Ferragosto dietro le sbarre. Riforme o contestazione di Franco Corleone L’Espresso, 17 agosto 2020 Il 13 agosto ho visitato il carcere di Udine e ho constatato una situazione intollerabile. Oltre al sovraffollamento cronico, 136 detenuti rispetto alla capienza di 90 posti, si conferma il peso della legge antidroga per la previsione dell’art. 73, detenzione o piccolo spaccio, infatti sono 41 i detenuti per questa accusa. Se aggiungiamo i tossicodipendenti e i poveri o emarginati superiamo la metà della popolazione detenuta. Nessuno pensa di affrontare in termini diversi dalla carcerazione le questioni sociali e quindi il carcere rappresenta la discarica sociale per la detenzione sociale. La rappresentazione che viene offerta dalle celle con quattro, sei o otto ospiti è impressionante. Oltre al caldo insopportabile è evidente il paradosso delle raccomandazioni del rispetto di distanze di sicurezza che in cella è evidente impossibile. Il vero scandalo è che pur in presenza di finanziamenti ottenuti dopo insistenti richieste, nulla si muove. Fermi i lavori per la sezione della semilibertà, fermi i lavori per la palestra della Polizia penitenziaria che potrebbe essere aperta anche alle associazioni sportive dei giovani della città, bloccati i lavori per la ristrutturazione della ex sezione femminile, locali che potrebbero essere destinati per la formazione, per le attività culturali, per i rapporti con il volontariato. C’è una ragione per questa ignavia? C’è un motivo per questa paralisi burocratica? Abbiamo dato quindici giorni all’Amministrazione Penitenziaria per ottenere risposte esaurienti e soddisfacenti. A settembre la Società della Ragione promuoverà un digiuno collettivo perché siano realizzate riforme che aspettano da venti anni. Il Covid-19 non può essere un alibi: il cambiamento si deve realizzare nel fuoco della crisi. Mauro Palma, il 29 luglio in occasione dei quattro anni della scomparsa di Sandro Margara ha definito il carcere oggi un luogo vuoto e sordo. È una denuncia grave quella del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Io, ma so di non essere solo, non voglio essere complice, neppure per omissione di una tragedia che si compie nel silenzio. Carceri (ancora) piene di Luca Roberto Il Foglio, 17 agosto 2020 Com’è consuetudine oramai da diversi anni, la scorsa settimana l’associazione Antigone ha pubblicato il periodico monitoraggio di metà anno sul sovraffollamento nelle carceri italiane. La situazione è lievemente migliorata dall’inizio della pandemia, ma a livello nazionale permangono situazioni disomogenee di particolare criticità. 106,1 per cento - È il tasso medio di affollamento carcerario registrato in Italia a fine luglio. Un anno fa era del 119,4 per cento. Il calo più marcato lo si è osservato nelle case circondariali dell’Emilia-Romagna (meno 19,8 per cento), della Campania (meno 15,2 per cento), e della Lombardia (meno 13,9 per cento). Le Marche sono l’unica regione in cui i nuovi ingressi hanno superato le uscite (più 1,1 per cento). Sono 53.619 i soggetti detenuti nelle carceri italiane alla fine di luglio, in linea con il dato di aprile. 140 - È il numero di detenuti ospitati ogni 100 posti disponibili, in 24 carceri italiane. A Latina il tasso di affollamento è del 197 per cento - quasi il doppio rispetto al consentito - a Taranto del 177 per cento. 287 - Sono i casi totali di infezione al coronavirus registrati all’interno delle carceri dall’inizio dell’emergenza sanitaria: 161 sono stati accertati in un’unica giornata. Per effetto del contagio sono morti 4 detenuti, 2 agenti di polizia e 2 medici penitenziari. 3.379 - I soggetti cui è stata concessa la detenzione domiciliare in seguito al propagarsi della pandemia (dato aggiornato al 20 maggio). A 975 di questi è stato assegnato un braccialetto elettronico. A 561 persone è stata concessa una proroga della licenza di semilibertà. 1/5 - È la proporzione di chi, sul totale dei detenuti, deve scontare un residuo di pena inferiore a un anno. La quota sale al 52,6 per cento se si considerano quelli che devono scontare meno di 3 anni residui. Il 26,8 per cento, invece, ha di fronte a sé più di 10 anni di detenzione residua. 32,5 per cento - La percentuale di detenuti di nazionalità straniera, in calo rispetto allo scorso anno (33,3 per cento) e in maniera ancor più marcata rispetto al 2008 (erano il 37 per cento). Le donne sono il 4,19 per cento dei detenuti complessivi, 2.224 in valori assoluti. Così la magistratura rischia l’autodistruzione di Giuseppe Maria Berruti La Stampa, 17 agosto 2020 Anni fa Giuseppe D’Avanzo scrisse che la magistratura si sarebbe autodivorata. I fatti all’attenzione della procura di Perugia, la confusione elettorale prodotta da una legge che voleva battere le correnti invece del clientelismo correntizio, il ruolo del Consiglio Superiore sempre più episodico, la perdita da parte dei magistrati di ogni stile nelle polemiche, sembrano dare ragione a quel presagio. Con Mani pulite cadde l’immunità parlamentare. Le sopravvive oggi l’autorizzazione alla cattura. Resto dell’opinione che la cattura di un parlamentare deve essere evitata. Vi è già nella richiesta di procedere tutto ciò che rileva perché il Paese e la politica possano decidere l’atteggiamento da tenere verso l’imputato. La cattura invece interviene sulla composizione del Parlamento. È rimessa al medesimo di autorizzarla perché è la logica della democrazia che deve decidere quale sia il costo minore. Ma il danno al sistema costituzionale resta. Perché quando venne eliminata l’autorizzazione a procedere mancò una riflessione sulla ricaduta di sistema che questo avrebbe comportato: il fatto, cioè, che il giudice con la sua richiesta successiva a una indagine avrebbe reso pubblico il comportamento del parlamentare provocandone un giudizio politico. Non giudiziario, ripeto, ma politico. Non si comprese che questo più forte potere del giudice avrebbe comportato conseguenze sul quadro storico nel quale l’accusa andava a inserirsi. La corruzione è male inestinguibile. Si può punire il colpevole. Non la si elimina perché non si elimina il male. Essa costituisce un distorto motore economico. Perché non si fanno alcune opere se non vi è un guadagno illecito. Tutto ciò si deve evitare con sistemi amministrativi. In ultimo con il giudice penale. Mi pare invece che molte vicende dimostrino che troppo è lasciato alla cosiddetta ultima barriera, quella del giudice che accerta e punisce il delitto. Perché le altre difese sociali, affidate all’amministrazione efficiente e controllata e al governo concreto, non hanno funzionato. Ovvio che al pm viene attribuito un peso abnorme, oggettivamente politico. Il peso di dire come e quando operare nel governo delle cose, essendo chiaro che un modo o un altro di operare non sono neutrali verso la funzione politica in questione. Ovvio che questo crea contrasti. Ovvio che metta in conflitto la funzione del giudice con quella del governo. E che confonda il Paese al quale resta la percezione di una assoluta incertezza nei momenti difficili. Pensiamo al processo civile. Una macchina enorme che gira intorno a sé stessa macinando il nulla. Serve anzitutto alla sopravvivenza dei suoi addetti. Ogni tentativo di renderlo fedele al modello di decidere chi ha ragione, e chi e quanto deve pagare, costringendo i suoi addetti a confrontarsi sui fatti, è annegato in un mare di tecnicalità, ciascuna figlia di un’altra, che portano a una sola conclusione: esso aiuta anzitutto chi ha torto, chi non vuol pagare. Amministrazioni pubbliche per prime. E spaventa il cittadino onesto. Questo è tutto un sistema che si divora. Perché rinuncia a tutti i passaggi ordinari e ricorre allo strumento ultimo della punizione penale, e non riuscendo a ritrovare la regola generale, diventa sempre più legato al caso concreto. La balcanizzazione orrenda dei magistrati, la cui cultura si sta dimostrando inadeguata a fronteggiare questa crisi dello Stato di diritto, è solo una conseguenza. Il caso Palamara, reati a parte dei quali non so nulla, lo dimostra. Una banale questione, quella degli accordi tra membri di un collegio eletto per liste contrapposte o nominato nella quota parlamentare secondo scelte legittimamente partitiche ha fatto scoprire la valutazione politica delle scelte. La diffusione di conversazioni private ha dimostrato, niente di meno, che queste scelte sono oggetto di patteggiamenti. Si immagina di togliere discrezionalità al Consiglio. Si dimentica che l’autonomia e l’indipendenza dei giudici è affidata alla discrezionalità dell’organo costituzionale che li governa. L’indipendenza dei giudici sta insieme alla libertà del Consiglio. Il problema si può risolvere affidando al governo maggiori poteri e diminuendo l’indipendenza della magistratura. Oppure affrontando il peso della indipendenza stessa. Che comporta la necessità della valutazione discrezionale del Consiglio. Il Covid ci impone di affrontare tutto questo ritardo. L’assenza del dibattito giuridico e la sua riduzione a valutazione pettegola di messaggini tra addetti ai lavori, è un danno enorme. È una distrazione di massa. I magistrati certamente, ma tutti noi, dovremo recuperare il senso politico delle vicende. E decidere come cambiare. Nell’Italia dei furbi la mafia serve a far sentire migliori di Gioacchino Criaco Il Riformista, 17 agosto 2020 E sia chiaro, la mafia fa schifo, è una montagna di merda. E, senza utilizzare ma o però, alla fine c’è una generale tendenza alla assoluzione o autoassoluzione, come a dire che, tranne i mafiosi, si è tutti sullo stesso piano, poiché in settant’anni la Repubblica più che un popolo, una coesione di cittadini, ha creato una società unità dalla complicità. Decenni di cattivi insegnamenti in cui le vie traverse sono diventate le strade giuste per raggiungere una sistemazione, e i trucchi e le furberie gli elementi essenziali al vivere bene o sopravvivere: una società che parte dalla raccomandazione per raggiungere la corruzione. Ed è chiaro che se si porta in piazza l’etica o la morale, il refrain della stragrande maggioranza onesta, diventa un’enorme balla. E sia chiaro, la mafia fa schifo, è una montagna di merda, senza ma o però. La mafia c’è, pian piano diventa l’ultima frontiera, il confine fra il bene e il male che consente al resto di rimanere in piedi. Non è bella gente quella che si becca il bonus dei 600 euro, ma pian piano si vedrà che oltre ai politici se lo sono beccati migliaia di professionisti agiati, di norma abbienti che non sono alla fame. La società italiana è ormai adagiata sulla forzatura delle regole, regole che di norma sono forgiate per incoraggiare il superamento della vergogna, quasi fosse una prospettiva sociale. Tutti quelli che hanno gridato all’onestà nel passato, poi si sono contati fra i disonesti, e tutti quelli che hanno linciato, lanciato monetine, poi, strette nel pugno, avevano monete che non gli appartenevano. E la mafia è un orrido a cui non si devono accostare alibi, esiste per dimostrare fino a dove la cattiva coscienza, o l’incoscienza, possa portare il cuore umano, esiste per stabilire il confine fra l’assoluzione, l’autoassoluzione, e la condanna eterna. In Italia finché la mafia avrà vita, tanti potranno continuare a sentirsi migliori, perfino buoni, per il solo fatto di non essere mafiosi, lasciando perdere il discorso dell’onestà. Storie di 4 imprenditori rovinati dalla legge: “I Pm ci hanno distrutto la vita” di Viviana Lanza Il Riformista, 17 agosto 2020 Edilizia, urbanistica, ma anche reati di borsa e reati tributari. Intervistando giuristi, magistrati, avvocati e docenti universitari il Riformista ha tracciato una sorta di mappa dei reati che potrebbero essere puniti con sanzioni amministrative o, comunque, perseguiti seguendo un iter diverso da quello penale. In una parola, depenalizzazione. È tra le soluzioni indicate come possibili rimedi all’eccessivo carico della giustizia, all’ingolfamento dei tribunali, all’aumento di reati e di faldoni che poi finiscono per risolversi, nel 60 per cento dei casi, in un nulla di fatto perché i processi non arrivano a sentenza, perché non arrivano a sentenza di condanna o perché, quando pure c’è condanna, si prevede una pena sospesa, che non porta in carcere. E allora perché continuare a seguire, per reati cosiddetti bagattellari e comunque non gravissimi, un doppio binario giudiziario, quello penale e quello amministrativo? Perché non usare la sola leva amministrativa per far valere la legge, lasciando che le aule di tribunale siano affollate solo da imputati accusati di reati gravi per cui non si può rinunciare a un’inchiesta penale e al dibattimento che ne è la diretta conseguenza in presenza di validi indizi? Gli interrogativi sono destinati a rimanere con il punto di domanda in attesa che la politica prenda coraggio per una riforma ampia. E intanto aumentano le storie di imputati, soprattutto fra gli imprenditori, che finiscono nelle maglie della giustizia penale per reati tributari o edilizi, che subiscono sequestri preventivi e talvolta anche danni. Perché, si sa, i tempi della giustizia possono essere anche molto, molto lunghi. Il Riformista ha raccolto quattro storie di imprenditori che, a Napoli e nel resto della Campania, sono l’esempio di come una giustizia lenta e una legislazione sovrabbondante possano condizionare l’economia, ostacolando o addirittura fermando, la crescita di un’impresa. Falso ideologico: Prima condanna, poi assoluzione - Ha affrontato anni di processo per arrivare in appello a una sentenza di assoluzione che ha completamente ribaltato la tesi dell’accusa. I fatti riguardano un imprenditore di Roccagloriosa, nel Cilento, e la sentenza risale ad alcuni mesi fa e ha occupato le pagine delle cronache locali. La storia è una delle tante storie di imprenditori che hanno dovuto affrontare un lungo processo, con tutte le possibili ricadute sulla propria attività, prima di arrivare a una sentenza che smonta il castello accusatorio e definisce l’intera vicenda giudiziaria con un verdetto di assoluzione. In primo grado l’imprenditore era stato condannato a sei mesi di reclusione. L’accusa riguardava il presunto reato di falso ideologico in atto pubblico per false dichiarazioni in un’istanza protocollata al Comune per avere prestazioni sociali agevolate. In appello, invece, è arrivata l’assoluzione. I pm: “Locale abusivo”, ma il proprietario è il Comune - È una storia singolare, particolare, che sembra addirittura surreale. È una storia che da circa un anno e mezzo pende dinanzi alla giustizia sia penale sia civile. È la storia di un imprenditore che decide di investire in una attività di ristorazione in uno dei luoghi più belli e suggestivi di Napoli, a Marechiaro. Acquista la licenza e avvia i lavori di ristrutturazione. Ma proprio in quel momento comincia per lui un incubo giudiziario. Viene indagato per reati di abusi edilizi perché secondo l’accusa l’immobile è abusivo. Eppure è un immobile che risulta appartenere al Comune di Napoli, tanto che l’amministrazione comunale richiede il canone di affitto. Succede, quindi, che l’imprenditore finisce anche sotto processo civile per gli affitti rivendicati dal Comune. E da un anno e mezzo attende una risposta dalla giustizia. Sotto inchiesta per le normative contraddittorie - Una pedana all’esterno del locale e una normativa che, come spesso accade, si presta a più interpretazioni. Parte da qui la storia di un imprenditore costretto a subire lo stop di un mese per la sua attività di bar e ristorazione nel cuore di Napoli e affrontare un procedimento per occupazione di suolo pubblico, salvo poi ottenere il dissequestro con la pronuncia di un giudice che ha ritenuto illegittimo il dissequestro. Tutto accade all’indomani dell’avvio della fase 2, a maggio. Dopo il lockdown legato alla pandemia, l’imprenditore prova a rimettere in moto l’attività. C’è un decreto emergenziale che consente l’occupazione di suolo per allestire tavoli e sedie all’aperto. Ma c’è anche una normativa a livello locale e nazionale che crea confusione sulla necessità o meno del parere della Sovrintendenza per l’installazione di una pedana. Tanto basta per far azionare la pesante macchina della giustizia penale. Versa l’Iva in ritardo: 600mila euro sequestrati - Seicentomila euro di Iva non versata nei tempi previsti dalla legge e per un imprenditore di Maddaloni, impegnato nel settore dei trasporti e con cento dipendenti, scatta la segnalazione dell’Agenzia delle Entrate. Inizia quindi l’iter previsto per questi casi e l’imprenditore definisce la sua posizione con un piano di rateizzazione che prevede il pagamento del debito in tranche da 125mila euro. Ma siccome questa è una delle tante storie in cui la giustizia penale si accavalla a quella tributaria, accade che, nonostante il piano di rateizzazione che portando all’estinzione del debito dovrebbe portare anche all’estinzione del reato, l’imprenditore finisce al centro di un’inchiesta penale subendo così il sequestro per equivalente di 600mila euro. Un duro colpo per una piccola impresa che aveva già avviato il pagamento del debito. E per il Riesame bisognerà attendere la ripresa dell’attività dei giudici dopo lo stop feriale. Segnalazioni antiriciclaggio, in calo quelle dei professionisti di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2020 Riciclaggio sempre più nel mirino. Crescono le segnalazioni di operazioni sospette: nel primo semestre di quest’anno è aumentato il numero totale rispetto allo stesso periodo del 2019. Diminuiscono, invece, quelle effettuate dai professionisti. Complice verosimilmente, anche il lockdown. È quanto emerge dalla recentissima newsletter della Unità di informazione finanziaria della Banca di Italia. L’Uif ha, infatti, rilevato 53.027 segnalazioni a fronte delle 51.168 del primo semestre dell’anno scorso, ma quelle dei professionisti sono scese da 2.553 a 1.730 (-32,2%). La segnalazione di operazioni sospette è una delle attività più delicate cui è chiamato il professionista, sia per le conseguenze che possono derivare al cliente, sia per i rischi cui si va incontro in caso di omissione. Devono comunicare le operazioni sospette all’Uif i seguenti professionisti, sia che svolgano l’attività in forma individuale, associata o societaria: - iscritti nell’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dei consulenti del lavoro; - ogni altro soggetto che rende i servizi forniti da periti, consulenti e altri soggetti che svolgono in maniera professionale, anche nei confronti dei propri associati o iscritti, attività in materia di contabilità e tributi, compresi associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, Caf e patronati; - i revisori legali e le società di revisione legale con o senza incarichi di revisione legale su enti di interesse pubblico o su enti sottoposti a regimi intermedio. I notai e gli avvocati sono obbligati alla segnalazione soltanto quando, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi. Niente obbligo di segnalazione, invece, quando il professionista riceve informazioni dal cliente nel corso dell’esame della posizione giuridica o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza in un procedimento davanti al giudice o in relazione a tale procedimento, compresa la consulenza sull’eventualità di intentarlo o evitarlo, ove le informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento. L’obbligo scatta quando il professionista sa, sospetta o ha motivi ragionevoli per sospettare, che siano in corso, siano state compiute, siano state tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo o che comunque i fondi, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. Il sospetto può essere desunto da caratteristiche, entità, natura delle operazioni, o da qualsiasi altra circostanza conosciuta in ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica o dell’attività svolta dai soggetti cui le operazioni sono riferite. Il sospetto deve fondarsi su una compiuta valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi dell’operazione a disposizione dei segnalanti, anche alla luce degli indicatori di anomalia emanati e degli schemi di comportamento anomalo elaborati dall’Uif. Valutazione non facile. Di sovente la Guardia di finanza contesta l’eventuale omissione del professionista, ma i militari possono basarsi sulle risultanze investigative. In altre parole, già sanno che occorreva fare la segnalazione. Peraltro è singolare che alcune volte venga sanzionata addirittura l’omissione anche quando sulla vicenda non ci siano stati sviluppi investigativi e quindi non si comprende per quale ragione il professionista debba eseguire la segnalazione nonostante nessuna irregolarità, anche a posteriori, sia emersa. Sospensione dei termini processuali, il (falso) problema del cumulo di Antonio Tomassini e Giulia Isabella Valenzi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2020 Tale disposizioni introdotte per fronteggiare l’emergenza epidemiologica quelle legate alla sospensione dei termini processuali hanno destato grande interesse. A causa del Covid-19 i termini del processo tributario sono stati prima sospesi dal 9 marzo al 15 aprile e poi sino all’n maggio 2020 (per un totale di 64 giorni). Tale “sospensione Covid” può intrecciarsi con quella feriale ex legge 742/1969 (1-31 agosto) creando dubbi tra gli operatori sulla cumulabilità o meno delle due sospensioni. Tutti coloro alle prese con atti processuali in questo strano agosto post Covid (si pensi a chi deve redigere un ricorso) stanno quindi interrogandosi sui termini. La problematica della cumulabilità - che, lo diciamo sin da subito, riteniamo operante - si pone verosimilmente alla luce di una frettolosa lettura di una recente sentenza della Corte di cassazione (n. 10252/2020). La Corte, chiamata a pronunciarsi in merito ai rapporti tra la sospensione straordinaria dei termini in connessione della cosiddetta “definizione delle liti” e la sospensione feriale, ha escluso l’operatività del cumulo allorquando vengano a sovrapporsi periodi di sospensione di diversa natura, tale per cui si avrebbe l’assorbimento del termine di sospensione più breve in quello più ampio. Con questo, in realtà, la Corte non ha fatto altro che confermare il principio consolidato per cui se un termine è soggetto, in un determinato giorno, a più cause di sospensione “contestuali”, non è possibile cumulare le due sospensioni affinché esse si sommino determinando un differimento “doppio”, per ogni giorno di loro concorso, della scadenza finale. Tale principio, però, a nostro avviso, oltre a non essere del tutto pacifico - posto che in altre occasioni la stessa Corte ha affermato un principio di segno opposto (Cassazione, 22891/2005) - appare, ancor prima, non conferente rispetto alla situazione attuale. Il caso esaminato dalla Corte, così come quelli posti a fondamento delle altre pronunce ivi richiamate, riguardano, infatti, la diversa ipotesi in cui la sospensione feriale “rientri” nella ben più ampia fase di sospensione stabilita dall’articolo 39, comma 12, del D198/2011 in tema di definizione delle liti fiscali pendenti con valore fino a ventimila euro; sospensione allora disposta dal legislatore per il periodo compreso tra il 6 luglio 2011 e il 30 giugno 2012. Quindi una tipologia di sospensione completamente diversa e non sovrapponibile, stante la diversità di ratio (ragioni di cassa dell’Erario) e il diverso arco temporale preso in considerazione (36o giorni), a quella legata all’emergenza epidemiologica da Covid-19, che è, invece, costituita “dall’esigenza di sospendere tutte le attività processuali allo scopo di ridurre al minimo quelle forme di contatto personale che favoriscono il propagarsi dell’epidemia” ed è destinata a operare in un ambito temporale ben più circoscritto (64 giorni). Rispetto a quest’ultima tipologia di sospensione, infatti, l’applicabilità o meno del divieto di cumulo espresso dalla pronuncia (con riferimento ad un’altra fattispecie) non dovrebbe neanche porsi, non solo e non tanto in ragione della diversità di ratio, ma anche e soprattutto perché difetterebbe a monte quella “contestualità” tra periodi di sospensione che secondo la Corte giustificherebbe l’“assorbimento” del periodo di sospensione più breve in quello lungo. La sospensione straordinaria da Covid-19, infatti, essendosi esaurita ben prima (1 maggio) rispetto all’inizio del periodo di sospensione feriale (1 agosto), non potrà mai ritenersi “contestuale” e, in quanto tale, idonea ad assorbirla. Ne consegue che il problema della cumulabilità o meno dei periodi di sospensione a noi sembra una problematica solo apparente. È proprio la diversità tra i periodi di sospensione a far sì che possano cumularsi, non solo allorquando per effetto dello slittamento in avanti causato dalla sospensione straordinaria il termine ordinario di impugnazione cada nel mese di agosto, ma anche nel caso in cui esso attraversi il periodo di sospensione feriale e sia quindi successivo al 31 agosto. Processo penale: più spazio alle comunicazioni “digitali” dei difensori di Sergio Lorusso Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2020 L’emergenza pandemica da Covid-19 ha riportato in evidenza il tema della giustizia penale digitale e, in particolare, quello assai delicato del processo a distanza che ha polarizzato il dibattito tra giuristi e gli interessi degli operatori. Più defilato - ma non meno importante - è l’aspetto del processo telematico, cioè dell’utilizzo delle tecnologie informatiche per veicolare gli atti del processo sia sotto il profilo del loro deposito da parte della difesa che dal punto di vista della comunicazione e notificazione da parte degli uffici giudiziari. Il terreno è meno scivoloso, ma continua a scontare un’ingiustificata disparità di trattamento che si fonda su un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle parti private. Dalla Cassazione ok alla Pec - Deve essere quindi salutata con favore la recente pronuncia della Corte di cassazione che ha dichiarato conforme all’ordinamento l’invio tramite Pec della comunicazione relativa al legittimo impedimento da parte del difensore (sentenza 21981 del 22 luglio 2020). L’articolo 420-ter del Codice di procedura penale, argomenta la Suprema Corte, non prevede forme rigorose per questa comunicazione (“purché prontamente comunicato”) e, dunque, non preclude l’utilizzo della posta certificata. Il cambio di prospettiva - Un significativo cambio di passo, rispetto a un pressoché monolitico orientamento ribadito solo pochi mesi fa dalla Corte che aveva negato in maniera netta la possibilità per le parti private di avvalersi della Pec per l’invio di atti (nel caso di specie, la richiesta di rinvio di un’udienza per un concomitante impegno professionale del difensore di fiducia) pur essendo stata la Pec ricevuta regolarmente (Cassazione, sentenza 37126 del 5 settembre 2019). La Suprema Corte aveva evidenziato come - diversamente dal processo civile, nel quale la Pec è ormai strumento elettivo di trasmissione degli atti da parte delle cancellerie come dei difensori - nel processo penale l’utilizzo di tale modalità è circoscritto alle comunicazioni della cancelleria indirizzate a persone diverse dall’imputato. Sostanzialmente, si tratta di una circolazione “unidirezionale”, che penalizza le parti private (tranne che in pochissime, residuali ipotesi avvinte dall’urgenza: si veda Cassazione, sentenza 55886 del 2 ottobre 2018 e Cassazione, sentenza 14832 del 13 dicembre 2017). Alla base, l’inottemperanza del ministero della Giustizia che ha omesso di dare attuazione all’articolo 35 del decreto ministeriale 44 del 21 febbraio 2011, il regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie informatiche. La Cassazione, nella sentenza del 22 luglio scorso, pone però a carico del difensore un ulteriore onere: dimostrare che la comunicazione sia giunta effettivamente a conoscenza del giudice. Traspare quindi, anche in questo caso, quell’atteggiamento di sfavore evidenziato, considerato che la Pec ha una sua elevata tracciabilità e sicurezza. Un atteggiamento opinabile, confermato in passato da pronunce che l’hanno ritenuta scarsamente affidabile poiché certifica il luogo d’invio (lo studio del difensore) ma non anche le generalità del soggetto che l’ha effettuato. Necessaria una riforma - Solo un intervento legislativo chiaro e deciso potrà porre fine a resistenze e ambiguità, ristabilendo il corretto ordine delle cose. Un “processo di parti”, qual è il nostro, non può tollerare un sistema di trasmissione degli atti a doppia velocità. Qualche timido segnale si è manifestato durante l’emergenza pandemica, in particolare con il decreto cura Italia e, da ultimo, con il decreto Rilancio. E il 23 luglio è stato istituito uno sportello permanente per la giustizia telematica, che coinvolge il ministero della Giustizia e il Cnf. Occorre un ulteriore sforzo. Senza dimenticare che processo a distanza e “circolazione” telematica degli atti non sono entità separate, confluendo nella più generale categoria della giustizia (penale) digitale. Si tratta di profili connessi, che impongono una visione unitaria del fenomeno e non una sua parcellizzazione, da più parti - purtroppo - pigramente abbracciata. Parma. Nel carcere 625 detenuti: 127 sono ergastolani, in 67 ristretti al 41bis La Repubblica, 17 agosto 2020 La visita del Garante nel penitenziario: “Struttura complessa e critica. Cronica mancanza di personale della Polizia penitenziaria. Il Garante dei detenuti del Comune di Parma ha visitato nel giorno di Ferragosto le sezioni di isolamento, il reparto di transito, il centro clinico, la sezione paraplegici e la sezione nuovi giunti detenuti comuni in isolamento sanitario preventivo degli Istituti penitenziari. Alla data di oggi sono presenti 625 detenuti: 315 detenuti comuni, 203 detenuti di alta sicurezza, 40 detenuti ex vertici dei cartelli mafiosi e 67 detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Considerevole il numero dei detenuti ergastolani che ammontano a 127 pari al 20% dei reclusi. 51 sono i detenuti collocati nelle sezioni di interesse della visita del Garante ma si contano purtroppo 130 detenuti assegnati dagli uffici centrali dell’Amministrazione penitenziaria al carcere di Parma per la presenza di un centro clinico che però si trovano in celle ordinarie. Le durate delle collocazioni nel centro clinico oltrepassano i 18 mesi di media, un detenuto è presente da 5 anni, quando la funzione del reparto è quella di offrire un’alta intensità assistenziale per poi dimettere i detenuti che dovrebbero rientrare nel carcere di provenienza. La sezione paraplegici conta invece 9 detenuti. La popolazione detenuta si caratterizza anche per altri dati importanti che connotano la struttura di Parma come complessa e critica: 36 detenuti sono costretti all’uso della carrozzina per deambulare e 50 sono non autosufficienti. Per ciascun detenuto recluso a Parma sono state diagnosticate in media dalle 4 o alle 5 patologie. Le sezioni per l’accoglienza dei detenuti nuovi giunti in isolamento precauzionale per l’emergenza Covid sono apparse adeguate con celle occupate un solo detenuto. Preoccupa invece la registrazione dell’arrivo di un significativo numero di detenuti dei circuiti di alta sicurezza dagli istituti di Voghera, San Gimignano e della Sardegna che rendono decisamente critica la situazione sotto il profilo della collocazione nelle celle. Ridotto il numero dei detenuti in isolamento disciplinare, 4 detenuti di cui uno sottoposto all’art. 14 bis O.P. ovvero di sorveglianza particolare in quanto attore di disordini nel carcere di Opera. Nonostante il notevole carico di criticità del carcere di Parma, amplificate anche dalla cronica mancanza di personale della Polizia penitenziaria e dell’Area trattamentale, si registra una contrazione degli eventi critici rispetto allo scorso anno ed in particolare per quello che riguarda i fenomeni autoaggressivi possibile effetto delle azioni di prevenzione e presidio realizzato dagli operatori penitenziari quali gli educatori e la Polizia penitenziaria. Infine il Garante segnala la necessità di mettere in atto procedure e modalità di lavoro che permettano ai detenuti con patologie e/o disabili di accedere alle attività trattamentali e che queste siano progettate per rispondere ai bisogni di persone che sono portatrici di disabilità e altri tipi di deficit psico-fisici. Padova. Garante dei diritti delle persone detenute, aperte le candidature padovaoggi.it, 17 agosto 2020 Da giovedì 20 agosto a martedì 15 settembre sarà possibile presentare la propria candidatura al ruolo di “Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale” nel Comune di Padova. Il regolamento che disciplina l’attività e la nomina del Garante, previsto dalla normativa nazionale, è stato approvato, all’unanimità, dal Consiglio Comunale lo scorso 6 luglio. Il regolamento prevede che chi è in possesso dei necessari requisiti e competenze possa avanzare la propria candidatura a ricoprire questo ruolo, che ricordiamo, è svolto a titolo gratuito. Sottolinea Marta Nalin, assessora all’inclusione sociale: “Ogni persona è titolare di diritti fondamentali, qualunque sia il suo stato. Essere privati delle proprie libertà è una ulteriore vulnerabilità rispetto alle fragilità che hanno portato a quella restrizione. Riguarda certamente i detenuti, ma anche tutte le persone che per qualche ragione non possono disporre pienamente della propria libertà. Dotare il Comune della figura del Garante è un elemento di civiltà che non poteva mancare nel nostro Comune”. Commenta Francesca Benciolini, assessora ai diritti umani, cooperazione internazionale e pace: “La figura di un Garante Comunale che si affianca a quello Regionale e Nazionale permette un contatto più diretto con il territorio e le sue realtà. Ricordo che il Garante sarà eletto dal Consiglio Comunale e al Consiglio dovrà riferire periodicamente della propria attività evidenziando le eventuali criticità riscontrate nelle carceri cittadine o in altre strutture dove si trovino persone anche solo momentaneamente private della propria libertà. Mi auguro che questo bando trovi l’attenzione che merita; vogliamo affidare un ruolo così importante e delicato a una persona davvero capace e competente con la quale collaborare in maniera fattiva su questo tema chiave per la nostra comunità”. “Carcere”: il libro di Samuele Ciambriello che mette al centro la rieducazione di Giusy Santella mardeisargassi.it, 17 agosto 2020 “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone”: è questa la frase con cui il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello presenta il suo nuovo libro, “Carcere - idee, proposte e riflessioni”, edito da Rogiosi editore. Con questo testo, l’autore ha certamente l’obiettivo di far conoscere il mondo del carcere, troppo spesso ignorato e mistificato, partendo dai suoi trascorsi personali e allargando poi la prospettiva a uno sguardo d’insieme capace di compiere un’analisi complessiva della pena carceraria, chiedendosi se questa sia veramente l’unica strada possibile per raggiungere quel fine rieducativo descritto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. I primi capitoli si aprono con il racconto delle proprie esperienze di volontariato, individuate come concause di quella che Ciambriello descrive come una vera e propria vocazione: la decisione di dedicarsi alla strenua difesa dei diritti di coloro che sono privati della libertà fino ad arrivare ad assumere il ruolo che ricopre oramai dal 2017. Fondamentali nella comprensione dell’intero volume risultano le testimonianze di alcuni detenuti, che nelle loro lettere e confessioni sono in grado di porre la necessaria attenzione su molte delle più importanti criticità del sistema penitenziario: la negazione dell’affettività, la difficoltà dei colloqui e delle telefonate, la solitudine, il desiderio di una mano amica, la necessità di trasportare nel sogno tutto quello che ti manca. Come liberarsi dall’urgenza del carcere? Un invito alla riflessione, dunque, rivolto a una società che, alimentata dall’odio e dalla paura, invoca punizioni sempre più severe ed esemplari che hanno poco a che vedere con la pena intesa come rieducazione e risocializzazione. Il carcere, così come congegnato, non è in grado di offrire risposte soddisfacenti, non potendo, anche a causa di molteplici fattori esterni e del disinteresse politico sul tema, passare dal modello claustrofobico della reclusione a quello liberante-educante dell’inclusione. Per indurre il lettore a questa necessaria riflessione, Samuele Ciambriello offre una fotografia degli istituti penitenziari e delle loro più gravi problematiche, partendo proprio dalle carceri che egli monitora con il suo staff da tre anni: riporta i numeri dei detenuti, i dati sulla recidiva e la diminuzione dei reati degli ultimi periodi. Eppure, le presenze in prigione continuano a crescere - fatta salva la leggera inversione di marcia cui abbiamo assistito a causa della pandemia ancora in corso - poiché il nostro sistema penale diventa sempre più repressivo e non offre altri strumenti se non la reclusione per rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini. Ma quello del sovraffollamento è solo uno dei molteplici nodi che vengono al pettine guardando da vicino e con attenzione il mondo carcerario, la cui drammaticità è resa palese dall’enorme numero di suicidi e atti di autolesionismo che avvengono ogni anno e rispetto ai quali la Campania vanta un triste primato. Il libro è arricchito dai contributi di quattro coautrici che si soffermano su temi specifici dell’ecosistema penitenziario: Celestina Frosolone si occupa di analizzare il carcere come istituzione totale, mettendo in evidenza le conseguenze di carattere psicologico che esso provoca su chi è privato della libertà che subisce la cosiddetta spoliazione, perdendo così la propria identità e assumendo il ruolo di detenuto schiacciato dall’istituzione. Anna Malinconico si occupa invece di giustizia minorile e Anna Buonaiuto delle problematiche inerenti le detenute madri, che sono costrette a vivere dietro le sbarre con i propri figli. Infine, il quadro è completato dall’approfondimento a cura di Dea Demian Pisano, riguardante i sex-offenders. Un libro da leggere, insomma, senza dubbio in grado di aprire alla riflessione su un tema che è ancora considerato da molti un vero e proprio tabù: solo quando la nostra società sarà capace di riconoscere nei detenuti degli uomini i cui diritti vanno necessariamente tutelati si potrà fare un passo in avanti degno di un vero stato di diritto democratico. Basaglia, il pioniere che slegò i matti e rese normale la follia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 agosto 2020 La lotta di Franco Basaglia contro i manicomi perché conta “più il malato della malattia”. Che cos’è rimasto, del “Dottore dei matti”? Sono passati quarant’anni dal calvario dell’agosto 1980 in cui Franco Basaglia si spense fiato dopo fiato, incurabile, nella sua casa nel sestiere di San Marco il giorno 29. “Tantissimi lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice, bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo”, scrisse “Lotta Continua”. Ribaltato come? Nel modo giusto o sbagliato? Polemiche roventi. Nel mondo intero. Per decenni. Con diffusi rimpianti per come era “prima”. Uno solo, però, può essere il punto di partenza per cercare di capire: che cos’erano i manicomi. “Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti erano del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in schifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano”, scriveva nel 1824 (come ricorderà Leonardo Sciascia sul “Corriere”) l’illuminato palermitano Pietro Pisani. Solo residui medievali? No. Un secolo e mezzo dopo, nel 1971, il verbale dell’ispezione della Commissione d’inchiesta al Santa Maria della Pietà di Roma spiega: “Ci sono bambini legati con i piedi ai termosifoni o ai tubi dell’acqua, scalzi, seminudi, sdraiati per terra come bestioline incapaci di difendersi, sporchi di feci, dovunque un lezzo insopportabile”. “Non esistevano limiti d’età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il bambino era pericoloso per sé o per gli altri”, si legge nel web-doc Matti per sempre di Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala. “Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. In tutto 2.761 piccoli”. Tre lustri ancora e il “Corriere” pubblica un reportage di Felice Cavallaro sull’Ospedale psichiatrico di Reggio Calabria: “Dormono con la schiena che sfiora il pavimento. Sprofondano giù perché le reti sono bucate al centro, corrose dalla pipì che con gli anni ha sciolto la maglia metallica. I materassi sono ormai sfoglie di gommapiuma sudicia. Di lenzuola nemmeno a parlarne. Puzzano anche le coperte. Tutto emana il fetore della morte in queste camerate dove quattrocento persone aspettano la fine come fossero animali”. È il 1987. La chiusura di quei gironi d’inferno è già stata decisa, sulla carta, da una decina di anni. Eppure troppe infamie, insopportabilmente troppe, sono rimaste come prima. Nel plumbeo mutismo sociale denunciato quasi un secolo prima da Anton Cechov ne L’uva spina: “Evidentemente l’uomo felice si sente bene solo perché i disgraziati portano il loro fardello in silenzio, e senza questo silenzio la felicità sarebbe impossibile. È un’ipnosi generale”. Occhio non vede, cuore non duole, scandalo non urla. È questo silenzio assordante a venire fracassato da Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, laureato nel 1949, specializzato in malattie mentali nel ‘52, l’anno dopo sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli e sarà la compagna di mille battaglie. Frustrato dall’accademia (“Direi che tutto l’apprendimento reale avviene fuori dall’università. (...). Io sono entrato nell’università tre volte e per tre volte sono stato cacciato”, racconterà in una delle Conferenze brasiliane), si immerge nel primo manicomio a Gorizia nel 1962: “C’erano cinquecento internati, ma nessuna persona”. Ovunque “vi era un odore simbolico di merda”. Uno spazio nero dal quale trasse l’”intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l’istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese”. Guerra totale: “L’università, da quando io mi sono laureato, ha protetto in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici. Non si è mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è sporcato una mano all’interno dei manicomi. Il professore universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando l’insegnamento davanti ai letti d’ospedale, dicendo: questo è schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico…”. Era insopportabile, agli occhi di chi veniva ferito da quei giudizi. Ribelle. Martellante. Cocciuto. Eppure, lavorando ventre a terra a Gorizia, Colorno, Trieste e Roma, scrivendo uno dopo l’altro, da solo o con Franca, libri ovunque amatissimi o contestatissimi, tenendo conferenze da Berlino a São Paulo, sfondando in tv con una celebre intervista di Sergio Zavoli (“Le interessa più il malato o la malattia?”, “Decisamente il malato”), riuscì in pochi anni febbrili a mettere in crisi l’idea del manicomio in mezzo mondo e a spingere il Parlamento italiano a cancellare le norme stravecchie del 1903 e votare il 13 maggio 1978 (cinque giorni dopo l’uccisione di Aldo Moro...) la “sua” legge 180. Stesa materialmente dallo psichiatra e deputato democristiano, Bruno Orsini, e incardinata sulla chiusura (progressiva) dei manicomi e la cura dei pazienti non più “detenuti” in realtà il più possibile piccole e aperte. Il tutto nel nome di un’idea: “Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Un’utopia. Generosa ma irrealizzabile, quindi pericolosa, saltarono su gli avversari. Su tutti lo psichiatra e scrittore Mario Tobino: “Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c’è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!”. E il dubbio su quella legge inquietò via via perfino molti che l’avevano definita “sacrosanta”. Come il deputato e poeta comunista Antonello Trombadori. Che in una sofferta intervista a Giampiero Mughini raccontò la sua tragedia personale: “Non sono in grado di soccorrere la persona che più amo al mondo”. La figlia disabile: “La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: o il nulla o il manicomio criminale, riservato a quelli che ammazzano”. Era disperato, Trombadori. E furente coi “fanatici khomeinisti” che secondo lui difendevano l’”intangibilità” della legge: “Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, “Je ne suis pas basaglien”“. Questo è il nodo. Nel momento chiave in cui la riforma avrebbe dovuto esser messa in pratica, il “Dottore dei matti” (titolo della biografia di Oreste Pivetta), non c’era più. Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? “Certo non avrebbe accettato che quella svolta fosse tradita”, mastica amaro Peppe Dell’Acqua, discepolo e amico: “Lui aveva fatto proposte precise, suggerito soluzioni, indicato percorsi pratici. La stessa chiusura dei manicomi non fu affatto immediata. Di rinvio in rinvio arrivò vent’anni dopo. C’era tutto il tempo per fare le cose per bene. E qua e là sono state anche fatte. Ma dov’era lo Stato? Dov’erano le Regioni? Dov’erano le aziende sanitarie?” La risposta è nel dossier della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del 2010. Spiegava il presidente, Ignazio Marino: “Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è lì per essere curato, abbiamo trovato un fallimento totale. In media possiamo calcolare che ciascun paziente abbia contatti con uno psichiatra per meno di un’ora al mese...”. Dalla svolta erano già passati trent’anni. Germania. Italiano morto a Dresda, era stato fermato dalla polizia Corriere della Sera, 17 agosto 2020 La Farnesina segue il caso di un 37enne deceduto nella notte per cause ancora da accertare. Testimoni hanno riferito che era stato fermato dopo aver dato in escandescenze in un bar. Un 37enne italiano è morto nella notte a Dresda, in Germania. Si trovava in custodia della polizia locale. Inutile il ricovero in ospedale. La Farnesina segue da vicino il caso in stretto raccordo con l’ambasciata d’Italia a Berlino, che a tal fine si mantiene in contatto con le autorità tedesche. Testimoni - Secondo quanto riferito, l’uomo era stato condotto a una stazione di polizia dopo essersi comportato in maniera violenta in un bar. Testimoni hanno detto che lanciava bottiglie e altri oggetti. “Non si è trattato di morte naturale, ed è per questo che stiamo conducendo una indagine sulla sua morte”, ha detto all’agenzia stampa tedesca Dpa il procuratore Lorenz Haase, aggiungendo che si sospetta che l’uomo abbia agito sotto l’influenza di alcool o sostanze illegali. I risultati dell’autopsia, ha affermato, non saranno disponibili prima di martedì. Le indagini, ha spiegato Haase, dovranno stabilire se l’italiano ha aggredito la polizia e se qualche agente ha usato la forza contro di lui. Polizia - Il portavoce della polizia Marko Laske, ha dichiarato che l’uomo ha continuato a causare problemi anche mentre si trovava nella macchina della polizia e che, giunti alla cella di custodia, è crollato all’improvviso. “Il 37enne ha perso conoscenza e gli agenti di polizia egli operatori del primo soccorso hanno tentato di rianimarlo. Alla fine l’uomo è stato portato in un ospedale di Dresda, dove è morto”, ha spiegato il portavoce. Belgio. Le nuove norme nelle carceri violano i diritti umani 31mag.nl, 17 agosto 2020 Le nuove norme nelle carceri di Bruxelles violano i diritti umani, in particolare del diritto dei detenuti a un processo equo. Lo ha affermato il ramo belga dell’Osservatorio internazionale delle prigioni (OIP), come riporta Vrt. Secondo una regola introdotta l’11 agosto, tutti coloro che vengono portati in una struttura di detenzione (compresi quelli che non sono stati processati e condannati) devono essere posti in isolamento per 14 giorni. La nuova norma è stata annunciata dopo che due casi di Covid-19 sono stati trovati nella prigione di Saint-Gilles a Bruxelles. Secondo l’OIP, in questo modo si nega al detenuto il diritto di consultare un avvocato, tra l’altro proprio nel momento in cui tale diritto è più importante, ovvero subito dopo l’arresto. Ci sarebbero tuttavia alcune eccezioni: un medico può interrompere la quarantena se dopo il test sul detenuto risulta negativo al coronavirus. La norma va contro la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - Durante il periodo di isolamento il detenuto non può incontrare un rappresentante legale, a meno che quest’ultimo non insista e si rechi dal cliente con la propria mascherina FFP2. Gli avvocati sono tuttavia invitati a inviare un messaggio per fornire al loro cliente i contatti per un consulto telefonico. Ma secondo l’organizzazione, questo non è sufficiente per la preparazione di una difesa. “Va contro la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che sancisce il diritto a un processo equo”, ha dichiarato l’OIP. Inoltre, un messaggio scritto mette a rischio il segreto professionale. “Gli avvocati ci hanno riferito di essersi recati al carcere di Saint-Gilles per incontrare il loro cliente e di essere stati fermati”, ha detto Marie Berquin, una delle due avvocate di Bruxelles che stanno esaminando il caso per l’OIP. “In passato abbiamo visto che a volte ci vogliono due settimane per consegnare un messaggio scritto”, ha detto Berquin, “è scioccante”. L’autorità penitenziaria, nel frattempo, ha negato che ci fosse un blocco dei diritti dei detenuti. “Nessuna delle nostre istituzioni vieta a un detenuto di consultare il suo avvocato”, ha detto la portavoce Valérie Callebaut. Bielorussia. Folla alla manifestazione dell’opposizione, Putin offre soldati a Lukashenko di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 17 agosto 2020 La capitale della Bielorussia, Minsk, ha ospitato oggi la manifestazione a favore e quella contro il governo - e la partecipazione alla seconda, nonostante le violenze della polizia contro gli oppositori dei giorni scorsi, è stata molto più alta. Un immenso fiume bianco rosso ha colorato la più grande ondata di proteste in Bielorussia. In decine di migliaia si sono riversati ieri nelle strade di Minsk contro il colpo di mano dell’ultimo dittatore d’Europa. Vogliono la fine dei 26 anni di potere di Aleksandr Lukashenko, che accusano di brogli. Nemmeno gli arresti di massa e le violenze seguite al contestatissimo esito del voto li hanno frenati. Tantomeno il minacciato intervento di Putin: il presidente russo ha promesso di “assistere”, se necessario, la Bielorussia “secondo il comune patto militare”. Vano il tentativo di Lukashenko di convocare nello stesso giorno una contro manifestazione: a sfilare in suo favore soltanto poche centinaia di fedelissimi. In decine di migliaia - 100 mila secondo alcuni giornalisti - hanno invece partecipato alla “marcia della libertà” convocata da Svetlana Tikhanovskaya, considerata anche dalla comunità internazionale la vera vincitrice del voto del 9 agosto e costretta a rifugiarsi in Lituania. Alla mobilitazione ha partecipato anche Maria Kolesnikova, un’altra delle tre donne alla testa dell’opposizione, che ha esortato la gente “a combattere la paura”. Per ribadire con forza il loro no al “voto rubato” e chiedere nuove elezioni hanno sfilato in modo pacifico nella capitale fino in piazza dell’Indipendenza dove si trovano le sedi del governo e della Commissione elettorale, ma anche in località minori. Però Lukashenko non molla: respinge le accuse ed esclude di tornare alle urne, forte di un’”incoronazione”, a suo dire, con l’80% dei consensi. Il presidente torna a giocare la carta nazionalista e accusa potenze straniere di aver fomentato la rivolta. Anche il Cremlino, che si tiene in stretto contatto con Minsk, afferma di aver discusso con Lukashenko “la situazione in Bielorussia, tenendo in considerazione la pressione che quella repubblica sta subendo dall’esterno”. Nel mirino era finita anche la stessa Nato accusata di manovre militari sospette al confine con la piccola repubblica. Una notizia che i vertici del Patto Atlantico hanno prontamente smentito. Nel frattempo però sabato era già stato ordinato il trasferimento di una brigata d’assalto aereo vicino ai confini con Polonia e Lituania. Le proteste di massa sono iniziate in tutta la Bielorussia lo stesso 9 agosto e sono state duramente represse dalle forze di sicurezza. La polizia ha usato gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, granate stordenti e proiettili di gomma contro i manifestanti. Ma la speranza continua a scorrere, bianca e rossa come i colori della bandiera bielorussa di epoca pre-sovietica: un’epoca durata solo una manciata di mesi (dopo la Prima guerra mondiale), un appiglio a cui aggrapparsi per il futuro. Bielorussia. Tra Lukashenko e Putin un’alleanza di necessità di Paolo Garimberti La Repubblica, 17 agosto 2020 Solo il presidente russo potrà decidere il futuro di Minsk. Fra aiuti economici e il sogno di una federazione. Ci sono due soluzioni possibili alla crisi che scuote la Bielorussia e si è ormai propagata da Minsk, capitale più giovane ed europeizzante, alle altre città e perfino alle campagne dove, secondo un vecchio schema socio-politico, fino a ieri la gente raccoglieva patate e non parlava di politica. La prima è che la Bielorussia sia l’ultimo passo di un lungo processo di ristrutturazione politica dell’Europa, cominciato 30 anni fa con la caduta del muro di Berlino, e Lukashenko, dopo 26 anni di potere venga abbattuto dalla piazza come accadde a Belgrado per Milosevic o nella Majdan di Kiev per Janukovich. La seconda ipotesi è che la Bielorussia diventi una sorta di anacronistica Corea del Nord ai confini dell’Unione europea e Aleksandr Lukashenko resti davvero “l’ultimo dittatore d’Europa”, governando con la forza della brutalità poliziesca, ma con la debolezza di un’economia che non ha neppure la capacità di nutrire tutti i suoi quasi 10 milioni di abitanti. La risposta finale a questo interrogativo può darla solo Vladimir Putin. E può anche essere una terza via. Il popolo bielorusso la sua decisione sembra averla già presa. Basta il confronto tra le due manifestazioni di ieri per capire con chi sta la gente: un migliaio scarso di persone alla manifestazione organizzata dal governo e almeno 150mila a quella dei contestatori, radunatesi proprio davanti al monumento celebrativo della vittoria di Stalin (Lukashenko si fa chiamare come lui, “Batka”, padre) con tanto di bandiera sovietica sul pennone. E non solo a Minsk la gente è andata in piazza, ma anche a Brest e a Grodno, mentre le fattorie statali dei un tempo silenti e sottomessi “raccoglitori di patate” sono in sciopero da venerdì. Ma Putin per ora risponde in modo ambiguo. Gli promette “tutta l’assistenza necessaria”, ma in caso di “pressioni esterne”, con un richiamo a quel Trattato di sicurezza collettiva, che coinvolge altri quattro Stati ex repubbliche sovietiche (Armenia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tajikistan), che risale al 1992 e sembra di difficile applicazione pratica: non siamo più ai tempi del Patto di Varsavia, che schiacciò la “Primavera” di Dubcek in Cecoslovacchia, ma che oggi non esiste più dopo che il crollo dell’impero sovietico ha liberato gli ex satelliti dell’Urss dal giogo di dare un supporto militare all’Armata Rossa. La Nato invece esiste ancora (e ha pure un articolo 5 che prevede aiuto in caso di un Paese membro attaccato) e, secondo Lukashenko, questa sarebbe la “pressione esterna” da invocare perché, dice, ci sono esercitazioni in Polonia e Lituania, con truppe e aerei a 15 minuti dal confine bielorusso. È molto dubbio che Putin mandi i carri armati a Minsk per salvare l’ultimo monolite pseudo-comunista d’Europa come fece Krusciov nel 1956 a Budapest o Breznev nel 1968 a Praga. Anche se proviene dal Kgb ed è un nostalgico dell’Urss, l’uomo del Cremlino è un fine cultore della Realpolitik. Non può permettersi che la Bielorussia diventi un’altra Ucraina. Ma vuole tenere sulla corda Lukashenko e fargli pagare le piroette di questi ultimi anni, quando flirtava con l’Occidente in chiave anti-russa. Ancora un mese fa accusava Mosca di complottare contro di lui e di mandare mercenari per influenzare le elezioni. Ora Putin aspetta che Lukashenko vada in ginocchio a implorare aiuto, economico piuttosto che militare, e magari offrirgli in contropartita, su un piatto d’argento, quella federazione tra Russia e Bielorussia, che Putin gli aveva già proposto e lui aveva rifiutato mentre strizzava l’occhio a Bruxelles. D’altronde Lukashenko non ha molte alternative. Ha costruito il suo falso mito di “padre” benevolo negli anni 90 grazie agli aiuti di Mosca, che gli hanno consentito di creare una “command economy” in stile sovietico, che garantiva pieno impiego, buoni salari e stabilità economica. Ma nell’ultimo decennio questo contratto sociale autoritario, che sembrava perfino consentire un dissenso a basso volume e aveva illuso qualcuno in Europa, è crollato perché - proprio per i zig zag dell’uomo forte di Minsk - la Russia gli ha tagliato gli aiuti. Il modello economico di Lukashenko è diventato insostenibile e il disagio sociale è stato esacerbato dalla risposta al Covid 19, che, secondo lui, nella più genuina ricetta sovietica andava combattuto con vodka e saune. Le elezioni, così volgarmente truccate, e la risposta violenta alle manifestazioni hanno colmato la misura. Putin lo aspettava sulla riva del fiume. Annettere la Bielorussia facendo di Lukashenko un suo proconsole sarebbe una bella rivincita e una piccola, parziale, ma non trascurabile realizzazione del sogno di ricreare l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Se poi arrivasse anche il Donbass ucraino, per ora in mano ai separatisti filo-russi, l’ex ufficiale del Kgb avrebbe fatto bingo. Brasile. La globalizzazione della violenza di Angelo Santoro avantionline.it, 17 agosto 2020 Nel penitenziario di Anísio Jobim di Manaus, in Brasile, dopo la brutale rivolta di anni fa nel carcere che ospita oltre duemila persone con una capacità di appena un quarto, quando il giudice del tribunale penale della città è entrato nella struttura carceraria ha detto che la scena era “degna dell’inferno dantesco”. Sembra sia stata la rivolta carceraria più violenta del secolo: decine di detenuti sono stati rinvenuti con gli arti e le teste mozzate in un lago di sangue e viscere. Il Brasile è titolare della quarta popolazione carceraria del Pianeta con circa 600.000 detenuti, oltre il doppio della capienza massima consentita. Parlare di carceri in Brasile è un eufemismo, in quanto le guardie si limitano a pattugliare i perimetri, lasciando alle bande di delinquenti la gestione e l’organizzazione della loro permanenza forzata: ogni attività criminale è consentita. L’unica vera riabilitazione consiste in una sorta di corso di sopravvivenza dove chi uccide prima guadagna qualche ora di vita: almeno fino al giorno dopo! Chi gestisce questi lazzaretti, in buona sostanza, non è certo il governo brasiliano ma, come nel caso del carcere di Manaus, da uomini della Familia do Norte, che controlla il traffico di droga nella regione amazzonica. Le ragioni del massacro del penitenziario di Anísio sono attribuite al fatto che la Familia do Norte ha voluto eliminare i loro rivali del Primero comando da capital, un’altro gruppo di assassini che fanno capo ad una organizzazione più grande con sede rigorosamente “illegale” nello stato di São Paulo. Qui parliamo di vere e proprie multinazionali del crimine che si confrontano nei luoghi più profondi dell’Inferno, sconosciuti perfino all’immaginazione del Sommo Poeta fiorentino. A volte mi domando quando noi occidentali parliamo di - pace e democrazia - se in fondo non vogliamo venderla, e quando non ci riesce la imponiamo con la forza, però non direttamente, ma per tramite del satrapo burattino di turno. Un “pupazzo” che crede sia tutto vero e magari prende spunto dai fatti violenti accaduti nel penitenziario di Anísio Jobim di Manaus - per governare in pace e democrazia così come gli hanno insegnato i satrapi veri, quelli d’Occidente. Una democrazia pianificata da uomini che vivono nei palazzi di specchi e che non hanno mai visto l’Inferno, ma si sono limitati solo a leggere Dante Alighieri, hanno idea di cosa significa realmente? Oppure sono condizionati da una economia parallela come quella colombiana, tanto per fare un esempio e rimane in America Latina! Un pianeta curioso quello in cui viviamo, dove l’equilibrio tra la buona e cattiva fede è così sottile che quasi non si vede ad occhio nudo. Raccontare le storie di coloro che vivono una vita diversa dalla nostra ci aiuta ad apprezzare la società dove siamo nati, anche se a volte ci sembra ingiusta, ma solo perché non conosciamo l’ingiustizia vera. Il mondo non si sarebbe dovuto globalizzare per fare arricchire le multinazionali, con le nuove forme di comunicazione di massa avrebbe potuto universalizzarsi per conoscersi: perché i tanti che si lamentano possano sentirsi fortunati per dove vivono. É il momento di rinunciare ad una piccola parte di quello che abbiamo se non vogliamo perdere tutto. Il web ha svelato ogni segreto del mondo, le invasioni di popoli che conquisteranno altri popoli subiranno una forte accelerazione; prenderanno forza come una valanga durante la sua discesa e i muri non riusciranno a contenere l’impatto. Ho idea che il mondo dei divieti delle parole non riuscirà ad arginare la pandemia e la disperazione economica che si stanno trasformando in rivolta: come nel penitenziario di Anísio Jobim di Manaus, in Brasile. Pakistan. Cristiano rischia la pena di morte per un post “blasfemo” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2020 “Non è possibile che il sangue delle pecore e dei montoni possa lavare i peccati. L’episodio di Miraj si basa su una menzogna”. Questo è il contenuto di un post pubblicato su Facebook da Sohail Masih, un uomo di religione cristiana di Nowshera Virkan, nella provincia pachistana del Punjab, a commento della Festa del sacrificio (Eid al-Adha), che quest’anno è caduta nella notte tra il 30 e il 31 luglio. In questa festa si ricordano il sacrificio della pecora inviata da Dio al profeta Abramo in modo che non sacrificasse suo figlio e il viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme, da cui Allah lo accompagnò nell’ascensione (“miraj”) in Paradiso per fargli conoscere tutti i profeti. Il muezzin di una moschea locale, dopo aver ricevuto la segnalazione del post, ha denunciato Masih, che è stato arrestato il 5 agosto. La causa dell’arresto è, come in centinaia di altri casi (il più noto al mondo è stato quello di Asia Bibi), il reato di blasfemia, previsto dagli articoli 295.a e 295.c del codice penale del Pakistan, che puniscono con la pena di morte le espressioni offensive nei confronti dell’Islam e del profeta Maometto. Con la crescita dei social media e delle app di messaggistica, sempre più spesso vengono accusati di blasfemia utenti che pubblicano post o si scambiano messaggi. La comunità cristiana di Nowshera Virkan è terrorizzata dopo le proteste di massa seguite alla pubblicazione del post di Masih. Le proteste e la richiesta di “giustizia fai da te” non si sono placate neanche dopo l’arresto. Il governo del Punjab ha inviato forze di polizia sul posto. Secondo l’ong pachistana Centro per la giustizia sociale, dal 1987 almeno 1549 persone sono state accusate di blasfemia e 75 di loro sono state assassinate da folle di facinorosi. Secondo l’attivista per i diritti umani Shaan Taseer, sono attualmente circa 200 le persone agli arresti in Pakistan per l’accusa di blasfemia: non solo cristiani, va precisato, ma anche fedeli di minoranze religiose islamiche considerate eretiche. Leader corrotti e tribalismo, l’Africa dimenticata si getta tra le braccia della jihad di Domenico Quirico La Stampa, 17 agosto 2020 Dalla Libia al Mozambico, il terrorismo islamico si insinua nelle comunità sfruttando conflitti locali e povertà. Fallite le strategie dell’Occidente: i soldi ai Paesi per combattere i miliziani alimentano il traffico degli affaristi. L’Africa? Sessant’anni dopo le sacrosante ma azzoppate indipendenze, la stiamo perdendo ogni giorno: la perdiamo in quello che davvero dovrebbe contare, la possibilità di una vera democrazia che non sia elezioni truffa, lo sviluppo per un proletariato immenso e non solo per complici rapaci di una mondializzazione ipocrita, la tolleranza, etnica religiosa politica umana. E coloro che fuggono, i senza nome, i reietti, l’estremo limite, il termine della notte? Non dovrebbe essere quella la nostra Africa? Non dovremmo prendere partito per la gente senza scuole e senza scarpe? Baratro nero e spalancato, è il progetto islamista che avanza verso Sud, rode, arruola, infetta, convince. Mentre pensiamo che sia ottusa religione o feroce fanatismo, abile come un sociologo, il Califfato africano capitalizza miseria, corruzione, sottosviluppo, e sempre più sa farsi percepire come rivoluzione. Pensiamo che sia un medioevale residuo per pastori e nomadi analfabeti. La sua classe sociale di reclutamento nell’Africa dell’Ovest è semmai quella dei commercianti. In Africa il jihad non ha atteso il denaro saudita, e per reclutare non ha bisogno dell’indottrinamento salafita. Si plasma secondo i luoghi, indossa i vestiti delle tribù, sillaba ancestrali culture. La peculiare condizione dell’uomo africano è di agire nell’attesa. Attende delle rivelazioni. Le sue azioni sono invocazioni e incantesimi. Il loro senso è sempre al di là. In Africa l’anno mille arriva ogni anno e ogni volta non succede niente. Non sono che simboli: migrare, impugnare un kalashnikov, scendere in piazza, saccheggiare un centro commerciale. Appelli angosciati e seduzioni rivolte all’ignoto: altrimenti come potrebbero sopportare il loro tremendo presente? La vita è assurda e violentemente inaccettabile se non fosse aperta all’attesa di una rivelazione. Noi, la gente del Diritto, dovremmo guardare l’espressione di solitudine e di abbandono che si deposita in occhi dall’oscura intensità. Incandescente come una brace, come sessanta anni fa l’umanità africana, invischiata in questa risacca neocoloniale, sa che si sta elaborando una nuova gigantesca verità e c’è una intensità attonita in attesa di quello che accadrà. Alcuni aspettano con terrore, altri aspettano e basta, altri credono di presentire quello che accadrà. L’islam moderato, che piace a noi, che ci tranquillizza, l’islam africano delle confraternite, qui è ormai stigmatizzato come complice della corruzione degli Stati, integrato nell’ordine neocoloniale. Una gioventù che vuole essere radicalizzata per affrontare la vita ha compreso che non è in grado di proporre nuove dimensioni sociali, di benedire rivoluzioni. L’Africa ci sfugge di mano perché l’abbiamo affidata per procura a piccoli vampiri vili, corrotti e sanguinari perché curino i nostri interessi. Un esempio. Il Niger dove, con imbonimento retorico andranno i nostri soldati, a “lottare contro il terrorismo”. Sì, sotto un cielo pieno di sole che arrostisce persino l’ombra, schiacciati come in un sacco, ci sono il crocevia dei migranti, i tuareg e i neri, l’uranio e la miseria, il serbatoio di sabbia da cui nascono come per incanto jihadisti. Chissà se ai ministeri degli Esteri e della Difesa dove hanno pianificato il soccorso della France Afrique, che fatica con pochi soldi a tenere in piedi l’impero, hanno prestato attenzione alla notizia di una rara Manipulite africana. Sentite un po’: tra il 2014 e il 2019, 76 miliardi di franchi Cfa, che corrispondono a 116 milioni di euro, in aiuti militari concessi al Niger per fronteggiare gli attacchi dell’Al-Qaeda sahariana sono stati rubati da politici, affaristi e generali. Ma come: questi sono i nostri valorosi alleati, quelli che vogliamo virtuosamente aiutare a casa loro? Svetta nel malaffare un “imprenditore”, genero dell’ex presidente golpista Ibrahim Mainassara. In Africa capitalisti e trafficanti hanno soprannomi affettuosi: il genero del presidente per tutti è “le petit Boubé”. Con società fittizie, scatole vuote, gestiva le forniture di armamenti. Ovviamente si andava alla svelta, niente appalti perditempo: diavolo incombe il pericolo jihadista, urge la sicurezza nazionale! Così tutto veniva sovrafatturato, oppure con candida risolutezza il materiale veniva pagato e mai consegnato. Ecco qua la nostra Africa. Nella fauna di 60 anni fa emersero una specie di grandi dittatori, sauri giganteschi superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Adesso ci accontentiamo di prodotti di alchimia politica di bassa lega, ladri impenitenti, deboli che ostentano forza. Quando i soldati italiani incontreranno i colleghi nigerini, eternamente male armati, mal vestiti, mogi, che sembrano far la guardia a sé stessi, vincitori di molte guerre ma contro altri nigerini, potranno riflettere sugli innumerevoli “petit Boubé” che hanno trasformato in conto in banca gli aiuti militari ed economici destinati a questi Paesi. Perché la guerra al terrorismo è diventata la rendita economica e diplomatica di questi satrapi senza scrupoli. Rende denaro e consente di reprimere ogni protesta gabbata per “terrorismo”. Le guerre del jihadismo Dalla Mauritania alla Somalia, dalla Libia al Mozambico, il jihadismo avanza conducendo guerre intricate, localissime, indirette come colpi di carambola. Non si riduce a una formula, è una serie di elementi empirici adattati ai luoghi. Nel Mali punta sui tuareg smaltati di rancore per il razzismo nero dei padroni di Bamako, sui pastori che vogliono la terra, in Niger alimenta e nobilita le guerre nate dai furti del bestiame. Nel Burkina Faso, con spregiudicatezza, dà patenti di guerriglia a gruppi criminali dediti al contrabbando, in Somalia usa il racket e investe i guadagni. La sua topografia sono montagne, paludi, deserti, foreste fitte, luoghi aspri per la contro-guerriglia. Ma guai a considerarlo un segnale di impotenza. Sopravvivere in questi luoghi impone rifornimenti di cibo, carburante, guide. Bisogna essere inseriti nella realtà locale. Fanno esplodere rabbia e umiliazioni che non trovano sbocco per la brutalità della repressione o si esprimono in modo non violento. Poi, le rivestono di jihadismo. Usano, certo, anche la violenza per farsi ubbidire, ma fanno balenare un paradiso in terra laddove gli Stati hanno fallito per parzialità tribale, incompetenza, corruzione. L’appoggio della popolazione Fanno politica insomma, ma non come soggetti esterni, come gli occidentali o i cinesi, ma come attori locali, indigeni. Noi affermiamo di cercare l’appoggio della popolazione. Ma fingiamo di non vedere che i nostri alleati peccano lussuriosamente con massacri, esazioni, violenze comunitarie. Fornendo reclute al jihad. Per capire scendiamo allora in Mozambico, punta estrema della penetrazione islamista, un tempo teatro di una feroce guerra civile. C’era la Guerra Fredda, oggi un altro luogo dove i discorsi dei politici sono coniugati sempre al futuro. Hanno scelto la provincia di Cabo Delgado. Terre titaniche, una immensa mandibola di foresta che si acquatta al confine dell’oceano, il crepuscolo non è il calar della sera ma il crollo del mondo. Qui la maggioranza è musulmana, ma soprattutto, nella geografia locale della povertà, la parte più derelitta e trascurata del Paese. Hanno trovato alcuni anni fa enormi riserve di gas al largo della costa, sono arrivate le Sorelle del petrolio, con investimenti di miliardi di dollari. Ghiotta occasione. La popolazione non ha visto nulla di questo miracolo di Allah: nelle polverose città della costa, nei canicolari villaggi della selva solo esproprio di terre scambiate a forza con campi lontani, indennizzi mai arrivati, il mare vietato ai pescatori e ferito dalle prospezioni. Cicloni furibondi sommergono la terra con la accanita insensatezza degli elementi, mentre chi protesta subisce violenze e repressione. Gli islamisti di “al sunnah” hanno lavorato bene, all’inizio, nel 2015, con piccole cellule armate di disertori locali e miliziani kenioti e congolesi. Sono criminali comuni, mentiva il governo formato da ex marxisti convertiti gioiosamente alla gozzoviglia mercantile. Poi i seguaci del Califfo, lavorando sulla disoccupazione e l’avversione per gli stranieri predatori, hanno creato una rivolta, decine di attacchi a caserme e palazzi del governo, hanno preso località come Macomia mettendo in fuga i soldati e alzando davanti alle cineprese le bandiere nere del Califfato dell’Africa centrale. La risposta del governo? Ha chiesto aiuto come ai tempi di Breznev agli amici di Mosca, adesso si fanno difendere da nubi di bravacci, gli stakanovisti-mercenari della Wagner dotati anche di elicotteri. Costano la metà delle compagnie di ventura sudafricane. Un affarone. Li ha inviati Putin, si ripagherà dell’interessato disturbo con le rendite del gas. La guerra è dura in uno spazio che è come quello di Milton, si nasconde in sé stesso. Alcuni di loro sono stati catturati e decapitati dai jihadisti. Pazienza. A Mosca nessuno farà scandalo.