Da Sulmona ad Augusta: in cella con l’afa e senza acqua e docce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 agosto 2020 Sindacati e Garanti territoriali denunciano le croniche carenze degli Istituti. Altro che andare “al fresco”. Nelle carceri italiane, in questo momento, il caldo è insopportabile. La struttura carceraria, di cemento e ferro, non fa altro che amplificare il calore e ne risente tutta la popolazione penitenziaria, detenuti e operatori. Ma se a questo si aggiunge la mancanza d’acqua e l’insufficienza delle docce che possono offrire sollievo, allora rasenta la tortura. Partiamo dal carcere abruzzese di Sulmona. A segnalare la condizione che a causa del caldo afoso si fa sempre più difficile dietro le sbarre, per polizia penitenziaria e per i detenuti, è stato Mauro Nardella, segretario territoriale Uil-Pa, facendo appello al direttore del carcere e al garante regionale dei detenuti. Ha denunciato anche il caso delle docce. “Quello che è incredibile è che a distanza di 20 anni dal varo del nuovo regolamento penitenziario ci ritroviamo ancora a dover denunciare, nella parte in cui si parla di docce, la non applicazione di un DPR qual è il 230/ 2000 e chiedere dell’implementazione di docce in ciascuna camera detentiva”, ha precisato Nardella. C’è il caso del carcere siciliano di Augusta. Quaranta detenuti hanno protestato per la carenza idrica nel penitenziario. La protesta, che si è concretizzata con il rifiuto a rientrare nelle celle, è stata poi contenuta dagli agenti della Polizia penitenziaria e dopo ore di trattative la situazione è tornata alla normalità. Ma si sono vissuti momenti di grande tensione nel carcere nella giornata di ieri, caratterizzata da temperature assai elevate: senza acqua con cui rinfrescarsi, i detenuti hanno deciso di organizzare la protesta ma, per fortuna, non ci sono state conseguenze. La crisi idrica potrebbe riaccendere ancora una volta gli animi, come avvertono i sindacati, in particolare a sollevare la questione è il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, che, in questo penitenziario ci lavora. Ancora una volta emerge il caso del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Siamo alla 24esima estate che manca l’acqua, ovvero fin dalla sua costruzione in assenza di rete idrica. Sono invece passati 4 anni dallo stanziamento di un finanziamento di poco più di due milioni di euro, deliberato dalla Regione Campania e consegnato al Comune di Santa Maria Capua Vetere. Ma nulla, ancora nessuna realizzazione. A denunciarlo è il garante regionale Samuele Ciambriello, ribandendo che la regione Campania ha stanziato 2.190.000 euro con delibera della Giunta Regionale 142 del 5 aprile 2016 in favore del Comune di Santa Maria Capua Vetere per la costruzione di una condotta idrica per la struttura penitenziaria, e la stessa giunta, il 4 agosto 2016, ha firmato un protocollo d’intesa col Comune. “L’approvvigionamento di acqua al carcere - continua Ciambriello - è assicurato mediante l’utilizzo di acqua di falda e di un impianto di potabilizzazione spesso mal funzionante, che comporta la fuoriuscita di acqua gialla dai rubinetti, con conseguenti dermatiti e altri problemi di salute per i detenuti. Ogni giorno due autobotti portano l’acqua per la mensa dei detenuti e degli agenti, da decenni i detenuti usufruiscono gratuitamente dall’amministrazione penitenziaria di due bottiglie d’acqua minerale al giorno”. Il garante ricorda che ha recentemente scritto, sia a luglio che ad agosto, all’amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere per chiedere notizie sullo stato dei lavori, ancora non attuati dopo tanti anni, ma non ha ricevuto nessuna risposta. “Si coniugano indifferenza e inefficienza - denuncia Ciambriello. Invito la politica nazionale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e i consiglieri regionali a seguire con attenzione questa criticità che lede i diritti delle persone diversamente libere. Accanto alla certezza della pena ci deve essere la qualità della pena, alla persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà ma non il diritto alla dignità, alla tutela della salute. Non si perda più tempo”. Sovraffollamento nelle carceri: ecco cosa fare per risolvere il problema di Paolo Ramonda interris.it, 19 agosto 2020 Il rapporto dell’associazione Antigone su salute, tecnologie, spazi e vita interna nelle carceri italiani ha evidenziato come, nonostante gli sforzi dello Stato negli scorsi mesi per decongestionarle, attraverso il ricorso alle comunità esterne, ha messo in luce come gli istituti penitenziari siano sovraffollati. A monte c’è una della lentezza della giustizia italiana nella valutazione dei reati. Questo non aiuta a far sì che ci sia una certezza della pena e del recupero. Quando la persona viene condannata, prioritariamente, la via del carcere è quella imboccata. Per cui c’è sovraffollamento, c’è un aumento della mentalità criminale perché nel carcere, a volte, ogni tipo di reato si consulta, si assomma, si acquisisce. C’è poi tutta la dimensione della non possibilità lavorativa, se non in forma residuale, anche l’ozio non aiuta la vita e il recupero, non aiuta quella parte buona, positiva che c’è nella persona. Come diceva don Oreste Benzi: “L’uomo non è il suo errore”. Bisognerebbe lavorare su questa possibilità di recupero ed è per questo che da sempre, come Comunità Papa Giovanni XXIII, proponiamo, dove è possibile, un modello alternativo, comunitario, educativo, relazionale, pedagogico e lavorativo. Non c’è una linea generale per rieducare la persona in quanto ognuna ha una storia. Mi hanno chiamato per l’accoglienza di un giovane che ha compiuto un omicidio. Lo abbiamo accolto in un nostro Cec, le comunità educanti con i carcerati. Questa persona ha anche delle sofferenze a livello psichiatrico. Bisogna entrare nella storia di ognuno, il recupero non ha delle regole generali. Si parte dall’accettazione della persona, della sua storia, delle sue ferite che lo hanno portato a compiere il reato. Il percorso riabilitativo si inserisce in una vita comunitaria, siamo 24 ore su 24 con loro, cercano di ascoltare quelle ferite profonde e di cogliere quelle istanze positive. Certo è che a volte bisogna accompagnare il tutto con un supporto medico, psicologico e farmacologico. Tutte le scienze umane possono essere importanti. Nel nostro percorso c’è anche la dimensione spirituale, sempre molto rispettosa, ma riteniamo essenziale. Ogni uomo che incontra il buon Dio, scopre quella parte importante di sé che può diventare dono. Per la rieducazione dei detenuti è molto importante l’incontro con dei “tu” significativi, degli esempi che possano osservare mentre lavorano, parlano, si muovono, interagiscono con le altre persone. È ovvio che anche questa dimensione relazionale va affiancata da una normativa. È altrettanto importante l’apertura al territorio, il rapporto con i volontari e anche, a volte, la presenza dei ragazzi recuperandi in attività sportive, culturali, di servizio, di essere attenti all’ambiente. Si porta avanti un lavoro educativo di corresponsabilizzazione molto importante. Bisogna fare prevenzione, un lavoro educativo a monte, investire molto sui giovani, sulla scuola, sul dare lavoro. Questo è fondamentale. Quando la persona non ha competenze intellettive, culturali sviluppate, non ha un lavoro, non ha la possibilità di crescere in famiglia, arriva a delinquere e rischia di cadere nella malavita. Il governo come prima azione dovrebbe fare prevenzione. Poi dovrebbe rendere umane le carceri, anche numericamente; dare la possibilità di studiare, di lavorare, fare attività sportiva, di partecipare alla religione, secondo i rispettivi credi. Inoltre, deve facilitare tutti quei percorsi alternativi, ovviamente certificati, di comunità che ci sono in Italia, del terzo settore, del no-profit che con competenza, accolgono in pena alternativa i detenuti portando la recidiva dall’80% al 15% con una spesa economica molto inferiore. Bisogna cambiare anche le leggi perché bisogna rendere possibili queste cose. Riforma delle carceri? Iniziamo dal basso di Davide Ferrario Corriere della Sera, 19 agosto 2020 Fiction e film hanno abituato il pubblico a considerare le carceri come luoghi da grandi emozioni, grandi tragedie, grandi personaggi. Chi le frequenta per lavoro o volontariato conosce una situazione molto diversa. Un esempio? Mi capitò nel carcere di Torino. Il direttore aprì una porta e dietro c’era una stanza piena di rotoli di carta igienica, fino al soffitto. Lui mi spiegò che era una partita di merce fallata, ma usabile, recuperata gratis, e che questo era ciò di cui si occupava il più delle volte: far marciare la quotidianità di un microcosmo nei suoi aspetti più quotidiani e triviali. Mi è venuto in mente questo episodio nel leggere le risultanze dell’inchiesta contro Antonino Porcino, ex direttore di via Gleno. Anche lui, sostengono gli inquirenti, viveva di questo piccolo cabotaggio, provocato dal disinteresse sdegnoso con cui le carceri italiane sono percepite da politici e opinione pubblica. Diversamente dal collega di Torino, però, pro domo sua - letteralmente. Si era costruito, per l’accusa, un piccolo feudo, una rete di scambi di favori, di tangenti minime, di furbizie d’accatto. In questo malinconico quadretto rifulge l’appropriazione indebita di due WC nuovi (con tubature annesse) destinati all’istituto e invece dirottati nella casa della moglie. Ecco, quando si parla di riforma del carcere è inutile usare parole alate; basterebbe inquadrare il problema dalla prospettiva dei cessi. La lotta all’usura? Funziona se si rafforza il micro-credito alle famiglie e alle imprese di Giacomo Di Gennaro e Giovanni Pastore* Il Riformista, 19 agosto 2020 La grave crisi economica genera allarme per l’usura e la capacità delle mafie di acquisire, con il prestito illegale, imprese, attività economiche, patrimoni. Sono necessarie riflessioni accurate. Innanzitutto l’usura è fortemente cambiata. È opportuno distinguere l’usura praticata verso i poveri, da quella rivolta agli impoveriti. La prima si concretizza nelle poche centinaia di euro utilizzate dall’usurato per mangiare, pagare bollette, affitti e spesso per “azzardopatia”. La seconda si rivolge a famiglie, piccole imprese familiari, commerciali e artigiane. Si tratta di soggetti che avevano un tenore di vita dignitoso e avevano accumulato un piccolo patrimonio, cioè la casa, il negozio o il laboratorio, spesso acquistati con un mutuo. L’usura verso i poveri non consente grandi guadagni. È un’usura di vicinato o gestita dal piccolo usuraio affiliato alla malavita. È l’usura praticata verso gli impoveriti che dà importanti guadagni. Uno strumento moderno utilizzato dai clan, dai loro prestanome, da speculatori non mafiosi, sono i patti commissori che, sebbene vietati dalla legge, vengono utilizzati a copertura del pagamento del debito contratto nel termine fissato. Molte proprietà vengono trasferite, dalle vittime dell’usura agli strozzini, quando il bene è posto a garanzia dell’adempimento inevaso. Compiacenti professionisti si prestano a questo gioco mascherando in atti ad hoc scambi patrimoniali i cui valori, in realtà, sono asimmetrici tra le parti. Un’altra strategia fortemente praticata dai clan, in assenza di qualsiasi controllo (non viene nemmeno richiesta l’adeguata verifica) è l’intervento diretto nelle aste immobiliari. Anche in questo caso possono essere acquisiti patrimoni, magari singolarmente piccoli ma che, se considerati nella ripetitività e accumulo dei casi, diventano consistenti. È sempre più frequente nei sequestri di beni a cosche malavitose trovare centinaia di immobili. L’usura verso gli impoveriti permette anche il controllo e l’acquisizione di piccolissime, piccole e medie aziende, ambito ideale per riciclaggio, evasione fiscale, truffe ai danni dello Stato e ai privati. La spoliazione degli impoveriti è gestita dalle grandi cosche mafiose e, talvolta, al Nord anche dai grandi evasori fi scali che ripuliscono così i capitali accumulati oltre frontiera. Già fortemente presente prima della pandemia, ora sta dilagando con intensi cambi di proprietà. In una intervista a Economy-Mag l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sosteneva che “ci sono soggetti mafiosi che prestano denaro a tasso legale, cioè si fanno banca, ma con la certezza di riuscire a recuperare il loro credito. La crisi bancaria, dunque, ha rafforzato ancora di più l’economia criminale perché i soggetti economici sono costretti a rivolgersi a canali alternativi. L’imprenditore deve sopravvivere e se non riesce a ottenerlo dalle banche, si rivolge al credito mafioso”. L’attuale procuratore Cafiero De Raho, riprendendo il tema, ha dichiarato che £il racket e l’usura consentono ai clan di rinunciare agli interessi sul pizzo, puntando direttamente all’acquisizione di intere attività economiche e imprenditoriali. Un inquinamento illecito galoppante Favorito dal sistema creditizio che spesso finisce col portare le banche a chiudere i serbatoi senza lasciare scelta al piccolo risparmiatore”. L’esplosione del capitalismo finanziario sta impoverendo tutti, tranne le cosche mafiose e gli speculatori. Ora, in Italia, l’accesso al credito illegale è quasi una necessità. A differenza del resto d’Europa, c’è una massa ampia di famiglie e piccole e medie imprese escluse dal credito. Da elaborazioni basate su dati Bankitalia, si evince che prima della pandemia, i debitori bancari erano due milioni di persone. Aggiungendo i fideiussori, i componenti del nucleo familiare e qualche dipendente delle micro-aziende, il dato verosimilmente sale a otto milioni di persone che sono escluse da ogni normale rapporto creditizio. È la conseguenza di una particolare malvagità delle banche italiane o c’è qualcosa che non funziona anche a livello legislativo? Quali norme possono essere utili per prosciugare questo bacino di coltura del prestito malavitoso? In Francia, ogni anno, 100mila famiglie e piccole imprese vengono esdebitate: alla fine del procedimento tutti i debiti vengono cancellati. Famiglie e imprese possono quindi riavere una loro dignità creditizia e contribuire alla ricchezza del Paese. In Italia, ogni anno, 100mila famiglie e piccole imprese vedono la loro proprietà immobiliare andare all’asta, per essere svenduta a un terzo del suo valore, restano debitrici a vita, escluse dal mercato creditizio, clienti potenziali del credito malavitoso. Gli esdebitamenti in Italia non arrivano al 5% di quelli che vengono attuati in Francia. È dunque necessaria un’attività di prevenzione e di repressione, ma è altrettanto fondamentale prosciugare, tramite apposite norme sull’esdebitazione, peraltro esistenti in tutta Europa, il bacino di coltura del credito malavitoso. In questi giorni, è stato presentato un emendamento dal senatore Pesco che ha raccolto il sostegno di esponenti anche di altri partiti e di un folto gruppo di magistrati appartenenti alla Cassazione e alle sezioni fallimentari di molti tribunali italiani. Occorre intervenire con modifiche sulla legge 3 del 2012, anticipando alcune più efficaci soluzioni normative, già approvate dal Parlamento. Considerare l’indebitamento come fatto dell’intero nucleo familiare, piuttosto che individuale. Una maggiore responsabilizzazione dei finanziatori perché subiscano penalizzazioni nei casi di concessione galoppante del credito. Una disciplina ad hoc in materia di contratti di cessione del quinto. La possibilità dell’esdebitazione automatica, essenziale per consentire ai debitori una ripartenza, anche se non tutti i debiti pregressi sono stati pagati. Vogliamo contrastare l’usura? E allora esdebitiamo le famiglie, rimettiamole nel ciclo economico, si diffonda il micro-credito, verifichiamo la condizione patrimoniale dei soggetti che acquistano alle aste immobiliari, riformiamo la legge 108 del 1996 in cui particolarmente l’articolo 14 ha fallito gli obiettivi perché le provvidenze, concesse senza adeguata istruttoria tecnica, hanno prodotto un tasso di insolvenza dei beneficiari che sfiora il 100%. *Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Federico II Io, Falcone e la sua esperienza romana di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 19 agosto 2020 Una ricostruzione diversa da quella che fa Calogero Mannino. Il giudice non venne nella capitale al Ministero per scappare dalla procura di Palermo. E non voleva che il suo trasferimento fosse mal interpretato. Vi racconto cosa mi suggerì Cossiga e cosa. Come arrivò a Roma Giovanni Falcone, e perché? Si è aperta una discussione, in particolare dopo una intervista dell’ex ministro Calogero Mannino all’AdnKronos e una successiva intervista al Riformista. Il professor Giuseppe Di Federico, che fu amico stretto di Falcone, ci ha mandato questo articolo che fu pubblicato dal Messaggero il 29 maggio del 2002, nei giorni successivi al decennale della morte. E che contiene una ricostruzione abbastanza diversa da quella di Mannino. La scorsa settimana la figura di Giovanni Falcone è stata ricordata in convegni, trasmissioni televisive e molti articoli. Di lui hanno parlato in molti, spesso raccontando cose che Falcone avrebbe loro confidato. Tra le cose dette quella che più merita una smentita è quella riferita da un articolo di Saverio Lodato su l’Unità di domenica 19 maggio scorso, e da altri ripresa, secondo cui agli inizi del 1991 Falcone sarebbe “scappato” dalla Procura di Palermo e si sarebbe trasferito al Ministero della giustizia perché il procuratore di Palermo, Giammanco, gli impediva di perseguire efficacemente la criminalità mafiosa. Anche chi ha conosciuto Falcone meno bene di me non può che sorridere all’idea che egli “scappasse” di fronte a difficoltà che incontrava sul lavoro. La verità è che egli accettò l’offerta di Martelli di trasferirsi a Roma quale Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia perché da quella posizione avrebbe potuto perseguire con più efficacia un suo disegno riformatore che riteneva essenziale per rendere più efficiente la repressione dei fenomeni di criminalità organizzata. Sono cose che conosco bene perché io stesso ho svolto un ruolo non secondario in quella vicenda. Prima di riferire in merito, basandomi non su confidenze fattemi ma su circostanze piene di riscontri, vorrei ricordare che fin dall’ultimo periodo di permanenza nell’ufficio istruzione di Palermo Falcone aveva maturato l’idea che le conoscenze ed esperienze da lui accumulate potessero e dovessero sfociare in iniziative riformatrici anche con un suo eventuale impegno personale in ruoli istituzionali di livello nazionale e di tipo “tecnico”. Non posso certo pretendere di conoscere tutte le vie da lui utilizzate in tale esplorazione. So però che proprio per coadiuvarlo in questa sua esplorazione, con le cui finalità concordavo, io stesso organizzai per lui una serie di incontri presso l’Arel (l’Agenzia di Ricerche e Legislazione fondata dal Prof. Nino Andreatta) e della quale io ero stato chiamato a far parte come esperto del settore giustizia. In quella sede Falcone illustrò a uomini politici e di governo le innovazioni necessarie per un’azione più efficace contro la criminalità organizzata (più efficienti forme di coordinamento nella conduzione delle indagini a livello nazionale ed internazionali, maggiore professionalità e specializzazione di magistrati e forze di polizia, una avanzata modernizzazione organizzativa e tecnologica degli uffici giudiziari). A questi incontri parteciparono, tra gli altri, anche il Ministro degli interni, On. Rognoni ed il presidente della Commissione giustizia della Camera, On. Gargani. Ad uno o più incontri, non ricordo bene, Falcone volle che partecipasse anche l’attuale capo della Polizia, Gianni De Gennaro. La sua ricerca di un ruolo istituzionale di livello nazionale da cui poter perseguire gli obiettivi innovativi che si proponeva, d’altro canto, risulta evidente anche dal fatto che oltre un anno prima di accettare l’offerta del Ministro Martelli decise di partecipare alle elezioni per il rinnovo del Csm, nonostante fosse già evidente la diffusa avversione della magistratura organizzata nei suoi confronti. Ottenne solo un pugno di voti e venne sonoramente bocciato dai suoi colleghi. Martelli divenne ministro della Giustizia il primo febbraio 1991. Uno o due giorni dopo mi chiese di fargli da consulente. Tra i miei primi suggerimenti vi fu quello di chiamare Falcone alla Direzione generale degli affari penali. Non essendo sicuro della sua disponibilità ad accettare quell’incarico, Martelli volle che fossi io a consultarlo preventivamente. Gli telefonai a casa (era ora di cena) dall’ufficio della dott. Liliana Ferraro. Prima di darmi la sua disponibilità Falcone mi chiese se ritenevo che Martelli avrebbe assecondato quelle iniziative riformatrici in materia di coordinamento delle attività del pm e di innovazione tecnologica delle quali lui ed io avevamo spesso parlato. Gli dissi di sì. Tornai quindi dal ministro per dargli la disponibilità di Falcone. Ne fu molto contento e gli telefonò subito. Il giorno dopo Falcone venne a Roma e accettò l’offerta di Martelli. Il Csm deliberò il suo trasferimento al Ministero della giustizia il 27 febbraio. A riprova che tra le motivazioni di Falcone non vi fosse quella di “scappare” da Palermo vi è un episodio che chiaramente mostra come egli non volesse in nessun modo che il suo trasferimento al Ministero potesse essere mal interpretato. Scoraggiamo chi ancor oggi pretende di aver ricevuto confidenze che accrediterebbero la storiella della sua fuga dalla Sicilia di Falcone al Ministero, Martelli aveva richiesto che venisse trasferito da Palermo al suo Dicastero anche il pm Giuseppe Ayala il quale desiderava lasciare Palermo perché temeva per la sua sicurezza. Falcone mi telefonò e mi disse che nel caso anche Ayala fosse venuto al Ministero egli avrebbe ritirato la sua disponibilità al trasferimento. Non era per lui accettabile che si potesse pensare che anche lui lasciava Palermo per paura della mafia. Cercai Martelli senza riuscire a trovarlo. Telefonai allora al suo capo di gabinetto, Giuseppe Verde, il quale mi disse che Martelli era irreperibile. Mi disse anche che il Csm era in procinto di decidere il trasferimento di Ayala e che in assenza del Ministro lui non poteva far nulla per impedirlo. Sapendo che avevo rapporti di collaborazione anche con il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, Verde mi suggerì di telefonargli perché chiedesse al magistrato del Csm responsabile della pratica relativa ad Ayala di ritardarne la trattazione fino al ritorno del Ministro Martelli. Lo feci immediatamente e subito dopo Cossiga mi ritelefonò per dirmi che la trattazione del trasferimento di Ayala era stata rinviata. Falcone assunse quindi le sue funzioni al Ministero della Giustizia il 13 marzo 1991. Le iniziative di innovazione che promosse insieme a Martelli nel periodo in cui fu Direttore generale del Ministero sono in piena concordanza con quelle da lui in precedenza indicate, nei suoi scritti, come necessarie ad una più efficiente lotta alla criminalità organizzata. Anche e soprattutto questo avrebbe dovuto scoraggiare chi ancor oggi pretende di aver ricevuto confidenze da Falcone che accrediterebbero la storiella della sua fuga da Palermo per dissapori col procuratore della Repubblica Giammanco. I documenti segreti della Cia sul caso Ilaria Alpi di Andrea Palladino L’Espresso, 19 agosto 2020 L’Espresso ha ottenuto i rapporti inediti americani sul periodo in cui in Somalia fu uccisa la giornalista. Si parla di un’azienda molto pericolosa e di trafficanti italiani. Trentadue pagine, dodici documenti classificati “Secret” e “Top Secret”. Report in grado, dopo ventisei anni, di riportarci nelle strade di Mogadiscio poco prima del 20 marzo 1994, la data dell’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Carte oggi declassificate dalla principale agenzia dell’intelligence statunitense, la Cia, dopo una richiesta dell’Espresso in base al Freedom of Information Act (Foia). Un anno e mezzo di istruttoria, una risposta per ora parziale, ma in grado di aggiungere elementi importanti al contesto somalo oggetto dell’ultimo reportage di Ilaria Alpi. Doveva andare in onda la sera di quel 20 marzo, non arrivò mai in Italia, se non per frammenti, filmati incompleti. I report Usa aprono una porta sul mondo che Ilaria seguiva durante il suo ultimo viaggio. Traffici di armi, società della cooperazione italiana, alleanze segrete. Mogadiscio, 1994. La sconfitta della missione Onu per riappacificare la Somalia era compiuta. È la storia di un fallimento lo scenario che ha visto l’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Roma, 2020. Le indagini per capire chi ha armato il commando di sei uomini sono ancora aperte. Movente, mandanti, esecutori: un foglio bianco. Mogadiscio era il crocevia di tante storie. Traffico di armi, prima di tutto. Razzi Rpg, Kalashnikov, munizioni di ogni tipo, un flusso inarrestabile che alimentava la guerra tra le due principali fazioni. Ali Mahdi, alleato con le forze Onu. Mohammed Farah Hassan, detto Aidid, il “vittorioso”, a capo delle forze islamiste. Quel mondo Ilaria lo conosceva come pochi suoi colleghi; si era laureata in lingua e cultura araba, con una lunga gavetta, prima di approdare alla Rai, raccontando il nord Africa, spesso in maniera rocambolesca. Delicata e profonda, nelle sue cronache. In grado di capire le sfumature, le alleanze che si nascondevano dietro l’apparenza. La giornalista giusta, per raccontare l’inferno. Un target per chi alimentava il caos. La rotta delle armi - Mohammed Aidid era il nemico numero uno della coalizione Onu quando la missione Unosom inizia, con lo spettacolare sbarco dei Marines a Mogadiscio. Almeno in apparenza. Il 3 ottobre del 1993 i Rangers erano sulle sue tracce. Preparano una missione nel cuore di Mogadiscio, un’incursione che doveva durare pochi minuti, giusto il tempo per permettere a reparti speciali di catturare il signore della guerra. Tutto andò storto, i miliziani colpirono uno dei quattro elicotteri Black Hawk, uccidendo 19 soldati americani. Un’azione divenuta famosa con il film di Ridley Scott (“Black Hawk Down”) del 2001, icona cinematografica della sconfitta in Somalia. Da mesi la Cia era sulle tracce di Aidid, monitorando ogni suo spostamento. L’obiettivo fondamentale, per l’Onu e gli Stati Uniti, era individuarlo, ma anche capire chi finanziasse il capo della fazione islamista e da dove provenissero le armi utilizzate dalle sue milizie. In una nota del 18 settembre 1993, declassificata su richiesta dell’Espresso, gli analisti della Cia scrivono: “L’abilità del signore della guerra nel reperire nuove armi ha senza dubbio contribuito alle recenti indicazioni che Aidid si sente sicuro di vincere contro gli Stati Uniti e le Nazioni Unite”. Dal mese di agosto del 1993 gli agenti statunitensi segnalavano un aumento di flussi di armi dirette alla fazione islamista. In realtà la Somalia fin dall’inizio della guerra civile era una vera e propria Santabarbara. Per anni il governo di Siad Barre - stretto alleato dell’Italia - aveva acquistato armi, creando magazzini letali nell’intero paese. L’Italia era stato uno dei principali fornitori, fin dai primi anni 80. L’ex generale del Sismi Giuseppe Santovito - iscritto alla P2 - in un interrogatorio davanti all’allora giudice istruttore di Trento Carlo Palermo aveva raccontato delle ingenti forniture di armamenti al paese da sempre ritenuto come una e propria estensione geopolitica dell’Italia. Pochi mesi prima della morte di Ilaria Alpi e Miran Horvatin c’è una accelerazione. Aidid ha l’obiettivo - che ritiene raggiungibile - di far fallire la missione Onu, rimandando a casa i paesi della coalizione. Acquisire armi aveva un doppio scopo, spiegano le note Cia: essere pronti al combattimento, ma soprattutto convincere gli altri signori della guerra ad allearsi con gli islamisti. L’aiuto segreto italiano - Il primo ottobre 1993, due giorni prima di Black Hawk Down, a Washington arriva una nota dalla capitale somala: “Le rotte per la fornitura di armamenti, nascondigli e legami operativi delle forze di Aidid”. Dal mese di settembre gli Usa avevano iniziato a monitorare le carovane che partivano dal lungo confine con l’Etiopia dirette nell’area di Mogadiscio, dove la situazione era divenuta estremamente critica: “Gli armamenti - che includono mortai e Rpg - sono trasportati lungo le strade che collegano Mogadiscio con Belet Weyne, Tigielo e Afgoi”. L’obiettivo era chiaro: “Stanno pianificando di usare i mortai e gli Rpg contro Unosom”. Nella stessa nota la Cia fornisce, per la prima volta, un’indicazione sulla rete logistica di appoggio alla fazione degli islamisti: “I supporter di Aidid stanno utilizzando la società Sitt, che è situata dall’altra parte della strada rispetto al compound Unosom. La società Sitt appartiene a Ahmed Duale “Hef”. (omissis) Commento: questa presenza è una minaccia per il personale Unosom e per chiunque entri nel compound”. Duale e Sitt, due nomi da appuntare. Quando mancano quattro mesi all’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin la situazione a Mogadiscio diventa ancora più critica: “I compratori pro-Aidid stanno acquistando una inusuale grande quantità di munizioni”, segnala la Cia in una nota del 23 novembre 1993. Un secondo report, con la stessa data, aggiunge un altro dettaglio: “C’è una consegna di armi e munizioni in una casa nel distretto Halilua’a di Mogadiscio, trasportata da un unico camion di produzione italiana, con sei casse di Ak-47, fucili di assalto Fal, quattro lanciatori di granata russi. L’origine del carico è ignota”. 20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Un colpevole di comodo, depistaggi e tante bugie: dopo due decenni ancora non sappiamo chi ha voluto la morte dei due giornalisti. Ma conosciamo il movente: le loro ricerche sui traffici di armi e rifiuti. Per l’intelligence Usa, dunque, era la società Sitt lo snodo logistico utilizzato dai supporter di Aidid. “Una minaccia per l’Onu”, scrivevano. Il nome era ben noto negli ambienti del contingente italiano. Appena due mesi prima della nota della Cia, la Sitt aveva inviato una serie di fatture per migliaia di dollari al comando Italfor relative alla fornitura di materiale di ogni tipo. Prima del conflitto la stessa società aveva operato come supporto logistico per la cooperazione italiana. A capo di quell’impresa, oltre all’imprenditore somalo Ahmed Duale, citato nella nota Usa, c’era Giancarlo Marocchino, trasportatore originario del Piemonte che operava in Somalia da anni. Fu lui ad intervenire per primo sul luogo dell’attentato mortale contro Alpi e Hrovatin. “Marocchino è stato un collaboratore che ho ritenuto affidabile fino a quando ho trovato le armi nel suo compound diffidandolo ufficialmente”, racconta all’Espresso il generale Bruno Loi, a capo del contingente italiano fino al settembre 1993. “Ma per quanto riguarda la nota della Cia - prosegue Loi - mi stupisce che abbiano trovato questa minaccia senza fare nulla per eliminarla; c’è qualcosa che non quadra”. L’inchiesta - Sull’agguato del 20 marzo 1994 la Cia sostiene di non avere nessun record in archivio. Eppure l’ultima inchiesta di Ilaria Alpi si intreccia strettamente con quel traffico di armi diretto alla fazione di Aidid. Il 14 marzo 1994 i due reporter di Rai 3 arrivano a Bosaso, nel nord della Somalia. C’era un nome appuntato sul quaderno di Ilaria, la compagnia di pesca italo-somala Shifco. Una nave della società era ferma al largo della costa migiurtina, sequestrata dalle milizie locali. In un appunto del Sismi declassificato nel 2014 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini l’intelligence italiana racconta come quella compagnia, diretta da Said Omar Mugne - imprenditore somalo che aveva vissuto a lungo in Italia - proprio in quei mesi stava preparando il trasporto di un carico di armi “acquistato in Ucraina da tale Osman Ato, cittadino somalo naturalizzato statunitense, per conto del generale Aidid”. Sulla Shifco e su Osman Ato la Cia ha risposto con la consueta formula: “Non possiamo confermare o smentire l’esistenza o la non esistenza di record”. La questione, in questo caso, sembra avere ombre di segreto ancora oggi. “Crogiolo di menzogne” - Per il generale Bruno Loi la Somalia è ancora una ferita aperta: “Eravamo pronti a catturare Aidid nel giugno 1993 - racconta - avevamo il consenso del governo italiano, ma Unosom ci bloccò”. Il fallimento di quella missione, spiega, va cercata nelle stesse regole di ingaggio delle Nazioni Unite: “L’Onu non ha capito che la democrazia non si esporta, ma si costruisce con anni di supporto”, commenta Loi. E forse il caso Alpi rimane una ferita aperta perché è bene non entrare in quel labirinto senza fine della missione nel corno d’Africa: “La Somalia è stata un crogiolo di bugie, menzogne, disinformazione”, spiega Loi, ventisei anni dopo. E di segreti che durano ancora oggi. Se il “diritto animale” diventa fattispecie penale: una strada lunga e tortuosa di Mauro Mazza Il Dubbio, 19 agosto 2020 Gli animali nel processo penale svizzero: quali spunti comparativi per la riforma del diritto italiano? La Svizzera infatti è da tempo all’avanguardia nella tutela degli animali, ed è anzi leader mondiale in questo settore dell’ordinamento giuridico, tanto è vero che si potrebbe affermare che se sei un animale non- umano, il miglior Paese nel quale vivere è la Confederazione elvetica. Il Difensore degli animali, ovvero l’Animal Protection Lawyer (APL)/Rechtsanwalt für Tierschutz in Strafsachen, che rappresenta gli animali nel processo penale secondo il diritto del Cantone di Zurigo, è stato un buon esempio. Il Difensore, creato nel 1992, poteva agire davanti ai tribunali in rappresentanza degli animali, rappresentarli, proporre appello, difenderli nei processi penali come vittime de facto. Tuttavia, il discorso è da svolgere al passato, in quanto dal 1° gennaio 2011, con l’entrata in vigore delle nuove leggi federali sul processo penale, l’ALP è scomparso dal sistema legale svizzero. Un’altra significativa innovazione del diritto elvetico, vale a dire il Dachverband Berner Tierschutzorganisationen (DBT) istituito nel 1997 dalle autorità del Cantone di Berna, con legittimazione processuale non dissimile da quella attribuita all’APL del Cantone di Zurigo, è stato a sua volta soppresso con decisione del Tribunale federale svizzero del 2018, che ha confermato la precedente pronuncia della Corte d’appello di Berna del 2017. Il DBT si distingueva parzialmente dall’APL, potendo agire in rappresentanza degli interessi degli animali non soltanto nel processo penale, ma anche nell’ambito dei procedimenti amministrativi. Gli insuccessi del diritto penale animale svizzero possono offrire spunti comparativi per la riforma in subiecta materia del diritto italiano? Esistono valide alternative per la rappresentanza degli animali nel processo penale, per garantire l’attuazione del diritto animale, rispetto alle sperimentazioni costituite da ALP e DBT? Una prima alternativa può consistere nella attribuzione del compito istituzionale di attuale il diritto animale e di rappresentare gli interessi degli animali agli uffici del Pubblico ministero. L’azione penale potrebbe in questi casi esercitarsi ex officio, a tutela del pubblico interesse non diversamente da ciò che avviene per la protezione dell’ambiente, in assenza ovviamente della parte civile, come accade per le vittime umane, in quanto le vittime animali non vengono riconosciute dalla legge come tali. Un’altra possibilità sarebbe la creazione di sezioni specializzate presso gli uffici del Pubblico ministero. Il vantaggio, in questo caso, è rappresentato dalla maggiore conoscenza ed esperienza del diritto animale che avrebbero i procuratori speciali. Ancora una volta, soccorre l’esempio del diritto svizzero, poiché il Cantone di San Gallo ha istituito - unico tra gli Stati federati svizzeri - il procuratore speciale per l’attuazione della legge federale sul benessere degli animali del 2005. Una ulteriore alternativa consiste nel conferimento di alcuni poteri processuali ai Servizi veterinari, che si occupano di benessere e salute animale. Così ha fatto il Cantone di Zurigo, a seguito della soppressione dell’ALP, con l’attribuzione di poteri ad hoc al Veterinario cantonale. Se, poi, si volesse sostenere che le autorità pubbliche non sono molto efficienti nell’attuare il diritto animale, poiché la loro funzione istituzionale non è tanto quella di rappresentare gli interessi degli animali, quanto piuttosto quella di bilanciare gli interessi degli animali con (o, meglio, contro) gli interessi degli umani, si aprirebbe una ulteriore possibilità. Alle agenzie governative possono affiancarsi, infatti, le organizzazioni non governative (ONG), e specialmente le associazioni, sul modello di quanto avviene ormai da tempo per la protezione dell’ambiente. Del resto, anche nel diritto italiano le associazioni possono costituirsi parte civile in caso di reati commessi a danno di animali (Cass. Sez. III, n. 10164 del 6 marzo 2018; Cass., Sez. III, n. 38596 del 18 settembre 2019). In Germania, la legittimazione processuale delle associazioni animaliste è riconosciuta nei Länder di Brema, Bassa Sassonia, Renania settentrionale- Vestfalia, Amburgo, Renania- Palatinato, Schleswig-Holstein, Baden-Württemberg e Saarland. Sullo sfondo, rimane la questione delle questioni, ossia la considerazione degli animali come le reali vittime dei reati, e non come meri accessori nel processo penale. Ciò si rende necessario per evitare la c. d. vittimizzazione secondaria. Tale impostazione, nel panorama comparatistico, è stata adottata nelle sentenze della Oregon Supreme Court nel 2014 (vertenza State v. Nix), seguita dalla Colorado Court of Appeals nel 2016 (caso State v. Hess), ma è stata successivamente disattesa dalla Washington County Circuit Court nel 2018 (causa Justice v. Vercher). Si tratta di una serie di suggestioni, alcune delle quali potrebbe essere accolte, mutatis mutandis, nell’ordinamento italiano. Napoli. Pochi educatori e pochi agenti, l’insopportabile estate nelle celle di Poggioreale di Viviana Lanza Il Riformista, 19 agosto 2020 Il carcere napoletano scoppia anche perché 543 detenuti attendono il giudizio. Il personale? È ridotto al lumicino. Ziccardi (Carcere Possibile Onlus): “Così le tensioni diventano inevitabili”. Si dice sia il più grande d’Europa. Di certo, è il più grande d’Italia. Ha una capienza regolamentare di 1.644 detenuti, ma negli anni dentro sono stati sempre di più, anche molti più di duemila. Attualmente ce ne sono 1.975. Che pure sono tanti. Troppi. Numeri che possono e devono cambiare se si vuole che il carcere raggiunga l’obiettivo costituzionalmente garantito della funzione rieducativa della pena, quindi della pena finalizzata a qualcosa di costruttivo e non “la pena per la pena” come ha ribadito Maurizio Turco, il segretario del partito Radicale che ha fatto visita al carcere di Poggioreale il 14 agosto scorso. Numeri, quelli di Poggioreale, che danno anche la misura dello spreco che si consuma ogni giorno, spreco di energie, di spazi e di opportunità. Si parte da un ragionamento che, oltre a seguire il filo del dibattito sulla necessaria riforma della giustizia e sull’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva che ancora si continua a fare, passa anche per un rapido calcolo matematico. Il personale della polizia penitenziaria è quello con le maggiori carenze in pianta organica (meno 25%) e per questo, invece di lavorare su quattro turni da sei ore giornaliere come previsto, deve lavorare facendo straordinari su tre turni da otto ore ogni giorno. Rispetto ai detenuti reclusi, i numeri di educatori e volontari sono esigui (poco più di un centinaio a Poggioreale). E la popolazione carceraria è composta per una percentuale rilevante da detenuti in attesa di giudizio. Sì, proprio così. Gran parte delle celle di Poggioreale è occupata da detenuti che ancora aspettano di essere processati in primo grado, innocenti fino a prova contraria secondo quanto prevedono le nostre leggi. Circa il 30% sono innocenti anche per i giudici se è vero, come riportano le statistiche sugli esiti di inchieste e processi, che questa è la percentuale delle assoluzioni con cui si concludono le vicende giudiziarie. E a ciò si aggiunga che un’altra buona parte dei detenuti che sono in cella in attesa di processo sono accusati di reati per i quali, anche in caso di sentenza di condanna al termine del processo, non si prevede la reclusione necessariamente in carcere. Il che, tradotto in cifre, vuol dire che, tra i detenuti che sono ora reclusi nel grande carcere di Poggioreale, 804 sono detenuti che stanno scontando in carcere una o più condanne definitive e 543 sono i detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Con una gestione della giustizia più in linea con i principi costituzionali, si potrebbe evitare di affollare le celle delle carceri con persone solo indagate e sottoposte a misura cautelare per reati che nemmeno prevedono la sola condanna al carcere, e si potrebbero tutelare sicurezza dei cittadini e rispetto della legalità anche con misure alternative, comunque non certo con la diffusa carcerazione preventiva. Questo consentirebbe di utilizzare diversamente le risorse già disponibili negli istituti di pena in termini di uomini e mezzi per rendere il carcere un luogo dove chi è accusato di reati molto gravi può scontare dignitosamente la condanna e dove la funzione riabilitativa della pena possa sempre essere una realtà e non soltanto uno slogan da usare all’occorrenza. L’avvocato Annamaria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile, la Onlus della Camera penale di Napoli impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti, punta l’attenzione su due fattori: uno culturale, l’altro di comunicazione. “Bisogna cambiare approccio” - spiega. “Primi passi avanti sono stati già fatti, in Campania ci sono un provveditore e direttori illuminati e con cui si può dialogare in maniera costruttiva. È importante, però, che il rione, la città capiscano il carcere. Se cambiasse il rapporto tra chi è fuori e chi è dentro, a partire dal rapporto tra agenti della penitenziaria e detenuti, si eviterebbero tensioni che non fanno bene a nessuno”, aggiunge sottolineando l’importanza del carcere come luogo dove i detenuti possono trovare un’alternativa di futuro, un’occasione di rieducazione e reinserimento sociale. E poi c’è la comunicazione: “L’opinione pubblica - conclude Ziccardi - deve sapere che anche le misure alternative come gli arresti domiciliari sono dure e stringenti. C’è dunque bisogno che cambi anche l’approccio culturale alla reclusione”. Imperia. Il Ferragosto Radicale 2020 Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2020 Seppure in forma ridotta, anche quest’anno si svolge quel Ferragosto radicale che nel 2019 si trascinò dal 14 al 20 del mese per coprire tutte le carceri interessate. Nel 2020 la tradizione pannelliana subisce un drastico ridimensionamento coi nuovi vertici del Dap, dipartimento amm.ne penitenziaria: visitabili non più di 5 istituti su 198, con delegazioni di 2 sole persone. Ok per le delegazioni ristrette, ma sfugge alla logica la limitazione del numero di istituti. Evidentemente i nuovi dirigenti del Dap han deciso di tagliare le visite col pretesto della pandemia. Detto in modo più diplomatico, suona così: Particolare attenzione sarà posta al sovraffollamento e alle condizioni sanitarie, visto il protrarsi dell’emergenza Covid che ancora non permette una piena ripresa dei colloqui e dell’attività interna e impone cautele anche per le visite, autorizzate in forma ridotta e rese possibili in pochi casi solo grazie alla presenza dei consiglieri regionali [come avvenuto a Genova, importante collegio elettorale degli aspiranti consiglieri]. Tuttavia Ferragosto Radicale non è un brand esclusivo del Pr, come un tempo non lo era di radicali.it, tant’è vero che ieri perfino la Lega ha visitato il carcere di Sanremo, occupandosi però più dei controllori [guardie carcerarie interessate dal prossimo voto regionale] che dei controllati. Pertanto il Graf, Associazione radicale di Imperia, sarà presente a partire dalle ore 14 in Valle Armea, con l’ormai solita valigia di fumetti destinati alla biblioteca interna. 33 detenuti suicidi da gennaio a luglio; nell’anno horribilis 2009 si giunse al picco di 72 suicidi, ma quelli che si erano tolti la vita al 31/7 furono 31, 2 in meno; il conto dei 33 non comprende i 13 morti nelle rivolte di marzo, deceduti per overdose da medicinali sottratti alle farmacie delle carceri: il che somiglia molto al volerla far finita con la vita. Il modo scelto dai 33 detenuti per uccidersi è il cappio attorno al collo; ma 4 si sono suicidati col gas delle bombolette per cucinare in cella. Grave la condizione dei detenuti tossicodipendenti nelle patrie galere. È stato l’anno del coronavirus, che ha stravolto la vita di tutti, ancora angosciati dalla possibile ripresa della pandemia e dalle conseguenze future: economiche, sociali, democratiche e messa in discussione delle libertà personali. Ma nel microcosmo carcerario c’è un di più da considerare: come ha ben spiegato il Garante Nazionale Mauro Palma, se è vero che il lockdown ha messo tutti nella stessa situazione di privazione della libertà, là dove la libertà era già prima negata come le carceri, l’ansia per il rischio di un contagio da cui sarebbe stato impossibile difendersi s’è aggiunta a quella che tali spazi chiusi di per sé generano, una doppia ansia sfociata in angoscia. Mentre bene o male la vita “di fuori” è ripresa, in carcere è ancora tutto chiuso: i colloqui dei detenuti coi familiari e figli minori, oltre a esser ridotti nel numero e nel tempo, sono limitati alla presenza di 1 adulto e 1 minore; gli incontri si svolgono con vetro divisorio e citofono come nel 41bis; le attività trattamentali, già scarse in precedenza, sono azzerate quanto a lavori un minimo qualificanti e a possibilità di studio. La presenza della società esterna, cioè volontari e associazioni che prestano la loro opera in carcere, è ridotta all’osso; tutto ciò al netto dell’esasperazione quotidiana di detenuti che non vengono curati anche se gravemente malati, casi psichiatrici e tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove per esser seguiti e invece stanno in sezione, impossibilitati a aver contatti costanti con educatori, psicologi, assistenti sociali. Per non parlare dei Magistrati di Sorveglianza, ancor più lontani che in passato dal seguire quel percorso mirato che il codice penitenziario prevede a proposito della rieducazione del detenuto e del suo reinserimento in società. Ciò che non manca sono le Circolari del Dap: l’ultima prevede punizioni più severe, come isolamento e trasferimento* dei detenuti aggressivi (!) verso le guardie o che abbiano atteggiamenti “anti-doverosi” (si dice così); il tutto togliendo potere ai Direttori*, sempre più relegati nell’angolo per cedere spazio a impostazioni muscolose di vita penitenziaria. *Carlo Carpi non è aggressivo ma il trasferimento punitivo è arrivato lo stesso, improvviso. Rita Bernardini ha appurato che la Direttrice di Marassi ha preso come pretesto l’incompatibilità fra Carpi e uno psicologo che voleva a tutti i costi farlo passare per matto contro il parere degli stessi psichiatri. Carpi chiese d’esser affidato ad altro perito, ma le direttrici di Marassi e Sanremo se lo sono scaricato come un pacco. Bologna. Operatori Cefal in carcere: chi sono e come aiutano i detenuti nel reinserimento aspbologna.it, 19 agosto 2020 Il fine principale del carcere, lo abbiamo sempre detto, è quello di far sì che i detenuti possano essere reinseriti a pieno in società e che possano quindi diventare una preziosa risorsa per la città. Nel carcere della Dozza ci sono diverse figure che si adoperano ogni giorno per raggiungere questo obiettivo. Alcune le avevamo già illustrate negli scorsi articoli, ma c’è una figura di cui ancora non vi avevamo parlato: l’operatore Cefal. In questo post, dunque, vogliamo fare chiarezza sul suo ruolo in carcere e far capire quali sono le difficoltà che si possono riscontrare durante il reinserimento in società dei detenuti. Di cosa si occupano gli operatori Cefal - Cefal Emilia-Romagna nasce con l’intento di coniugare l’esperienza nella formazione, nella consulenza e nell’orientamento al lavoro con lo sviluppo di servizi diretti al territorio e alle dinamiche sociali che lo interessano. Gli operatori Cefal sono coloro che in carcere si occupano principalmente di detenuti, in particolare della loro inclusione lavorativa in alcuni progetti finalizzati ad un reinserimento corretto e graduale nella società. Si tratta di un percorso per il recluso che può prevedere sia la formazione in aula sia tre mesi di tirocinio, ma che in alcuni casi può prevedere solo il tirocinio. Gli operatori inizialmente incontrano i detenuti e propongono loro determinati percorsi, scelti in base alle capacità e alle attitudini di ciascuna persona. E la particolarità è che i percorsi che vengono proposti non solo garantiscono la possibilità di percepire 150€ al mese (ovvero l’indennità), ma prevedono inoltre la possibilità di essere assunti in azienda, una volta terminato il tirocinio. È chiaro che l’azienda non è mai obbligata ad assumere i tirocinanti ma in passato vi sono stati alcuni casi di successo che hanno trovato possibilità di assunzione dopo il percorso di tirocinio. Mediamente è un processo che si verifica una o due volte su dieci, ma quando ciò accade è naturale che sia un successo. La collaborazione con Asp Città di Bologna - L’unione con Asp Città di Bologna - Servizio Grave emarginazione adulta avviene attraverso una prassi che si è istituita nel corso degli anni, instaurando una modalità proficua per entrambe e proseguendo con la persona in questione il più possibile. Si è deciso di adottare questa modalità di lavoro perché se nell’ambito del sociale non si lavora insieme, difficilmente si raggiungono gli obiettivi preposti e il rischio di fallimento è all’ordine del giorno. Le difficoltà che si incontrano in carcere - La difficoltà più grande che gli operatori Cefal riscontrano nel proprio lavoro è certamente il pregiudizio, non solo dei cittadini ma delle aziende con le quali si cerca di collaborare. Come abbiamo anticipato precedentemente, è difficile trovare aziende disponibili per i tirocini e ad assumersi la responsabilità di inserire nell’organico un ex detenuto. Quando gli operatori Cefal cercano un’azienda idonea per l’inserimento di un detenuto circa 1 azienda su 30 è disposta a collaborare. Molto spesso se la persona in questione è straniera la difficoltà è maggiore. Purtroppo le diffidenze sono ancora tante. L’elemento positivo è che quando gli operatori Cefal individuano un’azienda disponibile vuol dire che all’interno di questa azienda ci sono persone eccezionali. Infatti accade che diverse aziende si facciano carico del reinserimento del detenuto nella società con grande accoglienza e disponibilità. Continueremo a parlare dei percorsi di tirocinio per i detenuti e dei settori più appetibili nei prossimi articoli, aggiungendo nuove informazioni e dettagli molto interessanti. Per cui restate sintonizzati e non perdetevi le nuove pubblicazioni. Il fine principale del carcere, lo abbiamo sempre detto, è quello di far sì che i detenuti possano essere reinseriti a pieno in società e che possano quindi diventare una preziosa #risorsa per la città. Sulmona (Aq). Manutenzione verde pubblico, detenuti pronti a lavorare ilgerme.it, 19 agosto 2020 Ma non c’è ancora la firma sulla convenzione. Al carcere di via Lamaccio si aspetta con ansia la restituzione dello schema di convenzione firmato e stipulato con il comune di Sulmona. Detenuti pronti a dare il loro contributo e giovarne sarebbe la cura dell’area sulmonese. Mauro Nardella Uil invita l’amministrazione a velocizzare l’iter e a procedere con le attività. “La macchina operativa costituita da detenuti in stato avanzato di riabilitazione e deputati a svolgere, seppur in attività di volontariato, lavori di sfalcio e bonifica del verde è pronta a mettersi in moto e ad evitare così, una volta per tutte, l’annoso problema dell’abbondante vegetazione che ogni estate e soprattutto in questo periodo attanaglia l’intero percorso che da via Lamaccio conduce al carcere cittadino” spiega Nardella che ricorda come la condizione renda pericolosa un’arteria che oltre al collegare la città al carcere attrae molti residenti dediti al podismo e che non poche volte hanno dovuto armarsi di elevata precauzione per non rischiare di essere investiti dalle auto. “Invitiamo per questo motivo il Sindaco - conclude - a far presto anche perché un ulteriore ritardo sarebbe oltre che inspiegabile assolutamente non auspicabile stante il pericolo incombente”. Migranti. Varhelyi: “L’Europa non si sottrae, ma Tunisi deve fermare l’immigrazione illegale” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 19 agosto 2020 Oliver Varhelyi, 48 anni, ungherese, è il Commissario Europeo al Vicinato e all’Allargamento. Assieme alla sua collega svedese Ylva Johansson, titolare degli Affari interni, è volato lunedì a Tunisi con i ministri italiani Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese per incontrare le autorità tunisine. E invitarle ancora una volta a far di più per fermare l’immigrazione clandestina. “Ho confermato in tutti i nostri incontri e innanzitutto ai nostri partner italiani che l’Unione europea c’è, che siamo impegnati e faremo tutto quanto necessario per sostenere la Tunisia: ma la Tunisia deve fare quello che hanno promesso di fare, devono rafforzare la lotta all’immigrazione illegale e fare le riforme necessarie al loro paese. Ripeto, se hanno problemi noi ci siamo, ma devono aiutare l’Europa, tutta l’Europa, facendo le cose che si sono impegnati a fare”. Commissario Varhelyi, come è nata questa missione d’emergenza di quattro ministri in Tunisia, con una formula nuova Italia/Unione Europea? “Devo dire che abbiamo accettato con favore la proposta del ministro Luigi Di Maio di effettuare questa missione congiunta, e spero che in futuro paesi come l’Italia impegnati direttamente negli affari del Mediterraneo continuino a muoversi insieme alla Commissione per rendere più efficaci i nostri messaggi e la nostra politica. Siamo andati a Tunisi adesso perché c’è una crisi di migrazioni illegali, ci siamo andati insieme per spiegare che questa crisi non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa”. Di Maio aveva promesso di congelare i fondi italiani alla Tunisia se non avessero dato segnali sull’immigrazione. Insieme a lui a Tunisi adesso avete annunciato altri fondi: i leader tunisini vi hanno convinto? “Abbiamo incontrato innanzitutto il presidente Kais Saied, il primo ministro incaricato, il ministro degli Esteri. Ma voglio dire che abbiamo parlato a tutta la dirigenza tunisina. L’Europa sta lavorando a ridisegnare un “Piano per il Maghreb” che finalizzeremo per la fine del 2020 in collaborazione con la regione. L’Europa è stata presente negli anni in Tunisia, l’ammontare del nostro impegno è noto. E continueremo. Ma vogliamo che ci sia risposta alle nostre richieste, innanzitutto sulle migrazioni illegali”. Lei conosce benissimo le condizioni della Tunisia e del suo governo: hanno una crisi economica profonda, e una crisi politica che non riesce a dare continuità al governo del paese... “L’Europa tempo fa ha individuato i suoi obiettivi per la Tunisia: sostenere il lavoro, la crescita economica del paese. Forse però in passato non siamo stati attenti ai nostri interessi, a far comprendere bene che ci attendiamo una interazione dai nostri partner esterni. In Tunisia il messaggio che abbiamo lanciato è stato molto chiaro: ridurre drasticamente l’area dell’illegalità favorisce anche la stabilizzazione politica del paese, quella economica e favorisce gli investimenti stranieri”. Ma la dirigenza tunisina è ancora molto debole, i gruppi criminali nel paese spesso sfuggono al controllo dello Stato. “I traffici illegali, compresi quelli che sfruttano i migranti, sono un colpo diretto alla politica in Tunisia. Danneggiano il paese ma gli stessi leader politici tunisini. Il nostro sostegno economico a quel paese è costante e continuo, serve a evitare che lo Stato finisca in bancarotta, ma non può essere senza condizioni. L’illegalità deve essere combattuta, perché anche questo contribuisce alla ripresa economica del paese, alla sua credibilità”. L’Italia ha accordi bilaterali con la Tunisia per i rimpatri, e chiede di velocizzare questo flusso. Ne avete parlato? “L’Unione Europea ritiene che i rimpatri vadano velocizzati, che il messaggio debba essere chiaro: non sono accettabili spostamenti, migrazioni economiche illegali. La protezione dei nostri confini è importante, possono entrare soltanto i cittadini stranieri che ne hanno diritto. E più rimpatri sono necessari”. Stati Uniti. Covid-19, oltre mille decessi e 160mila infetti nelle carceri askanews.it, 19 agosto 2020 Hanno superato quota mille i decessi per coronavirus nelle carceri e negli istituti di correzione americani, registrando un aumento del 40% nelle ultime sei settimane. Secondo il database del New York Times all’interno delle strutture sono stati registrati 160mila contagi tra prigionieri e guardie. Il numero di morti è quasi certamente più alto perché le carceri eseguono test limitati sui detenuti, e molte strutture si rifiutano di testare i prigionieri nonostante mostrino tutti i sintomi legati al Covid-19. Il più grande incubatore di coronavirus si trova nella prigione di stato di San Quintino in California, dove più di 2.600 detenuti e guardie sono stati infettati e 25 detenuti sono morti. Uno studio ha dimostrato che i prigionieri si infettano per il Covid con un tasso cinque volte superiore al tasso complessivo della nazione. Bielorussia. Di Maio: “Rispettare i diritti, inaccettabile l’uso della forza” di Francesca Paci La Stampa, 19 agosto 2020 Il ministro degli Esteri: “Liberare i detenuti e convocare nuove elezioni”. L’Italia che dice? A dieci giorni dalla contestata rielezione di Aleksandr Lukashenko e con la tensione alle stelle per il vertice Ue di questa mattina sulla crisi al di qua del confine russo a cui partecipa anche il premier Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Di Maio ammette di seguire “con molta preoccupazione” le notizie delle manifestazioni e dei violenti scontri a Minsk e nelle altre città della Bielorussia. Nelle ultime ore Lukashenko ha additato l’opposizione come anti-russa, accusandola di voler usurpare il potere, e ha allenato le unità militari alla frontiera occidentale. Dal canto suo, il presidente russo Putin, primo sponsor internazionale del “babbo”, come ama essere chiamato Lukashenko, continua a mettere in guardia i leader Ue dall’interferire negli affari della ex repubblica sovietica. “Già martedì 11 agosto, all’indomani della conferma ufficiale dei risultati, l’Italia ha condannato pubblicamente le violenze e l’ondata di arresti indiscriminati che hanno avuto luogo nel Paese”, insiste Di Maio. Giorno dopo giorno si moltiplicano le immagini delle donne in bianco, gli automobilisti a passo d’uomo per rallentare i blindati, i ragazzi fluidi “come l’acqua” che mutuano lo slogan degli sfortunati coetanei di Hong Kong. Nel caso della ex colonia britannica, schiacciata dal giogo di Pechino dopo un anno di proteste, Roma non brillò in tempismo nello schierarsi con la piazza. Anzi. Stavolta però, la Famesina pare cercare il riscatto, per dire che le democrazie stanno con le richieste democratiche ma anche per smarcarsi dall’orbita filo-russa nella quale era ritenuta gravitare insieme all’ex alleato di governo Salvini, che lunedì, con spregio dell’opposizione, ha precisato di rispettare “il voto” bielorusso. Di Maio guarda altrove. Dice che “alle dimostrazioni pacifiche” contro le irregolarità del voto “le Autorità di Minsk hanno purtroppo risposto con un uso della forza sproporzionato e inaccettabile, che ha causato tra i manifestanti tre vittime e circa 7.000 arresti. La compressione dei principali diritti civili e delle fondamentali libertà democratiche inclusa quella di stampa non è accettabile”. Bruxelles minaccia sanzioni, Angela Merkel e il presidente del consiglio Ue Charles Michel usano parole forti, oggi il titolare della Farnesina è in linea con i colleghi Ue: “Ne ho parlato con l’Alto Rappresentante Borrell e i miei omologhi UE al CAE informale straordinario del 14 agosto. L’Italia e l’Unione Europea stanno lavorando per fornire risposte adeguate. È allo studio un fondo speciale per le vittime della repressione e verrà presto avviata l’analisi di una lista di possibili destinatari di sanzioni europee contro chi si è macchiato di gravi violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. A un anno dall’incertezza su Hong Kong, l’Italia vuole essere netta sulla Bielorussia: “Chiediamo che le Autorità di Minsk completino al più presto il rilascio dei detenuti politici e avviino un dialogo con le forze di opposizione, che auspicabilmente dovrebbe condurre a nuove elezioni in linea con gli standard internazionali di trasparenza e correttezza. L’Italia lavora per favorire questi sviluppi e sostenere una Bielorussia stabile e democratica, sia bilateralmente che sul piano multilaterale innanzitutto in ambito Ue e Osce”. Putin ascolti. Bielorussia. “Permesso ai sacerdoti di visitare le carceri e rilascio di tutti i prigionieri” agensir.it, 19 agosto 2020 Mons. Kondrusiewicz chiede di essere ricevuto dal ministro degli Interni. Il permesso ai sacerdoti di visitare i prigionieri messi in carcere durante le proteste e il rilascio immediato di tutti i detenuti. È quanto vuole chiedere l’arcivescovo-metropolita di Minsk-Mogilev, mons. Tadeusz Kondrusiewicz, al ministro degli Affari interni della Repubblica di Bielorussia, Yuri Karaev. È lo stesso presidente della Conferenza episcopale bielorussa a spiegare al Sir il motivo che lo ha spinto a chiedere in queste ore un incontro personale con il ministro Yuri Karaev. “I prigionieri - dice - hanno bisogno di aiuto umanitario e sanitario, ma anche di aiuto spirituale. Purtroppo fino ad oggi non è stato permesso ai sacerdoti di entrare nelle carceri ed è quanto chiediamo al ministro. Sappiamo da chi è uscito dalla prigione delle condizioni estremamente gravi in cui sono stati. Alcuni hanno anche avuto bisogno di un medico. Quello che però noi chiediamo è di poter offrire loro assistenza spirituale”. Il presidente della Conferenza dei vescovi cattolici di Bielorussia chiede anche al ministro degli Affari interni il rilascio immediato di tutti i detenuti. “Non si capisce per quale motivo siano ancora lì. Abbiamo visto le manifestazioni anche nell’ultimo fine settimane e ancora oggi e sono state pacifiche”. Mons. Kondrusiewicz vuole anche parlare con il ministro dell’attuale difficile situazione al fine di “prevenire future violenze” e “soprattutto pacificare gli animi”. “C’è un grande pericolo oggi per noi”, dice ancora al Sir l’arcivescovo. “Sono molto preoccupato che il Paese possa cadere in una guerra civile. Il popolo si sta dividendo. Ci sono accuse verso la polizia e verso le persone che hanno fatto parte dei seggi elettorali nelle ultime elezioni presidenziali. Molti di loro erano soprattutto insegnanti delle scuole. Tra due settimane i bambini torneranno a lezione e oggi sui muri delle scuole sono apparse scritte offensive contro la classe docente. In una si leggeva: “Cosa insegnerete ai nostri figli se avete fatto cose false?”. È un problema molto grave. Si è rotta la fiducia. Sono persone che vivono negli stessi edifici, che rischiano di non parlarsi più, di vedersi con sospetto”. In questo contesto, è arrivata anche a Minsk la notizia che i cristiani d’Europa - per iniziativa delle Commissioni europee per la Giustizia e la Pace - hanno indetto per oggi alle 18 un momento di preghiera per il popolo bielorusso affinché “la verità, la giustizia e la pace possano prevalere”. “Nella mia omelia di oggi - anticipa l’arcivescovo - rivolgerò un appello alla riconciliazione. Chiederò ai fedeli di volgere i nostri occhi e il nostro cuore a Gesù, ripetendo anche noi le sue parole sulla Croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. La tensione però in Bielorussia è ancora alta. Dopo la manifestazione oceanica di domenica scorsa, arrivano gli scioperi che stanno paralizzando l’economia. Il presidente Aleksandr Lukashenko è andato a parlare in una fabbrica, sperando di ottenere consenso ma i lavoratori lo hanno fortemente contestato, invocando nuove elezioni. Il presidente, pur di non farsi sfuggire la situazione dalle mani, ha proposto così di avviare le procedure per cambiare la Costituzione, indire poi un referendum ed eventualmente fare nuove elezioni. L’arcivescovo commenta: “Questo dimostra quanto sia importante convocare subito un tavolo di confronto attorno al quale tutte le parti devono sedersi e discutere insieme quale strada percorrere per una soluzione pacifica della situazione”. Medio Oriente. Palestina schiacciata tra Israele ed Emirati Arabi di Giorgio Pagano* Il Secolo XIX, 19 agosto 2020 L’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele dà espressione piena a un’alleanza che di fatto esisteva già, cementata da una visione geopolitica - la creazione di una sorta di “Nato araba” che unisca il fronte sunnita e Israele contro l’Iran sciita e contro la Turchia, che pure è sunnita e da tempo riconosce Israele - e dalla motivazione di una comune crescita economica. Resta incerto il ruolo dell’Arabia Saudita, indebolita dall’assassinio di Jamal Kashoggi e dalla guerra contro lo Yemen: il “piano” avrebbe dovuto vederla protagonista, ma Mohammed bin Zayed (MbZ) il principe ereditario di Abu Dhabi, l’ha sorpassata candidandosi a leader del mondo sunnita. Ora Riad seguirà o no gli Emirati? Un altro interrogativo riguarda il Libano: perché l’accordo è anche contro Hezbollah, alleato dell’Iran, già indebolito dalla misteriosa esplosione di Beirut. Ma la vera domanda riguarda il conflitto israelo-palestinese. Secondo MbZ “Israele si è impegnato a frenare qualsiasi dichiarazione di sovranità sui Territori Palestinesi”. Bibi Netanyahu si è limitato a parlare di “sospensione”. Certamente il quadro è cambiato: Netanyahu ha “frenato” rispetto al disegno, che doveva iniziare il 1° luglio, di “estensione della sovranità israeliana” su circa due terzi della Cisgiordania, il territorio palestinese occupato dal 1967. Netanyahu non aveva ancora proceduto, addebitando il fatto al ritorno della pandemia. La verità è che erano emersi sia ostacoli interni che esterni, soprattutto il mancato appoggio incondizionato da parte degli Stati Uniti. Le implicazioni erano troppo pericolose. A Netanyahu l’accordo è dunque servito per uscire da una fase di grande difficolta: per il processo per corruzione, per le proteste popolari contro la sua gestione della pandemia, e perché non era nelle condizioni di attuare l’annessione annunciata. Ovviamente l’inserimento della frase sull’annessione ha dato ben altra immagine all’accordo anche dal punto di vista di MbZ. Dal tatticismo che ha mosso entrambi i protagonisti derivano le loro, già citate, diverse interpretazioni. La Palestina ha reagito con rabbia mista a rassegnazione. I diritti dei palestinesi -non a caso nemmeno presenti ai negoziati- non sono riconosciuti. Si teme una pace con una parte del mondo arabo che cancelli una volta per tutte le aspirazioni ad avere un proprio Stato. MbZ ha posto la questione della nuova annessione, non quella dell’occupazione: ma l’annessione riguarda territori che Israele occupa da tempo. Il rischio è la fine della questione palestinese: il nuovo staterello disegnato da Netanyahu e Trump è una “gruviera” -poche aree immerse nel grande Israele, senza continuità territoriale- per di più privo di Gerusalemme est come capitale. Al suo posto è prevista Abu Dis, un quartiere periferico sradicato da Gerusalemme grazie al muro di divisione. Basta andarci e parlare con chi ci vive: per tutti “la capitale è la città vecchia, dove c’è la Moschea santa”. Tuttavia l’annessione, almeno per ora, non ci sarà, e il piano Trump non si realizzerà: l’accordo almeno questo lo certifica. Non solo, Trump potrebbe non essere rieletto. Insomma, non tutto è perduto per i palestinesi. Ma certamente la loro classe dirigente è una casa da ricostruire: servono nuovi volti e nuove idee. La pace, nonostante la retorica di questi giorni, è ancora lontana. Molto potrebbe fare l’Europa, oggi paralizzata, come ha spiegato lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua sul “Secolo XIX”, per un duplice motivo: “la memoria della Shoah e la responsabilità dell’Europa in quella tragedia” e “l’antisemitismo serpeggiante nella società europea”. Ma di fronte all’atteggiamento del Governo israeliano, ha aggiunto, “i Paesi europei non solo hanno il permesso ma anche l’obbligo morale di dire: no, adesso basta”. *L’autore, già sindaco della Spezia, è cooperante in Palestina Filippine. Continua la strage dei difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 agosto 2020 La sera del 17 agosto Zara Alvarez, 39 anni, è stata uccisa da sconosciuti a Bacolod City, nella provincia di Negros Occidental. Era l’assistente legale del gruppo per i diritti umani Karapatan e una ricercatrice del Programma integrato per la salute dell’isola di Negros. Anche il suo nome, come quello di Randall Echanis, ucciso il 10 agosto, era stato inizialmente inserito in un elenco di centinaia di persone “terroriste” che il dipartimento della Giustizia aveva pubblicato nel 2018. Sotto l’amministrazione Duterte innumerevoli persone - difensori dei diritti umani, attivisti, contadini, oppositori - sono state etichettate come “rosse”, “comuniste” o “terroriste”. Già in 13 hanno pagato con la vita. Afghanistan. Gli agguati e le uccisioni dei civili alla vigilia del negoziato di pace di Bianca Senatore La Repubblica, 19 agosto 2020 Le violenze contro le donne e chi lavora per il futuro è un problema che l’Afghan Independet Human Right Commission, Aihrc, affronta ogni giorno. Intervista a Zabihullah Farhang, il portavoce. La strada verso la stabilizzazione in Afghanistan è tutt’altro che spianata. Entro il 20 agosto, dovrebbero iniziare a Doha, in Qatar, i colloqui intra-afghani tra governo e talebani per arrivare a un accordo di pacificazione. Sempre se entro quella data verranno rilasciati 320 dei 400 prigionieri talebani che dovrebbero essere liberati grazie al patto di “buona volontà” stabilito dalle parti, proprio per favorire l’incontro di Doha. I primi 80 detenuti sono stati rilasciati il 14 agosto scorso e il portavoce dell’ufficio politico dei taliban, Suhail Shaheen, ha confermato che nell’arco di una settimana dalla liberazione degli altri combattenti, ci si potrà sedere attorno a un tavolo. L’attacco alla deputata. Ma intanto la tensione in Afghanistan non si attenua, anche proprio in vista di questi possibili negoziati. L’ultimo attacco è avvenuto per colpire la deputata Fawzia Koofi, che fa parte del gruppo di negoziatori che dovrà intavolare la discussione con i talebani. È stata ferita mentre andava al mercato. Le violenze ai danni di donne e uomini che lavorano per garantire un futuro all’Afghanistan è un problema che l’Afghan Independet Human Right Commission, AIHRC, affronta ogni giorno, come racconta Zabihullah Farhang, portavoce e capo delle pubbliche relazioni della stessa Commissione, che abbiamo intervistato. Gli agguati mirati dei talebani. “Il conflitto e l’insicurezza limitano le nostre possibilità di monitoraggio e di promozione dei diritti umani - dice Zabihullah Farhang - una magistratura debole significa che le vittime della violenza che fanno riferimento all’Aihrc devono spesso lottare a lungo e duramente per accedere alla giustizia. L’ultima tendenza è quella di fare agguati mirati e questo modus operandi ha sollevato problemi di sicurezza e protezione tra il nostro personale e tra tutti quelli che lavorano per il bene di questo Paese, come Fawzia Koofi. Avere un conflitto a bassa intensità ma perenne comporta anche che ogni giorno abbiamo più persone sfollate, disabili a causa della guerra e più bambini che hanno perso uno o due genitori. Tutti questi gruppi sono più vulnerabili e richiedono sostegno e protezione”. C’è stato l’accordo tra Stati Uniti e Talebani a febbraio, ora in corso i colloqui di pace tra Governo e Talebani. Questo sta portando a un miglioramento della situazione? “Tutte le parti in conflitto devono rispettare il diritto internazionale umanitario (Ihl), che protegge la vita dei civili. Sfortunatamente, durante i primi sei mesi del 2020, 1.213 civili sono stati uccisi e 1.744 sono stati feriti da talebani, da Isis, da ignoti, da forze di sicurezza nazionali afgane, da forze internazionali e da missili pakistani alla frontiera. Secondo i nostri osservatori, ancora oggi il 48,5% delle violenze è da attribuire ai talebani, il 26,7% a autori sconosciuti, il 15,5% alle forze di sicurezza nazionale dell’Afghanistan, il 6,7% all’Isis e il 3,2% delle attribuzioni non è stato possibile per fattori ignoti. Vale la pena ricordare che durante questo periodo di tempo più di 630 bambini sono stati uccisi e feriti, il che significa che i civili stanno pagando il prezzo più alto per questa guerra. La situazione peggiorerà se la guerra continua e i negoziati di pace intra-afghani non iniziano a breve e soprattutto se non sono vincolanti”. Alcuni membri della commissione sono stati attaccati e uccisi di recente, perché siete nel mirino? “Aihrc come organizzazione nazionale ha perso diversi collaboratori negli ultimi due decenni. Gli ultimi sono Fatima Khalil e Jawed Folad, uccisi il 27 giugno ma non sappiamo chi c’era dietro questo brutale attacco. Purtroppo non si è arrivati a nessuna conclusione, guarda caso, nonostante le indagini. Andando a ritroso, abbiamo perso Ansari Balooch, Capo dell’ufficio provinciale dell’AIHRC nella provincia di Ghor nel 2008; Hamida Barmaki, commissario di AIHRC nel 2013; Emranullah assistente dell’unità di assistenza ai bambini dell’ufficio di Nangarhar, nel 2015, ammazzato insieme al suo collega Shafiullah Nasiri che faceva il receptionist; e poi ancora Abdul Samad Amiri, capo dell’ufficio provinciale di Ghor, ucciso del 2019. AIHRC è un’istituzione indipendente e imparziale, che si batte per la tutela dei diritti umani e tuttavia il nostro personale viene ucciso come fossimo nemici di guerra. Sfortunatamente, i gruppi armati antigovernativi non valutano i diritti dei civili e non hanno rispetto per la vita”. Ci sono tante donne che lavorano per la Commissione? Sì. Il numero totale di dipendenti donne impiegate presso l’Aihrc è 103. Sono commissari, capi di ufficio, assistenti, direttori, ufficiali, ecc. E molte altre, dopo i recenti attacchi, si sono avvicinante, incredibilmente. L’uccisione di Fatima Khalil non ha spaventato, ha indignato e coinvolto ancora più persone”. In che modo il vostro lavoro è fondamentale? “Aihrc è incaricato di promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali e di affrontare i casi di violazioni dei diritti umani che si verificano ogni giorno in Afghanistan, inclusi i diritti dei minori, i diritti delle donne e delle minoranze. È inoltre necessario monitorare la situazione dei diritti umani nei centri di detenzione e assicurarsi che le persone private della libertà non vengano torturate nelle carceri. Mentre il conflitto continua, sembra improbabile che il numero di violazioni diminuisca in tutto il Paese. Secondo i suoi doveri e il suo mandato, l’AIHRC ha ottenuto molti risultati in base all’articolo 58 della Costituzione dell’Afghanistan”. Quando gli americani se ne andranno cosa pensi che accadrà? Dipendente da come lasceranno l’Afghanistan. Se iniziano i colloqui di pace intra-afgani e le parti in conflitto raggiungono un accordo, a seconda del contenuto dell’accordo, esiste la possibilità di una riduzione sostanziale della violenza e un’opportunità di pace. Ma se i talebani e il governo afghano non riusciranno a raggiungere un accordo, siamo profondamente preoccupati per il conflitto che continuerà e forse si intensificherà. Aihrc spera che il ritiro militare sarà un ritiro graduale e responsabile dall’Afghanistan, con continui aiuti internazionali al governo e al popolo di Afgano”. Mali. Colpo di Stato militare, arrestati il presidente e il premier La Repubblica, 19 agosto 2020 La rivolta è partita da una caserma alla periferia della capitale Bamako. Condanna internazionale, convocata una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta e il suo primo ministro, Boubou Cissè, sono stati arrestati nel tardo pomeriggio a Bamako da soldati in rivolta. Ad annunciarlo per primo è stato uno dei leader dell’ammutinamento: “Possiamo dirvi che il presidente e il primo ministro sono sotto il nostro controllo. Li abbiamo arrestati a casa del presidente”. Ma in serata è stato lo stesso portavoce del governo a confermare gli arresti, denunciando il golpe in corso. Poche ore dopo il presidente ha annunciato le sue dimissioni e lo scioglimento del Parlamento e del Governo, poche ore dopo l’ammutinamento dei soldati che lo hanno arrestato. “Non voglio che venga versato sangue per restare al potere”, ha detto in un breve discorso trasmesso dalla televisione di Stato. Il presidente e il premier erano stati trasferiti su un veicolo blindato a Kati, la base militare alla periferia di Bamako dove in mattinata è iniziato l’ammutinamento, ha detto un’altra fonte militare. Secondo l’agenzia Ap, poco prima di questo annuncio testimoni avevano visto mezzi militari circondare la residenza presidenziale mentre alcuni soldati sparavano colpi in aria. Il portavoce dei ribelli ha poi affermato che l’arresto del presidente e del premier “non è un golpe, ma un’insurrezione popolare”. Il colpo di mano è stato subito denunciato dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che ha annunciato per oggi una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza. Guterres ha chiesto la “liberazione immediata e senza condizioni” del presidente e il ristabilimento dell’ordine costituzionale. Anche l’Unione europea “condanna con forza” il golpe e rifiuta “ogni cambiamento anti-costituzionale” che “non può essere in nessun caso una risposta alla profonda crisi socio-politica che sta spaccando il Paese”. Lo ha scritto su Twitter l’Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell. Nella capitale del Mali regna la confusione dall’alba, quando sono stati sentiti spari nel campo militare di Soundiata-Keita a Kati, che si trova a 15 chilometri a nord di Bamako. Uomini armati su pick-up hanno fatto irruzione nel campo. “Pick-up pesantemente armati sono entrati nel campo di Soundiata-Keita e gli uomini a bordo hanno sparato in aria. C’è stata una risposta da parte dei soldati presenti che credevano in un attacco”, ha detto un ufficiale del Mali a Jeune Afrique, a condizione di restare anonimo. Lo scambio di artiglieria si è poi fermato. Al primo gruppo si sarebbero poi aggiunti “altri dieci pick-up”, sempre secondo la fonte di Jeune Afrique interna al ministero della Sicurezza del Mali. “I depositi di armi sono stati aperti e le armi distribuite ai soldati presenti nel campo”, ha detto la fonte. Secondo voci non confermate, sarebbero stati fermati dai militari i ministri degli Esteri e delle Finanze e il presidente del Parlamento. A tarda sera, la situazione veniva descritta da diverse fonti come estremamente confusa: aeroporto e tv di Stato sarebbero in mano ai governativi, mentre la guardia nazionale e reparti del Ministero dell’Interno sono passati dalla parte dei ribelli. Jeune Afrique riporta che il personale non essenziale di diverse amministrazioni pubbliche, inclusi diversi ministeri, è stato evacuato, in particolare il personale dell’Ufficio radiotelevisivo del Mali (Ortm). A mezzogiorno, inoltre, decine di giovani si sono riuniti in Piazza Indipendenza, intonando slogan favorevoli ai militari di Kati. Alcuni di loro hanno chiesto moderazione e ordinato di evitare il saccheggio. La Comunità degli Stati dell’Africa occidentale, mediatrice in Mali, ha detto di seguire “con grande preoccupazione” la situazione, “con un ammutinamento sviluppatosi in un contesto sociopolitico già molto complesso”. L’organizzazione chiede “ai militari di rientrare nelle loro caserme” e ricorda “la sua ferma opposizione a qualsiasi cambiamento politico anticostituzionale”. Nel corso della giornata, il presidente francese Emmanuel Macron si è messo in contatto con tutti i capi di Stato della regione, ha espresso “il suo pieno sostegno agli sforzi di mediazione in corso da parte degli Stati dell’Africa occidentale” e ha condannato il tentativo di golpe. Diverse rappresentanze diplomatiche in Mali hanno diffuso messaggi ai loro connazionali. L’ambasciata francese ha “sollecitato” i propri connazionali a restare a casa “viste le tensioni a Kati e Bamako”. L’ambasciata norvegese ha chiesto ai suoi connazionali di “prestare cautela” poiché “è stata informata di un ammutinamento nelle forze armate e delle truppe che sono in viaggio verso Bamako”. “In considerazione degli sviluppi odierni della situazione, si raccomanda a tutti coloro che si trovino a Kati e a Bamako di rimanere in casa”, consiglia ai nostri connazionali l’ambasciata italiana a Dakar. L’Italia non ha un’ambasciata in Mali e gli italiani presenti nel Paese devono fare riferimento a quella in Senegal. La sezione sicurezza di Minusma da parte sua ha lanciato un messaggio raccomandando al personale delle Nazioni Unite di “evitare l’area di Kati e tutti i movimenti stradali non necessari a Bamako fino a nuovo avviso”. La missione Onu “ha sospeso tutti i movimenti del personale a Bamako e Kati” e ha convocato una riunione del gruppo di gestione delle crisi, prima di un “incontro speciale del gruppo di gestione della sicurezza”.