Solo 5 deputati alla “rituale” visita del Partito Radicale nelle carceri di Valter Vecellio Il Dubbio, 18 agosto 2020 L’invito di trascorrere il Ferragosto con i detenuti è stato accolto quest’anno soltanto da cinque parlamentari. E il Dap ha imposto un numero ridotto di strutture da vedere. Nei giorni di Ferragosto, pur con i limiti e le difficoltà imposte dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria che si è fatta schermo della pandemia, il Partito Radicale è stato protagonista di un importante, sia pur “tradizionale” evento: le visite nelle carceri italiane. Si dirà: uffa, ogni anno, da anni, da Natale, a Capodanno, Pasqua, Ferragosto, il Partito Radicale organizza le “solite”, rituali, ormai poco originali, visite nelle carceri. È vero. Da quando era vivo Marco Pannella e si inventò questo “rito”, ogni anno, da anni, il Partito Radicale “bussa” alle porte di carceri e di istituti di letterale pena; i dirigenti radicali si intrattengono con i detenuti, “ispezionano” le celle, parlano e si confrontano con gli agenti della polizia penitenziaria, con la vasta e tante volte ignorata comunità penitenziaria: medici e infermieri che operano con le proverbiali forcine per capelli; volontari che lavorano a mani nude, e tutto quel mondo, troppe volte ignorato e colpevolmente sconosciuto, che c’è dietro “le sbarre”. Sì, sono ripetitivi. Però… ogni Capodanno il presidente della Repubblica in carica invia al paese il suo messaggio a reti unificate; ogni anno c’è la conferenza stampa del presidente del Consiglio; ogni ferragosto, interviene il ministro dell’Interno; tutti gli anni, prima delle ferie estive, la cerimonia del ventaglio ai presidenti di Senato e Camera; nessuno dice “uffa”. Si tratta infatti di importanti, pur se “rituali”, occasioni per fare il punto della situazione, e dire quello che si ritiene di dover far sapere. Certo: sarebbe una vera notizia se una volta un presidente della Repubblica in quanto tale si recasse in visita in un carcere il giorno di Capodanno e lì pronunciasse il suo discorso. Sarebbe “notizia” se a Ferragosto, presidenti di Senato e Camera, ministro dell’Interno e della Giustizia, visitassero le carceri, si presentassero a Rebibbia o San Vittore. Per ora tocca accontentarsi di Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Irene Testa, Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti, degli altri dirigenti del Partito Radicale o di “Nessuno tocchi Caino”. E la cosa non viene ritenuta notizia “notiziabile”. Non fa neppure “notizia” che per ragioni incomprensibili il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria abbia disposto che si potevano visitare solo cinque carceri, causa pandemia. Indubbiamente i radicali sono degli untori: ma non di Covid-19; piuttosto di democrazia, diritto, conoscenza, nonviolenza. Sono questi, forse, i contagi che si vuole evitare nelle carceri. Registriamo comunque che nessuno tra i mille editorialisti e commentatori che affollano le pagine dei giornali, che abbia domandato: qual è la relazione tra Covid-19 e visite in carcere? Su quale evidenza scientifica si basa la decisione di limitare le visite in carcere a cinque? Se fossero state sei o sette, il virus sarebbe dilagato? Cinque garantisce distanziamento sei o sette, al contrario, equivale alla vituperata movida? Nessuno pretende che il ministro della Giustizia o i suoi sottosegretari trascorrano qualche ora in carcere, tra i detenuti, il giorno di ferragosto. Però questo aver impedito al Partito Radicale di poter visitare le carceri è qualcosa di incomprensibile e poco intelligente. Rita Bernardini su Il Dubbio del 15 agosto ha potuto rievocare una sua visita al carcere palermitano dell’Ucciardone con, tra gli altri, il compianto Vincino. Sugli altri giornali non una parola. Tutto bene nelle carceri? Proprio no. Su Il Foglio di oggi alcuni dati, ricavati dal monitoraggio curato dall’associazione Antigone: 106,1 per cento di affollamento. 140 detenuti ogni 100 posti disponibili, in 24 carceri italiane. A Latina il tasso di affollamento è del 197 per cento; a Taranto del 177 per cento. 287 casi totali di infezione al coronavirus registrati all’interno delle carceri dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Per effetto del contagio sono morti 4 detenuti, 2 agenti di polizia e 2 medici Penitenziari. Ecco, è questa la situazione che non si vuole sia conosciuta. In questi giorni grande scandalo per i cinque parlamentari che hanno chiesto il bonus; indubbiamente un episodio disdicevole, anche se nessuna legge è stata violata. Ma cinque richieste, su novecento e passa parlamentari sono poca cosa. Eppure cinque “sporcano”, agli occhi dell’opinione pubblica novecento e passa tra senatori e deputati. Confesso che trovo ben più riprovevole che siano stati non più di cinque, i parlamentari che hanno raccolto l’invito del Partito Radicale di avvalersi delle loro prerogative e visitare le carceri. Quei non più di cinque, non sono sufficienti a “lavare” l’indifferenza mostrata da tutti gli altri. Da dentro a dentro. La pandemia vista dalle prigioni italiane* di Riccardo Rosa napolimonitor.it, 18 agosto 2020 L’ultimo pomeriggio prima della quarantena l’ho passato fuori le mura del carcere di Poggioreale. Era l’8 marzo e i messaggi ricevuti sulle chat, insieme alle immagini delle rivolte che cominciavano a circolare, erano stati decisivi, per me e per altri, per rompere gli indugi dovuti alla paura del virus che cominciava a diffondersi anche nel sud Italia. Dopo quel pomeriggio ho smesso di fare paragoni tra la quarantena e il carcere. Qualche giorno ancora e ho cominciato a provare fastidio ogni volta in cui sentivo qualcuno confrontare la propria condizione di isolamento con quella dei detenuti agli arresti domiciliari. L’8 marzo, quando sono arrivato a Poggioreale, ho trovato ad accogliermi una rabbiosa grandinata e una folla che si stava radunando in piazza Cenni, per monitorare gli sviluppi della rivolta. Sul tetto del padiglione Livorno, il più vicino alle torri del Centro Direzionale, un gruppetto di detenuti urlava e salutava la folla. Alcuni avevano il petto nudo e la testa coperta dalle magliette, forse per provare a non rendersi riconoscibili, forse per ripararsi dalla pioggia battente. In basso decine di parenti di detenuti, donne per la maggior parte, correvano avanti e indietro tra l’ingresso principale del carcere e lo slargo antistante il tribunale, salutando, incitando i rivoltosi a non mollare, qualcuno pregando. La rivolta nel carcere napoletano è cominciata alle quattro del pomeriggio. Dopo l’ora d’aria, alcuni detenuti hanno forzato i cancelli e si sono impossessati di quattro padiglioni. Hanno appiccato fuochi con materassi e lenzuola, distrutto i tubi dell’acqua e allagato i corridoi con gli estintori, hanno sfondato con i carrelli della mensa i cancelli fino ad arrivare all’ultimo varco del portone principale, dove sono stati bloccati. La sollevazione si è calmata due ore dopo, quasi spontaneamente, o almeno senza grosse trattative, anche perché a muovere le proteste sembrerebbe essere stata la paura, più che una piattaforma di rivendicazione interna al corpo detenuto. Ancora per qualche ora, colonne di fumo si sono alzate dai cortili e dai tetti del carcere. Il 26 febbraio, con il diffondersi dell’epidemia nel nord del paese, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva emesso una circolare con cui disponeva una serie di misure da adottare nelle carceri: sospensione dei colloqui con i familiari, sospensione del lavoro esterno, sospensione dei permessi premio e delle semilibertà, sospensione delle attività dei volontari negli istituti. Il provvedimento, finalizzato a limitare i contatti dei detenuti con l’esterno, dimenticava l’esistenza degli agenti della polizia penitenziaria, principale possibile veicolo di diffusione del virus nelle carceri insieme agli altri operatori e al personale medico. Il 7 e l’8 marzo, mentre le disposizioni venivano confermate da un decreto governativo, i detenuti si rivoltavano in tutta Italia. I primi a farlo erano quelli di Salerno, cogliendo di sorpresa l’amministrazione e rivelandone l’impreparazione da tutti i punti di vista, anche militare, nella gestione dell’emergenza. Nei due giorni successivi si registravano rivolte a Pavia, Napoli, Milano e Roma, Padova, Bologna, Modena, Rieti, Foggia, Santa Maria Capua Vetere e molte altre città. La rabbia per la cancellazione dei colloqui era solo una parte del problema: i detenuti avevano paura, veniva vietato loro il contatto con i parenti e i volontari ma non con le guardie carcerarie; non erano previsti dispositivi di protezione, sanificazioni, né interventi sulla prevenzione, in modo da agevolare una rapida ripresa dei colloqui. In più, la circolare del Dap aveva demandato le scelte sui video-colloqui, sul destino dei semiliberi, sulle misure di protezione alle direzioni dei singoli istituti, creando disparità enormi e lasciando nelle mani dei direttori delicate decisioni anche in tema di salute. Nonostante le richieste da parte dei detenuti, dei parenti e dei legali per interventi più radicali come l’indulto, l’estensione - anche temporanea - delle misure alternative o la possibilità per i semiliberi di restare a dormire nelle loro case, il Dap e il ministero si sono distinti per una linea tanto semplice quanto deleteria: non fare nulla. Nel corso delle rivolte, in circostanze tutte da chiarire, sono morti quattordici detenuti. Per la maggior parte erano migranti, e per la maggior parte di loro la spiegazione fornita dalle direzioni e dalle forze dell’ordine è stata: overdose di farmaci e sostanze, trafugate dalle infermerie durante gli assalti. Quando intorno alle venti dell’8 marzo, Samuele Ciambriello, garante campano per i diritti dei detenuti esce dal carcere di Poggioreale, ad aspettarlo trova una folla che è assai più che un assembramento. Decine di familiari di detenuti lo accerchiano, sommergendolo di domande. Lui cerca invano un megafono ma alla fine sale su un marciapiede per spiegare la situazione. Dice che la rivolta è rientrata senza l’utilizzo della violenza ma che ora bisognerà monitorare i trasferimenti. Negli occhi delle persone accalcate la paura raddoppia, a quella per il possibile contagio si aggiunge quella per ritorsioni e trasferimenti. Il fiume di rabbia si affievolisce e poi si disperde nelle richieste di ognuno: un difetto di forma in una notifica, la mancata concessione dei giorni per la liberazione anticipata, la frustrazione per l’impossibilità di una concessione straordinaria dei domiciliari. Dopo un’ora il garante riesce a divincolarsi, rilasciando qualche dichiarazione generica alla stampa. Ho cominciato a raccogliere informazioni su quello che succedeva nelle carceri italiane fin dalla mattina del 9 marzo. Il numero dei morti cresceva di ora in ora. Alcuni erano deceduti addirittura nel blindato, durante il trasferimento da una prigione all’altra. Da molte carceri, come Modena, Milano, Napoli, arrivavano notizie di violenze nella notte successiva alle rivolte, uomini fatti spogliare nudi e picchiati, anche con manganellate in testa e sui testicoli. Insieme a persone e associazioni che lavorano per tutelare i diritti dei detenuti, come Antigone, Acad, Yairaiha, abbiamo provato a costruire una rete informale di raccolta e diffusione di informazioni, per cercare di mantenere una visione di insieme rispetto a quello che succedeva. Giorno dopo giorno arrivavano denunce. Compagne, mogli, sorelle di detenuti registravano le telefonate (anche a distanza di una settimana, perché i contatti erano stati bloccati dopo le rivolte) facendosi raccontare degli abusi, dell’irruzione degli agenti nei reparti, delle botte e dei pestaggi, della soppressione arbitraria della spesa e dell’ora d’aria, dei trasferimenti improvvisi in giro per l’Italia, persino da e verso la zona rossa, senza che ai detenuti venisse dato nemmeno il tempo di prendere i propri effetti personali. Mettere insieme notizie estremamente frammentate non è stato facile. Il telefono squillava di continuo, tra richieste d’aiuto, rettifiche e sfoghi, lacrime e bestemmie, qualcuno mi chiedeva persino notizie su dove fosse stato trasferito il proprio marito o in che ospedale si trovasse. Impotente, e spesso spaesato, non potevo far altro che prendere appunti e registrare. “Quando mi fa la videochiamata - racconta Angela, moglie di un detenuto rinchiuso a Milano Opera - la prima cosa che gli chiedo non è più: “Ciao, come va?”, ma: “Come ti senti? Hai qualcosa? Febbre? Come sta la tua sezione?”. Il primo pensiero è là. “Quando arrivano le mascherine? Le guardie le mettono?”“. Angela è una delle donne che mi hanno aiutato a ricostruire quello che è successo a Opera nei venti giorni successivi alle rivolte. Fa la cameriera in un ristorante, ma per mantenere i suoi tre figli fa anche servizio catering. Quando i due lavori si susseguono nella stessa giornata, va avanti per diciotto-venti ore di fila. Nelle sue telefonate, il marito continua a ripeterle che il giorno della rivolta, a guidare i reparti che picchiavano all’impazzata c’erano i graduati, “il comandante, e gli ispettori, tutti in prima linea”. Lui è dentro per rapina, ci resterà per altri tre anni. Quando finirà la sua pena, e potrà vedere una partita di suo figlio, il bambino ne avrà tredici, e giocherà nella categoria Giovanissimi. Marika e Alex invece figli non ne hanno. Lei vive a Torino, dove fa l’insegnante in una scuola superiore. Lui è in carcere a Milano, dopo essere passato per La Spezia e Genova. Ha già dieci anni di detenzione alle spalle, gliene restano altri cinque. Marika oggi va a trovare Alex solo una volta al mese, uscendo di casa alle cinque del mattino e rientrando la sera, ma qualche anno fa ha perso un lavoro in un call-center per i ritardi dovuti a questi suoi continui viaggi. Alex è stato picchiato, nella sua cella a Opera, il 21 marzo, dopo una discussione con un agente. “Il 22 sento mio marito. Mi dice di far venire subito l’avvocato, perché l’hanno massacrato. Aveva chiesto spiegazioni a un agente sul fatto che non gli venisse consegnata la spesa che aveva fatto, ed è scoppiata una lite. Sono arrivati altri cinque agenti, dritti in cella da lui e hanno iniziano a picchiarlo con calci e pugni. Lui ha voluto farsi refertare, ma si sono rifiutati di fargli la tac, nonostante i bozzi e nonostante il dolore alla testa”. Quando ho parlato con Marika per la prima volta, mi ha chiesto se ero stato io a scrivere della presenza di un detenuto di Torino che nel carcere di Opera “era stato ridotto come Stefano Cucchi”. Ero stato io in effetti, in un articolo sul sito di Monitor, avendo ricevuto l’informazione da una fonte affidabile. Marika mi ha raccontato che quella frase era tutt’altro che sbagliata, anzi; ma che solo per un caso fortuito lei era riuscita a sentire il marito il giorno prima, “altrimenti a leggere quella cosa penso che mi sarebbe venuto un infarto”. Da quel giorno mi sono ripromesso di fare ancora più attenzione, in futuro, alle possibili conseguenze delle parole che uso. Avevo compreso fin dall’inizio che gli articoli in cui si denunciavano violenze e maltrattamenti avevano un’audience maggiore rispetto a quelli in cui si provava a ragionare sul sistema carcerario e sulla sua necessaria messa in discussione. Al carcere di Milano stava succedendo un macello. A distanza di due settimane dalla rivolta, il clima era così pesante che anche una semplice discussione si tramutava in un pestaggio di gruppo. Eppure, era difficile far passare il messaggio che la gestione approssimativa dell’emergenza Covid era conseguenza di un sistema incancrenito, fondato su contenzione e punizione; della mancanza di una riflessione sulla necessità di pene realmente alternative per i tanti autori di piccoli reati che affollano le galere; sulla possibilità di superare l’obbrobrio di istituti vetusti e costruiti secondo la logica dell’accasermamento, dove il detenuto non ha alcuna possibilità di un reinserimento reale nella società. Per provare a rompere questo muro, mentre parlavo con Marika e Beatrice, Laura e Alfonsina, raccogliendo le storie delle loro vite e della loro quarantena, o con Federica, sorella di un detenuto che prova a tenere faticosamente insieme tutte le voci che provengono dalle donne di Opera, abbiamo provato a elaborare un discorso politico da diffondere tra i media, che mostrasse come il problema non fosse relativo a un singolo istituto ma intrinseco all’istituzione carceraria, alle sue catene di comando e ai suoi esecutori senza scrupoli. Per provare a far passare il messaggio abbiamo scritto un comunicato, che abbiamo accompagnato a un articolo che denunciava la barbarie di un altro carcere, quello di Santa Maria Capua Vetere, dove nella settimana prima di Pasqua cento poliziotti a volto coperto e in assetto antisommossa erano entrati nei padiglioni, avevano spogliato, umiliato e picchiato i detenuti, probabilmente come ritorsione per qualche testimonianza rilasciata alla magistratura di sorveglianza. Quel comunicato accostava le morti nei giorni delle rivolte alle violenze di Milano e Santa Maria, denunciava l’immobilismo del Dap e del governo, evidenziava il legame tra la gestione scellerata dell’emergenza e quella quotidiana dell’universo carcerario. Come ci aspettavamo, ad avere grossa risonanza è stato l’articolo, e in particolare la telefonata scioccante, registrata, di un detenuto che racconta le violenze a sua sorella. Il comunicato è stato ignorato da giornali e telegiornali, e anzi in alcuni casi, come nell’interlocuzione con una nota trasmissione della Rai, quando abbiamo evidenziato la sua importanza all’interno della narrazione di quegli avvenimenti, la possibilità di raccontare gli episodi di Santa Maria in prima serata sulla Rai è rapidamente evaporata. La sera del 26 aprile, quando l’inchiesta su Opera era ormai pronta alla pubblicazione, Federica mi ha chiamato per dirmi che tre dei detenuti (compreso suo fratello) i cui familiari mi avevano raccontato le proprie storie, e che avevano alzato un polverone facendosi intervistare dal Tg3 e depositando denunce alla procura, erano stati trasferiti all’improvviso, la sera precedente, senza comunicazione rispetto alla destinazione, dopo giorni di minacce rispetto a un possibile trasferimento in Sardegna. Sono seguiti due giorni di telefonate alla ricerca di informazioni, chiamate a decine di carceri per avere qualche notizia, richieste che sbattevano contro il muro alzato dalle amministrazioni. Una di queste donne mi ha detto che sarebbe stato più facile se avessero potuto mettersi attorno a un tavolo e aspettare insieme, guardarsi negli occhi in silenzio e capirsi, anche senza far nulla. Lì ho deciso di rimodulare l’inchiesta e di pubblicare sul sito di Monitor dei lunghi estratti delle loro interviste, mettendole virtualmente attorno a quel tavolo, a discutere nell’attesa di sapere dove fossero finiti i loro mariti e fratelli. Mentre scrivo questo pezzo, prendo appuntamento con Laura, moglie di un detenuto nel carcere di Pavia, che mi ha inviato alcune sue lettere e messo in contatto con altre compagne di prigionieri. Domani comincerò a lavorare anche su quel carcere, senza sapere bene a cosa porterà questa storia. Nel frattempo ci avviciniamo alla fine della quarantena. Stamattina sono uscito di casa indossando la mascherina e sono andato a fare una passeggiata sul lungomare tra Bagnoli e Pozzuoli, sperando di non essere fermato a un posto di blocco, più per la seccatura di avere a che fare con i militari, che per la consapevolezza di aver fatto qualcosa di male. Sono tornato a casa senza aver parlato con nessuno, e lì sono rimasto per le successive dodici ore, una parte delle quali le ho passate a scrivere questo pezzo. Da un paio di settimane, quando parlo con qualcuno che non ho visto per un po’, ho smesso persino di chiedergli come si sente a stare in quarantena. *Dallo scorso 18 maggio è in libreria, oltre che in vendita sul nostro sito, il numero 4 de “Lo stato delle città”. Si tratta di un numero ideato, scritto e impaginato durante la quarantena e che racconta, da differenti punti di osservazione, i primi mesi di emergenza dovuti alla diffusione del Coronavirus. Proponiamo qui l’articolo “Da dentro a dentro. Due mesi di emergenza nelle prigioni italiane”, uno degli undici pezzi pubblicati nella rivista, scritto da Riccardo Rosa. Tutti limiti della proposta di riforma del Csm di Giorgio Spangher Il Riformista, 18 agosto 2020 Impedire il voto di scambio e frantumare la logica delle correnti è molto difficile, sia tecnicamente che in termini politici. Nel 2006, quando stavo al Consiglio Superiore della Magistratura, si tenevano le elezioni dei nuovi componenti togati per il periodo 2006-2010. Le previsioni erano orientate ad una certa stabilità della rappresentanza delle varie correnti: tuttavia, in qualche modo “ballava”, un seggio, il che non è poco in una rappresentanza di 16 membri. I risultati dello spoglio serale non potevano essere ritenuti attendibili perché condizionati dalle urne provenienti dai diversi distretti di Corte d’appello. A metà mattina, tuttavia, uno dei candidati accreditati per la nomina era in grave ritardo nelle preferenze. Incrociai quello che era il suo “sponsor”, cioè, il magistrato che era “designato” a succedergli, e mi disse che non c’erano problemi, che mancava lo spoglio del distretto di..., e che quel candidato a scrutinio ultimato avrebbe avuto i 450 voti che erano sicuramente nell’urna. E così fu: il candidato ebbe dal suo distretto i 450 voti previsti e fu eletto. Voglio dire con questo ricordo che le sorti del nuovo sistema elettorale della rappresentanza del C.S.M. dipenderà da come si destruttureranno e si ristruttureranno i gruppi e le correnti, in relazione a quali potranno essere, dopo lo tsunami Palamara, la loro forza e consistenza. Lo sapremo a breve, con l’elezione della nuova giunta dell’A.N.M. Va comunque detto che “controllare” una platea di 8000 magistrati non è difficile, in un mondo in cui tutti si conoscono e sanno tutto di tutti. Questo elemento, se non consente di dare una risposta sicura sul nuovo metodo elettorale, non esclude tuttavia il “voto di scambio” nel secondo turno. A prescindere da questo fatto, la riforma evidenzia alcune ulteriori prime criticità. In primo luogo, manca una rappresentanza proporzionata alla loro consistenza tra giudici e pubblici ministeri. L’introduzione di questo dato porterebbe un ulteriore elemento di frantumazione del “correntismo”. In secondo luogo, andrebbero rafforzate le situazioni di congelamento dello scorrimento di alcuni ruoli. In particolare, si dovrebbe escludere che i componenti segretari possano candidarsi a consiglieri, per la consiliatura successiva a quella nella quale hanno svolto le funzioni di segretario. Parimenti, per chi ha fatto parte del direttivo della Scuola superiore della Magistratura e per i consiglieri del C.S.M. che potranno essere designati al direttivo della Scuola solo dopo la scadenza di un quadriennio. In terzo luogo, suscita perplessità l’attribuzione alla Scuola della Magistratura della possibilità di istituire corsi di preparazione all’esame di magistrato. Del resto, dovrebbero essere riconsiderate le regole della composizione della commissione del concorso. Se è indubbiamente da valutare positivamente la previsione che esclude la creazione di gruppi dentro il Consiglio Superiore, anche per evitare che i magistrati segretari - come invece succede oggi - partecipino alle riunioni di corrente, non può negarsi che il criterio del sorteggio delle commissioni e il complesso meccanismo decisionale - legato alle audizioni di tutti i concorrenti - potrebbe creare problemi alla formazione di proposte maggioritarie, nonché contrapposizioni e differenti valutazioni tra le commissioni e il plenum, significativamente allargato nella sua composizione. Quanto alla designazione dei laici da parte del Parlamento, considerato che la nomina avviene in seduta comune, forse, bisognerebbe che l’audizione dei candidati, probabilmente numerosi, si svolga davanti ad una commissione bicamerale. È troppo timida la disciplina dei soggetti (di estrazione politica) che possono essere eletti come laici al C.S.M., in considerazione del fatto che altre posizioni potrebbero, a ragione, essere prese in considerazione, anche in relazione al tempo dello svolgimento delle funzioni (ad es.: presidenti e vicepresidenti di Camera e Senato). Sembra, invece, da condividere l’attuale formulazione della disciplina della sezione disciplinare sia per il sorteggio, sia per la composizione delle sezioni, sia per la rotazione tra membri effettivi e membri supplenti. In ogni caso, le riforme, al di là delle (buone) intenzioni, sono gestite dagli uomini: sotto questo aspetto il giudizio, come detto in esordio, resta sospeso. Giudizio sospeso Scelta dei candidati, proporzione tra giudici e pubblici ministeri, scuola superiore della magistratura, sezione disciplinare. In ogni caso, le riforme, al di là delle (buone) intenzioni, sono gestite dagli uomini: sotto questo aspetto il giudizio resta sospeso. Altro che “allarme sicurezza”: solo le donne a rischio. Da “affetti” di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 18 agosto 2020 Dossier Viminale. I dati del ministero: nell’ultimo anno (agosto 2019-luglio 2020) sono calati tutti i delitti in generale (-18,2%). Più della metà degli omicidi avviene nel contesto familiare-affettivo Una manifestazione contro i femminicidi. L’Italia non è mai stata così sicura negli spazi della vita pubblica. Ma è sempre più pericolosa nella sfera privata e familiare, soprattutto per le donne. Il “Dossier Viminale”, presentato a Milano in occasione della tradizionale riunione di Ferragosto del “Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica” presieduto dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, sconfessa innanzitutto, dati alla mano, “l’allarme sicurezza” costantemente agitato dalle forze politiche di destra e dai gruppi di informazione che li spalleggiano. Ed offre informazioni preziose per porre maggior attenzione ad alcuni fenomeni che stanno emergendo, spesso sottovalutati. I dati, innanzitutto. Nell’ultimo anno (agosto 2019-luglio 2020) sono calati tutti i delitti in generale (-18,2%), tranne le frodi informatiche (+12,4%), e principalmente i furti (-26,6%), le rapine (-21,1%) e le truffe (-11,3%), cioè tutti quei reati che più preoccupano i cittadini. Attenzione: il calo dei reati non è dovuto all’emergenza Covid-19: anzi, nei tre mesi (9 marzo - 3 giugno) di lockdown l’incidenza dei furti e delle rapine risulta maggiore rispetto alla media annuale. Nell’ultimo anno sono diminuiti soprattutto gli omicidi (-16,8%): i 278 omicidi volontari commessi tra agosto 2019 e luglio 2020 rappresentano il minimo storico mai registrato in Italia dagli anni Cinquanta. Sono diminuiti, ma solo di poco (tre casi), anche gli omicidi nella sfera familiare e affettiva che però si conferma l’ambito di maggior pericolosità. Oggi, infatti, più della metà (il 53,6%) degli omicidi in Italia avviene nel contesto familiare-affettivo: su un totale di 278 omicidi sono ben 149 gli omicidi familiari. Di questi ben 58 omicidi, cioè quasi quattro omicidi familiari su dieci, si sono verificati proprio nel trimestre di lockdown a dimostrazione della forte rischiosità degli spazi ristretti della vita privata in particolare per le donne: 44 donne, a fronte di 14 uomini, sono state uccise in famiglia durante il lockdown. Che la famiglia sia sempre più pericolosa per le donne è confermato da un altro dato: gli ammonimenti dei Questori per violenza domestica sono diminuiti nell’ultimo anno (1.068), ma tre anni fa erano stati solo 667 e, soprattutto, è aumentato il numero degli allontanamenti (398) di cui 156 durante il lockdown. Sono diminuite invece le denunce per stalking (13.579) di cui sono vittime in tre casi su quattro le donne. Calano ormai da anni gli omicidi della criminalità comune e soprattutto della criminalità organizzata (solo 19 nell’ultimo anno), ma - come detto - rimangono invece pressoché invariati quelli in ambito familiare dove però aumentano gli omicidi che hanno come vittime le donne: erano stati 92 tra il 2018-19 mentre sono stati 104 tra agosto 2019 e luglio 2020. Proprio questo dato dovrebbe portare ad una maggior attenzione agli omicidi che avvengono nell’ambito familiare e affettivo. Se, da un lato, va contrastata la cultura patriarcale che ne è all’origine e perpetua l’immagine della donna come una proprietà, si rendono sempre più necessarie, oltre ai provvedimenti di allontanamento, efficaci misure di sostegno alle donne. Ma occorrerebbe porre attenzione anche ad altri dati. L’Osservatorio Opal di Brescia da alcuni anni pubblica un database degli omicidi con armi detenute da legali detentori di armi: nel periodo tra agosto 2019 e luglio 2020 a fronte di 104 omicidi di donne rilevati dal Viminale, ben 27 sono stati commessi con armi legalmente detenute. Ciò significa che più di un omicidio su quattro in ambito familiare-affettivo è commesso con armi in possesso di legali detentori. È un dato già riscontrato l’anno scorso che manifesta ornai una tendenza: le armi detenute con licenza nelle case degli italiani solo raramente, infatti, servono a scopi difensivi, mentre sempre più spesso vengono utilizzate per ammazzare la moglie, la ex compagna, un vicino e per suicidarsi. Sarebbe pertanto necessario che il Viminale, nel prossimo rapporto, dedicasse una specifica attenzione all’incidenza delle armi regolarmente detenute sugli omicidi, specie quelli familiari: sono informazioni indispensabili per valutare l’efficacia delle norme in vigore e la necessità di maggiori controlli sui legali detentori di armi. *Analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) Se il crimine va a caccia dei fondi Ue di Paola Severino* La Stampa, 18 agosto 2020 Anche quest’anno, nell’atmosfera di vacanza nonostante il Covid, è passato inosservato un evento che tutti gli anni a Ferragosto ci ricorda che il ministro dell’Interno vigila sulla nostra sicurezza anche nei giorni di festa. Si tratta della riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, nel corso della quale la ministro Lamorgese ha presentato il quadro riassuntivo delle attività e delle iniziative del Viminale. Un quadro che, in un anno così pesantemente investito dalla pandemia e dalle sue conseguenze sull’economia, presenta aspetti di particolare interesse, sia per la verifica delle conseguenze sull’andamento della criminalità nel periodo luglio 2019-luglio 2020, sia per la predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione per il prossimo futuro. Quanto al primo aspetto, colpiscono alcuni dati statistici da analizzare per comprenderne origine e cause. Stupisce a tale proposito constatare la forte diminuzione dei reati più comuni: furti, rapine, omicidi diminuiti rispettivamente del 26%, del 21,1%, del 16,9%. Con un indice complessivo di delittuosità durante il lockdown che fa registrare un incredibile -55%, risultato evidente di una limitatissima mobilità delle persone e di una rete di controlli sul territorio infittita dalla necessità di monitorare gli spostamenti, al fine principale di prevenire i contagi. Meno sorprendente, ma molto importante, il dato di crescita delle frodi informatiche, che salgono del 12%, e dei delitti informatici in senso più ampio, che sono aumentati del 20%. Il dato può spiegarsi considerando che il traffico in rete è enormemente aumentato a causa del lavoro da remoto e delle lezioni online, con il conseguente trasferimento di masse enormi di dati dai sistemi informatici fortemente monitorati degli uffici pubblici e delle imprese agli apparati molto meno protetti delle nostre case. Già queste prime due categorie di dati appaiono estremamente interessanti non solo per darci una fotografia di ciò che è accaduto, ma anche per indicarci le vie da percorrere per il futuro. Da una parte, l’implementazione del controllo delle forze di polizia sul territorio appare la forma migliore di prevenzione dei reati comuni. Dall’altra parte il rafforzamento dei sistemi di protezione dei programmi informatici, sia in casa che in ufficio, potranno meglio tutelarci dai fenomeni di hackeraggio che stanno registrando una forte impennata in tutto il mondo. Altrettanto interessanti appaiono i dati relativi alla criminalità economico-finanziaria, che ha approfittato ed ancor più approfitterà della crisi generata dalla pandemia per trovare nuove fonti di guadagno illecito. Il “dossier” del ministero destinato a questo specifico settore di criminalità individua infatti tre direttrici sulle quali ha già iniziato a muoversi la delinquenza organizzata per reinvestire le immense risorse che originano dal traffico di droga come di armi e dalla tratta di esseri umani. La prima direttrice è rappresentata dal cosiddetto “welfare mafioso di prossimità”, ossia il sostegno sociale alle famiglie povere, ai lavoratori che hanno perso le loro fonti di reddito, agli imprenditori in crisi di liquidità, in cambio di future connivenze. La seconda è rappresentata dalla possibilità di infiltrarsi nel tessuto economico acquisendo, tramite prestanome, partecipazioni in imprese in difficoltà o investendo in nuovi settori, come quello della cessione dei crediti deteriorati, eludendo le stringenti norme del testo unico bancario. La terza e non meno pericolosa è orientata alla infiltrazione nel sistema di distribuzione dei fondi che affluiranno per dare sostegno alla economia, magari attraverso condotte corruttive o condizionamenti delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. I timori sono più che fondati e l’analisi è più che puntuale. Ma è proprio da ciò che nasce la predisposizione di meccanismi di prevenzione, che hanno già visto la crescita del numero di interdittive antimafia (+25%), di gestioni commissariali per infiltrazioni mafiose (+59,5%), di iscrizioni agli albi antimafia (49,4%), nonché la firma di protocolli di intesa con Sace e con l’Agenzia delle Entrate per rafforzare i controlli antimafia sui prestiti agevolati ottenuti con autocertificazione. Altrettanto importante appare la costituzione, avvenuta con Decreto dell’8 aprile 2020, di un organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia della criminalità organizzata. Si tratta di un organismo che svolgerà compiti fondamentali non solo perché analisi e monitoraggio dei fenomeni rappresentano la base di una prevenzione informata ed efficace, ma anche perché svolgerà il suo compito di raccolta dei dati in ambito non solo nazionale. La minaccia rappresentata dalle infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico-finanziario, a seguito della crisi che ha colpito tutto il mondo, non può che essere colta compiutamente in un contesto globalizzato. Questo tipo di criminalità, infatti, non conosce confini ed approfitta delle maglie larghe delle normative di alcuni Paesi per radicarvisi e svolgervi traffici illeciti le cui conseguenze si estenderanno allo scenario internazionale. Da questo punto di vista l’Italia ha dimostrato, ancora una volta, di avere una attenzione costante al fenomeno, di avere grandi capacità di elaborare strategie preventive, continuando a seguire gli importanti insegnamenti di Giovanni Falcone, un magistrato che viene ricordato in tutti il mondo non solo come vittima di mafia, ma anche per aver condensato nella frase “follow the money” il senso di un insegnamento che deve renderci orgogliosi dei grandi passi fatti e della costante attenzione che dedichiamo, anche grazie all’opera quotidiana del Ministero dell’Interno, all’applicazione di un sistema di prevenzione che non ha pari nel contesto internazionale. *Vice Presidente Luiss Il domicilio presso il legale d’ufficio non prova la conoscenza del processo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2020 Il giudice deve verificare l’effettiva instaurazione del rapporto professionale. In caso contrario diventa impossibile la dichiarazione di assenza. Non basta la semplice elezione di domicilio presso il difensore di ufficio per dedurne che l’indagato è a conoscenza del procedimento. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con una sentenza, la n. 23948, depositata ieri. Pronuncia, che ha respinto il ricorso del procuratore generale di Genova e destinata a produrre conseguenza in un numero considerevole di casi. A suo modo esemplare quello approdato alle Sezioni unite, dove, quattro giorni dopo lo sbarco, un cittadino extracomunitario era sottoposto a identificazione e, in quell’occasione, forniva false generalità. Poi gli veniva rappresentato che sarebbe stato aperto un procedimento penale nei suoi confronti per violazione delle norme sull’ingresso illegale di stranieri e, non avendo un avvocato di fiducia, gliene veniva nominato uno di ufficio. Invitato a dichiarare domicilio, l’imputato lo eleggeva presso il difensore d’ufficio. Atto quest’ultimo considerato dai giudici di primo grado prova sufficiente della conoscenza del procedimento e della successiva volontà di sottrarvisi. Di diverso parere però la Corte d’appello, per la quale la consapevolezza dell’imputato della pendenza a suo carico di un processo penale non può essere tratta dalla semplice elezione di domicilio presso illegale d’ufficio. Posizione fatta ora propria dalle Sezioni unite penale che ricordano innanzitutto il cambiamento del 2014, quando, con la legge n. 67, si è superato il processo in contumacia, stabilendo che l’imputato deve essere portato personalmente a conoscenza della chiamata in giudizio, restando possibile che decida comunque di non parteciparvi. Solo in quest’ultimo caso allora il processo si svolge in sua assenza, con rappresentanza del difensore. Processo sospeso, a differenza della contumacia (che permetteva lo svolgimento del processo con la prova della notifica regolare), nei casi di incertezza. Detto poi che le Sezioni unite mettono in evidenza come è ragionevole ritenere che l’imputato sbarcato in Italia da soli quattro giorni non fosse consapevole delle conseguenze future dell’elezione di domicilio presso un difensore d’ufficio con il quale non aveva contatti. La sentenza avverte che l’articolo 420 bis del Codice di procedura penale al comma 2 delinea un sistema che facilita il compito del giudice individuando tre casi in cui, per la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio, può essere valorizzata una notifica non effettuata direttamente nelle mani dell’imputato. Si tratta dell’elezione di domicilio, della soggezione a misura cautelare e della nomina di un difensore di fiducia. Non si tratta però di presunzioni, ma di casi in cui è ragionevole ritenere che l’imputato abbia effettivamente conosciuto l’atto regolarmente notificato. Nel caso dell’elezione di domicilio presso il difensore di fiducia, le Sezioni unite ricordano anche la sentenza n. 31 del 2017 della Corte costituzionale che sollecitava la prova dell’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra avvocato e imputato. Le Sezioni unite aderiscono a questa conclusione, osservando che toccherà al giudice verificare l’effettività del rapporto tra imputato e avvocato “tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso”. Campania. L’estate nelle carceri campane. Ioia: “I detenuti sono morti viventi” di Viviana Lanza Il Riformista, 18 agosto 2020 Poggioreale continua a scoppiare: nel Padiglione Roma 14 persone in una sola cella. A Santa Maria Capua Vetere manca l’acqua corrente. Tra caldo, solitudine e stop alle attività formative, la vita in tutti i penitenziari regionali si trasforma in un autentico inferno. La settimana di Ferragosto, per chi è in carcere, è la più dura dell’anno. Per giorni non si riceve posta, corsi di formazione e attività che servono a impegnare le giornate e a impegnarsi in qualcosa di costruttivo che serva a dare senso alla funzione educativa che dovrebbe avere il carcere sono sospese. Si fermano anche molti lavori all’interno degli istituti di pena. Il tempo, di contro, si dilata. Alcune volte fino a sfiorare drammi, qualche volta invece arrivando proprio al dramma, al gesto più estremo e disperato. Il tempo finisce per diventare quasi l’unica componente di giornate vuote, di ore passate a guardare alla tv i telegiornali che raccontano di gente in ferie o al mare, di pensieri che oscillano dai ricordi ai sensi di colpa nei confronti di familiari e persone care che fuori provano a proseguire la vita di tutti i giorni, oppure devono rinunciarvi. La solitudine è uno dei grandi drammi per i detenuti, soprattutto d’estate. Ferragosto è il periodo cruciale. Il personale del carcere, già generalmente sotto organico, va in ferie e i volontari sono molto meno numerosi del solito. Il carcere si svuota di tutti, tranne che di detenuti. Loro restano nelle celle, stipati in otto o in dieci o in qualche caso anche di più. Addirittura in 14 in una cella del padiglione Roma di Poggioreale. Chi studia e chi lavora deve fermarsi, perché le attività sono sospese. La noia copre i tanti spazi lasciati vuoti da un sistema che ancora fatica a fare delle carceri un vero luogo di rieducazione. E non è una questione legata a quello o a quell’altro istituto perché è il sistema nel suo complesso che presenta carenze e criticità. Poi, certo, ci sono strutture dove la gestione è più efficace o più semplice e altre dove i problemi sono maggiori. Quest’anno, poi, ci si è messa anche la pandemia. Per l’emergenza Covid le tradizionali visite nelle carceri dei Radicali e avvocati sono state limitate a soli cinque istituti di pena in tutta Italia. Poggioreale tra questi. Lì il sovraffollamento resta un problema. L’ora d’aria è limitata a due fasce orarie: dalle 9 alle 11 del mattino e dalle 13 alle 15. Se fa troppo caldo in molti rinunciano. E l’alternativa è noia e solitudine. A Poggioreale d’estate i detenuti sembrano morti viventi”, dice Pietro Ioia, garante cittadino dei detenuti di Napoli. Non ricevono posta per giorni, non possono svolgere attività. Tutto fermo, tutto sospeso. Anche le visite mediche specialistiche”, racconta. La settimana di Ferragosto è la più difficile di tutte. In quei giorni il cuore ti arriva in gola”, dice. Poi aggiunge un ricordo personale: Quel Ferragosto era di giovedì”, ricorda. “Alle nove del mattino, in cella erano già tutti svegli. Ognuno degli otto detenuti che dividevano lo spazio della stanza trovava nella routine di piccoli gesti come farsi la barba il senso di una nuova giornata. D’un tratto la porta si spalanca, un gruppo di agenti della Polizia penitenziaria entra e con le maniere forti cerca una pistola perché era stato trovato un proiettile in un pantaloncino arrivato con i pacchi portati dai familiari. Ricordo ogni dettaglio” - racconta Ioia. “Il proiettile era stato trovato nel pantalone di un detenuto arrivato tre giorni prima nella nostra cella, noi nemmeno avevamo avuto il tempo di conoscerlo. Per fortuna il mio avvocato venne a trovarmi in carcere, andò subito dall’allora comandante della penitenziaria e la vicenda fu chiarita. Era il 1985, a quel tempo il carcere era diverso ma le difficoltà erano le stesse di adesso”. Poggioreale. Stipati nei locali riservati ai sex offender Il sovraffollamento resta uno dei problemi del grande penitenziario cittadino. A Poggioreale si sta in media in otto o nove detenuti in una cella, ce ne sono alcune in cui si sta in cinque e sembra quasi un lusso, ma ci sono molte camere in cui si arrivano a contare anche dieci e più reclusi. Il record è nel padiglione Roma. Lo ha segnalato il garante cittadino dei detenuti Pietro Ioia. Nel reparto dove scontano la pena (o sono in attesa di processo) gli accusati di reati sessuali, si contano addirittura 14 detenuti in una sola cella. Immaginare la vita in quegli spazi richiama agli incubi peggiori. E con il caldo di queste settimane la situazione diventa ancora più drammatica. Poggioreale è il più grande carcere di Napoli e d’Italia. Costruito nel 1918, ha otto padiglioni, non tutti rimodernati. I fondi stanziati per l’ammodernamento, dopo essere stati fermi per anni, potrebbero (il condizionale è ancora d’obbligo) essere sbloccati nei prossimi mesi. È un carcere dove si fanno i conti con carenze di personale e risorse sia tra la polizia penitenziaria sia tra educatori, psicologi e mediatori culturali. E dove la vita in cella può diventare difficile e drammatica tanto, in qualche caso, da portare al suicidio. Secondigliano. Ad agosto poche attività formative per chi è in prigione È tra le carceri più moderne delle Campania e anche quello dove, grazie a un’intesa con l’università di Napoli Federico II, sono attivi corsi di formazione e percorsi di studio universitario per i detenuti. Attivo dagli anni 90, il carcere di Secondigliano è quello dove le celle sono aperte fi no alle 18, funziona la sorveglianza dinamica e il sovraffollamento non è tra le criticità visto che si sta in due in una cella. Resta il problema, per i detenuti, della solitudine e della mancanza di attività durante la stagione estiva, della carenza di organico soprattutto tra il personale della polizia penitenziaria che conta seicento unità a fronte delle oltre mille previste sulla carta nella pianta organica. La struttura penitenziaria, secondo dati aggiornati a inizio anno, ospita 323 detenuti in attesa di giudizio, 439 detenuti che stanno scontando una condanna definitiva e 170 detenuti in semilibertà. C’è anche un reparto in cui sono reclusi detenuti in regime di alta sicurezza. E i detenuti stranieri sono 97, provenienti in particolare da Albania, Nigeria e Romania. Mentre, sul fronte delle risorse umane messe in campo per gestire i reclusi, si contano, tra gli altri, 12 funzionari pedagogici, 7 psicologi, 17 mediatori culturali. Santa Maria Capua Vetere. Da 24 anni si attende una rete idrica per la struttura Il caso più recente è quello segnalato dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, ma fa riferimento a un problema vecchio quasi quanto il carcere. Nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere l’acqua corrente è un problema e un lusso allo stesso tempo. L’acqua è razionata, la forniscono due autobotti giornaliere. E quella che esce dai rubinetti delle celle è gialla e spesso, stando a quanto si apprende attraverso le denunce e le lamentele di tanti detenuti, causa dermatiti. Di certo non è potabile. Il problema risulta legato ai lavori per dotare la struttura penitenziaria di una rete idrica che non sono stati mai realizzati nonostante i fondi - oltre due milioni e 190mila euro - stanziati dalla Regione Campania quattro anni fa. Risorse che il Comune casertano non spenderebbe. Eppure il progetto finalizzato alla costruzione della rete idrica a servizio del carcere risale al 1996. Nei mesi scorsi il penitenziario è finito all’attenzione delle cronache anche per il presunto pestaggio denunciato da alcuni detenuti e per il quale ci sono agenti della polizia penitenziaria indagati, finiti al centro di un’inchiesta penale coordinata Procura sammaritana. I fatti sarebbero in qualche modo conseguenza delle tensioni vissute in alcuni dei padiglioni della struttura nel periodo dell’emergenza Covid. Pozzuoli. Servono spazi per gli incontri tra mamme e figli Più spazi per ospitare i figli delle detenute e più occasioni di incontro tra i piccoli e le loro mamme attraverso eventi e feste che evitino ai bambini lo choc del carcere. Sono queste le priorità indicate per il carcere femminile di Pozzuoli. La struttura sorge nella sede di un convento risalente al quindicesimo secolo. Agli inizi del ‘900 le celle dei frati furono trasformate nelle celle di un manicomio criminale e poi in quelle dell’attuale carcere femminile. Il sovraffollamento nell’istituto penitenziario di Pozzuoli non è un problema oggi. Secondo i dati più recenti, infatti, a fronte di una capienza di 109 detenute se ne contano attualmente 105. La struttura è composta da tre reparti, 26 celle in tutto. È garantita la sorveglianza dinamica e c’è persino un’area verde con tanto di panchine e giochi per rendere più gradevoli gli incontri domenicali mensili tra le detenute e i loro figli. Tuttavia, il vero problema, soprattutto in queste settimane di piena estate, continuano a essere i tempi, quelli intervallati dalle sole ore di socialità perché tutte le attività formative e rieducative che normalmente tengono impegnate le detenute sono fortemente ridimensionate durante il periodo feriale, quelli lunghi delle giornate troppo vuote e tutte uguali a sé stesse. Caltagirone (Ct). Suicida in carcere un uomo accusato di aver ucciso la moglie La Repubblica, 18 agosto 2020 Il ceramista di 50 anni, Giuseppe Randazzo, era stato arrestato dalla polizia per l’uccisione della moglie Catya Di Stefano ed era detenuto nel carcere di Caltagirone. Si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone, dove era detenuto dal 13 agosto scorso, Giuseppe Randazzo, il ceramista di 50 anni arrestato dalla polizia per l’uccisione della moglie Catya Di Stefano, di 46 anni, dalla quale si stava separando. L’uomo si è impiccato nella sua cella. Proprio ieri il gip di Caltagirone aveva convalidato il suo arresto ed emesso nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Sulla morte dell’uomo ha aperto un’inchiesta la Procura di Caltagirone. L’uomo era accusato di avere ucciso, al culmine di una lite, la moglie davanti la porta d’ingresso dell’abitazione della donna. La vittima aveva avviato le pratiche per la richiesta della separazione. Il marito voleva riallacciare la relazione ma la moglie era determinata ad andare avanti. Il pomeriggio di cinque giorni fa Randazzo era andato ad attenderla davanti casa per l’ennesimo tentativo di riappacificazione. Ne è nato, invece, un violento alterco, finito in tragedia. Lui è stato trovato dalla polizia accanto alla moglie, sotto choc, in lacrime e in evidente stato confusionale. Agli agenti non ha saputo fornire alcuna spiegazione sull’accaduto. La donna presentava delle lesioni e l’uomo aveva dei segni di colluttazione. Dopo un lungo interrogatorio la Procura di Caltagirone aveva deciso di disporre l’arresto. Sarà l’autopsia a chiarire l’esatta causa del decesso, che potrebbe essere un ematoma cerebrale interno o asfissia. La vittima era un’operatrice socio sanitaria che lavorava nell’assistenza di disabili del Calatino. Era una donna forte e determinata. Come emergeva dal suo profilo Facebook, dove si definiva “solare, estroversa, amante della vita”, ma allo stesso tempo: “Non mi arrendo mai, odio le persone false, ma soprattutto odio gli ipocriti e i meschini”. Napoli. I detenuti a Poggioreale: la metà sono in attesa di giudizio di Maurizio Turco* e Irene Testa** Il Riformista, 18 agosto 2020 Quella al carcere napoletano è solo una delle visite in cella fatte dal Partito Radicale, limitate per una strana interpretazione dell’emergenza sanitaria. Quest’anno il ferragosto del Partito Radicale si è svolto il 14 visitando alcune delle carceri e il 15 con l’apertura della campagna per il “no” al taglio dei parlamentari dalle frequenze di radio radicale. Il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha inteso autorizzare solo 5 visite di delegazioni di massimo 2 persone. Abbiamo quindi scelto di visitare i penitenziari di Cagliari, Napoli Poggioreale, Tolmezzo, Bologna e Palermo Ucciardone. È evidente che la decisione di limitare il numero delle visite e dei visitatori è un chiaro segnale che, a nostro avviso, ha poco a che vedere con l’emergenza sanitaria. Perché delle due l’una, o l’ingresso delle persone dall’esterno è un pericolo o non lo è. E se c’è un pericolo sanitario, lo è in ragione dell’alto numero dei detenuti, ben oltre gli spazi disponibili. Ma c’è un altro pericolo, molto più grave, ed è quello democratico. Al carcere di Napoli Poggioreale i detenuti in attesa del primo grado di giudizio sono la metà dei detenuti complessivi. Le statistiche ci dicono che molti di loro saranno assolti. E le ragioni per le quali sono in detenzione preventiva sono, per usare un eufemismo, risibili. Eppure, come si ricorda quotidianamente da queste pagine, la Costituzione all’articolo 27 dice altro: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Possiamo ragionevolmente affermare che l’articolo 27 è violato. Sarà che è previsto che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva ma, nel frattempo, è ristretto in carcere. Sarà che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma, oggi, le pene inflitte sono tutt’altro da quelle previste in Costituzione: lo documentano le sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Ma, soprattutto, oggi le pene sono finalizzate a sé stesse, Altro che rieducazione del condannato. Anzi. Sarà anche che non è ammessa la pena di morte. Ma, nelle nostre carceri che si muoia per pena è fatto noto e anche scontato. Infine, le carceri italiane sono, come affermava Marco Pannella, l’epifenomeno di un problema molto più vasto e profondo: quello della Giustizia. La riforma radicale, radicalissima della Giustizia è condizione dalla quale non si può prescindere per lo sviluppo del Paese, sia lo sviluppo in termini di diritto che in termini economici. Una riforma, quella della giustizia, urgente, urgentissima per il paese. *Segretario del partito radicale **Tesoriere del partito radicale Augusta (Sr). Carenza idrica al carcere, protesta di 40 detenuti di Gaetano Scariolo blogsicilia.it, 18 agosto 2020 Protesta di circa 40 detenuti del carcere di Augusta per la carenza idrica nel penitenziario. La manifestazione, che si è concretizzata con il rifiuto a rientrare nelle celle, è stata poi contenuta dagli agenti della Polizia penitenziaria e dopo ore di trattative la situazione è tornata alla normalità. Ma si sono vissuti momenti di grande tensione nel carcere nella giornata di ieri, caratterizzata da temperature assai elevate: senza acqua con cui rinfrescarsi, i detenuti hanno deciso di organizzare la protesta ma, per fortuna, non ci sono state conseguenze. La crisi idrica potrebbe riaccendere ancora una volta gli animi, come avvertono i sindacati, in particolare a sollevare la questione è il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, che, in questo penitenziario ci lavora. “La mancanza d’acqua sarebbe la causa scatenante - dice il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni - e sicuramente i detenuti fautori della protesta cosiddetta pacifica non hanno perso l’occasione per creare una situazione a grave rischio e solo grazie al tempestivo intervento della Polizia penitenziaria si è potuto assicurare l’ordine e la sicurezza. La situazione resta, comunque, molto difficile per via dell’emergenza idrica che coinvolge il carcere di Augusta da più di 20 anni, a cui si aggiunge il problema di zanzare e insetti vari a dismisura. C’è il pericolo di nuove tensioni dietro le sbarre. Ci auguriamo un immediato intervento da parte delle autorità dirigente, del Prap e del Dap, nell’auspicio che saranno presi provvedimenti seri e risolutivi che garantiscano le minime condizioni igieniche mancanti”. Secondo il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, c’è anche il nodo del sovraffollamento del penitenziario. “La casa di reclusione di Augusta - avverte il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni - oggi contiene un numero di detenuti più del doppio della sua capienza e del personale di Polizia penitenziaria inferiore almeno di 70 unità, quindi è evidente che questa situazione è insostenibile pronta ad esplodere da un momento all’altro”. Piacenza. Rettifica della notizia pubblicata ieri riguardo al carcere cittadino Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2020 La notizia pubblicata ieri, dal titolo “Piacenza. Il Garante Gromi: ‘Inaccettabile che solo 40 detenuti possano lavorare’”, non rappresenta affatto l’attualità del carcere di Piacenza, essendo tratta da materiali di archivio risalenti al 2013. Ci scusiamo con i rappresentanti istituzionali e con i lettori per l’errore commesso. “Sognalib(e)ro” in 17 carceri d’Italia. Così i detenuti diventano scrittori ansa.it, 18 agosto 2020 “Il mio lato positivo” è il tema dell’edizione 2020 del premio nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro”, la rassegna che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari e di reclusione come strumento di riabilitazione, dando espressione all’articolo 27 della Costituzione. Con l’approvazione nei giorni scorsi da parte della giunta, infatti, prende ufficialmente il via per il terzo anno di fila la kermesse promossa dal Comune di Modena, assessorato alla Cultura, in collaborazione col ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, e il sostegno di Bper Banca. Di particolare rilievo umano, sociale e culturale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, il cui autore indicherà poi i tre o quattro titoli dei libri che hanno segnato la sua vita, che gli organizzatori doneranno alle biblioteche delle strutture carcerarie partecipanti al Premio; l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà essere pubblicato, da solo o in antologia con altri, in ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena. Per la nuova edizione di “Sognalib(e)ro”, ideato e diretto dal direttore di “TuttoLibri-La Stampa” Bruno Ventavoli in collaborazione col Comune, sono stati individuati dal ministero della Giustizia 17 istituti, nei quali sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già in passato, il concorso si articola in due sezioni. Nella sezione Narrativa italiana (che comprende anche il Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: “Almarina”, di Valeria Parrella (Einaudi, 2019); “La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio (Einaudi, 2019); “Lo splendore del niente e altre storie” di Maria Attanasio (Sellerio, 2020). Ciascun componente dovrà esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 punto al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore incaricato che raccoglierà i voti della giuria interna e li trasmetterà al Comune. Tutti i voti trasmessi riferiti alla stessa opera, una volta sommati, determineranno il romanzo vincitore. Il premio, che sarà formalmente assegnato in un evento serale che si svolgerà in città in primavera, consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli istituti partecipanti, accrescendo così il patrimonio librario delle strutture. Inoltre, lo scrittore vincitore, al quale Bper Banca destinerà un riconoscimento speciale, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione Inedito, invece, una giuria di esperti presieduta da Ventavoli e composta dagli scrittori Barbara Baraldi, Simona Sparaco e Paolo di Paolo attribuirà il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Il mio lato positivo”. La giuria sceglierà a maggioranza il miglior testo esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il premio consiste nella pubblicazione in un ebook, a cura del Dondolo; il Comune si riserva poi di assumere ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso. La partecipazione al Premio è aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari individuati dal ministero della Giustizia. A ogni detenuto è consentito partecipare a una o a entrambe le sezioni. Per la prima, ogni Istituto deve far pervenire entro il 9 febbraio 2021 all’indirizzo mail info.cultura@comune.modena.it il punteggio attribuito dagli aderenti al proprio gruppo di lettura a ogni libro candidato. Per la seconda sezione, ciascun autore può inviare al massimo due opere inedite che devono essere in lingua italiana, in forma dattiloscritta e spedite sempre entro il 9 febbraio 2021, via e-mail a info.cultura@comune.modena.it. Impreparati a tutto di Chiara Saraceno La Repubblica, 18 agosto 2020 Il Paese non appare pronto a convivere con il Covid-19 nel lungo periodo. E a farne le spese, ancora una volta, saranno soprattutto gli scolari e le famiglie. Impreparati. Nonostante il Covid-19 sia con noi ufficialmente ormai da molti mesi, una successione di decreti di urgenza, il prolungamento dello stato di emergenza, commissioni tecniche di vario tipo ciascuna con le proprie indicazioni, il Paese appare singolarmente impreparato a convivere con il Covid 19 non dall’oggi al domani, appunto come una emergenza di breve durata, ma come dato, se non, sperabilmente, strutturale, certo di non breve periodo. Che perciò richiede provvedimenti non emergenziali, ma che facilitino i cambiamenti - di comportamenti, di organizzazione - necessari per poter lavorare, studiare, avere una vita di relazione in condizioni di ragionevole sicurezza. Era prevedibile che l’apertura delle frontiere avrebbe aumentato i rischi di diffusione del contagio, ma ancora oggi il sistema di controllo e somministrazione dei tamponi a chi arriva appare impreparato, colto di sorpresa sia sul piano normativo sia nella disponibilità effettiva del servizio. Analogamente era prevedibile che l’apertura delle discoteche, il “liberi tutti” negli spazi di aggregazione, le diverse autonome decisioni delle regioni su questo, come su altri temi, il diverso modo con cui sono stati regolati gli eventi culturali (molto più restrittivamente) rispetto a quelli ludici, avrebbe dato un messaggio di scarsa chiarezza e superficialità, generando sfiducia e insofferenza verso le restrizioni, senza davvero facilitare una riorganizzazione del settore ludico e del divertimento. Al solito, la scuola è il concentrato di questa impreparazione e superficialità nell’affrontare i problemi, unita a quello che sembra quasi un’opera di sistematico scoraggiamento di chi si adopera per trovare soluzioni. Hanno ragione i presidi a lamentare il ritardo con cui arriveranno i banchi monoposto, visto che il bando è stato espletato solo in agosto, a oltre cinque mesi dalla chiusura delle scuole. Hanno ragione ad essere sconcertati dell’apparente voltafaccia del comitato tecnico scientifico che, dopo aver discettato di metri statici e dinamici e di “rime buccali”, è arrivato a sostenere che si può scendere sotto il metro, purché con mascherina e finestre aperte, oltre tutto senza differenziare per età. E senza che il governo e il parlamento abbiano ancora trovato il tempo di chiarire se e chi ha responsabilità penale in caso di contagio. Mentre presidi, amministrativi, insegnanti di buona volontà hanno passato l’estate con il metro in mano, correndo dietro ad indicazioni tardive, generiche e mutevoli, non si ha notizia di un lavoro sistematico e non affidato solo alla buona volontà e disponibilità individuale, per la formazione alla didattica digitale, nonostante questa sarà sempre più necessaria non solo in caso di temporanee chiusure, ma come integrazione della didattica “ normale”. Tantomeno si ha notizia di un lavoro di messa a punto di pratiche e metodologie didattiche più adeguate di quelle che già avevano mostrato i propri limiti prima dell’emergenza. Tutti hanno diritto alle ferie e al riposo. Ma in un anno così eccezionale, in cui tanto si è tolto ai bambini e ragazzi, qualche investimento di tempo e intelligenza in più, magari anche con riconoscimento economico, sarebbe stato opportuno. Anche i presidi da tempo avrebbero dovuto sapere di aver bisogno di spazi e gli enti locali avrebbero dovuto collaborare a questo scopo. Invece tutto sta avvenendo a macchia di leopardo. Là dove non si sono (ancora) trovate soluzioni, peggio per gli studenti (e le loro famiglie), con la ministra che se ne lava le mani scaricando la responsabilità solo sul livello locale. Come se non fosse la garante ultima del diritto all’istruzione. L’incertezza sulla ripresa non è dovuta solo alla ripresa del contagio che si sarebbe dovuto e potuto controllare meglio. Anzi c’è il rischio che si utilizzi questo per nascondere l’impreparazione. A Roma senzatetto bloccati fuori dalla sede Caritas: “Non ci sono i test per il Covid” di Raffaella Scuderi La Repubblica, 18 agosto 2020 La denuncia del direttore Don Benoni. La Regione Lazio: “Esami al via da oggi”. L’ostello della Caritas di Roma di via Marsala ha 70 posti liberi dall’inizio della pandemia. Stanze vuote, un tetto sopra la testa, e al piano terra un presidio sanitario. Mentre da 3 mesi, di fronte alla struttura, decine di senzatetto si sono dovuti sistemare in tende, cartoni e teli di plastica agganciati con corde ai trolley. Tutte persone che non hanno avuto accesso a quelle stanze perché non messe in condizione di fare un tampone anti Covid, che per legge deve essere autorizzato da un medico familiare. Presupposto impossibile per chi non ha niente. E da tre mesi don Benoni Ambarus, direttore della Caritas diocesana di Roma, lavora senza sosta per risolvere il problema e sbloccare la burocrazia. “Quando ci siamo resi conto di quello che stava accadendo - spiega - abbiamo avviato un tavolo istituzionale, rendendoci disponibili a trovare una soluzione di spazio per il confinamento fiduciario”. Che non è mai arrivata. Fino a ieri, quando è arrivato l’ok dello sblocco: da oggi allo Spallanzani si eseguiranno i primi tamponi per clochard e bisognosi che finalmente potranno trovare un ricovero. Anche grazie al fatto che la Caritas nel frattempo è riuscita ad attrezzarsi per l’isolamento. A confermare la soluzione inattesa, arrivata come un arcobaleno dopo la tempesta, è l’assessore alla Sanità, Alessio d’Amato, che raggiunto al telefono, ha però prima negato l’emergenza: “I tamponi sono pronti. Non ne so niente”. Peccato che mancava il via libera, gli facciamo notare. “Questa cosa devo approfondirla. Indagherò”. A un’ora dalla chiamata arriva la buona notizia, accolta con un urlo di gioia da don Benoni. “Ora siamo operativi per i tamponi ai senza fissa dimora - dichiara l’assessore - Ho chiamato oggi il direttore dell’area sanitaria della Caritas, Salvatore Geraci, per dare la disponibilità del Servizio sanitario regionale ad eseguire immediatamente i test”. “Ora siamo in attesa che ci venga indicato il luogo dove procedere”, commenta il direttore della Caritas che definisce “sbalorditiva” la risposta immediata della Regione dopo mesi di silenzio. L’assessore ci tiene a sottolineare che “l’attenzione è sempre stata alta nei confronti delle persone più deboli e fragili e confermo la piena disponibilità”. Il problema del controllo del virus su chi vive in strada e non ha niente è di rilevanza nazionale. Perché se Roma ha i numeri più alti di senzatetto, anche il resto d’Italia si trova a dover far fronte al problema. “Noi vorremmo fare da apripista”, dice don Ben, che da anni si dedica ai dimenticati, ai più vulnerabili. “Se prima erano gli ultimi, adesso lo sono ancora di più”, aggiunge. L’ingresso dell’ostello oggi più che mai brulica di vita, di valigie pronte a essere usate, e di persone spaventate: “Ci fotografano tutti. Ma li denuncio. Il Covid? Che ci può fare? Non abbiamo niente. Peggio di così”. Non hanno niente, ma il tempo di fare un caffè a chi ha voglia di ascoltarli, quello sì. Migranti. Al Cpr di Gradisca tra incendi, tensioni e presunti pestaggi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2020 Non c’è pace nel centro per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca. Durante la notte del 14 agosto sono divampati incendi in diversi punti, i migranti hanno inscenato una rivolta ed è stato ferito un carabiniere. Ieri c’è stata la convalida dell’arresto per tre migranti. Ma è successo qualcosa di più? Ci sono foto e video pubblicati dal gruppo “nofrontiere” del Friuli Venezia Giulia che denunciano dei pestaggi. A detta dei protagonisti gli incendi sono avvenuti a seguito del pestaggio di alcuni ospiti della struttura. Ovviamente è tutto da dimostrare. Ma nel video pubblicato si vede chiaramente un ragazzo che è uscito dalla sezione e viene preso di mira da due forze dell’ordine. Una volta rientrato, con le forze, nella stanza ci rimane insanguinato. Il gruppo “nofrontiere” ha condiviso anche le foto di un altro detenuto a terra con la bava alla bocca. Per tutelare la sua identità non hanno messo i video da cui sono stati estratte le immagini, ma questa persona sembra avere urgente bisogno d’aiuto. Comunque siano andate effettivamente le cose, il Cpr di Gradisca ha delle evidenti criticità. Il mese scorso in una cella d’isolamento del Cpr un giovane albanese di 28 anni è stato trovato morto, con lui un cittadino marocchino agonizzante. In sette mesi è il secondo decesso di una persona in custodia dello Stato nella stessa struttura. La persona che ha perso la vita era stata trasferita nel Cpr il 10 luglio, non proveniva da un hotspot e stava scontando la quarantena nella struttura. Nei giorni scorsi il centro aveva raggiunto la sua capienza massima. I Cpr sono tornati ad affollarsi con molti trasferimenti di persone appena sbarcate che dopo la quarantena, sulla Moby Zazà o a terra, e il passaggio da un hotspot finiscono dietro le sbarre. Perché, di fatto, è un carcere per persone che non hanno commesso alcun reato. Questa dinamica sta facendo crescere la tensione nelle sette strutture per la detenzione amministrativa sparse sul territorio nazionale. A Gradisca, oltre la rivolta scorsa, c’erano stati scioperi della fame ed episodi di autolesionismo. Da ricordare la morte precedente, avvenuta il 19 gennaio scorso, di Vakhtang Enukidze. Quest’ultimo era un cittadino georgiano di 38 anni, morto dopo un calvario tra Cpr, carcere di Gorizia e di nuovo Cpr. L’autopsia effettuata il 27 gennaio aveva escluso il decesso a seguito di percosse, identificandone la causa in un edema polmonare. In occasione della vicenda di Enukidze il deputato di + Europa Riccardo Magi aveva effettuato un’ispezione presso la struttura, denunciando di aver incontrato molti reclusi “evidentemente sotto effetto di calmanti o psicofarmaci. Alcuni in stato confusionale”. Ma anche il M5S si sta rendendo conto dei problemi. A fine luglio, presso il Cpr di Gradisca, è andata a fare una visita ispettiva la deputata cinque stelle Sabrina De Carlo. “Il regime di detenzione imposto ai migranti, all’interno del centro, descrive un quadro complessivo che non consente di osservare il rispetto dei diritti umani universalmente garantiti e può costituire un pericolo per l’incolumità degli operatori assegnati alla struttura, per gli stessi migranti, oltre che per le forze dell’ordine che operano per garantire sicurezza”, ha spiegato De Carlo. “Serve un intervento tempestivo sul sistema che regola i centri di rimpatrio, in special modo occorre una revisione dei capitolati per permettere agli operatori di lavorare in condizioni adeguate e di gestire la permanenza dei detenuti in modo opportuno. L’alternativa non può che essere la chiusura definitiva della struttura, anche alla luce dei due decessi che si sono registrati al suo interno, a pochi mesi dall’apertura”, conclude la deputata del m5s. La vicenda di Gradisca è particolare perché si tratta di una riapertura: nel 2013, dopo anni di grandi tensioni, culminati con la tragica morte di Majid El Kondra tra l’11 e il 12 agosto, il Cie (acronimo di centro di identificazione ed espulsione) viene infatti chiuso per la situazione intollerabile che vi è all’interno, per poi riaprire il 17 dicembre 2019 sotto il nome di Cpr. Vengono immediatamente trasferite persone provenienti dai CPR di Bari (in buona parte distrutto a seguito di una rivolta che risale ad aprile 2019) e Torino, dove all’inizio dell’anno sono stati appiccati una serie di incendi. Migranti. Regolarizzazione, 200 mila domande: l’85% sono badanti, pochi i braccianti di Massimo Franco Il Manifesto, 18 agosto 2020 Chiusi i due mesi e mezzo di “finestra”. Se ne attendevano almeno il 50 per cento in più. Non un flop, ma numeri molto ridotti - 200 mila - rispetto alle attese iniziali - 600 mila - o già riviste - 300 mila. Con grandissima prevalenza di badanti e pochi braccianti. Si è conclusa ieri la procedura di regolarizzazione dei rapporti di lavoro avviata lo scorso 1 giugno dopo un lungo e difficoltoso compromesso all’interno della maggioranza per agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona: 207.542 le domande ricevute dal portale del ministero dell’Interno, in prevalenza da colf e badanti (85%); il resto ha riguardato il lavoro subordinato. La Lombardia è la regione da cui sono state inviate il maggior numero di richieste per il settore del lavoro domestico e di assistenza alla persona (47.357) mentre al primo posto per il lavoro subordinato si trova la Campania (6.962). Sui 176.848 datori di lavoro che hanno presentato domanda di emersione per il settore domestico, 136.138 sono italiani mentre, per il lavoro subordinato, sono italiani 28.013 datori su 30.694 richiedenti. Quanto al paese di provenienza, ai primi posti risultano l’Ucraina, il Bangladesh e il Pakistan per il lavoro domestico e di assistenza alla persona; l’Albania, il Marocco e l’India per il lavoro subordinato, in buona parte agricolo. Le richieste di permesso di soggiorno temporaneo presentate agli sportelli postali da cittadini stranieri sono state 12.986, poche a conferma della difficoltà dei migranti ad avere i documenti che dovevano comprovare la loro presenza in Italia almeno per 6 mesi. Questa tipologia di domande è stata più utilizzata a Verona (675), Cuneo (466) e Cosenza (423), seguite da Milano (406). “Numeri importanti che confermano ancora una volta di più la bontà della norma, la sua necessità, la giustezza del percorso avviato che adesso dovrà necessariamente proseguire anche con il Piano Triennale contro il caporalato, con la piattaforma che agevola l’incrocio trasparente domanda e offerta di lavoro, e l’offerta integrata di servizi a partire dal trasporto”, commenta la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, convintasi del provvedimento dopo mesi di meli. “L’incremento delle domande da fine di luglio dice quanto fosse necessario sostenere la norma con una comunicazione capillare rivolta ai beneficiari. Il nostro obiettivo è sottrarre al lavoro nero e al caporalato, che non è solo in agricoltura, le persone. Le migliaia che hanno riguadagnato visibilità e dignità sono ci spingono a rafforzare il nostro lavoro”, conclude. L’estate dei migranti: un’invasione che non c’è di Alberto Infelise e Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 18 agosto 2020 Centosettantamila nel 2014, 154 mila nel 2015, 181 mila nel 2016, 119 mila nel 2017. Per capire se i quasi seimila migranti arrivati a Lampedusa nello scorso luglio siano da considerare un segnale di “invasione”, bisogna partire da questi numeri. Che sono quelli della “grande migrazione”, sia attraverso le rotte del Mediterraneo sia attraverso la rotta balcanica, in anni in cui le forti tensioni nel Medio Oriente e in Nord Africa avevano un immediato riflesso nelle partenze verso l’Europa. Gli anni delle grandi stragi in mare, delle navi della Marina militare che si spingevano fin quasi davanti alle acque territoriali della Libia, con la Guardia costiera impegnata ben oltre le dodici miglia nautiche delle acque italiane, con le navi umanitarie delle Ong tutte in mare. Quello scenario non esiste più. Cancellato dalle mutate situazioni geo-politiche, da accordi più o meno limpidi, dal cambio di missione per le navi militari, dalla istituzione di una Guardia costiera libica - la “cosiddetta Guardia costiera libica” la definiscono le organizzazioni umanitarie -, da flussi di denaro più o meno tracciabili perché qualcuno facesse, faccia, quel “lavoro sporco” che uno stato democratico non può permettersi di fare. Il resto è propaganda, a favore o contro che sia. Basti pensare alla teoria dei “porti chiusi”: chiusi alle navi Ong e a volte anche a quelle militari, aperti come sempre agli arrivi alla spicciolata di decine, centinaia di barchini, quelli dei cosiddetti “sbarchi autonomi”. Secondo Frontex, l’agenzia dell’Ue per le frontiere, quest’anno sono finora due le rotte dei migranti che hanno registrato importanti incrementi: quella balcanica e quella del Mediterraneo centrale, cioè la rotta via mare che da Libia e Tunisia arriva in Sicilia o a Malta. Con dati al 30 giugno scorso, la “balcanica” registra un +73% rispetto all’anno scorso (9256 persone, i due terzi sono siriani), quella del Mediterraneo centrale un + 86% anche se il numero assoluto, 7186 persone soprattutto tunisine e bangladesi, è più basso. In calo, invece, le altre due rotte via mare: -56% (4451 persone) per quella del Mediterraneo occidentale (Marocco e Algeria verso la Spagna), -47% (11.912 persone, afgani e siriani soprattutto) quella del Mediterraneo orientale (Turchia-Grecia). La “profezia” - Anche in questa estate che già agli inizi di giugno il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella, il pm che indaga da anni sugli sbarchi a Lampedusa e sulle coste dell’Agrigentino, previde sarebbe stata “calda” e non certo per le temperature, gli sbarchi autonomi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale hanno rappresentato la parte più consistente degli arrivi di migranti in Italia. Estate calda, diceva il pm Vella, aggiungendo che i migranti sarebbero stati quasi tutti tunisini e sarebbero arrivati “quasi tutti a Lampedusa”. Non essendo un preveggente ma solo un magistrato che studia il fenomeno sulla base delle informazioni che acquisisce, l’aumento di arrivi che ha fatto schizzare in alto la statistica del 2020, per gli addetti ai lavori non deve essere stata una grande sorpresa. Basta guardare il “cruscotto statistico” del ministero dell’Interno dove più di un terzo di tutti gli arrivi del 2020 è composto da tunisini: 6727 su 16.031 arrivati (dato al 17 agosto). La seconda comunità più numerosa, quella dei bangladesi, non arriva a 2400 persone mentre tutte le altre nazionalità sono sotto il migliaio (873 Costa d’Avorio, 793 Algeria, 568 Pakistan, 559 Sudan, 505 Marocco). La Tunisia - Dunque, il centro delle partenze di questa estate “calda” non è più la Libia, da dove pure continuano a partire barconi e gommoni ma con la Guardia costiera libica sempre più impegnata nel riportare indietro con le buone e con le cattive chi è in mare, bensì la Tunisia. Perché? “Anzitutto la crisi economica di quel Paese - dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati - poi c’è anche la situazione del Covid. Ma bisogna guardare i numeri con un orizzonte temporale più ampio. In luglio sono arrivati quasi solo tunisini, da inizio anno i tunisini rappresentano il 39 per cento di tutti gli arrivi via mare, ma va sottolineato come in queste settimane siano arrivate pure famiglie con bambini anche appena nati, donne e madri sole, un segnale da tenere sott’occhio e che ha a che fare con la crisi che sta vivendo quel Paese”. Nei giorni scorsi c’è stato chi si è affrettato a far notare che le partenze dalla Tunisia erano calate drasticamente nella prima settimana di agosto, fino ad azzerarsi per cinque giorni. Frutto dei rinnovati accordi con la Tunisia, si era detto. Ma le ragioni per rallentare e, anche a fermare, i flussi di migranti le dicono le dinamiche rilevate in questi anni, con il fattore più potente, quello del meteo: con il mare grosso non si parte. E questo è quanto è accaduto in quei giorni. E infatti, con precisione cronometrica, tornato calmo il mare, dal 10 agosto sono ripresi gli arrivi di barchini a Lampedusa. Partono dalle isole Kerkennah o da altri porti come quelli di Sfax e Mahdia e percorrono con poca difficoltà il centinaio di miglia marine che separa la costa tunisina da quella lampedusana. Da soli o, ha scoperto recentemente la procura di Agrigento, con l’aiuto di veri pescherecci che fanno da “navi madre”: i pescatori imbarcano i migranti che pagano il viaggio o prestano in cambio il loro lavoro a bordo; poi, in vista della costa di Lampedusa, li fanno salire sui barchini che hanno al seguito e che sono utilizzati per la pesca al “cianciolo” e li fanno arrivare in poco tempo a destinazione. Ma il “destino” di questi migranti, che spesso vorrebbero solo attraversare il Paese per andare altrove, è in qualche modo segnato. Perché, mentre chi arriva dalla Libia è da considerarsi quasi sempre profugo dato che quel Paese, come pure molti degli altri Paesi di provenienza dei migranti, è teatro di guerra, lo stesso non può dirsi per chi arriva dalla Tunisia, anche se da indagini della procura di Agrigento si sa che alcuni trafficanti libici hanno spostato in quel Paese confinante i loro “affari”. Perché i tunisini non si possono considerare rifugiati ma solo “migranti economici” e dunque il loro immediato futuro, se non riescono a fuggire e a far perdere le loro tracce, sarebbe quello del rimpatrio; anche se poi gli accordi tra Italia e Tunisia prevedono la “restituzione” di poche decine di persone alla settimana. Le “fughe” dai centri di accoglienza, nei numeri un fenomeno recente, vanno visti in questa ottica: in questo Paese sono clandestino, la quarantena mi fa perdere tempo, cerco di andare via da qui per raggiungere la mia destinazione il prima possibile. Di recente, più di qualcuno prova anche a fare il furbo, dichiarandosi omosessuale e come tale persona perseguitata in Tunisia e dunque meritevole di protezione umanitaria; ma difficilmente la ottiene. A Lampedusa, comunque, la situazione resta sotto controllo da parte di forze dell’ordine e prefettura di Agrigento ma desta invece qualche ulteriore preoccupazione sull’isola, già piegata dall’emergenza coronavirus e dalla conseguente crisi del turismo che per le Pelagie è, e resta, la principale fonte economica: “Lampedusa è cambiata”, ha detto l’altro il giorno il pm Vella. Un’amara constatazione, dopo tanti anni di generosa disponibilità all’accoglienza. Ma a farla cambiare, più che i migranti e quella catasta di barchini abbandonati, ammassati al molo Favaloro in attesa di essere smaltiti, è la crisi economica che sta mettendo in ginocchio operatori turistici, albergatori, ristoratori, perfino gli stessi pescatori, come più volte ripetuto dal sindaco Totò Martello che questi problemi, assieme a quello dei pescatori di altri Paesi che gettano indisturbati le reti davanti all’isola, li ha elencati al ministro dell’Interno Lamorgese, ottenendo la promessa che saranno portarli al tavolo del governo. Gli sbarchi, dunque, sono solo l’ulteriore elemento che fa abbassare l’umore degli isolani. Migranti e Covid - Nella narrazione sulla paura dei migranti, quest’anno si aggiunge anche la paura del Covid e la paura che a portarlo siano proprio loro: “Dall’inizio della pandemia a oggi - spiega Carlotta Sami dell’Unhcr - i migranti arrivati via mare risultati contagiati sono appena il 2 per cento, e peraltro sono tutte persone testate, ora anche con i tamponi”. Dello stesso avviso uno studio dell’Ispi, l’Istituto di studi di politica internazionale, firmato dal ricercatore Matteo Villa: “Negli ultimi 31 giorni sono sbarcati 99 migranti positivi al Covid - ha twittato qualche giorno fa Villa -. Nello stesso periodo di tempo, i nuovi contagi in Italia sono stati 199 al giorno. Facciamo che basta?”. Ma ogni giorno arrivano notizie di migranti positivi, anche se si trovano in quarantena all’interno degli hotspot e dei centri di accoglienza. Notizie che allarmano la popolazione locale e che inducono i sindaci a protestare. Dopo gli ultimi casi, ad esempio, il primo cittadino di Pozzallo (Ragusa) ha chiesto, e ottenuto, l’invio dell’esercito per controllare la struttura ed evitare fughe, “altrimenti saremo noi stessi a presidiare l’hotspot”. Lo stesso capo della polizia, Franco Gabrielli, qualche giorno fa ha detto che “non c’è un’emergenza sui numeri ma il tema emergenziale serio è quello della quarantena, per garantire una cornice di salute pubblica che questo Paese ha diritto di avere”. Il clima è dunque favorevole per alimentare timori e paure. Da anni proprio l’Ispi fa “fact-checking” e smonta bufale sul fenomeno migratorio, a partire da quella, cavalcata per anni, delle Ong in mare come “pull factor”, fattore di attrazione, per le partenze dei migranti. E ha calcolato che dal 1° gennaio 2019 al 14 luglio scorso, ultimo dato disponibile, dalla Libia sono partiti ogni giorno in media 56 persone con le navi delle Ong in mare e 55 senza: “Un dato indistinguibile”, afferma il rapporto. Venti milioni di euro alla Tunisia per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 18 agosto 2020 Promessi finanziamenti per rilanciare l’economia ma intanto Tunisi deve sigillare i confini. Il sostegno all’economia della Tunisia ci sarà. La ministra dell’interno Luciana Lamorgese e quello degli Esteri Luigi Di Maio si sono impegnati in tal senso con il presidente tunisino Kais Saied, con il premier incaricato Hichem Mechichi e con la ministra degli Esteri ad interim Selma Enneifer che hanno incontrato ieri a Tunisi insieme ai commissari europei agli Affari Interni e all’Allargamento, Yilva Johannson e Oliver Varhelji. Ma fin da subito l’Italia e l’Europa chiedono a Tunisi di impegnarsi per fermare i migranti. Impegno che sono disposti a finanziare con 21 milioni di euro, 11 sbloccati dal Viminale e frutto dei risparmi avuti dal capitolo sull’accoglienza dei migranti, e 10 messi a disposizione dall’Unione europea. Soldi che serviranno per un controllo più serrato dei confini, per la manutenzione delle motovedette e per acquistarne di nuove, ma anche per l’addestramento delle forze di sicurezza, l’acquisto di radar e la creazione di un sistema informativo che permetterà alla Guardia costiera tunisina di bloccare i barconi prima che raggiungano le acque internazionali. “L’Italia è sempre in prima linea nel sostenere la Tunisia con azioni concrete - ha spiegato Lamorgese di ritorno da Tunisi - ma per contrastare il traffico di migranti serve uno sforzo in più perché la pressione esercitata sul nostro Paese crea una situazione di seria difficoltà aggravata dall’emergenza sanitaria Covid 19”. È una Tunisia disperata quella dove è approdata ieri la missione italo-europea. Un Paese messo in ginocchio da una crisi sociale ed economica resa ancora più grave dalla pandemia e che in autunno, stando ad alcune previsioni, potrebbe portare ad un aumento della disoccupazione di 200 mila unità. Persone che, se non tutte, almeno in parte andranno ad aggiungersi a quanti già oggi cercano di arrivare in Europa. Non a caso il premier Mechichi, parlando ai ministri italiani e ai commissari europei, ha voluto sottolineato l’importanza della cooperazione “Lo sviluppo economico è prioritario per la Tunisia anche per ricreare fiducia negli investitori”, ha spiegato. Insomma, un approccio securitario andrà anche bene per gli europei, ma servono progetti, investimenti nelle aree interne del Paese da dove parte la maggioranza dei migranti. “Progetti che possano creare posti di lavoro ai giovani e dare loro la possibilità di rimanere nel proprio Paese”, ha detto. E soprattutto, ha insistito Mechichi, occorre semplificare la burocrazia che oggi rallenta i finanziamenti europei al Paese. Bruxelles impegna qualcosa come 300 milioni di euro l’anno per la cooperazione in Tunisia, ma solo un terzo di quei soldi arriva davvero a destinazione a causa delle lungaggini burocratiche. I due commissari si sarebbero impegnati a velocizzare le pratiche, ma va da sé che la contropartita che l’Italia e l’Ue chiedono a Tunisi è di chiudere i suoi confini e di accettare un numero maggiore di suoi cittadini rimandati indietro dall’Europa. Insieme a Egitto, Marocco e Nigeria, la Tunisia è uno dei quattro paesi con cui l’Italia ha un accordo bilaterale che oggi, dopo lo stop dei mesi scorsi imposto dal coronavirus, prevede al massimo 80 rimpatri a settimana. Numero che adesso il governo giallorosso vorrebbe aumentare visto che quella tunisina rappresenta la nazionalità più numerosa tra quanti sono sbarcati nel nostro Paese dall’inizio dell’anno: 6.500 su 15 mila circa, quasi tutti arrivati autonomamente con piccole imbarcazioni. “Voglio essere chiaro: chi arriva in Italia in modo irregolare non potrà usufruire di alcuna opportunità di regolarizzazione. L’unico esito di un arrivo irregolare è un rimpatrio”, ha affermato ieri il ministro Di Maio, che però a fine luglio ha chiesto di bloccare 6,5 milioni di euro di fondi della cooperazione in favore di Tunisi. Intanto c’è paura per la sorte di 65 migranti a bordo di un’imbarcazione al largo della Libia e della quale non si hanno più notizie. “Abbiamo chiesto un intervento di soccorso, ma tutte le autorità hanno rifiutato di assumersi le responsabilità”, ha denunciato la piattaforma Alarm Phone dopo aver dato l’allarme. “Il Libano è a terra, la missione Onu è una garanzia di pace” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 18 agosto 2020 Parla il generale italiano Del Col, a capo del contingente Unifil impegnato subito dopo l’esplosione al porto di Beirut. Il generale Stefano Del Col è stato tra i primi ufficiali internazionali a sapere che, “secondo le stime iniziali”, l’esplosione al porto di Beirut nel pomeriggio del 4 agosto era stata un “incidente e non un’azione militare”. Per il 59enne comandante in capo dall’agosto 2018 dei circa 10.500 soldati (tra cui quasi 1.100 italiani) provenienti da 45 Paesi, che formano il contingente Unifil lungo il confine tra il Libano meridionale e Israele, era una questione vitale. “Se fosse stata un’azione di guerra avremmo rischiato di pagarne presto le conseguenze. Alcuni social media locali avevano già denunciato l’eventualità di un missile israeliano. Invece sia le autorità israeliane che quelle libanesi ci confermarono rapidamente che si era trattato di un incidente industriale e infatti la regione è rimasta tranquilla”, spiega nel suo ufficio nella base del contingente internazionale a Naqoura. L’’esplosione avrebbe potuto condurre a un nuovo scontro aperto tra Israele e la milizia sciita dell’Hezbollah come nell’estate 2006? “C’era il rischio di degenerazioni violente. Era fondamentale che israeliani e libanesi dichiarassero pubblicamente che non c’era stata azione militare. Cosa che fecero dopo poche ore. L’ennesima prova che la nostra azione di dialogo-ponte come forza Onu presente sul campo resta molto utile. Ora le cause dello scoppio saranno appurate da una commissione d’inchiesta”. Come valuta gli effetti? “È stato un evento drammatico, che ha aggravato la crisi economica libanese già appesantita dal coronavirus, rilanciato le proteste di piazza e portato alle dimissioni del governo. Speriamo ne formino un altro al più presto per gestire la transizione. Il Paese è letteralmente in ginocchio. Unifil cerca di aiutare”. Il porto di Beirut è usato anche da Unifil. Problemi? “Una delle nostre sei navi era ancorata a 400 metri dall’epicentro dello scoppio. Almeno 23 marinai del Bangladesh sono rimasti feriti, di cui due in modo grave. Altri due italiani del sostegno logistico sono feriti leggermente. Nella tragedia posso dire che siamo stati relativamente fortunati. Un’altra nave Unifil era salpata poche ore prima e quella colpita è stata protetta dai grandi silos di grano che hanno funzionato da scudi. Subito dopo ho mobilitato la nostra forza aerea, che è composta dagli elicotteri del contingente italiano. Loro hanno fatto la spola per evacuare le vittime e portare i primi soccorsi. Quindi la nostra intera struttura si è azionata per sostenere l’azione delle organizzazioni umanitarie dell’Onu. Adesso il porto funziona al 50%”. Le manifestazioni di Beirut chiedono il disarmo di Hezbollah. Crede che ciò possa condurre a scontri gravi? “Qui nel Sud per ora non vedo conseguenze rilevanti. Unifil ha continuato a operare come sempre. Non abbiamo diminuito le nostre 450 pattuglie e attività di monitoraggio quotidiane, di cui circa il 20 per cento assieme all’esercito regolare libanese”. Come ogni anno, a fine agosto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu deve votare il rinnovo del vostro mandato. E come sempre Israele chiede un’azione più determinata contro Hezbollah. Cosa risponde? “Sono temi che si accendono puntuali dal 2006, quando la risoluzione 1701 ampliò le dimensioni e il mandato della forza Unifil presente dal 1978. La differenza quest’anno è stata che se ne parla da più mesi. Il Sud Libano costituisce oggi uno dei temi caldi del Medio Oriente, condizionato anche dal braccio di ferro tra Washington e Teheran. Noi rispettiamo le regole e i loro limiti. Monitoriamo, non possiamo irrompere nelle proprietà private, ma sta all’esercito libanese disarmare Hezbollah. Lo scorso primo settembre Hezbollah sparò tre missili anticarro, poi però la zona è rimasta calma, tranne alcune tensioni registrate a luglio nelle zone contese di Sheba e Gajar. Del resto, Israele viola quotidianamente lo spazio aereo libanese. Quelle violazioni sono sottolineate nei nostri rapporti quadrimestrali al segretario generale”. Costate 480 milioni di dollari all’anno. Valuta che potreste ridurvi un poco? “Credo che Unifil debba continuare a operare con queste forze. Ha garantito 14 anni di pace. Il Sud Libano grazie a noi da decenni non era mai stato così prospero e sicuro”. La crisi in Yemen vista da 3 italiane che lavorano per Oms di Marta Serafini Corriere della Sera, 18 agosto 2020 “È come l’Etiopia ma senza il Live Aid”. Tre professioniste del Who raccontano l’emergenza. Dalla malnutrizione passando per la pandemia “è come se stessimo lasciando morire metà degli italiani”. “L’abbiamo capito fin da gennaio che le cose si stavano mettendo davvero male”. Marina Adrianopoli, Rosa Crestani, ed Elena Vuolo svolgono lavori molto diversi tra loro. Ma hanno due cose in comune: lo Yemen e una carriera all’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità. Impegnate in uno degli scenari più complessi del pianeta dal punto di vista sanitario, oggi sono tornate a Sana’a ed Aden per cercare di dare aiuto a un Paese martoriato da cinque anni di guerra e svariate epidemie e piaghe, tra cui il colera, la malaria, l’invasione di locuste e la malnutrizione, cui si è aggiunto il Covid-19 e non da ultime le alluvioni che stanno distruggendo gli antichi edifici su a nord. E mentre queste tre donne italiane tornano sul campo, lo Yemen sparisce definitivamente dalle pagine dei giornali, nonostante la situazione sia gravissima. “Di base è come se la crisi yemenita fosse completamente dimenticata. Ma se la paragoniamo ad emergenze umanitarie del passato - penso alle carestie africane degli anni 80 - l’interesse dell’opinione pubblica è decisamente minore. Potremmo dire che lo Yemen è come l’Etiopia ma senza il Live Aid e Bono”, spiega Vuolo, 40 anni, planning & Exr Specialist, con missioni in curriculum in Afghanistan e in Siria. Così mentre il mondo gira la testa dall’altra parte, la Fao, l’Unicef e il Pam, in un rapporto pubblicato il 22 luglio, stimano che nei prossimi sei mesi aumenteranno da 2 a 3,2 milioni le persone a rischio alimentare acuto. “E se si considera che in Yemen vivono 30 milioni di persone è come se stessimo dicendo che stiamo lasciando morire metà degli italiani”. Dal punto di vista strettamente sanitario, fin qui i casi di Covid-19 accertati ai primi di agosto sono 1.738 con 500 morti, ma il conteggio è sicuramente parziale. “La pandemia è andata ad aggiungersi a tutti gli altri problemi”, spiega Rosa Crestani Health Expertise and Operations Coordinator. Cinquant’anni, un master in epidemiologia una carriera nella cooperazione internazionale fin dal 1996 e 17 anni sul campo con Medici Senza Frontiere, Crestani spiega come le difficoltà legate alla gestione della pandemia agiscano a vari livelli. “Il primo punto è sicuramente la carenza di ventilatori polmonari e ossigeno ma assistiamo anche a problemi di tipo sociale e culturali, quali la stigmatizzazione della malattia (e dunque la resistenza di fronte al ricovero in ospedale) e infine l’hatespeech nei confronti dei migranti accusati di portare il virus”. Per Marina Adrianopoli, technical Officer for Nutrition, 43 anni, l’emergenza riguarda anche la malnutrizione infantile. “La mia ultima missione è stata in Sud Sudan, dunque un contesto non semplice. Ma quando ho letto le statistiche sullo Yemen ho capito quanto sia grave la situazione qui”, spiega. Secondo le Nazioni Unite infatti 30 mila bambini potrebbero sviluppare nei prossimi sei mesi malnutrizione acuta grave, pericolosa per la vita, e il numero complessivo di bambini malnutriti al di sotto dei cinque anni potrebbe aumentare fino a un totale di 2,4 milioni - quasi la metà di tutti i bambini al di sotto dei cinque anni nel paese, un aumento di circa il 20%. Inoltre altri 6.600 bambini sotto i cinque anni potrebbero morire entro la fine dell’anno, un aumento del 28%. Il sistema sanitario si sta avvicinando al collasso.E se di fronte ai numeri, è chiaro come i bisogni di aiuti siano sempre più urgenti “nel mentre bambini, in quella che è già la peggiore crisi umanitaria del mondo, lottano per la sopravvivenza mentre il Covid-19 prende piede”.Come dire dunque che lo Yemen rimane in estremo bisogno. Il tutto mentre il 70% di tutti i programmi umanitari hanno cominciato a chiudere, ma che “grazie a partners come il governo Italiano, l’Oms riesce a mantenere in piedi il programma di lotta alla malnutrizione”. Polonia. Da Olga Tokarczuk a Ian McEwan: l’appello della cultura per liberare Margot di Andrea Tarquini La Repubblica, 18 agosto 2020 Ci sono anche Pedro Almodóvar, Margaret Atwood e Leila Slimani tra i firmatari del manifesto che chiede di rilasciare l’attivista polacca per i diritti Lgbt. La Polonia moderna, europea, occidentale da oggi non è più sola. Soprattutto nella lotta contro la politica omofoba del governo di maggioranza. Pedro Almodóvar, la Nobel polacca per la Letteratura Olga Tokarczuk, Ian McEwan e molti altri dei massimi nomi della cultura contemporanea hanno lanciato, e pubblicato con l´aiuto di Gazeta Wyborcza, un appello-lettera aperta per Margot, la transessuale leader del movimento Lgbtq arrestata arbitrariamente e brutalmente percossa dalla polizia nella capitale polacca. I nomi dei firmatari dicono tutto da soli. Troviamo tra gli altri Olga Tokarczuk, Pedro Almodóvar, Ian McEwan, Margaret Atwood, J.M. Coetzee, Ed Norton, Ed Harris, Paul Auster, Leila Slimani e molti altri grandi della cultura contemporanea. Nel loro testo chiedono alle autorità polacche la liberazione immediata di Margot e la rinuncia a ogni azione giudiziaria contro di lei, in nome della libertà di pensiero e di espressione e della libertà delle minoranze, valori costitutivi del mondo libero. “La nostra lettera aperta ha come primo destinatario la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen”, sottolineano i grandi della cultura mondiale. E aggiungono: “Esigiamo la liberazione immediata di Margot e delle sue compagne e compagni di lotta non violenta arbitrariamente detenuti e sottoposti a vessazioni d´ogni genere. La politica omofoba in Polonia, lo constatiamo, è divenuta pratica quotidiana, strumento per avere una minoranza come capro espiatorio e criminalizzare avversari politici e critici. Non occorre ricordare quali tristi precedenti storici ciò evochi”. E ancora: “Margot e le sue compagne sono arrestate, intimidite, brutalizzate, perché il partito al potere ha fatto di loro il capro espiatorio e della dura campagna omofoba un suo strumento politico prioritario, ciò è incompatibile coi valori costitutivi dell’Unione europea e del mondo libero”. L’appello continua: “Margot e gli altri attivisti non violenti Lgbtq detenuti sono da considerare sotto ogni aspetto detenuti politici, anche questo è inaccettabile nella Ue. La persecuzione e le violenze fisiche contro gli Lgbtq aumentano in Polonia ogni giorno”. Iran. Arrestata senza accuse la figlia dell’avvocatessa per i diritti umani Nasrin Sotoudeh La Repubblica, 18 agosto 2020 Mehraveh Khandan, 20 anni, rilasciata dopo qualche ora nel carcere di Evin. Mehraveh Khandan, la figlia ventenne della nota avvocata iraniana e attivista per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh, è stata arrestata durante un blitz di cinque uomini della sicurezza nella sua abitazione e trasferita nel carcere di Evin a Teheran: la ragazza è stata rilasciata dopo qualche ora in prigione. Lo riferisce Iran Human Rights, l’ong con base a New York che segue da vicino il caso dell’avvocatessa arrestata. Mehraveh è stata arrestata senza che le venisse contestata alcuna accusa: già in passato era stata minacciata di arresto. Una forma di pressione nei confronti della madre, sostengono gli attivisti per i diritti umani. Sotoudeh è la più nota prigioniera politica in Iran oggi. Nasrin Sotoudeh, a lungo braccio destro della Nobel per la Pace Shirin Ebadi, insignita del premio Sacharov dal Parlamento Europeo nel 2012, è stata arrestata nel giugno del 2018 e sta scontando una condanna a 12 anni nello stesso carcere di Evin, con l’accusa di “complotto contro la sicurezza” per aver difeso delle donne e la loro battaglia contro l’imposizione del velo. Sotoudeh è al settimo giorno di sciopero della fame contro le scarse condizioni sanitarie nelle prigioni per i detenuti politici. Alla figlia Mehraveh è vietato lasciare l’Iran da quando aveva 12 anni. Egitto. “Indecenti”, “immorali”: è caccia aperta alle influencer di TikTok di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2020 “Ribadiamo l’impegno a continuare a combattere i vergognosi reati che violano i principi e i valori della società”. “L’Egitto proteggerà i confini dello spazio virtuale dalle forze del male”. Con queste due dichiarazioni diffuse dalla procura generale il 29 aprile e il 2 maggio, le autorità egiziane hanno inaugurato una nuova fase della strategia repressiva per controllare la Rete. Dalla fine di aprile 10 influencer di TikTok, seguite da centinaia di migliaia se non milioni di persone, sono state arrestate e sottoposte a procedimenti giudiziari per violazione della Legge sui reati informatici, “indecenza”, “incitamento all’immoralità”, “incitamento alla dissolutezza” e “violazione dei principi e dei valori della famiglia”. Gli arresti sono scattati dopo denunce di uomini che si erano sentiti “oltraggiati” e a seguito di indagini del dipartimento del ministero dell’Interno che si occupa di questioni morali. Quattro delle 10 influencer sono state condannate: Manar Samy e Sama el-Masry a tre anni di carcere, Hanin Hossam e Mawada el-Adham a due. I processi d’appello si svolgeranno nelle prossime settimane. Le altre sei influencer sono in attesa del processo. Amnesty International ha esaminato le vicende giudiziarie di cinque delle 10 influencer. Negli atti giudiziari si fa continuo riferimento al modo di vestire, alla “influenza” negativa sul vasto pubblico dei social media e al fatto di fare soldi online. Ad Hanin Hossam, durante il processo, è stato rinfacciato di aver ottenuto “popolarità sui social media” e di “influenzare le giovani”. Lei è al centro di un’inchiesta separata, addirittura per coinvolgimento in “traffico di esseri umani”, a causa di un video su Instagram in cui incoraggiava ragazze di età superiore a 18 anni a pubblicare video di sé stesse sull’app Likee, che aumenta i guadagni in relazione al numero di visitatori. Nel processo alla danzatrice del ventre Sama el-Masry, è stata esibita come prova una fotografia che la ritraeva in costume, ritenuta sufficiente a condannarla per aver pubblicato foto e video “ammiccanti” con “espressioni e movimenti sessualmente allusivi”. Analogamente, nel processo contro Mawada el-Adham, arrestata il 15 maggio, la pubblica accusa ha esibito 17 selfie “indecenti”. L’imputata si è difesa sostenendo che quelle foto erano archiviate in un telefono cellulare che le era stato rubato nel maggio 2019. Lei aveva sporto denuncia ma la polizia, anziché avviare indagini per rintracciare il ladro, le aveva chiesto perché avesse scattato e conservato quei selfie. È stata condannata per “violazione dei principi e dei valori della famiglia”. La stessa strategia processuale è stata usata nel processo all’attrice e modella Manar Samy. L’imputata aveva denunciato già nel 2018 il suo ex marito, accusandolo di averla ricattata rendendo pubbliche foto intime scattate durante il periodo in cui erano stati sposati, in modo da poter ottenere l’affidamento della loro figlia. Ma la storia più assurda è quella che state per leggere. Il 22 maggio Menna Abdelaziz, 18 anni, ha iniziato una diretta su Instagram col volto pieno di lividi chiedendo alle autorità di arrestare l’uomo che accusava di averla violentata, picchiata e filmata senza consenso. Quattro giorni dopo è stata arrestata insieme a sei uomini accusati dell’aggressione sessuale. È stata interrogata per quasi otto ore e alla fine, grazie alle dichiarazioni degli altri imputati, accusata dei reati di di “incitamento alla dissolutezza” e “violazione dei principi e dei valori della famiglia”. È emerso che si era presentata a una stazione di polizia per sporgere denuncia ma le era stato detto di andare altrove perché quella non era territorialmente competente. Menna Abdelaziz si trova attualmente in un rifugio governativo per le sopravvissute alla violenza, ma le indagini nei suoi confronti vanno avanti. *Portavoce di Amnesty International Italia