell’istituto e ne aumenta la consapevolezza di quanto avviene al suo interno. “In questa ottica - spiega Antigone - il rapporto fra detenuti e operatori è basato sulla correttezza ed è orientato al raggiungimento di un senso di benessere tra i detenuti, i quali devono essere impegnati a svolgere attività costruttive e mirate che contribuiscano al loro futuro reinserimento nella società”. Ovviamente, come ribadisce Antigone, la vita in carcere - fuori dalle proprie celle - deve essere ricca di attività che abbiano un senso. Purtroppo non è così. I detenuti che lavorano (25,8% dei presenti alla fine del 2019) lo fanno in gran parte per l’Amministrazione penitenziaria, svolgendo prevalentemente attività assai poco professionalizzanti. Solo l’1,5% dei detenuti lavora in carcere per datori di lavoro esterni. Nei 98 istituti visitati da Antigone nel 2019, solo il 6,2% dei detenuti era stato coinvolto in percorsi di formazione professionale e in 34 (il 35%) degli istituti visitati non si era svolto alcun corso. C’è anche il discorso delle attività per promuovere il benessere fisico come prevedono le regole europee penitenziarie. Ma nel 34,7% delle carceri visitate da Antigone nel 2019 non a tutti i detenuti era garantito l’accesso ad una palestra almeno una volta alla settimana mentre nel 30,6% dei casi non tutti avevano accesso almeno una volta alla settimana ad un campo sportivo. L’altro punto dolente che Antigone evidenzia nel documento inviato al Dap riguarda i provvedimenti disciplinari come i trasferimenti e l’isolamento. Secondo l’associazione “il carcere non si governa con la mera disciplina ma con la ragionevolezza, con il dialogo, con una proposta di modello inclusivo”. L’uso della sorveglianza particolare, così come l’applicazione dell’articolo 32 del Regolamento di esecuzione, secondo Antigone andrebbero usati con estrema parsimonia, se non del tutto eliminati. “Il trattamento individualizzato - spiega l’associazione - non deve consistere in scorciatoie custodiali che alimentano tensioni. I casi difficili vanno trattati con l’ausilio di una équipe di operatori e non invece esclusivamente reclusi in condizioni di sostanziale isolamento”. Ugualmente, l’uso della forza in carcere va assolutamente residualizzato e deve seguire protocolli standardizzati. Va rotto in carcere il circolo vizioso della violenza, così come mai vanno usati i trasferimenti a titolo punitivo. Antigone precisa che in molti Istituti, grazie a direttori e comandanti di reparto, si respira un’aria di serenità e normalità. Ed è questa che deve essere la regola. Il Garante nazionale incontra i vertici delle Forze di Polizia di Dario Pasquini* Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2020 A seguito di gravi fatti che hanno coinvolto alcuni operatori di diverse Forze di polizia, il Garante nazionale ha incontrato i vertici della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Polizia penitenziaria per esprimere la preoccupazione per il rischio del diffondersi di una cultura della contrapposizione che non potrebbe che portare a una lacerazione sociale, una lacerazione di cui il Paese nel suo complesso finirebbe per essere vittima. Da qui l’esigenza, espressa dal Garante e condivisa dai responsabili delle Forze di Polizia, di agire insieme per una formazione e una crescita della cultura dei diritti degli operatori capace di dare corpo e sostanza a un agire rispettoso dei principi della Costituzione, anche in condizioni difficili. Il Garante nazionale ringrazia per la loro disponibilità gli interlocutori di così alto livello incontrati in questi giorni e assicura il proprio impegno a cooperare e vigilare. Dichiarazione del Garante nazionale Il Garante nazionale ha osservato con viva preoccupazione le drammatiche vicende che hanno gravemente coinvolto taluni operatori delle Forze di Polizia. La preoccupazione discende dal rischio che tali vicende ingenerino una cultura della contrapposizione che, nell’impropria generalizzazione che essa comporta, può costituire un elemento di lacerazione nel contesto sociale - una lacerazione di cui il Paese nel suo complesso finirebbe per essere vittima. Sono venute alla luce ripetute segnalazioni di episodi di violenza nell’Istituto penitenziario di Torino, già riportate al Garante nazionale nel passato e che avevano indotto il Garante stesso a produrre formale denuncia alla Procura della Repubblica del capoluogo piemontese. Sono episodi su cui doverosamente ha indagato la magistratura inquirente e su cui si pronunceranno gli organi deputati. Tuttavia, proprio le carte dell’indagine hanno evidenziato anche una cultura di alcuni settori, altrettanto grave proprio perché espressione di persone che indossano una divisa. Tale aspetto pone seri interrogativi sulla capacità e sulla volontà di intervento da parte di chi aveva il compito di vigilare e di indirizzare, al contrario, verso una cultura della tutela di quanto la Costituzione e l’ordinamento normativo del nostro Paese prevedono. Analoga devianza culturale è emersa dalle indagini avviate dalla Procura della Repubblica nei confronti del piccolo ma destabilizzante gruppo di carabinieri di Piacenza, anch’esso portatore - al di là dei reati penali che è compito della magistratura accertare - di una visione del proprio ruolo e dei poteri e degli obblighi che da esso discendono in pieno contrasto con la tradizione dell’Arma e con i valori su cui la Repubblica si fonda e il cui rispetto affida proprio alle Forze dell’ordine. Altri episodi riferiti in questi giorni e relativi a un fermo a Roma, per ora affidati all’iniziale accertamento di quanto riportato, chiamano in causa alcuni agenti della Polizia di Stato e portano nuovamente all’attenzione quanto il Garante ha recentemente segnalato alla procura di Agrigento circa la concezione di taluni del proprio ruolo nei confronti di persone fermate o ristrette: persone affidate al loro controllo, responsabilità e tutela. Ancora una volta, anche in questi casi, non è compito del Garante occuparsi della rilevanza penale degli episodi, quanto segnalare la cultura che essi esprimono. Sono episodi differenti che chiamano in campo settori diversi e che certamente, pur non rappresentando la complessiva cultura delle Forze di appartenenza dei singoli, pongono interrogativi al Garante nazionale che per compito istituzionale collabora con tutte le Forze di Polizia in una prospettiva di cooperazione e critica propria del mandato. Un ruolo che certamente è riconosciuto dalle Forze stesse come contributo di valore nel proprio operare. La presenza del Garante nazionale nella formazione del personale dei diversi Corpi di Polizia se, da un lato, è testimonianza di tale cooperazione, dall’altro pone anche al Garante stesso interrogativi su come reprimere nel concreto tali atteggiamenti attraverso mutamenti culturali che agiscano ancor prima che essi possano svilupparsi in atti di grave rilevanza disciplinare e penale. Come è stato condiviso da tutti gli interlocutori, non è tollerabile il linguaggio che si è visto emergere da carte che riportano intercettazioni di colloqui di appartenenti a Forze dell’ordine; non è ammissibile che le persone, una volta riportate sotto il controllo di chi esercita l’autorità in nome della collettività, possano subire forme di violenza; né è accettabile qualsiasi indulgenza o asserita inconsapevolezza perché finirebbe implicitamente per proiettare quell’innegabile messaggio di impunità che è il vero germe distruttivo delle Forze dell’ordine in una democrazia. A partire da questi punti, il Garante nazionale ha voluto incontrare i vertici della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia penitenziaria e della Guardia di finanza per offrire il proprio contributo a una riflessione su tali temi e a un rafforzamento di un’azione comune per la costruzione di un impianto culturale che isoli tali comportamenti. Per tale motivo, il Presidente del Garante nazionale, Mauro Palma, insieme a una delle due componenti del Collegio, Daniela de Robert, ha incontrato il Prefetto Franco Gabrielli, il Comandante generale Giovanni Nistri, il Comandante generale Giuseppe Zafarana e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia. Al centro degli incontri la condivisione di tre termini che rischiano per taluni di costituire dei costruttori culturali negativi e che richiedono quindi particolare attenzione nelle fasi di formazione iniziale e in itinere. La prima parola erroneamente declinata riguarda la produttività della propria azione, interpretata come quantità di operazioni portate avanti, quale indicatore della positività del proprio ruolo e della speranza di carriera. La seconda parola è inimicizia, qualora essa finisca per connotare la relazione tra chi esercita la funzione di repressione del reato e il relativo autore, non più visto come responsabile di quanto commesso e quindi necessario destinatario dell’azione repressiva e sanzionatoria, ma come nemico da annientare. La terza parola riguarda il rischio di implicita impunità che può nascondersi dietro un male interpretato spirito di appartenenza a un Corpo, non più visto come espressione dei suoi valori, ma come velo difensivo anche di chi tali valori ha offeso. Il Garante nazionale ha preso atto, con soddisfazione e certamente senza stupore, della volontà di tutti i vertici delle Forze di Polizia di proseguire nella collaborazione, ragionando insieme su come rafforzare gli esistenti protocolli di intesa stipulati già nel passato con il Garante, nell’ottica della costruzione di una cultura che a ogni livello sviluppi e dia concretezza a quei valori di cui ciascuna Forza è portatrice. La Costituzione del proprio Corpo come parte civile in processi che si potranno tenere per gli episodi oggi oggetto di cronaca - così come già fatto dall’Arma dei Carabinieri in un processo in corso - sarà, a parere del Garante nazionale, un elemento tangibile di volontà in tale direzione e darà concretezza a quell’impegno di cui la partecipazione del Garante nazionale alla formazione è espressione. Il Garante nazionale ringrazia per la loro disponibilità gli interlocutori di così alto livello di questi giorni e assicura il proprio impegno a cooperare e vigilare. L’appello del Partito Radicale ai parlamentari: “A Ferragosto visitate le carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2020 Anche quest’anno, come da buona tradizione pannelliana, il Partito Radicale promuove l’iniziativa di ferragosto. Ovvero visitare le carceri nel periodo in cui, per i detenuti, è decisamente buio rispetto a chi vive nel mondo libero. Ma quest’anno non sarà purtroppo uguale agli altri. A causa del Covid-19, il ferragosto in carcere è stato autorizzato in forma simbolica in soli cinque istituti penitenziari. Per questo motivo, il Partito Radicale fa appello ai parlamentari di tutti gli schieramenti affinché visitino - loro lo possono fare - tutte le carceri italiane. Rita Bernardini del partito radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino è più esplicita. “Rivolgiamo un appello - ribadisce la dirigente radicale a tutti i parlamentari (che non hanno bisogno di autorizzazione per entrare in carcere) di visitarli tutti per verificare le attuali condizioni di detenzione che, a mio avviso, sono addirittura peggiori del passato”. È accaduto che nei giorni scorsi si è tenuto un incontro tra una delegazione del Partito Radicale e il vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Roberto Tartaglia. In quella sede il Partito ha chiesto di poter visitare le carceri e la comunità penitenziaria nel periodo di ferragosto. Ma causa emergenza sanitaria da Covid- 19, tuttora in vigore e in procinto di essere rinnovata fino ad ottobre, è stato autorizzato a visitare solamente 5 istituti dei 190 presenti sul territorio nazionale e con delegazioni formate al massimo da due persone. “Prendiamo atto - scrive in una nota il Partito Radicale - di questa decisione e vogliamo considerare questa risposta dei nuovi vertici del Dap un atto simbolico volto alla ripresa - che riteniamo prioritaria e urgente - di tutte le attività interne ed esterne previste dall’ordinamento penitenziario e da un’esecuzione penale improntata ai principi costituzionali. Non v’è chi non veda, infatti, che l’emergenza sanitaria si è solo sovrapposta ad una gravissima emergenza penitenziaria, che dura da tempo, che nel tempo si è andata aggravando e che ha sacrificato i diritti fondamentali della persona detenuta”. Il Partito si augura pertanto che - come è pure successo negli anni passati - ci sia una mobilitazione generale dei parlamentari che li veda presenti e impegnati in tutta Italia e in tutti gli istituti. “Urgono atti e iniziative concrete per riportare il carcere nell’alveo della Costituzione - scrive sempre il Partito Radicale nell’appello - per ridare a chi ha sbagliato il diritto ad emendarsi con dignità e a chi all’interno del carcere presta la propria opera di poterlo fare in un luogo adeguato sia strutturalmente sia dal punto di vista degli organici oggi del tutto carenti sotto tutti i profili, in particolare quelli destinati al percorso riabilitativo della persona detenuta”. Finalmente una spallata all’inutile totem dell’abuso d’ufficio di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 1 agosto 2020 Probabilmente anche questa è una conseguenza del Covid-19 e della grave crisi economica connessa: l’articolo 23 del decreto legge 76 del 16 luglio 2020, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, incide sul delitto di abuso di ufficio, di cui all’articolo 323 del codice penale. Ma i problemi che da decenni sono collegati a tale reato sono complessi e difficili da superare con riforme parziali, che peraltro riguardano prevalentemente il versante delle responsabilità dei pubblici agenti e non incidono, su un piano più generale, sul funzionamento e sull’efficienza della Pubblica Amministrazione. Basti qui osservare che già non convinceva l’originaria formulazione dell’articolo 323 c. p., dovuta al legislatore del 1930, che aveva costruito l’abuso di ufficio “in casi non preveduti specificamente dalla legge” come una sorta di norma di chiusura del sistema, peraltro già di per sé abbastanza indeterminato e generico, in virtù della coesistente presenza del peculato per distrazione (articolo 314 c. p.) e, soprattutto, del delitto di interesse privato in atti di ufficio (articolo 324 c. p.). Ma non era soddisfacente neppure il testo dovuto alla legge 86 del 1990, la quale, tra l’altro, sostituì integralmente l’articolo 323 c. p.; e neppure condivisibile era la versione offerta dalla legge 234 del 1997, con la quale l’articolo 323 c. p. fu nuovamente modificato del tutto. Quanto all’intervento legato alla legge 190 del 2012 (la cosiddetta legge Severino), si è trattato dell’ormai consueto rilancio in termini di severità della cornice edittale. Tutte le riforme sin qui intervenute non hanno dato i frutti sperati: quelli, soprattutto, di conferire maggiore precisione e determinatezza ad una fattispecie vaga e produttiva di procedimenti penali spesso finiti nel nulla. I dati diffusi in questi giorni segnalano la pendenza di circa 7.000 procedimenti penali negli anni 2016 e 2017, a fronte di (soltanto) un centinaio di sentenze definitive di condanna. Allo stesso tempo, dobbiamo rilevare che il legislatore si è ripetutamente impegnato (con esiti infausti) a rimaneggiare l’abuso di ufficio, invece che operare in profondità, riformando la Pubblica Amministrazione, rendendola veramente efficiente e istituendo seri controlli interni. Purtroppo, come segnalato in un volume appena pubblicato, curato dal sottoscritto e da Antonella Marandola, dedicato ai Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, sono decenni che più che l’efficienza dell’azione dell’apparato pubblico, si è inteso porre al centro dell’attenzione del legislatore la questione della “lotta” o del “contrasto” alla corruzione e al malaffare, ritenuti - certo, non a torto - problemi gravissimi del nostro Paese, soprattutto alla luce della cosiddetta corruzione percepita. Almeno dai tempi di “tangentopoli”, all’inizio degli anni ‘ 90 del secolo scorso, con conseguente affermazione della cosiddetta questione morale, passando dalla legge Severino del 2012 e, soprattutto, dalla “spazza-corrotti” (legge 9.1.2019, n. 3), si è attuata una feroce “caccia all’uomo”, e al funzionario infedele, affidando al controllo della magistratura penale un ruolo ed una funzione che ha in ben pochi Paesi. Tale situazione ha diffuso la paura nei funzionari pubblici e, nel segno della fuga dalla firma e da ogni decisione, ha condotto alla “burocrazia difensiva” o “del non fare”, che ha contribuito (non da sola…) a frenare il Paese e la sua economia. Ora il Governo, con il decreto legge 76 del 16 luglio 2020, ha inteso cambiare radicalmente rotta: secondo il comunicato stampa diffuso subito dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 7 luglio e la stessa conferenza stampa del Presidente del Consiglio, si vogliono semplificare i procedimenti amministrativi, eliminare e velocizzare gli adempimenti burocratici, digitalizzare la pubblica amministrazione, sostenere l’economia verde e l’attività di impresa. A tal fine, per quel che qui rileva, con il d. l. 76 si agisce “a forbice” sullo specifico tema della responsabilità dei pubblici agenti, sia sotto il profilo della responsabilità erariale, che sotto quello della responsabilità penale. In particolare, limitandoci alla seconda, con l’articolo 23 del d. l. 76, all’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole “di norme di legge o di regolamento,” sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Dunque, rimanendo nel resto invariata la norma, non è più sufficiente - rispetto al passato - che il pubblico funzionario violi qualsiasi norma di legge o di regolamento. Occorre che la violazione concerna leggi o atti aventi forza di legge: pertanto, “norme primarie” e non più anche il regolamento. Questa modifica, se permarrà in sede di conversione del decreto legge, ha una portata di grande respiro, tagliando di fatto la punibilità di un numero elevatissimo di condotte oggi punibili. Ed infatti, chi ritiene ancora che il controllo della magistratura sulla pubblica amministrazione debba avere un carattere esteso e diffuso auspica che detta limitazione venga meno in sede di conversione del decreto. Inoltre, il d. l. 76/ 2020 richiede che la violazione sia (non più di qualsiasi violazione di una norma, ma) “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”. Anche questa innovazione restringe notevolmente la sfera del penalmente rilevante, poiché non sembrerebbe potersi più fare riferimento - come fa l’attuale giurisprudenza - alla violazione dell’articolo 97 della Costituzione (con il generico riferimento al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione, che tutto può fagocitare e comprendere), ma occorrerà che le Procure contestino singole condotte espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge. Infine, il d. l. 76/ 2020 chiarisce che occorre la violazione di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Dunque, se il pubblico agente esercita un potere discrezionale, non dovrebbe essere possibile farne derivare una responsabilità penale, almeno per il delitto di abuso di ufficio. Anche questa modifica (che pure desta talune perplessità) potrebbe avere una portata notevolissima, soprattutto se si considerano gli orientamenti giurisprudenziali che fanno riferimento all’eccesso di potere, letto nella luce dello sviamento di potere (cfr. Cass. Sez. Un. 29.9.2011, n. 155, Rossi, in C.E.D. 251498). L’impressione, dunque, a prima lettura, è che la nuova versione della norma sull’abuso di ufficio tenti (non sempre correttamente e quasi disperatamente…) di restringere la sfera di intervento della legge penale sull’azione amministrativa. Rimangono, peraltro, ulteriori profili critici, quali - ad esempio - quello legato alla punizione dell’inosservanza di regole di condotta puramente formali o di natura meramente procedimentale, benché fissate dalla legge o da atti aventi forza di legge e prive di margini di discrezionalità. Si potrebbe, allora, specificare ancora che le regole violate dovrebbero essere collegate alle funzioni e al servizio esercitato o riguardare la disciplina degli interessi affidati alla tutela della pubblica amministrazione. Ma, forse, più radicalmente, si potrebbe immaginare una abrogazione secca dell’articolo 323 c. p., non mancando - nel ricco panorama dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione - altre norme incriminatrici, più specifiche e severe, che potrebbero punire singole condotte meritevoli di repressione penale. E, al contempo, si dovrebbe produrre una riforma organica della Pubblica Amministrazione, troppo importante nei complessivi equilibri democratici per essere vista (solo) come “il nemico” da contrastare e punire. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Magistratura democratica contro Davigo: “Da pensionato non può restare al Csm” di Liana Milella La Repubblica, 1 agosto 2020 Con un durissimo editoriale di Nello Rossi, direttore della rivista online Questione Giustizia, la corrente di sinistra dei giudici si schiera contro il leader di Autonomia e indipendenza. Una toga da sempre rossa, che per giunta si chiama Nello Rossi, contro il collega più sarcastico d’Italia, Piercamillo Davigo. Un ex procuratore aggiunto di Roma, già in pensione, contro l’ex pm di Mani pulite. Ma soprattutto una colonna di Magistratura democratica, le toghe rosse appunto, contro il fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, contro il collega che ha sbancato il botteghino dei voti quando si è candidato prima all’Anm, era marzo 2016 e prese 1.041 voti, e poi al Csm, 2.522 voti a luglio 2018. Ma l’orologio del tempo, secondo Rossi, sarebbe destinato a segnare proprio la sua permanenza a palazzo dei Marescialli. Perché Davigo, a Candia Lomellina, è nato il 20 ottobre 1950. Settant’anni dopo, secondo le sciagurate regole sull’anzianità volute e fate votare dall’ex premier Renzi, il 20 ottobre di quest’anno va in pensione. E secondo Rossi deve anche lasciare il Csm. Lui, Davigo, ha sempre sostenuto il contrario. Ma adesso il lungo editoriale di Rossi aprirà un dibattito all’interno del Csm e una controversia tra le due correnti - Md e A&I - che in questi mesi più volte si sono trovate assieme su nomine e scelte da prendere. Un fatto è certo: un articolo da 20mila battute, che apre la storica rivista di Md, sarà destinato a pesare sull’affaire Davigo. Appena reduce, peraltro, dall’aver vinto la battaglia contro Palamara sulla richiesta di astensione nella sezione disciplinare che giudicherà l’ex pm di Roma sotto accusa a Perugia per corruzione. “Sta per nascere un caso Davigo al Csm?” - È sotto questo titolo che Rossi apre la querelle su Davigo. Che si apre con due lunghi interrogativi e si conclude con una sentenza. Garbato certo, ma pur sempre un benservito. Ecco le domande: “Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?” E ancora: “L’ibrido di un ‘non più magistrato’ che continua a esercitare le funzioni di componente togato dell’organo di governo autonomo della magistratura non risulterebbe giuridicamente insostenibile e foriero di squilibri e contraddizioni nella vita dell’istituzione consiliare?”. Dopo otto cartelle, affollate di riferimenti giuridici, la risposta è netta: “Si tratta di prendere atto che tra membri togati e membri laici non esiste lo spazio per il tertium genus dell’eletto non più magistrato, metà pensionato e metà consigliere, ormai svincolato dalle regole applicabili ai magistrati in servizio ma investito dei compiti propri del governo autonomo della magistratura”. Con un contentino per l’ex pm di Milano che suona così: “Non sono in discussione né il rispetto per la persona di Davigo, per la sua storia professionale ed umana e per il consenso raccolto tra i magistrati, né il dissenso netto, spesso nettissimo, verso molte delle sue posizioni sui temi della giustizia penale e dell’assetto del giudiziario. Nonostante la ferocia dei tempi ci ostiniamo a credere che rispetto personale e dissenso ideale possano e debbano stare insieme. Ma la loro convivenza non può che essere assicurata dall’osservanza dei principi e delle regole propri dell’amministrazione della giurisdizione”. Perché Davigo dovrebbe lasciare - L’assunto di Nello Rossi è netto: “Chi è eletto al Consiglio da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio”. A suo dire ciò deriva dalla legge del 24 marzo 1958 (la 195) che ha istituito il Csm, in cui si legge che “non sono eleggibili i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni, non esercitino funzioni giudiziarie”. Legge che fissa la distinzione, per la provenienza delle 16 toghe (diventeranno 20 con la prossima legge sul Csm), tra magistrati “che esercitano le funzioni” di legittimità, di pubblico ministero e di giudice presso gli uffici di merito”. Chiosa Rossi: “Il possesso - effettivo ed attuale - dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è dunque un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali che regolano la provvista dei membri togati del Consiglio Superiore”. Rossi prosegue con dubbi che in realtà presenta come certezze: “Ora è possibile, o meglio è concepibile, che il venir meno dello status che (solo) ha consentito l’elezione al Consiglio del componente togato sia considerato irrilevante ai fini della permanenza in carica di chi non è più magistrato? Ed è concepibile che - una volta cessata l’appartenenza all’ordine giudiziario su cui si radica l’elettorato passivo e su cui poggia la rappresentatività stessa del componente togato - chi non appartiene più alla magistratura possa continuare ad esercitare le funzioni di amministrazione della giurisdizione e quelle di giudice disciplinare?”. È evidente che la risposta è no. Tant’è che la conclusione di Rossi è netta: “La cessazione dello status di magistrato - sia essa l’effetto di una scelta volontaria, come nel caso delle dimissioni dalla magistratura, di una situazione di natura oggettiva come avviene per il collocamento in quiescenza o di una sentenza penale di condanna - determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore”. Davigo e il caso Palamara - Ma, secondo Rossi, il pensionamento di Davigo s’intreccerebbe anche con il caso Palamara, sotto giudizio disciplinare al Csm, e con Davigo tra i suoi “giudici” visto che la sezione disciplinare ha rigettato la richiesta di una sua astensione presentata dallo stesso Palamara. Un “non più magistrato ma ancora consigliere togato”, si chiede Rossi, potrebbe giudicarlo ed emettere una sentenza? La risposta del direttore di Questione giustizia è un “no” bello tondo. Perché, scrive Rossi, “un ex magistrato - e tale è, a tutti gli effetti, chi viene collocato in quiescenza - non è più soggetto alla giurisdizione disciplinare. La giustizia disciplinare può essere esercitata esclusivamente nei confronti dei magistrati in servizio, siano essi esercenti funzioni giudiziarie o collocati temporaneamente fuori ruolo”. E quindi, conclude Rossi, “il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio, sia rispetto alla generalità dei magistrati”. I quali, se fanno parte del Csm, “incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”. Ma Davigo, ormai in pensione, non sarebbe più “processabile” disciplinarmente. Caserma di Piacenza, perché i Pm non hanno vigilato? di Alberto Cisterna Il Dubbio, 1 agosto 2020 Sui fatti di Piacenza si sono spese molte parole in questi giorni. Il caso è grave e suscita per forza allarme e indignazione. Si è molto discusso dei limiti della catena di comando che, dentro l’Arma, avrebbe dovuto vigilare e sorvegliare i comportamenti dei militari della Stazione Levante. Certo, si è detto, in fondo è solo una delle 4.700 caserme dislocate in tutta Italia, ma è anche l’unica a essere posta sotto sequestro dalla magistratura. Il sequestro non è cosa meno grave degli arresti di tanti carabinieri e nell’immaginario almanacco dei brutti ricordi di piazza Ungheria questa misura avrà un posto a parte. Tanto brucia la ferita che l’Arma ha piazzato una stazione mobile davanti l’ingresso della Levante che appare in tutti i filmati, quasi a stizzosa replica della propria presenza in quel quartiere. Le manette non sono, purtroppo, un precedente nei ranghi della Benemerita, ma il sequestro di una caserma, ossia di un plesso di polizia e al contempo di un presidio militare (l’Arma è dal 2000 la quarta forza armata della Difesa), è da annotare con la penna rossa e blu per il vertice dell’Arma. Tra le tante cose che si sono dette in questi giorni c’è anche l’idea che i carabinieri della Levante si siano dati un gran daffare per portare a segno dozzine e dozzine di arresti, sequestrare droga, acquisire informatori, e così conquistare benemerenze ed encomi. Qualche ufficiale, si dice, a dispetto di ogni prudenza e cautela, avrebbe persino incitato i propri uomini alle manette facili per avere anche lui un qualche ritorno nella propria carriera. Su questo, a occhio e croce, tutti sembrano d’accordo, anche quanti hanno gridato al linciaggio sui carabinieri e hanno invitato a moderazione. Se non fosse. Se non fosse per un sottile e insidioso dubbio che traversa la mente e merita una risposta. C’è legittimamente da chiedersi se della cifra anomala di tutti questi arresti e di tutti questi sequestri la Procura della Repubblica di Piacenza si fosse mai accorta. Se, negli anni, la magistratura inquirente si fosse mai insospettita per l’insolita (in una piccola città) frenetica attività investigativa di una minuscola stazione a detrimento dei reparti dell’Arma delegati a questo genere d’indagini. Si badi bene: non si parla del valoroso procuratore, giunto in città da pochissimo tempo e che sta gestendo la vicenda con grande professionalità; e neppure di questa o di quella toga. Sia chiaro. La corporazione è suscettibile ed è bene non irritarla. C’è piuttosto da chiedersi se di questo via vai di manette si fosse reso conto l’anonimo e impersonale ufficio del pubblico ministero; quello cui la polizia giudiziaria presenta ogni giorno la lista degli arrestati e dei fermati per ottenere la convalida del provvedimento di polizia; il pubblico ministero che la polizia giudiziaria chiama anche di notte per avere istruzioni su come procedere nella flagranza di un reato; il pubblico ministero cui compete disporre la liberazione immediata dell’arrestato se ritiene che non sussistano elementi che ne giustifichino la restrizione personale; il pubblico ministero che deve vigilare sull’operato della polizia giudiziaria e verificare che non vengano commessi arresti illegali (che sono un reato grave); il pubblico ministero che (come nel caso Cucchi) dovrebbe accorgersi se una persona in manette è stata malmenata o, peggio ancora, torturata; il pubblico ministero cui avrebbero dovuto rivolgersi fiduciose le vittime di tanti soprusi a Piacenza e non lo hanno fatto. Ecco, in tutto questo mattatoio processuale e non solo, in questa pubblicizzata Gomorra a parti invertite, c’è da chiedersi perché l’indagine sia stata avviata, come pare, praticamente solo per le dichiarazioni rese da un altro carabiniere. Tenere totalmente all’oscuro l’Arma piacentina delle indagini in corso è stata certamente una scelta dolorosa e difficile. La decapitazione dei vertici dei carabinieri in città è, anche, la risposta a questa vistosa mancanza di fiducia e un prezzo duro per un’istituzione che serve la Nazione da oltre due secoli. Però esiste un’altra, non meno potente ed efficiente, catena di comando ed è quella che vede al suo vertice il pubblico ministero che, nel codice di procedura penale, esercita funzioni e compiti di vigilanza ben più cogenti e penetranti di quelli di un ufficiale dell’Arma. Ecco, ed è solo una domanda, che sarebbe indispensabile che si faccia chiarezza anche sull’altra metà della luna, su quella zona rimasta in ombra solo perché è ora intervenuta con la dovuta asprezza e severità dinanzi a una situazione difficile e grave come quella della Levante. Tuttavia, sarà facile per gli indagati sostenere che tutti gli arresti sono stati convalidati, che il pubblico ministero non mai hai eccepito o sollevato dubbi di sorta, che tutto il loro operato - passato al setaccio decisivo e insostituibile dell’autorità giudiziaria - è risultato esente da censure. Uno screening sugli arresti o sui fermi operati da quei carabinieri sarebbe indispensabile anche solo per comprendere (come nel caso Cucchi) dove la catena di controllo s’è spezzata, dove i doveri di vigilanza sono rimasti sopiti, e non solo in caserma. Il pubblico ministero esercita un ruolo decisivo, come noto, a presidio della libertà e dell’incolumità delle persone in vincoli poiché ha tutti gli strumenti per prevenire, contenere e reprimere gli abusi. Non accadrà nulla, ovviamente, ed è probabile che nessuna verifica verrà mai svolta, ma questo non sarebbe altro che l’ennesimo argomento a favore di chi sostiene che il pubblico ministero si stia riducendo da tempo al ruolo di nudo avvocato della polizia e che, per questo, non debba più condividere con i giudici l’appartenenza a un medesimo ordine di giustizia e di terzietà. Un giorno tanti anni or sono un giovane giudice, in sede di convalida dell’arresto, notò un’ecchimosi sull’occhio del detenuto che interrogava e solo con tante insistenze e rassicurazioni riuscì a farsi dire che non era né caduto né inciampato, ma che aveva beccato una raffica di pugni dai poliziotti che lo avevano ammanettato. Quel giudice avvisò l’ancor più giovane pubblico ministero che, incurante dei più o meno bonari consigli del suo procuratore che lo invitava alla prudenza e paventava orribili calunnie, fece processare gli aguzzini. Non ci fu bisogno di alcun pentito in divisa. Napoli. Il Covid e il caso della cella 55 a Poggioreale: 14 detenuti in una stanza di Antonio Lamorte Il Riformista, 1 agosto 2020 Il primo detenuto positivo al coronavirus in un carcere campano viene tracciato nella Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere il 5 aprile, pieno lockdown. Un uomo che da oltre una settimana - denunciava la famiglia - soffre i sintomi del Covid. Il giorno stesso 150 detenuti si barricano in una delle sezioni dell’istituto; il giorno dopo decine di ristretti, familiari e associazioni che lavorano nel carcere denunciano la presunta irruzione violenta nel reparto Nilo da parte di alcuni agenti. I primi di giugno protestano anche gli agenti di polizia penitenziaria. L’emergenza Covid ha inasprito le criticità - già gravi - del sistema carceri. E ha innescato paure e tensioni che si sono riverberate in diverse occasioni negli istituti di tutto il Paese. E che non è detto non possano tornare a verificarsi qualora il trend dei contagi dovesse crescere in maniera preoccupante dopo l’estate. Un dossier presentato dal Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ricostruisce la cronistoria del coronavirus nelle carceri campane. I dati nazionali: i detenuti positivi sono stati 94, 11 i ricoverati negli ospedali, 83 in isolamento sanitario, tre i decessi. I primi di marzo i giorni neri della pandemia nelle carceri: scoppiano proteste e rivolte, anche violente, in numerosi istituti, da Nord a Sud. Muoiono 14 persone, si registrano evasioni a Foggia, i detenuti salgono sui tetti di Poggioreale a Napoli e a San Vittore a Milano. A scatenare la rabbia è l’estensione del lockdown al mondo penitenziario: dall’8 marzo il Consiglio dei ministri ha emanato la sospensione dei colloqui con i familiari in tutti gli Istituti del paese. Esplodono così le proteste dentro e fuori le mura. I colloqui vengono allora condotti via Skype e con la diffusione dei dispositivi di protezione individuale e dei test di screening la situazione rientra. Solo il 18 maggio vengono ristabiliti i colloqui in presenza. Con l’effetto del decreto ex art.123 cd. Cura Italia e dell’applicazione della legge 199/2010 escono dal carcere circa 900 persone. In Campania i detenuti sono passati dai 7.468 di febbraio ai 6.404 di maggio. “Seppur tali azioni abbiano portato una riduzione della popolazione ristretta negli istituti penitenziari, i risultati potrebbero essere stati migliori”, osserva il Garante. I detenuti positivi in Campania sono stati 4, 3 nel personale sanitario, 3 nella polizia penitenziaria (204 in tutta Italia). “Alle persone che sbagliano deve essere tolto il diritto alla libertà, non quello alla dignità”, ha commentato Ciambriello lamentando la lentezza della macchina giudiziaria, i mancati provvedimenti di scarcerazione, la carenza di braccialetti, le risposte evasive dell’amministrazione penitenziaria. Il numero totale dei ristretti nel 2019, si legge nel dossier, registra un 17% in più rispetto alla capienza regolamentare. Il 22% delle strutture non presenta docce in camera, il 37% non prevede servizi igienici essenziali nelle stanze. Problematiche cui si aggiungono la carenza di professionalità quali ginecologi, pediatri, psicologi, psichiatri ed educatori. “In questi giorni di caldo tanti istituti hanno le sezioni per i detenuti chiuse 20 ore al giorno. In questo senso è famosa la cella 55 del carcere di Poggioreale dove ci sono 14 detenuti in una stanza con una finestra”, denuncia Ciambriello. Al sovraffollamento si aggiunge il dramma dei suicidi: già sette in Campania, uno al mese dall’inizio dell’anno. “Si ritiene necessario riflettere - osserva il Garante - creando un adeguamento degli interventi di prevenzione, e ben consci che occorre inseguire una domanda: cosa accadrà a settembre?”. Salerno. Johnny Cirillo suicida in cella, giallo sul video dell’ultimo colloquio di Alessandro Mosca La Città di Salerno, 1 agosto 2020 L’avvocato del rapper: “Ho chiesto le immagini dell’ultimo incontro ma sarebbero state cancellate”. Domani i funerali. “Ho chiesto di acquisire agli atti i video del colloquio in carcere tenuto da me e da Johnny lo scorso 21 luglio in cui manifestò la sua situazione di difficoltà, anche con gesti violenti. Ma quelle immagini non ci sarebbero più: mi hanno detto che sono state sovrascritte”. È la denuncia che arriva dall’avvocato Roberto Acanfora, il legale di Johnny Cirillo, il giovane di 23 anni di Scafati che si è tolto la vita domenica mattina in una cella del padiglione di media sorveglianza del carcere di Salerno. Una morte su cui vuol far chiarezza la Procura di Salerno che ha aperto un’inchiesta contro ignoti con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. Ieri pomeriggio è stata effettuata l’autopsia sul corpo del rapper che si è tolto la vita domenica mattina in cella dove erano ristretti anche altri tre detenuti: l’esame irripetibile effettuato dal medico legale Sandra Cornetta è durato più di quattro ore e ha confermato la morte per asfissia del giovane scafatese, causata dal tessuto che si è stretto intorno al collo nel gesto estremo. La specialista incaricata dalla Procura - affiancata da un altro medico per gli esami tossicologici e da due consulenti di parte - ha appurato anche la presenza di numerosi tagli sui polsi del giovane, più di venti, segni di un precedente tentativo autolesionistico di Cirillo. I risultati degli esami istologici arriveranno non prima di 90 giorni: le analisi potranno dare maggiori elementi utili anche a chiarire i tempi dei soccorsi, questione su cui ha puntato il dito Acanfora. “Il decesso di Johnny è avvenuto circa un’ora e mezza dopo il suo gesto”, ha spiegato l’avvocato. Resta, dunque, il rammarico per una morte che, secondo molti, era evitabile. Proprio su questo punto batte molto la difesa: “Il rammarico è enorme, Johnny doveva essere trasferito nell’area di alta sorveglianza dove non poteva farsi del male. La sua condizione era nota a tutti all’interno del carcere di Salerno”. E, invece, Cirillo ha trascorso le sue ultime ore di vita in una cella del padiglione di media sorveglianza, insieme ad altri tre detenuti. Una vicenda su cui proverà a mettere un punto la Procura di Salerno: il sostituto procuratore titolare delle indagini, Carlo Rinaldi, ha ascoltato numerose persone informate sui fatti, anche i compagni di cella di Johnny, per avere un quadro chiaro della situazione. La difesa, contemporaneamente, ha chiesto l’acquisizione di tutte le immagini registrate dalle telecamere all’interno della Casa circondariale di via del Tonnazzo. C’è, però, un punto interrogativo mostrato da Acanfora: secondo quanto riferito dal legale della famiglia Cirillo, i frame del colloquio avuto in carcere dall’avvocato con il 23enne noto anche per la sua attività musicale non sarebbero disponibili. L’avvocato di Johnny, nelle settimane precedenti al fatto, aveva presentato una richiesta di trasferimento in una comunità o in un centro di recupero per il suo assistito visto il suo malessere mostrato nel corso della detenzione in carcere. In attesa degli sviluppi investigativi, adesso ci sarà spazio soltanto per il dolore: domani, alle ore 19, presso la parrocchia di San Francesco da Paola, il parroco don Peppino De Luca celebrerà il rito funebre in cui la città di Scafati, nel rispetto delle norme anti-contagio, vorrà dare l’ultimo saluto a un suo figlio tragicamente scomparso. Torino. Deperito in carcere, è morto. Un’altra inchiesta sulle Vallette di Elisa Sola Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2020 Aveva perso 30 chili, per il medico digiunava apposta. C’è un’indagine della Procura di Torino sulla morte di Antonio Raddi, un detenuto deceduto lo scorso dicembre a 28 anni, in ospedale, dopo aver perso, nel carcere di Torino, 30 chili in sei mesi. Il Garante delle persone detenute, Monica Gallo, aveva segnalato il caso alla direzione delle Vallette nove volte, dall’agosto del 2019. Raddi, condannato per rapine, maltrattamenti ed evasione, era entrato alle Vallette il 28 aprile dello stesso anno. Pesava 80 chili. A novembre 50. Non era più in grado di bere né mangiare quando, il 13 dicembre, in cella, aveva iniziato, come testimonia il compagno, a “vomitare sangue, per poi svenire”. a sera era stato portato al pronto soccorso del Maria Vittoria. La notte, alle 4.46, era entrato in coma. Pochi giorni dopo, il decesso. Il fascicolo per omicidio colposo è sulla scrivania dell’aggiunto Vincenzo Pacileo, che riceve la denuncia del Garante il 20 dicembre scorso. Antonio era un ex tossicodipendente. Nessuno sa perché fosse inappetente. Che fosse un caso grave, lo avevano capito i collaboratori del Garante, che avevano scritto più volte, indicando il timore di “un imminente evento critico”. Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera ipotizzando che la perdita di peso fosse quasi voluta: “Una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”. Già il 4 luglio Raddi, c’è scritto nella denuncia, “esprime un forte disagio per la restrizione all’undicesima sezione, lamentando di non avere un cuscino, il lungo periodo di trattamento con metadone, muffa nel cibo”. Il papà, Mario Raddi, chiama più volte l’ufficio del Garante, preoccupato “per il peggioramento delle sue condizioni di salute e la disappetenza” di Antonio, che aveva una patologia neurologica dall’infanzia. Il 16 luglio i collaboratori del Garante lo vedono “particolarmente sofferente”. Il 7 agosto parte la prima segnalazione. Il 20 agosto arriva la risposta dal direttore del carcere: “Non ci sono particolari criticità”. Nelle settimane successive i genitori vedono il figlio sempre più “deperito”. Il 23 settembre il Garante, dopo averlo visto, precisa: “C’è un drammatico peggioramento dello stato fisico e psichico. Ha bisogno di supporto psicologico, sostiene di avere visto solo una volta la psichiatra”. Il 19 novembre è la referente del Serd a chiamare il Garante allarmata e il 2 dicembre a mettere nero su bianco: “Non riesce più a ingerire né solidi né liquidi”. Il 4 dicembre Antonio si presenta al Garante sulla sedia a rotelle. “Implora di intervenire, ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”, verrà scritto, con la richiesta di “una opportuna e urgente rivalutazione clinica con conseguenti provvedimenti del caso”. Il 9 dicembre Raddi viene ricoverato alle Molinette: vuole essere dimesso, glielo permettono. Il 6 dicembre era stato al Maria Vittoria per quattro ore: era risultato positivo a metadone, farmaci e Thc. Il 10 dicembre il direttore rassicurava: “Il soggetto è ampiamente monitorato”. Tre giorni dopo il collasso in cella e il ricovero in ospedale. Torino. A Monica Gallo rinnovato il mandato come garante dei diritti dei detenuti torinoclick.it, 1 agosto 2020 A Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, è stato rinnovato l’incarico per i prossimi 5 anni. La decisione è stata presa dalla Sindaca Chiara Appendino, in accordo con il Presidente del Consiglio comunale e con la Conferenza dei Capigruppo, alla luce del prezioso e quotidiano lavoro svolto dalla Garante a favore delle persone private della libertà, nonostante le numerose difficoltà causate dalle attuali situazioni. “Sono lieta di riconfermare la mia fiducia alla Garante Monica Cristina Gallo - ha evidenziato la Sindaca Chiara Appendino. - Il lavoro di questi anni è stato caratterizzato da impegno e piena collaborazione istituzionale, con una solida visione generale rispetto alle progettualità portate avanti. In un periodo particolarmente delicato, che attraversa tutto il Paese, ritengo che le competenze e la sensibilità della dottoressa Gallo possano rivelarsi ancora un contributo prezioso per affrontare le sfide che ci attendono”. “Ringrazio la Sindaca, il Presidente del Consiglio e i consiglieri per la conferma della fiducia accordata con il rinnovo del mandato per il prossimo quinquennio. Conferma che giunge in un momento complesso - ha sottolineato la Garante Monica Cristina Gallo. A volte, perché non accada mai più, occorre fare i conti con effetti collaterali che possono essere davvero difficili. Il carcere è un sistema che è fatto di uomini e donne, prima ancora che di ruoli, con tutto il carico di sofferenze, fragilità e aspettative, è un sistema con tante e complesse problematiche. Per entrare nei luoghi di privazione della libertà personale serve una vocazione particolare necessaria a salvaguardare i diritti di chi espia una pena ed eliminare quei coni d’ombra sulle garanzie fondamentali. Servono cammini concreti verso i quali dirigersi, serve una collettività che sappia accogliere. Questo rinnovo incoraggia tutti noi, dell’Ufficio a proseguire con determinazione la strada intrapresa, consapevoli di aver rafforzato quel dialogo istituzionale necessario e stimolato le reti sociali, di cui la nostra Città è ricca, per costruire opportunità concrete dentro e fuori”. Bergamo. “In & Out”, il progetto che punta a dare una nuova opportunità di vita ai detenuti primabergamo.it, 1 agosto 2020 L’iniziativa si colloca nell’ambito del Bando sull’Area Penale adulti sottoscritto il 30 aprile dalla casa circondariale, Comune, Ambiti Distrettuali, Fondazioni, Caritas e numerosi altri Enti del settore. Orientamento lavorativo, acquisizione di un’autonomia individuale e, infine, un graduale reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure detentive. Sono, in sintesi, gli obiettivi che si pone il progetto “In & Out” nell’ambito del Bando sull’Area Penale adulti, previsto nel protocollo d’intesa sottoscritto il 30 aprile da Consiglio di rappresentanza dei sindaci, l’Ats, la Casa circondariale e l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Bergamo, insieme all’associazione Carcere e Territorio, la Caritas, Fondazione della Comunità Bergamasca, Fondazione Azzanelli Cedrelli, Fondazione Istituti Educativi e Fondazione Mia. Attualmente il bando dispone di 150mila euro così suddivisi: Consiglio di rappresentanza dei sindaci e Ambiti 30mila euro; Fondazione della Comunità Bergamasca 60mila euro; Caritas 30mila euro; Fondazione Istituti Educativi 25mila euro; Fondazione Azzanelli Cedrelli Celati e per la Salute dei Fanciulli 5mila euro. A questa somma si aggiungono ulteriori 30mila euro finanziati dalla Fondazione Mia. “Il bando rappresenta la fase conclusiva di un percorso innovativo che ha visto la partecipazione corale di tutti i soggetti coinvolti nell’opera di risocializzazione delle persone in esecuzione penale. - spiega l’assessore alle politiche sociali e presidente del Consiglio di rappresentanza dei sindaci Marcella Messina - Grazie a quest’importante esperienza messa in campo da soggetti pubblici e privati sarà possibile superare la frammentazione degli interventi, spesso causa di inefficacia delle politiche a sostegno delle fasce più fragili, e raggiungere con maggiore determinazione ciò che ci siamo prefissi”. Stando ai dati aggiornati al 30 aprile, nel carcere di Bergamo sono detenute 413 persone: 379 maschi e 34 donne. Di questi, 221 sono di origine straniera. Le persone con problemi di tossicodipendenza rappresentano il 50 per cento di tutta la popolazione carceraria e, infine, un quinto dei detenuti è senza dimora. “Il protocollo d’intesa rappresenta l’auspicata evoluzione della collaborazione tra l’Istituto penitenziario di Bergamo e i firmatari che, a vario titolo, operano nel settore dell’esecuzione penale per adulti - prosegue il direttore del carcere Teresa Mazzotta -. Si tratta di una vera e propria galassia di attori che, per la loro specificità, professionalità e competenza garantiscono importanti progettualità rivolte alla rieducazione del condannato, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione”. Nello specifico, il bando ha come obiettivo la realizzazione di azioni per l’inclusione sociale, abitativa e lavorativa dei detenuti attraverso quattro settori d’intervento: accoglienza e inserimento abitativo attraverso percorsi individuali protetti; accompagnamento e inserimento lavorativo; sostegno alle reti familiari e relazionali di persone in esecuzione penale che hanno figli minori; e, infine, attività interne al carcere quali progetti socio educativi, lavorativi, sportivi, culturali e musicali. “L’assessore Messina ha portato a sintesi l’impegno di diverse Fondazioni, del Comune, della Caritas Diocesana e di altri Enti che da anni sostengono questi progetti realizzati dall’associazione Carcere e Territorio - aggiunge il presidente dell’associazione Fausto Gritti. Capofila del progetto “In & Out” è la Fondazione Opera Bonomelli e il finanziamento ottenuto consentirà per il 2020 la tenuta di un’esperienza decennale insostituibile”. Tra i partner progettuali: Fondazione Opera Bonomelli (capofila), Comitato Carcere e Territorio, associazione Consorzio Mestieri Lombardia, Csa Coesi centro servizi di riferimento di Confcooperative Bergamo, la casa Circondariale di Bergamo, la Cooperativa Ruah, la Fondazione Calepio e l’Ambito di Bergamo. Palermo. Percorsi alternativi al carcere, nasce la “Sartoria sociale” italpress.com, 1 agosto 2020 La Sartoria sociale di Palermo nasce all’interno di un progetto - sostenuto dalla Fondazione Con il Sud - dal nome bellissimo e significativo: “Sartoria sociale: ricucire il territorio”. Logisticamente posizionata all’interno di un bene confiscato nel quartiere Malaspina di Palermo, la Sartoria coinvolge nella sua attività persone in difficoltà che vengono segnalate dai servizi sociali o dai giudici per l’attivazione di percorsi alternativi al carcere. Ha anche un laboratorio di cucito presso la Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo. Ne parliamo con Rossella Failla, responsabile comunicazione. Come nasce la Sartoria Sociale e che obiettivi si è posta? La “Sartoria Sociale”, impresa nel campo del riciclo tessile e sartoriale, nasce nel 2012 nell’ambito della cooperativa Al Revés attiva dal 2012 nel lavoro sociale. È stata inizialmente avviata in autofinanziamento e dalla sua nascita ha già accolto, formato e seguito oltre 150 persone tra cui detenuti, immigrati, utenti di servizi della salute mentale, donne in difficoltà, giovani adulti, tossicodipendenti e adulti e minori con provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria. Collabora con servizi pubblici, di privato sociale ed aziende del Comune ed ha sviluppato laboratori di avvio agli elementi sartoriali con ragazzi down e nei quartieri popolari in collaborazione con realtà associative. Opera attraverso la predisposizione di piani di auto imprenditorialità personalizzati in base al soggetto svantaggiato preso in carico e tende ad offrire prodotti che provengano da processi di cambiamento (vendita di abbigliamento usato rivitalizzato, restyling e upstyling di abiti e accessori, critical fashion, merchandising, arte tessile d’arredo, bomboniere). A ciò aggiunge la fornitura di servizi che riguardino il campo del cucito e dell’abbigliamento tra cui corsi di cucito, di riciclo creativo, servizi sartoriali, stireria. Al Revés propone un’esperienza di lavoro fondata sul “ciclo di comunità”, cioè su un percorso di educazione al lavoro che coinvolge diverse persone e che si basa sulla condivisione di competenze ed esperienze. Ciascuno viene inserito nell’ambito più consono, in cui possa essere responsabilizzato e valorizzato per le sue abilità. Il processo creativo è sempre frutto di inclusione sociale e di un confronto disomogeneo tra persone con diverse abilità e competenze, e che coinvolge anche il cliente in processi di autoproduzione. La creatività per noi è anche uno strumento di crescita interiore, sociale e umana, quindi ognuno dei collaboratori, volontari e soci della cooperativa viene interpellato nelle decisioni relative alla produzione. Tra le produzioni più attuali indichiamo la linea di borse si chiama Curvy Bags, che abbiamo realizzato in 8 fantasie differenti ispirandoci ai colori, ai paesaggi e alle geometrie della Sicilia.Due di questi modelli vengono realizzati con tessuti di pregio di antichi copriletti siciliani con un richiamo forte alla Sicilia non fantastico ma nell’origine stessa del tessuto. Un’altra collezione di cui andiamo molto fieri - aggiunge - soprattutto per il messaggio che veicola, è Made In Mediterraneo che abbiamo presentato anche alla Milano Design Week 2019: borse e borsoni in patchwork di jeans con inserti in wax africano. L’idea creativa è ispirata al valore dell’interculturalità e al Mediterraneo come crocevia di popoli. Le increspature blu del jeans si fondono alle calde geometrie degli inserti in wax africano. Un viavai di colori nel mosaico dei popoli’. Chi sono i partners del progetto? L’Accademia di Belle Arti di Palermo, la Fondazione Progetto Legalità, il Consorzio ARCAsono i partner mentre la Fondazione con il Sud sostiene il progetto dal 2017 e ciò ci sta permettendo di portare avanti tante collaborazioni professionali e tanti progetti, dalle attività di comunicazione e web marketing alla stampante per tessuti, all’acquisto della motoape…La sfida per noi è quella di diventare auto-sostenibili e per chi fa impresa sociale non è semplice perché abbiamo costi di gestione elevati e dinamiche particolari da tenere in piedi ma ci stiamo impegnando per farlo. Come avete reagito al lockdown? Il lockdown ci ha costretti a rimodulare l’attività e ad acquisire di nuovi codici Ateco per la sua prosecuzione dell’attività. Il lavoro sartoriale ha subito una battuta d’arresto e siamo tutti stati impegnati nella produzione di mascherine in stoffa; abbiamo aperto il laboratorio due volte a settimana e abbiamo investito sui social per acquisire nuovi clienti in ambito locale e nazionale. L’impresa sociale non si è fermata: abbiamo donato le nostre mascherine a tanti enti, comunità e persone bisognose, abbiamo distribuito beni di prima necessità in collaborazione con la Caritas presso le abitazioni delle famiglie indigenti e abbiamo continuato ad essere presenti sul territorio nelle modalità consentite. Abbiamo purtroppo dovuto sospendere alcuni tirocini formativi, tutte le attività in presenza e quelle in carcere mentre abbiamo realizzato dei tutorial sulle produzioni artigianali sartoriali per incontrare sui social nuovi contatti e tenere viva l’attività domiciliare dei nostri social addicted. L’attività maggiormente colpita è stata la vendita dell’usato e del vintage, per il quale si è bloccata l’attività di raccolta e rimodulata l’attività di sanificazione con la previsione di utilizzare un nuovo e-commerce. In ambito sociale abbiamo messo in campo molte iniziative compreso l’invio di materiali e di lettere motivazionali alle detenute del laboratorio di cucito del carcere femminile. Il post pandemia come vi trova? La ripartenza è complicata, ci stiamo impegnando nel fund-raising e stiamo progettando nuove iniziative di marketing e di servizi di prossimità. E’ stata necessaria anche una rimodulazione degli spazi per rispettare il distanziamento sociale. Gli eventi di vendita - mercatini, fiere, ecc.- programmati sono stati tutti annullati e si è fatto fronte alla gestione del personale grazie al supporto della Fondazione Con il Sud che ha permesso di proseguire le attività progettuali concernenti le normative vigenti. attualmente stiamo facendo un grande sforzo imprenditoriale e di investimento avviando nuove linee imprenditoriali tra cui la stampa su tessuto e la produzione di t-shirt grazie all’acquisto di una stampante tessile e la vendita mobile e di prossimità con l’acquisto di una Moto Ape per ampliare il mercato all’ambito turistico. All’orizzonte vediamo però grosse difficoltà di sviluppo a causa della crisi economica incombente con rischi per la copertura dei costi di gestione delle attività e delle risorse umane. Avete sviluppato l’ecommerce? È proprio una delle azioni previste nel progetto sostenuto dalla Fondazione Con il Sud e recentemente abbiamo riprogettato il nostro sito. Non è stato facile scegliere la struttura migliore per l’e-commerce e decidere la suddivisione delle categorie-prodotto da adottare perchè la Sartoria Sociale è una realtà complessa anche per l’offerta commerciale, che include prodotti realizzati da noi, capi di seconda mano, capi vintage, capi donati da privati e da negozi. Finalmente siamo giunti ad una versione che ci soddisfa. Come vanno i vostri laboratori? I nostri laboratori hanno sempre riscosso un buon successo, soprattutto quelli di livello base. Molte persone possiedono la macchina da cucire ma non sanno utilizzarla e quindi tutte le volte che organizziamo un corso di livello base (tenuto dalla nostra sarta Aurora) abbiamo sempre diverse richieste. Le persone apprezzano moltissimo il fatto di seguire il corso in un ambiente in cui si respira a pieni polmoni l’atmosfera sartoriale In questo periodo chiaramente abbiamo dovuto interrompere qualsiasi attività e ridurre il numero dei partecipanti per garantire il distanziamento sociale. Ci auguriamo di ritornare presto a regime perché la promozione dell’artigianato tessile è una delle attività che portiamo avanti con maggior successo. Ci sono persone che hanno poi proseguito l’attività lavorativa appresa con voi? “Smettila di frignare e prendi una decisione”. Ciascuno è responsabile della propria esistenza, e, quindi, della propria felicità; ciascuno ha in sé il potere del proprio cambiamento. Questa Directory muove le fila di tutta la nostra Impresa: Accogliamo persone ai margini di sé stesse e della società, offrendo un’opportunità per sostenere un cambiamento di direzione della propria esistenza. Al Revès, il nome della nostra cooperativa, significa “Al contrario”, sta ad indicare l’inversione di tendenza, il punto di vista diverso da cui osservare sé stessi, la persona, il prodotto e l’offerta di servizi dell’impresa stessa. Una sfida con sé stessi. Una sfida col mercato. Siamo da sempre una impresa di transizione seguiamo le persone verso nuove e migliori occasioni, quasi tutti dopo di noi si inseriscono in nuove esperienze lavorative a volte individuate anche da noi o realizzano nuove esperienze in tirocini formativi per i quali individuiamo le aziende ospitanti che possono offrire una esperienza sostenibile per il tipo di problematiche connesse alla persona. Uno dei nostri motti più significativi è “Siamo Tutti EX di qualcosa”: nella nostra singolarità irripetibile, tutti proveniamo da una storia, tutti siamo lo “scarto” o il “residuo” di ciò che ci è appartenuto o a cui siamo appartenuti. Roma. Progetto Trial: per i detenuti i mestieri delle arti e dello spettacolo retisolidali.it, 1 agosto 2020 L’arte può essere uno sbocco professionale. Chi vuole partecipare deve presentare la domanda entro il 15 agosto. C’è tempo fino al 15 agosto per candidarsi a partecipare al progetto Trial: un percorso esperienziale tra i mestieri delle arti per persone con limitazioni personali delle libertà. Il progetto Trial è stato avviato dalla Fondazione Sesta Città Rifugio, l’associazione Il Ponte Magico Onlus e la Cooperativa éCO e prevede la presa in carico, l’orientamento e l’inclusione sociale attiva rivolto a 8 persone con limitazioni personali delle libertà per accompagnarli in percorsi di rafforzamento personale, sostegno sociale e occupabilità futura. Gli obiettivi del progetto Trial - L’obiettivo del progetto è quello di aprire l’accesso al settore artistico e audiovisivo, strategico per il Lazio, a soggetti esclusi da questo specifico ambito professionale. Accesso che permetterà non solo l’acquisizione di specifiche competenze, ma altresì di intraprendere un percorso espressivo guidato verso azioni di empowerment e consapevolezza del sé. L’arte, le sue espressioni e tecnologie come metodo e approccio di lavoro sulla persona, oltre che come sbocco professionale. Il percorso si propone di far conoscere e sperimentare ai beneficiari i diversi mestieri dell’arte e i mestieri ad essa legati, con particolare attenzione alle forme più innovative, legate ai più recenti sviluppi tecnologici. Una formazione che accompagnerà i destinatari nell’acquisizione di competenze professionali spendibili nei settori dell’audio, del video e della grafica. Come partecipare - I destinatari sono persone tra i 25 e i 54 anni di età, sottoposte ad almeno un provvedimento definitivo di condanna emesso dall’Autorità giudiziaria di limitazione o restrizione della libertà individuale, in regime di media sicurezza, senza aggravanti di pericolosità sociale a 6/9 mesi dal fine pena. Il progetto ha una durata di 12 mesi, un percorso di 600 ore, circa 15 ore settimanali a detenuto, con un indennizzo previsto per la partecipazione. Superata la fase di presa in carico, tra settembre e ottobre inizierà la fase di orientamento a cui seguirà tra ottobre e luglio 2021 un progetto individualizzato con sostegno alla crescita personale, laboratori esperienziali, visite conoscitive e di studio, formazione specifica e sostegno psicologico, familiare, di diritto civile, penale e del lavoro. Le candidature o le segnalazioni per il progetto Trial vanno presentate entro il 15 agosto, scrivendo all’indirizzo e-mail il pontemagico@gmail.com. o chiamando il numero 338.8466133. Napoli. “Io sono te”, Assia Fiorillo canta le voci del carcere femminile di Giuseppe Pagano dire.it, 1 agosto 2020 Oggi esce il video del brano finalista a “Voci per la libertà” di Amnesty. “Io sono te non e’ solo una mia canzone. Forse non e’ nemmeno solo una canzone. Sono dei versi in musica che hanno tante mani”. Cosi’ la cantautrice Assia Fiorillo sintetizza la storia che si cela dietro “Io sono te”, brano che oggi diventa anche un videoclip realizzato negli spazi del Museo Madre di Napoli. “Io sono te” e’ un pezzo che ha il sapore della liberta’ negata, della speranza, della vita che troppo spesso ci travolge e non si sceglie, “e’ la vita - racconta Assia - delle detenute delle carceri di Fuorni e Pozzuoli che ho frequentato per un anno durante le riprese del documentario ‘Caine’ (Rai3). Durante questo percorso - spiega - ho sollecitato le ragazze a scrivere o a buttare fuori emozioni e sentimenti. Insieme con la giornalista autrice del documentario, Amalia De Simone, abbiamo messo insieme i loro pensieri, costruendo un testo che rappresentasse sia loro che noi e comunque tutto quello che stavamo vivendo”. In “Io sono te” c’e’ tutto il mondo che i piu’ non vogliono vedere, c’e’ il carcere che cela le storie di esseri umani spesso dimenticati e regalati troppo spesso ad essere solo numeri di fredde statistiche, c’e’ il male e il pentimento, c’e’ la vita criminale ma anche l’amore, c’e’ la lontananza e la solitudine, c’e’ la rabbia e la voglia di riscatto, c’e’ l’errore, che puo’ toccare a chiunque commettere, e la voglia di riscrivere la propria storia. Nel videoclip, oltre alla cantautrice, ci sono alcune donne conosciute in carcere e poi c’e’ Titti Pantaleno, una ragazzina che Assia ha conosciuto alla Fondazione Famiglia di Maria di San Giovanni a Teduccio, nella periferia est di Napoli, dove tanti giovanissimi trovano opportunita’ di riscatto. “Io sono te” e’ finalista al contest musicale di Amnesty International “Voci per la liberta’”, evento che prende il via oggi per concludersi il 2 agosto, e sara’ inserito in un disco di dieci brani in uscita ad ottobre e che segna il debutto come cantautrice di Assia Fiorillo, gia’ frontwoman delle Mujeres Creando e parte del collettivo Terroni Uniti. Il carcere? È una vendetta irrazionale e premoderna di Carlo Crosato Il Dubbio, 1 agosto 2020 “Il colore dell’inferno”, saggio di Curi. In uno scenario in cui la retorica securitaria impera e trova sosta solo nella monotona soluzione carceraria, alla barbara invocazione di “gettar via le chiavi”, una riflessione sulla prigione e, in generale, sul sistema penale risulta già di per sé preziosa. Se poi una simile riflessione procede da un lungo lavoro di ruminazione filosofica e tende non solo a una riforma presuntamente umanitaria della pena ma a un sovvertimento della razionalità con cui si intendono le relazioni sociali, anche quelle con gli individui fragili e rei di aver sbagliato, allora essa giunge come una insperata boccata di aria fresca dove le scorie intellettuali rendevano l’ambiente invivibile. E quello che il sistema penale occidentale, soprattutto nella sua connotazione punitiva e carceraria, richiede è davvero un ripensamento radicale. Sono assai note le ricerche che negli anni Settanta Foucault ha dedicato a questa realtà, interrogandosi sul suo profondo significato, ricercando la provenienza storica e portando alla luce la vera natura della punizione carceraria: essa, si può riassumere, si colloca al margine della dimensione sociale reputata normale e retta, ma instaura con essa uno stretto rapporto di interscambio. Una specie di catena di montaggio collega il dentro del carcere rispetto al fuori, alla città, alla libertà; o, viceversa, il dentro della società con quel fuori dove vengono esclusi i rifiuti umani. Al punto che non esistono davvero un dentro e un fuori; esiste bensì un complesso sistema che normalizza dentro il carcere ciò che poi si potrà operare fuori dalle sue mura: quella della sicurezza, quindi, è una mera illusione, rivelandosi piuttosto il movente grazie a cui si procurano le condizioni per un potere erosivo nei confronti dello stato di diritto. Ancora più in profondità si spinge Umberto Curi nel suo Il colore dell’inferno: una profondità che gli viene aperta dalla sua capacità di sondare un passato che non è solo quello cronologico della genealogia, bensì quello mitologico, che struttura in maniera inconsapevole ma pervicace il nostro pensiero. È lì che ci si può collocare, per interrogare il significato della punizione, il tipo di relazioni che essa conforma, il modello di società da cui essa può essere accolta con più o meno coerenza. In un serrato, ma accessibile, confronto con questi significati, Curi si pone delle domande che oggi non possono davvero più essere evitate se si vuol uscire dai paradossi che inquinano il nostro vivere collettivo. Fra tutte: il sistema penale moderno è uscito dalla logica della vendetta? Perché una società che si ritiene avanzata sente l’esigenza di infliggere una sofferenza a un proprio membro al fine di rispondere alla sofferenza che egli ha provocato? Non solo, come ci ha dimostrato Foucault nei decenni scorsi, la pena carceraria si rivela nociva anche per i membri dell’intero sistema sociale che la invoca. Sotto la lente di ingrandimento di Umberto Curi essa si dimostra irrazionale, incapace di produrre gli effetti che intende perseguire: un germe di irrazionalità all’interno di un sistema giuridico che si vorrebbe invece razionale e conseguente. Se interrogati sul senso della pena, spesso si fa appello alla categoria del merito: il reo merita la pena perché trasgressore di una specie di contratto, proprio come nell’antico rapporto fra un debitore e il suo creditore per cui quest’ultimo poteva rifarsi sul corpo del debitore insolvente. La possibilità di infliggere un dolore rappresentava allora un godimento che retribuiva il creditore pur non risarcendolo della perdita, precisamente come fa oggi la privazione della libertà o della vita. Lo squilibrio provocato dalla trasgressione rimane invece intatto: dove risiederebbe quindi la razionalità della pena? Vi sarebbe infatti un barlume di razionalità se la pena riuscisse a cancellare il reato, a far come se non ci fosse mai stato e a reintegrare l’ordine universale. Si tratta di una pretesa dalla chiara origine mitico- religiosa, che tuttavia la religione cristiana ha abbandonato in favore della prospettiva della misericordia, mentre viene assunta con tutti i suoi paradossi da una illusoria concezione rieducativa della pena, che fa dello Stato il depositario di valori, obiettivi e universali cui ricondurre il reo. Uscendo da un dibattito tutto giocato dentro simili paradossi, l’analisi di Curi permette di prendere coscienza che il nostro di- ritto replica, solo ammodernandola e ricoprendola di una patina quasi umana, la logica della vendetta, ossia una logica capace di offrire un fugace e superficiale appagamento, ma del tutto impotente rispetto a quel senso di giustizia e di buona relazione che si muove nel profondo del vivere civile. Mettendo in luce la logica intima della pena, la proposta cautamente, ma acutamente, elaborata da Curi muove verso una definizione riparativa della giustizia: una prospettiva che superi la logica del castigo, e che rimetta in primo piano le figure in carne e ossa del reo e della vittima, considerandole come membri di una comunità, e impegnando il colpevole nella profonda e volontaria ricerca di soluzioni al conflitto, allo scopo di favorire la riparazione del danno e la riconciliazione delle parti. Si tratta di una proposta impegnativa e, per i meno ottimisti, perfino utopica; e tuttavia non mancano esempi e sperimentazioni in questo senso, volti cioè alla ricostruzione delle relazioni, al reinserimento anche di quegli individui più fragili che nel sistema attuale subiscono solo emarginazione, sospetto e odio, rimanendo incastrati in una coazione a ripetere i loro errori. I dati sulla pandemia non sono pubblici di Andrea Capocci Il Manifesto, 1 agosto 2020 Scienziati e giornalisti chiedono al governo che siano resi tutti pubblici, non solo gli aggregati. Le regioni li hanno ma non li comunicano. E la privacy non c’entra. Ogni venerdì, l’Istituto Superiore di Sanità comunica il valore del coefficiente Rt. Il numero, ormai lo abbiamo capito, sintetizza la situazione dell’epidemia in Italia: se è più piccolo di 1, la diffusione del virus rallenta; se è più grande, accelera. Un indice così importante, sulla base del quale potremmo persino ritrovarci in un nuovo lockdown, dovrebbe essere basato su dati pubblici in modo che chi ne abbia le competenze possa confermare o smentire il valore calcolato. Ma non si può: i dati necessari per calcolarlo non sono pubblici. Per calcolare Rt serve, infatti, la data di insorgenza dei sintomi per ogni nuovo caso di Covid-19 e nelle tabelle della protezione civile - le uniche rese pubbliche quotidianamente - questo dato non c’è. Non è l’unico che manca. Dei casi positivi non conosciamo il sesso, l’età, il luogo di residenza, quello del contagio. Informazioni preziose per capire, ad esempio, l’andamento del contagio tra i giovani in vista della riapertura delle scuole, oppure il rischio di contrarre il virus all’aperto. Alcune regioni comunicano questi dati in maniera sommaria, magari a voce, in una conferenza stampa. Ma comunicazioni come queste non permettono di fare analisi statistiche. E così bisogna accontentarsi delle conclusioni ufficiali. Il tema di una maggiore trasparenza dei dati è stato sollevato più volte durante la pandemia. Lo ha fatto, in tempi recenti, anche l’Accademia dei Lincei, la più prestigiosa società scientifica italiana, in un documento in cui si legge: “Tutti i dati sull’epidemia devono essere resi pubblici, ovviamente nel rispetto della privacy”. “Non è ammissibile perciò - proseguono gli Accademici - che il pubblico abbia accesso solo alle conclusioni e non ai dati originali”. In ballo c’è la questione della riproducibilità delle scoperte, uno dei pilastri del metodo scientifico. “Nel caso delle analisi epidemiologiche - continuano gli accademici - che hanno ricadute sulla vita della società, è opportuno e utile che gruppi diversi di scienziati arrivino a conclusioni sostanzialmente condivise. Nel caso di specie ciò è impossibile se è vero che un solo gruppo di scienziati è in possesso dei dati necessari per fare le analisi”. I dati che vengono comunicati ogni giorno non bastano ai tanti scienziati e semplici cittadini che vorrebbero capire qualcosa in più sull’epidemia. Il fisico Giorgio Parisi, che dell’accademia dei Lincei è presidente, spiega perché quelli comunicati dalla protezione civile non bastino: “Possibile che la domenica non muoia nessuno?”, dice, riferendosi al fatto che, per ragioni organizzative, i dati nel fine settimana appaiono regolarmente sottostimati. “Inoltre - prosegue Parisi - sarebbe importante avere informazioni sui luoghi di contagio e sulle catene epidemiologiche: se si registrano 50 casi slegati tra loro, o se appartengono a un unico focolaio, dal punto di vista epidemiologico è una faccenda ben diversa. Questi dati le regioni li hanno, ma non vengono comunicati”. C’è chi ha provato a aumentare la trasparenza. Il deputato Riccardo Magi di +Europa ha proposto un emendamento al decreto “Rilancio”. Poche righe: “I dati relativi all’andamento della situazione epidemiologica e al monitoraggio del rischio sanitario (…) sono pubblicati sul portale dati.gov.it, a fini di ricerca e analisi, in formato aperto e disaggregato”. Il portale governativo appositamente creato per fornire dati aperti, attualmente, contiene oltre 34mila banche dati sugli argomenti più disparati: dalle ricette tipiche del trentino all’ampiezza delle spiagge. Ma alla richiesta di usarlo per divulgare i dati a disposizione dell’Istituto Superiore di Sanità, il governo ha dato parere contrario. “Ha citato il parere contrario del Garante per la privacy, ma è una questione di volontà politica - afferma Magi - Il modo per rendere anonimi i dati si sarebbe trovato. Ci voleva un minimo sforzo: l’Italia è stato il primo paese democratico colpito dalla pandemia, pubblicare subito i dati sarebbe stato utile per tutto il mondo”. L’ostacolo potrebbe venire dalle regioni stesse, che forniscono i dati all’origine? “So che hanno difficoltà a fornire al governo i 21 indicatori necessari per il monitoraggio. Forse sarebbe stato meglio chiedere meno indicatori ma più trasparenti”. Non tutte le regioni hanno comunicato i dati con la stessa regolarità. La giornalista scientifica Cristina Da Rold ha monitorato l’operato delle regioni in materia. “Da maggio in poi, le regioni si sono più o meno allineate. Ma nel momento più importante, tra marzo e aprile, tra l’una e l’altra c’era molta differenza. Alcune fino a fine aprile non avevano nemmeno una pagina dedicata alla pandemia”. La più attiva è stata il Veneto. “È l’unica che aggiorna e condivide i dati due volte al giorno, con quelli disaggregati per singolo ospedale”. La prima a creare una piattaforma con gli “open data”, però, è stata la provincia di Bolzano. Dunque, fare meglio era possibile. “Si sarebbe dovuta imporre la pubblicazione dei dati come standard. Uno dei perni della comunicazione del rischio da parte delle istituzioni è la fiducia e la trasparenza ne è un fattore importante”. Ma avere dati aperti sarebbe stato utile anche dal punto di vista dell’informazione. “Ad esempio, a un certo punto si è capito che c’era un problema nelle Rsa, soprattutto nella Lombardia. Con un sistema di open data sarebbe stato possibile avere questa informazione in tempo reale e si sarebbe potuto iniziare prima anche il lavoro di inchiesta”. Migranti, lite sui decreti sicurezza. Delrio: “Ora lo ius culturae” di Francesca Schianchi La Stampa, 1 agosto 2020 Il capogruppo Pd: “Modifica dei dl Salvini dopo il confronto con i sindaci. Poi bisogna intervenire sulla legge Bossi-Fini: servono flussi regolari e accordi internazionali”. “I riformisti sono radicali nei principi, ma sanno seminare e aspettare il tempo buono del raccolto”. Per questo Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, si mostra soddisfatto dell’accordo raggiunto sui decreti sicurezza: “Grazie a quell’intesa cambiano radicalmente i decreti Salvini, strumenti inadeguati che hanno solo creato insicurezza e clandestinità”. Presidente, al momento non cambia nulla: di trasformare l’accordo in legge non se ne parla prima di settembre… “Si sarà pronti quando sarà terminato un percorso di condivisione con enti locali e regioni. È una scelta giusta, perché dobbiamo fare in modo che le modifiche siano concordate con tutti, e in particolare chi come i sindaci hanno più sofferto dei decreti Salvini”. Per poi rinviare l’approvazione dopo il 20 settembre ed evitare che il tema migranti possa togliervi voti alle Regionali? “No, non penso affatto che dobbiamo aver paura delle modifiche che vogliamo apportare. Era un errore fare propaganda contro le Ong e dobbiamo porre rimedio. Era un errore smantellare un sistema di accoglienza diffusa e dobbiamo porre rimedio. Sono modifiche utili all’Italia”. Mi scusi, ma l’origine del rapporto complicato con le Ong risale al periodo del governo Gentiloni, quando Minniti era ministro dell’Interno e lei delle Infrastrutture… “Tutti sanno quanto in quel periodo ho posto il problema su alcuni accenti che mi sembravano sopra le righe. Ma nessuno è stato lasciato in mare quando ero responsabile dei soccorsi. Salvini ha usato le Ong e i migranti come fatto politico di propaganda. Questo governo e quello Gentiloni provano e hanno provato sinceramente a risolvere le cose”. Un anno fa saliva sulla Sea Watch. Poi è arrivato il vostro governo: vede molta discontinuità sul tema migranti? “Allora l’uso dei migranti era politico ed era giusto indignarsi, anche a costo di salire su una nave. Ora c’è l’impegno del governo a modificare il memorandum sulla Libia e a trasferire i compiti della Guardia costiera libica alla Marina, tramite la missione Irini”. L’impegno è per l’anno prossimo, e nel frattempo avete rifinanziato la Guardia costiera libica che arriva a sparare ai migranti, com’è successo qualche giorno fa… “Che la Guardia costiera sia da abbandonare il prima possibile siamo tutti d’accordo, ma la condizione della Libia richiede una presenza alternativa con la nuova missione Inni. Se mi si chiede di scegliere tra risolvere un problema aspettando tre mesi per farlo o lasciare il campo e le cose come stanno, scelgo sempre la prima opzione”. Qual è allora il tempo giusto perché le modifiche ai decreti sicurezza diventino legge? “Il tempo è ora, appena finito îl confronto coi sindaci. E dovremo superare, come da programma, anche la Bossi-Fini, abbandonando l’idea che le migrazioni si gestiscano solo in emergenza: servono flussi regolari e accordi internazionali”. Non si potevano cambiare i decreti Salvini in questi 11 mesi di governo? “Si poteva fare. Ma è meglio raggiungere un obiettivo insieme che da soli. C’è voluta una lunga discussione, e l’emergenza Covid ci si è messa di mezzo. Ma il risultato è ottimo, ora dobbiamo fare presto”. Intanto il ministro Di Maio reagisce con durezza all’aumento degli sbarchi dalla Tunisia: ha bloccato 6,5 milioni di fondi per la cooperazione allo sviluppo. Ha fatto bene? “La cooperazione e lo sviluppo sono la chiave di tutto. Ma devono essere accompagnati da responsabilità ed impegno dei Paesi”. Lei si è sempre dichiarato a favore dello ius culturae: questa maggioranza si occuperà anche di una legge di questo tipo? “Il percorso si era già avviato, poi il virus ha interrotto tutto. Ma mi auguro che il Parlamento torni a occuparsene”. Lo spera solo lei o è una priorità della maggioranza? “I riformisti sono radicali nei principi, ma sanno seminare e aspettare il tempo buono del raccolto. Io ho seminato per quattro anni prima di ottenere l’approvazione dell’assegno unico, una rivoluzione epocale che sostiene stabilmente tutti i bambini. Anche sullo ius culturae non mollo, nell’idea che ogni volta che abbiamo concesso più diritti a qualcuno siamo diventati più forti tutti. I cambiamenti avvengono con costanza e determinazione: sono sicuro che arriverà anche questo risultato”. Sui migranti vi aspettate aiuto dall’Europa? “L’Europa deve fare su questo tema lo stesso salto di qualità che ha fatto sull’emergenza Covid. Deve pensare a un piano di aiuti alle economie dei Paesi della sponda del Mediterraneo in cambio dei diritti umani. Questa è la politica alta che deve fare l’Europa, non si tratta dì cose da terzomondisti, definizione di cui peraltro non mi vergogno”. Sull’economia parla di salto di qualità della Ue: sapremo spendere bene quei fondi? “Non si possono spendere per regali come Quota 100, che va eliminata. Ora mi aspetto uno scatto in avanti del governo nelle proposte”. Il Mes va preso? “I miliardi del Recovery Fund arriveranno solo l’anno prossimo, prendere il Mes mi sembra una questione di buon senso. Se qualcuno pensa che ci siano ancora condizionalità, sia compito di Palazzo Chigi chiarire una volta per tutte”. Le previsioni di calo del Pil sono drammatiche, cosa farete per invertire la rotta? “Sono molto preoccupato per l’autunno, temo per la coesione sociale del Paese. Il vero banco di prova per il governo sarà la riapertura della scuola, che più di tutto è il pilastro della società. Solo attraverso la scuola ridaremo speranza ai cittadini”. Lamorgese: “Rimpatri dei migranti con aerei e navi. Nessuno sarà regolarizzato” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 agosto 2020 La ministra dell’Interno: “Coronavirus, non possiamo abbassare la guardia. Delicati i prossimi mesi per i contagi”. Rimpatri dei tunisini anche con le navi e controlli intensificati per gli stranieri che giungono in Italia. Nel momento di massimo allarme per gli sbarchi e la curva dei contagi che riprende a salire, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese annuncia nuove misure di contrasto e parla di “passi obbligati per gestire l’impatto di un flusso straordinario di sbarchi autonomi di migranti economici reso ancora più complesso dall’emergenza Covid-19”. Il suo messaggio è esplicito: “Garantiremo la tutela della salute pubblica delle nostre comunità locali, ma i migranti economici sappiano che non c’è alcuna possibilità di regolarizzazione per chi è giunto in Italia dopo l’8 marzo 2020”. Però continuano ad arrivare. Avremo un’estate con migliaia di sbarchi? “In questo mese di luglio ha influito la crisi economica senza precedenti che sta producendo un numero eccezionale di partenze dalla Tunisia di chi tentano di proseguire il viaggio in Europa. Ho detto al ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin al Viminale, che la crisi tunisina non può essere gestita da un solo Paese per tutta l’Europa. E ho ottenuto dalla commissaria all’Immigrazione della Ue, Johansson, l’impegno ad andare quanto prima insieme in Tunisia perché una crisi economica con effetti migratori così rilevanti, si risolve soprattutto sull’altra sponda del Mediterraneo”. Intanto tra gli italiani monta la paura... “Le comunità locali sono giustamente sensibili al tema della sicurezza sanitaria, con una particolare attenzione dei sindaci e dei presidenti di Regione rivolta ai migranti irregolari. Capisco le loro preoccupazioni anche se il problema dei controlli anti Covid-19 riguarda anche tutti gli stranieri che giungono in Italia, per lavoro o per motivi di studio o per turismo, in pullman, in treno e in aereo”. Cosa farete? “Il governo non può permettersi di abbassare la guardia perché i dati epidemiologici, non solo quelli relativi agli stranieri, ci dicono che dovremo usare molta cautela nei prossimi mesi”. I controlli su chi arriva sono affidabili? “Tutti i migranti che sbarcano sulle nostre coste sono sottoposti al test sierologico e poi al tampone. La quarantena è obbligatoria per tutti, ma prima di trovare posti dedicati il Viminale deve affrontare mille “no” che arrivano da comuni e Regioni”. Avevate promesso una nave da mille posti dove tenere chi deve stare in isolamento. “La procedura di noleggio si è finalmente conclusa e dovrebbe essere operativa già domenica notte. Le prime gare erano andate deserte perché d’estate le navi sono impegnate per i collegamenti con le isole. Ora, con una nuova gara, stiamo lavorando per una seconda nave da posizionare davanti alle coste calabresi”. Dopo le fughe dai centri lei ha deciso di impiegare l’esercito. Basterà? “I 400 militari destinati in Sicilia e quelli dislocati come rinforzo in Friuli Venezia Giulia svolgeranno un sevizio molto importante per rafforzare i controlli già assicurati dalle forze di polizia. A tutti questi uomini e a queste donne in divisa non mi stancherò mai di inviare un ringraziamento particolare a nome dell’amministrazione dell’Interno e di tutto il Paese”. Si parla di migliaia di persone in attesa di partire dalla Libia... “In quel Paese c’è bisogno di stabilità e l’Italia non si deve tirare indietro perché solo in una cornice di sicurezza è possibile gestire il controllo delle frontiere e i flussi dell’immigrazione irregolare, sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare e in terra”. E l’Unione europea? “Da molti mesi insisto in sede europea sulla necessità di attivare operazioni di evacuazione dei migranti presenti nei centri gestiti dal governo libico attraverso corridoi umanitari organizzati dalla Ue e gestiti dalle agenzie dell’Onu”. Nulla è però accaduto, intanto si è aperto il fronte tunisino... “Lunedì scorso ho incontrato a Tunisi il presidente della Repubblica Kais Saied e il presidente incaricato, il ministro dell’Interno Hichem Mechichi. Abbiamo concordato per agosto un incremento di rimpatri sui voli bisettimanali già riattivati lo scorso 16 luglio dopo lo stop imposto dal lockdown”. Rispetteranno il patto? “Abbiamo sollecitato anche modalità più flessibili per il rimpatrio, un gesto simbolico da parte della Tunisia, magari anche con l’utilizzo di navi per effettuare un numero consistente di rimpatri”. E che cosa diamo in cambio? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio vuole bloccare i soldi per la cooperazione... “Ho apprezzato le dichiarazioni di oggi del premier incaricato Mechichi che si è rivolto ai suoi concittadini auspicando che trovino opportunità economiche nel loro Paese senza mettere a rischio la propria vita con le traversate in mare. Per questo dobbiamo o aiutarli”. Avete raggiunto l’intesa sui decreti sicurezza. Reggerà fino a settembre? “L’intesa è stata raggiunta. Ora inizia la fase del confronto con gli enti territoriali per valutare insieme i profili del nuovo sistema di accoglienza”. Si sente assediata? “Io nell’emergenza cerco sempre di mantenere la calma per prendere decisioni che poi non abbiano effetti collaterali controproducenti. Qualcuno dice che sono sotto pressione ma chiunque sia passato al Viminale sa che ogni giorno qui bisogna affrontare problemi e trovare soluzioni. Per governare un tema complesso come l’immigrazione bisogna profondere energie e prospettare modelli di intervento tutti i giorni dell’anno. Non solo quando arriva l’estate e i telegiornali trasmettono le immagini dei barconi che spuntano nel mare di Lampedusa”. Iran. I vani appelli della direzione delle carceri per fermare la pandemia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 agosto 2020 “Si richiedono per i prossimi tre mesi 5.400.000 mascherine normali, 100.000 mascherine di tipo N95, 3.600.000 guanti in lattice, 10.000.000 guanti in plastica, 450.000 litri di disinfettante per le mani, 1.000.000 litri di disinfettante per le superfici, 5000 scudi facciali, 5000 occhiali protettivi, 5000 camici protettivi, 300 sistemi di ventilazione dell’aria e 250 macchinari per la disinfestazione”. Questa è la prima di quattro lettere, trapelate e visionate da Amnesty International, che l’Organizzazione delle prigioni ha inviato a partire dal 25 marzo al ministero della Salute per sollecitare maggiori risorse e prodotti per contrastare la pandemia da Covid-19 nelle carceri iraniane e curare i detenuti contagiati. La lettera sottolinea anche l’urgente bisogno di fondi per acquistare apparecchiature mediche essenziali, come misuratori della pressione e dei livelli di glucosio, termometri, saturimetri, stetoscopi e defibrillatori. Le successive lettere portano le date del 12 maggio, del 14 giugno e del 5 luglio. Nelle prime due si lamenta l’assenza di risposte e nell’ultima si sollecita un incontro urgentissimo. Anche questa è rimasta priva di riscontro. L’attuale direzione dell’Organizzazione delle prigioni fa dunque sul serio, al contrario del precedente direttore, Ashgar Jahangir, non a caso attuale consulente del ministero della Giustizia, che in passato aveva lodato “esemplari” iniziative adottate per proteggere la popolazione carceraria dalla pandemia e aveva proclamato l’assenza di decessi da Covid-19. Gruppi locali per i diritti umani hanno denunciato oltre 20 decessi per sospetto coronavirus nelle prigioni iraniane. Notizie ricevute da Amnesty International riferiscono di detenuti con sintomi da coronavirus non visitati per giorni, poi posti in quarantena o in isolamento senza accesso a cure mediche adeguate. Una prigioniera risultata positiva, Zeynab Jalalian, risulta scomparsa dal 25 giugno 2020. Era in sciopero dalla fame da sei giorni poiché le autorità avevano rifiutato di farla ricoverare fuori dalla prigione di Shahr-e Rey, nella capitale Teheran. A un’altra detenuta, la difensora dei diritti umani Narges Mohammadi, così come ad altri prigionieri, non è stato reso noto l’esito del tampone. Tra la fine di febbraio e la fine di maggio, secondo fonti ufficiali, 128.000 prigionieri sono stati temporaneamente rilasciati e 10.000 sono stati graziati. Il 15 luglio è stata annunciata una nuova serie di rilasci. Da queste misure sono stati esclusi centinaia di prigionieri di coscienza: difensori dei diritti umani, cittadini stranieri o con doppio passaporto, ambientalisti, fedeli di religioni vietate e manifestanti arrestati arbitrariamente durante le proteste del novembre 2019. La popolazione carceraria è, secondo dati ufficiali, di 211.000 persone, ben oltre la capienza massima dichiarata di 85.000. Dal mese di marzo, le agghiaccianti condizioni di prigionia e il timore della diffusione della pandemia hanno spinto molti detenuti a intraprendere proteste, scioperi della fame e tentativi di evasione. Le proteste sono state sedate con estrema violenza. Afghanistan. Al via il cessate il fuoco. Rilasciati 500 talebani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 1 agosto 2020 Durerà solo tre giorni, in occasione della festività islamica dell’Eid al-Adha. È cominciato ieri, venerdì 31 luglio, il cessate il fuoco annunciato da Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, Qatar, e subito accolto dal presidente afghano Ashraf Ghani. Durerà tre giorni, in occasione della festività islamica dell’Eid al-Adha, e potrebbe condurre al negoziato tra i Talebani e il governo di Kabul, più volte rimandato anche se previsto dall’accordo firmato a Doha il 29 febbraio 2020 da mullah Baradar, a capo della delegazione talebana, e da Zalmay Khalilzad, il rappresentante speciale dell’amministrazione Trump. Al cessate il fuoco si accompagna infatti la decisione del presidente Ghani di rilasciare 500 detenuti talebani, che si sommano ai circa 4.600 già liberati dalle carceri governative dallo scorso marzo. Questi ultimi fanno parte di una lista di 5,000 persone consegnata dagli studenti coranici ai rappresentanti istituzionali. I 500, la cui liberazione è stata annunciata ieri da Ghani, non sono invece inclusi nella lista, ma servono da “compensazione”: Ghani ha infatti deciso di non liberare gli ultimi 400 detenuti della “lista talebana”, perché responsabili di gravi crimini. Della loro sorte, ha detto, si occuperà un’apposita Loya Jirga, un’assemblea di notabili. Un modo per scaricare su altri una scelta moralmente e politicamente difficile, simile a quella affrontata nel novembre 2019 quando Ghani aveva deciso di avallare lo scambio tra tre membri della sanguinaria rete Haqqani e due docenti occidentali sequestrati dai barbuti. Questa volta ha liberato 4.600 militanti, ma non i 400 detenuti di “alto profilo”, in cambio di 1.005 detenuti governativi rilasciati dai Talebani. E in cambio, così spera, dell’avvio del negoziato, di cui è stato finora semplice spettatore, spesso critico, più raramente accomodante. L’accordo tra Usa e Talebani firmato a Doha prevedeva che il dialogo intra-afghano iniziasse il 10 marzo, ma la fiducia tra il governo Ghani e i Talebani allora era ai minimi. Oggi, a mesi di distanza, le accuse reciproche continuano, ma aumentano le pressioni esterne, specialmente degli americani e dell’inviato Khalilzad, affinché i due attori comincino a parlarsi, evitando di compromettere la strategia elettorale del presidente Trump. Nei giorni scorsi proprio il portavoce dei Talebani Shaheen aveva chiarito la posizione della leadership: siamo pronti al dialogo, ma soltanto dopo la liberazione di tutti i 5.000 detenuti della lista. La mossa, scaltra ma rischiosa di Ghani, non è stata ancora commentata dai Talebani, che questa volta potrebbero dimostrare quella flessibilità finora negata: un recente messaggio del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, aveva toni molto più “ecumenici” e rassicuranti del solito, a dispetto dell’intensità della violenza con cui gli studenti coranici continuano a colpire le forze di sicurezza afghane. Non però quelle americane o straniere: lo esclude l’accordo di Doha, un accordo bilaterale che non dice nulla sul grado di violenza consentito ai Talebani contro le forze afghane. Il presidente Ghani, e ancor di più la popolazione, chiede che il cessate il fuoco di tre giorni venga prolungato, che diventi permanente, così da concedere respiro ai civili: secondo il rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, reso pubblico il 27 luglio, nei primi sei mesi del 2020 si sarebbero registrati 1,282 morti e 2.176 feriti. Il 13% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. La diminuzione, sostiene l’Onu, va ricondotta alle ridotte attività militari degli eserciti stranieri e della branca locale dello Stato islamico. E 3.458 vittime rimangono comunque troppe per parlare di pace. Arabia Saudita. Loujan compie 31 anni in cella, fu la prima donna ad avere guidato un’auto Il Messaggero, 1 agosto 2020 L’Arabia Saudita si conferma essere per le donne il peggior posto dove vivere. Oggi compie in carcere 31 anni Loujan. Un compleanno amaro, doloroso. Questa giovane donna è stata arrestata nel 2018 con l’accusa di sovvertire il sistema per difendere i diritti delle donne in Arabia Saudita. Da allora la sua famiglia, a più riprese, ha denunciato anche le torture alle quali Lou è stata sottoposta dalla polizia. Le è stato praticato persino il watherboarding. Sul suo caso Amnesty International tiene acceso i riflettori nonostante il regno saudita voglia far calare sulla questione il silenzio internazionale. I guai sono iniziati con la battaglia di Loujain al-Hatlhoul per poter guidare una macchina. Nel 2014 divenne virale un filmato fatto infrangendo tutti i divieti anche se aprì la strada a spiragli di libertà per il mondo femminile e a un movimento che poi ha portato a togliere i divieti per le donne di guidare la macchina. Inutile dire che il video fu condiviso e visto da milioni di donne nel mondo arabo. Tuttavia Lou fu punita con l’arresto. Nata a Gedda e in possesso di una patente degli Emirati arabi uniti, guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Il video, caricato su You Tube, ebbe una valanga di visualizzazioni e di commenti, divisi tra sostenitori e critici. L’anno prima, con il marito accanto, l’attore saudita Fahd al-Butayri, si era filmata mentre tornava a casa a Riad, sempre guidando. Quella volta il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto rientrava sotto la nuova legge antiterrorismo, trattandosi di un fatto che danneggiava la reputazione del Paese. Nel novembre 2015, dopo la concessione alle donne del diritto di voto da parte della monarchia saudita, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali, ma il suo nome non fu mai incluso nelle liste, nonostante l’ammissione ufficiale della sua candidatura. Lo stesso anno Lou venne stata inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti. In realtà Loujain aveva rilanciato una battaglia cominciata dalle sue compatriote nel 1990, quando a decine si misero al volante per protesta e per questo furono imprigionate per 24 ore, alcune di loro persero passaporto e lavoro. Nel 2008, dopo una petizione presentata al re Abdullah, una delle sue promotrici, l’attivista Wajeha al-Huwaider si era filmata al volante mentre guidava all’interno di un complesso residenziale. Nel 2011 fu lanciata la campagna Women2Drive, un vero e proprio appello all’azione. Su Facebook, l’iniziativa guadagnò consensi. La lotta ha portato all’emanazione - il 26 settembre 2017 - da parte del principe ereditario Mo?ammed bin Salman, di un decreto reale che stabiliva il rilascio delle prime patenti di guida femminili da giugno 2018. L’Arabia Saudita resta al 141mo posto su 149 dell’ultimo ‘Global Gender Gap Report’ del Forum economico mondiale come peggior posto per le donne nel quale vivere. Le donne vengono considerate eterne minorenni, pertanto sottoposte al controllo di un “guardiano”, un uomo della famiglia, che supervisiona tutti gli aspetti principali della vita e ha potere sulle decisioni più importanti come lavorare, studiare, sposarsi, divorziare. Il 4 giugno 2017 Loujain è stata arrestata per la seconda volta in Arabia saudita. La ragione per l’arresto non è mai stata chiarita e non le è stato concesso di avere un avvocato o di contattare la sua famiglia. Quando Riyad annunciò la fine dell’anacronistico divieto di guida per le donne, Loujain ricevette una telefonata in cui le autorità le impedivano di commentare la notizia o parlarne sui social. Nel 2018 la giovane donna è stata prelevata dai servizi di sicurezza - assieme al marito - e portata a Riad, dove è stata incarcerata e poi rilasciata. Da allora non è mai più uscita dal carcere. Tre mesi dopo l’arresto Loujain è stata trasferita in un carcere a Gedda, sua città natale, e finalmente i genitori sono riusciti a vederla. “Tremava costantemente, non riusciva a stare seduta o a tenere qualcosa in mano” ha scritto Alia, riferendo che l’attivista ha raccontato in lacrime ai genitori delle torture subite. “È stata picchiata, affogata con il waterboarding, sottoposta a scariche elettriche, minacciata di stupro. Il tutto alla presenza di un consigliere reale, Saud al-Qahtani” ha denunciato la sorella di Loujain. Amnesty International, spinge le istituzioni di alcuni Paesi occidentale a chiedere a Riyad maggiore trasparenza e di aprire i propri centri di detenzione a ispezioni internazionali. Il rapporto denuncia la situazione drammatica di una decina di esponenti di spicco del movimento femminista nel regno - tra cui Loujain - trasferite in prigione senza avere mai ricevuto la notifica formale di alcun capo di imputazione, senza aver avuto la possibilità di contattare un avvocato. L’imponente ondata di arresti condotta nel maggio 2018 è stata giustificata dalla Casa reale da esigenze di sicurezza nazionale. Sulla base delle testimonianze indipendenti raccolte, è emerso che le attiviste sono state sottoposte a “raccapriccianti interrogatori” per poi subire in carcere “vessazioni atroci: frustate, stupri di gruppo, waterboarding, elettroshock” inflitti dagli agenti penitenziari. Amnesty insiste per avere urgentemente un’indagine indipendente.