Ferragosto in carcere nel nome di Pannella, di Vincino e dell’umanità di Rita Bernardini Il Dubbio, 15 agosto 2020 Quest’anno, causa Covid (sembra), sono solo cinque gli istituti che l’Amministrazione penitenziaria ci consente di visitare in delegazioni di non più di due persone. No, non assomiglia al Ferragosto di dieci anni fa quello che si tiene oggi nell’anno del Coronavirus. Quando visitai il carcere dell’Ucciardone insieme al grande Vincino e ai miei compagni del Partito Radicale, Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli, il sovraffollamento era alle stelle tanto che oltre 700 detenuti erano stipati in 400 posti. Vincino era entusiasta di poter entrare con me, (all’epoca ero deputata), nel carcere storico della sua città. Teneva in tasca il suo taccuino, matita e pennarello, pronto a riportare sulla carta quel che avrebbero visto i suoi occhi smaliziati. Mi raccomandai: “Non dire che sei un giornalista, perché per entrare come giornalisti occorre un’autorizzazione speciale che noi non abbiamo”. Parole al vento. Ricevuti dal direttore Maurizio Veneziano, dopo una bella chiacchierata, alla richiesta dei documenti, Vincino tirò fuori il suo tesserino di… giornalista professionista! Non sapevo se ridere o piangere, vedendo inesorabilmente sfumata la nostra visita insieme. Il direttore fu indulgente, sorrise e ci fece entrare. Vincino riusciva ad osservare situazioni che a noi sfuggivano: un detenuto, per esempio, si era ricavato un mini studiolo artistico a ridosso di un finestrone ad arco dove poteva disegnare con il conforto della luce naturale. Il nostro vignettista avrebbe voluto regalargli seduta stante la sua collezione di pennarelli di mille colori, così come avrebbe voluto donare giochi di dama veri a chi si arrangiava con tabelle inventate su fogli incollati e tappi di bottiglia di due colori diversi. “È stato il più bel Ferragosto degli ultimi tanti anni - mi scrisse - mi metto in fila per le Murate, San Vittore, Le Nuove e Regina Coeli e prima o poi comprerò trenta dame da regalare all’Ucciardone”. Mi manca Vincino, che se ne andò quasi a Ferragosto di due anni fa. Mi manca quell’amicizia che ci consentiva di arrivare in fondo in fondo al cuore degli uomini. Mi manca Marco con il quale l’Ucciardone l’avevo visitato proprio a Pasqua di quel 2010, sbarcando la mattina all’alba dopo una notte passata in traghetto io, lui e Matteo Angioli. Quell’anno furono oltre 200 i parlamentari che parteciparono al Ferragosto visitando quasi il cento per cento degli istituti. I parlamentari e i consiglieri regionali, che possono entrare in carcere - a differenza nostra - quando vogliono e senza bisogno di autorizzazione perché glielo consente l’art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario, hanno raccolto l’appello del Partito Radicale solo in poche unità. Anche l’atmosfera è diversa: allora era più calda e partecipe anche se il sovraffollamento era di gran lunga maggiore. Era viva la speranza che ha visto decine di migliaia di detenuti partecipare agli scioperi della fame, ai Satyagraha incarnati negli anni da Marco Pannella e da tanti militanti della nonviolenza, tutti traditi dalla mancata riforma dell’ordinamento penitenziario che siamo arrivati ad un soffio dall’ottenere dopo gli stati generali dell’esecuzione penale. Tutti traditi dalla mancata amnistia oggi necessaria più di allora per riportare il nostro Stato, quindi la nostra “giustizia”, a percorrere la strada smarrita della legalità costituzionale. Occorrono uomini e donne che si facciano speranza, che la incarnino, che ne diffondano il contagio nei cuori delle persone. Non vorrei più ricevere lettere come quella di una moglie di un detenuto calabrese giunta in queste ore. “Mio marito - mi scrive - da marzo si trova praticamente in regime di 41bis. Due soli colloqui al mese di un’ora ciascuno e non di più. Un solo familiare. Vetro davanti, di sopra e di lato; i detenuti hanno persino le sedie inchiodate a terra. Ci sono andata la scorsa settimana dopo ben 5 mesi che non andavo, e mi hanno trattata talmente male che piuttosto rinuncio a vedere mio marito, tanto il colloquio in sé è divenuto disumano”. Oggi, rispetto ad allora, c’è un di più di impronta securitaria da parte dell’amministrazione, un di più di opacità e di chiusura che dobbiamo assolutamente battere, forti di quel “senso di umanità” di cui ci arma la nostra Costituzione. Negli ultimi giorni di Marco in vita quando gli chiedevo come stava mi rispondeva con la stessa domanda: “Come sto?” Voleva leggere in fondo al mio sguardo quanta forza d’amore c’era per andare avanti… andremo avanti! Scarcerazioni a due passaggi. Nuova valutazione da parte del magistrato emittente di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 15 agosto 2020 Scarcerazioni e Covid-19: necessaria una nuova valutazione da parte del magistrato remittente. A seguito dell’entrata in vigore della legge n. 70/2020, che prevede nuove norme per l’applicazione del beneficio della scarcerazione al fine di contenere la diffusione del Coronavirus, la presenza di eventuali profili d’illegittimità costituzionale dovrà essere nuovamente valutata da parte del giudice remittente. Lo afferma la Corte costituzionale con ordinanza 185-2020. La decisione trae origine dall’ordinanza del giudice di sorveglianza di Spoleto avente ad oggetto Part. 2 del dl 29/2020. Tale norma, riguarda il beneficio della detenzione domiciliare e del differimento della pena al fine di contenere la diffusione del virus, estendendosi sino alla regolamentazione della sua eventuale revoca. Viene prevista infatti la facoltà da parte della magistratura di sorveglianza, di riportare il detenuto all’interno della struttura penitenziaria revocando la detenzione domiciliare od il differimento della pena sulla base delle informazioni ricevute da parte del procuratore nazionale antimafia e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Infatti, nel caso in cui emergano elementi tali da non consentire la permanenza del detenuto al di fuori della struttura penitenziaria il Tribunale di sorveglianza dovrà provvedere alla revoca dei benefici. Nel corso di tale procedimento tuttavia non era in alcun modo prevista la facoltà per il difensore del detenuto di prendere visione delle informazioni che costituivano il fondamento della decisione relativa alla permanenza del beneficio. Ad avviso del magistrato di sorveglianza remittente infatti la norma, così come concepita da parte del legislatore, violava in maniera palese l’art. 24 della Costituzione e il diritto di difesa in esso contenuto. Contrastava in particolare, con il dettato costituzionale, la mancata previsione della facoltà per difensore del detenuto di potere prendere visione degli atti così da potere articolare il diritto di difesa. Tuttavia successivamente al promovimento dell’eccezione d’illegittimità costituzionale la disciplina veniva modificata da parte del legislatore con l’entrata in vigore della legge 70/2020. Tale ultimo intervento normativo modifica le modalità di revoca del beneficio della detenzione domiciliare regolamentando specificamente la procedura necessaria. Ad essere competente per la verifica della sussistenza delle condizioni necessarie alla concessione del beneficio ed all’emissione di un eventuale provvedimento di revoca è il Tribunale di sorveglianza, la cui pronuncia deve intervenire nel termine di trenta giorni dalla proposizione della relativa istanza ed a seguito di un procedimento in cui viene garantito il diritto di difesa della parte. La novità della legge 70/2020 è costituita da una maggiore tutela del diritto di difesa nel corso del procedimento di revoca; al difensore del detenuto infatti è consentito il diritto di accedere a tutte le informazioni sulla base delle quali il tribunale di sorveglianza emette la propria decisione. L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, che aveva dato origine al procedimento, pertanto non si presenta come attuale data l’intervenuta modifica della normativa, con la conseguenza che ai giudici della Consulta non resta che rinviare nuovamente al magistrato di sorveglianza, che dovrà valutare l’eventuale contrasto con le norme costituzionali della procedura di revoca dei benefici nella sua configurazione successivamente alla riforma intervenuta con la legge 70/2020. “L’avvocatura alzi un muro contro la riforma che mette il Csm in mano alle Procure” di Errico Novi, 15 agosto 2020 Intervista a Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane. “Forse non è chiaro: è una prospettiva di una gravità inaudita. Un attacco agli equilibri democratici costituzionali. Contro la norma che potenzialmente consegna l’intero Csm nelle mani delle Procure faremo le barricate, saremo implacabili. E crediamo al fianco dell’Unione Camere penali possa schierasi l’intera avvocatura, innanzitutto la sua rappresentanza istituzionale. Perché è chiaro che se tu al Csm non hai, come invece avviene adesso, un numero di togati giudicanti pari al doppio dei requirenti, se alteri la proporzione e addirittura arrivi a un quasi monocolore dei pm, cambi la natura stessa di un organo che ha rilievo costituzionale. Ma scherziamo?”. Solo Gian Domenico Caiazza ha tempestivamente individuato il tema più paradossale fra i tanti sollevati dalla riforma del Csm: si è parlato del sorteggio residuale, dell’addio alle porte girevoli, anche del blando intervento per scoraggiare i fuori ruolo. Ma nessuno rileva, se non appunto il presidente dell’Ucpi, come “eliminare, per i magistrati da eleggere al Csm, la distinzione tra le categorie giudicante e requirente rischi di produrre una netta prevalenza della seconda. Un assurdo mai visto”. È elevato il rischio di un esito simile? Basta guardare a cosa accade all’Anm: i pm sono i più mediatici, i più politici, e predominano nettamente. È grave anche in quell’ambito, però è inevitabile che un componente dell’Associazione magistrati ribatta che loro, sul piano politico associativo, si organizzano come gli pare. Ma il Csm è un organo di rilevo costituzionale, e il meccanismo del consenso tra i magistrati non cambia: i pm restano i più noti, i candidati dalla maggiore visibilità. Come è possibile che la maggioranza di governo abbia sottovalutato un rischio del genere? Non sembra un colpo studiato ma appunto una mancata consapevolezza degli effetti, va detto. In una recente intervista, al ministro della Giustizia Bonafede è stato chiesto proprio della nostra obiezione sull’assenza di separazione per funzioni, fra i magistrati da eleggere al Csm. Ha risposto con la necessità di scongiurare risultati analoghi a quelli dell’ultima tornata per l’elezione dei togati, quando le quattro correnti maggiori candidarono un solo magistrato ciascuna visto che i posti erano proprio quattro. Tutti i candidati, cioè, erano certi dell’elezione già in partenza. Ma non è che per evitare di avere quattro eletti scontati ti esponi al rischio di avene venti tutti del settore requirente. Parliamo di una categoria di magistrati che rappresenta solo il 20 per cento del totale. E se pur di mantenere i 19 collegi si preferisse esporsi al rischio che in ciascuno di questi sia eletto un pm? Ripeto, come Unione Camere penali siamo pronti a fare le barricate, assumeremo ogni possibile iniziativa. E tengo a dire che credo si tratti di un problema per l’intera avvocatura, che possa dunque determinare la mobilitazione anche dell’avvocatura istituzionale, proprio perché parliamo di equilibri democratici costituzionali. Non si tratta di un dissenso legato alla contrapposizione funzionale dei penalisti nei confronti del pubblico ministero, non è certo questo il piano della questione. In un documento molto critico sulla riforma, Md parla di possibile burocratizzazione, legata tra l’altro ai criteri rigidi previsti per le nomine: condivide? Condivido l’idea che possa verificarsi un ripiegamento burocratico, ma credo anche che sia del tutto illusoria l’efficacia di simili strumenti come argini al clientelismo. Si è cercato di oggettivizzare i criteri, ma se tu ne introduci 15 tutti indipendenti fra loro, semplicemente le diverse cordate enfatizzeranno di volta in volta il parametro più confacente alla scelta precostituita. Credo sia invece drammatico constatare come sul fronte del merito non si sia sciolto il vero nodo, quello delle valutazioni di professionalità, al 99 per cento sempre positive. Non è possibile, si tratta di un caso unico al mondo. Va invece creata una categoria di eccellenti tra i quali individuare i capi degli uffici. Non si può restare ancorati all’idea che ha seppellito il meccanismo delle valutazioni di merito, secondo cui si tratterebbe di un condizionamento sull’operato del giudice. Una iperbole egualitarista tipica degli anni Settanta, che non è stato più possibile correggere. E che forse spiega anche l’immediata reazione ostile di vari gruppi della magistratura alla concessione, prevista dalla riforma, di un semplice diritto di tribuna agli avvocati in queste valutazioni… Sì, si tratta del diritto introdotto, finalmente, per gli avvocati e per l’accademia, di assistere alle sedute dei Consigli giudiziari in cui si approvano i pareri sulla professionalità dei singoli magistrati, pareri da inviare al Csm. Non c’è diritto di voto, appunto, ma solo di assistere. E pure dà fastidio, perché l’avvocato continua a essere visto da una parte della magistratura come un elemento inquinante della giurisdizione. Una resistenza in realtà assolutamente coerente con la rinuncia al merito di cui sopra. Oltretutto la rinuncia a valutazioni vere, attendibili, modulate sul merito reale, porta a paradossi come il ritorno dell’anzianità quale criterio oggettivo per la scelta dei capi. Oltre a favorire la burocratizzazione, qui si va contro l’insegnamento della vicenda di Giovanni Falcone, a cui fu preferito Antonino Meli, che aveva appunto nell’età il proprio unico punto di vantaggio. In ogni caso lei dice che l’irrigidimento della griglia valutativa non consentirà di evitare gli accordi… Sì, sia perché basterà individuare tra i diversi criteri oggettivi quello più adattoi al magistrato sul quale le correnti si sono di fatto già accordate, sia perché proprio il velo della presunta oggettivizzazione renderà più sofisticati e giustificabili quegli accordi tra le correnti. Ma le correnti sono da spazzare via? Ecco, quanto appena detto non rimanda affatto a un’idea liquidatoria dell’associazionismo giudiziario. Tutt’altro. Un conto è la degenerazione del correntismo, altro è la sacrosanta articolazione della magistratura in gruppi che esprimono diverse visioni politiche della giurisdizione. Parliamo di una funzione essenziale della democrazia, ed è impensabile che non possa e non debba essere declinata secondo culture diverse. Da un simile punto di vista, le correnti non possono essere liquidate: vanno preservate soprattutto da quella stessa furia iconoclasta che venticinque anni fa finì per abbattersi sui partiti. C’era il problema della partitocrazia, se ne approfittò per trascinare via anche il sacrosanto diritto all’associazionismo politico. Non si può essere complici di chi persevera ancora in quell’errore. L’avviso di garanzia non è una condanna: fermiamo la gogna di Guido Salvini* Il Dubbio, 15 agosto 2020 I titoli dei quotidiani e dei siti internet di ieri offrono l’occasione di parlare di una delle tante deviazioni del processo penale. Il Presidente del Consiglio Conte e cinque ministri hanno ricevuto dalla Procura di Roma, in relazione all’epidemia da Covid e ai provvedimenti che hanno di conseguenza adottato, un’informazione di garanzia che prospetta i reati di epidemia colposa ed omicidio colposo e addirittura quelli di attentato alla Costituzione e attentato ai diritti politici del cittadino. Si è trattato di un caso un po’ particolare in quanto la notizia è stata data direttamente dalla Presidenza del Consiglio e, a quanto si legge, la Procura avrebbe prudentemente già lasciato intendere che l’iniziativa era un “atto dovuto” e che le accuse, che dovrebbero essere in teoria valutate dal Tribunale dei Ministri, sarebbero poco convincenti. Tuttavia non accade sempre così, in modo così soft ed elegante. Nella maggior parte dei casi l’iscrizione avviene quando le indagini sono appena iniziate e sono ancora informi ed è percepita dall’opinione pubblica come una sorta di condanna anticipata. Del resto viene puntualmente passata alla stampa, certo non dal cancelliere, e spesso proprio dalla stampa gli interessati ne vengono a conoscenza. La sua sola esistenza può diventare una variabile incontrollabile degli equilibri politici del paese o di una Regione. Pensiamo all’informazione di garanzia nel 2008 per concussione all’on. Mastella che ha contribuito all’immediata caduta del governo Prodi sulla base di una prospettazione di accusa poi finita nel nulla. Da qualche settimana, come sappiamo, è stato iscritto nel registro degli indagati il governatore della Lombardia, senza entrare minimamente nella vicenda ma solo per dire che sono argomenti attuali. Dovrebbe essere un istituto a tutela degli indagati ma in realtà l’unica garanzia che l’informazione di garanzia dà è quella di essere sbattuti sui giornali. Proprio per frenare questa stortura l’ex Procuratore capo di Roma Pignatone nel 2017 aveva adottato una circolare ricordando che l’iscrizione non è un atto meramente burocratico e che può essere spesso strumentalizzata per fini diversi da quelli dell’accertamento processuale, soprattutto nei contesti di contrapposizione politica, economica, professionale. Lo stesso vale ovviamente per il cittadino comune. Aveva quindi raccomandato ai suoi sostituti di non procedervi in modo affrettato ma solo quando a carico di una persona emergessero specifici elementi indizianti ed un quadro cognitivo tale da individuare a suo carico gli elementi essenziali di un fatto qualificabile come reato e potessero già essere individuate significative fonti di prova. In sostanza raccomandava di non scrivere sul registro semplicemente un nome e un cognome accanto a uno o più articoli del Codice penale ma di procedere solo quando a carico di qualcuno si fossero condensati elementi di accusa significativi, quelli che, per spiegarsi, con il vecchio Codice, legittimavano un dettagliato mandato di comparizione. Accusare prima e pubblicamente è invece una forzatura salvo i casi, ma non sono molti, in cui c’è effettivamente la necessità di invitare la persona coinvolta a partecipare ad un determinato atto, ad esempio una perizia. Altrimenti vi è il rischio che la garanzia diventi una gogna e uno strumento di pubblicizzazione della qualità di indagato grazie ai rapporti che intercorrono tra molti uffici giudiziari e i mezzi di comunicazione. Con danni non riparabili sul piano pubblico e privato soprattutto quando, magari molto tempo, dopo l’indagine si concluda con una completa archiviazione, relegata, come spesso succede, in un trafiletto sui giornali. È a questa interpretazione che bisognerebbe sempre attenersi. Non ci dovrebbero essere nel sistema “atti dovuti” ma solo atti motivati e ragionati. Per evitare anche il pericolo, sempre in agguato, che magari il “dovere” diventi il “piacere” di abbellire le proprie indagini. *Magistrato Le “liti temerarie” che minacciano la libertà di stampa di Giovanni Valentini Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2020 Per un movimento politico come i Cinque Stelle, approdato in Parlamento sull’onda della legalità e accusato spesso di giustizialismo, rappresentano senz’altro un titolo di merito i due provvedimenti che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è riuscito a far approvare nei giorni scorsi dal Parlamento: il primo sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura contro il correntismo e l’altro contro le “porte girevoli” fra l’attività giudiziaria e quella politico-parlamentare. Dimostrano, se non altro, che il M5S non soffre un complesso di subalternità o peggio di sudditanza nei confronti dei magistrati, come qualcuno continua a ritenere. L’impossibilità di tornare a fare il magistrato, dopo aver fatto il parlamentare e il consigliere comunale o aver ricoperto incarichi di governo, ripristina almeno parzialmente quella terzietà del giudice che può rassicurare il cittadino di fronte alla legge. Ma ora c’è in lista d’attesa un altro provvedimento proposto dai Cinque Stelle che riguarda i rapporti fra giustizia e informazione. E non è meno rilevante dei primi due. Punta a regolare la delicata materia delle cosiddette “liti temerarie”, quelle che in genere intentano i colpevoli contro i giornali, pretendendo risarcimenti pecuniari spesso superiori ai danni effettivamente subiti. L’ha presentato da tempo il senatore Primo Di Nicola, già giornalista del settimanale L’espresso e poi collaboratore del Fatto Quotidiano, insieme ad alcuni colleghi del M5S. Era stato approvato dalla Commissione Giustizia del Senato e messo in calendario a gennaio per la ratifica definitiva ma, nonostante fosse stato raggiunto un accordo politico di maggioranza, dopo sette mesi non è ancora arrivato in aula. A quanto pare, le resistenze di Italia Viva hanno frenato l’iter parlamentare e si sospetta che all’origine ci siano le numerose vicende giudiziarie che coinvolgono l’ex premier Matteo Renzi. Oltre al pregio non trascurabile di essere composto da un solo articolo, il disegno di legge prevede una semplice aggiunta all’articolo 96 del Codice di procedura civile. Nei casi di diffamazione a mezzo stampa, “in cui risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno”, il testo stabilisce che quando la domanda viene respinta dal tribunale l’attore è condannato a pagare al convenuto una somma non inferiore a un quarto di quella richiesta (in origine, si prevedeva la metà). Una sorta di deterrente, insomma, contro le liti temerarie che diventano in pratica una forma di intimidazione, di bavaglio o di censura preventiva nei confronti dei giornalisti e delle aziende editoriali: secondo i dati del ministero della Giustizia, raccolti da Ossigeno per l’informazione, nel 2015 le querele infondate sono state 5.125 (quasi il 90%) e 911 le citazioni per 45,6 milioni di euro di richieste per risarcimento danni. C’è da augurarsi, dunque, che alla ripresa dell’attività parlamentare dopo la pausa estiva, il Senato trovi il tempo e la volontà, per non dire la decenza, di approvare definitivamente il provvedimento anche per rispettare l’articolo 21 della Costituzione in forza del quale “la stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure”. Così Italia Viva avrà l’occasione per dimostrare che il suo garantismo non è a senso unico. E non mira a difendere gli interessi del suo leader perfino contro “la malafede o la colpa grave”. “Sei siciliano allora sei mafioso”, storia della famiglia Virga di Gaetano Virga Il Riformista, 15 agosto 2020 Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la quarta di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Sempre assolti ma lasciati in mutande dalla Saguto. “Sei siciliano allora sei mafioso”, storia della famiglia Virga: sempre assolti ma lasciati in mutande dalla Saguto. Negli anni sessanta mio padre e i miei zii cominciano la loro attività d’impresa nel settore edile e delle infrastrutture. Il fatto che degli operai siciliani, dopo anni di lavoro alle dipendenze di altri, si mettessero in proprio, riuscendo ad affermarsi come una solida realtà imprenditoriale dando lavoro nel periodo di massimo sviluppo a 200 persone, aveva suscitato il sospetto dell’Autorità Giudiziaria. Tutto ciò evidentemente si poteva spiegare solo con l’appoggio della mafia. In Sicilia chi nasce operaio deve morire operaio. Non è prevista la possibilità di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche con il duro lavoro. I miei familiari, senza saperlo, portavano addosso un’altra colpa: quella di essere originari di Marineo, piccolo paese vicino a Corleone. Questo faceva di loro dei soggetti posti sotto l’egida dei potenti boss corleonesi. In Sicilia il luogo d’origine e il nome di famiglia possono segnare il tuo destino. Luoghi e nomi si traducono spesso in indizi gravi e concordanti per condanne preventive - come di fatto sono sequestri e confische dei patrimoni - anche per fatti di nessuna rilevanza penale. In un caso, visto che in Toscana si era registrata una partecipazione importante di imprese siciliane agli appalti pubblici, si ipotizzò un interessamento della mafia ai lavori in quella regione. Furono indagate più di duecento persone, tra cui i miei familiari, non per comprovati legami con la mafia, ma per essere semplicemente imprenditori siciliani. Tutto si risolse con un decreto di archiviazione. In un’altra occasione mio zio era stato accusato di favoreggiamento per non avere denunciato furti, danneggiamenti, richieste di pizzo nel periodo in cui opporsi alla mafia significava sottoscrivere la propria condanna a morte. La vicenda si concluse con una sentenza di assoluzione che riconobbe mio zio vittima e non complice della mafia. Le imprese della mia famiglia nel corso degli anni hanno subito furti, attentanti ed estorsioni. Lo stesso Brusca, parlando dei Virga, li definiva come degli imprenditori che non volevano accettare le condizioni della mafia, persone che non volevano pagare e che per questo subivano spesso danneggiamenti. Un giorno mio padre, dopo essersi per l’ennesima volta opposto a richieste di pizzo, fu vittima di un tentato omicidio che, solo per miracolo, non si concretizzò in una vera e propria tragedia. L’episodio fu subito denunciato alle forze dell’ordine, con le quali cominciò un percorso di collaborazione fatto di denunce che portarono all’arresto di pericolosi esponenti della criminalità organizzata. Un percorso che fu coronato anche dagli encomi pubblici dei dirigenti della D.I.A. Tutto questo però non è stato sufficiente per far sì che la mia famiglia venisse riconosciuta estranea alla logica mafiosa. Mio padre negli anni duemila fu destinatario di una prima proposta di applicazione delle misure di prevenzione. La proposta fu rigettata. Qualche anno dopo, la nostra famiglia fu oggetto di un’indagine per intestazione fittizia. Lo stesso dottor Di Matteo, titolare dell’accusa in quel procedimento, riconobbe che non c’erano i presupposti per andare a giudizio e neppure i sospetti per una misura di prevenzione. Il G.I.P., la dottoressa Saguto, archiviò tutto, accogliendo la richiesta dei Pubblici Ministeri. A questo punto, la vicenda ha dell’incredibile. Nel 2015, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta proprio dalla Saguto, su proposta della D.I.A., sequestrò tutto il nostro patrimonio, sulla base degli stessi identici indizi. I Virga furono considerati espressione degli interessi della mafia nel settore dei pubblici appalti. Il decreto era un acritico copia-incolla della proposta della D.I.A. Quest’ultima era a sua volta un collage di alcune dichiarazioni (assolutamente prive di riscontro) rese da vari pentiti nell’arco di oltre trent’anni nell’ambito di processi in cui i miei familiari non erano neppure parte. Sono state usate contro di noi persino le dichiarazioni di un pentito che affermava che i Virga erano vittime di mafia. In un processo di prevenzione non si applica il principio del ne bis in idem, per cui ciascuno di noi, sulla base degli stessi indizi, può essere proposto per una misura di prevenzione all’infinito. Si dice che il giudicato di prevenzione opera “rebus sic stantibus”, un modo elegante per dire che tutto è a discrezione dei Giudici i quali possono fare un po’ come gli pare. La certezza del diritto è solo una pia illusione, proprio come il diritto di difesa. Il nostro sequestro fu pubblicizzato dai media come uno dei più importanti in Italia. La D.I.A. lo rivendicò come uno dei più grandi successi dello Stato nella lotta ai patrimoni mafiosi. Non si sa come, ma al nostro patrimonio fu attribuito un valore di un miliardo e mezzo di euro. Eravamo ricchissimi e non sapevamo di esserlo. Qualche anno dopo, l’amministratore giudiziario avrebbe stimato un valore non superiore a 25 milioni di euro. Oggi il Giudice che ha disposto il sequestro e l’ufficiale della D.I.A. che lo aveva richiesto sono sotto processo a Caltanissetta per reati gravissimi e noi ci siamo costituiti parte civile. Dalle intercettazioni, scopriamo che i Giudici avevano applicato il sequestro senza avere letto le carte. Per giunta, l’ufficiale della D.I.A. aveva proposto alla Saguto di fare lavorare in maniera occulta all’interno delle nostre aziende il marito di quest’ultima. Le nostre aziende oggi versano in stato di abbandono. Il primo amministratore giudiziario è stato revocato per gravi inadempienze dai giudici che hanno preso il posto della Saguto. Erano stati piazzati nelle nostre aziende decine di coadiutori che hanno aggravato i conti in maniera significativa. Per fare il sequestro è bastato un attimo, per decidere il merito del processo non bastano anni. Ad oggi non si è ancora concluso il primo grado di giudizio. Siamo costretti ad assistere impotenti alla distruzione di quanto abbiamo creato con sacrifici nell’arco di due generazioni. Viviamo con grande difficoltà il presente. Guardiamo con estrema incertezza al futuro. Nonostante tutto, lottiamo per difendere la nostra dignità e i nostri diritti. E nel fare questo, ci sentiamo meno soli grazie a Nessuno tocchi Caino che rappresenta per noi una nave sicura in un mare in tempesta. Padova. Garante delle libertà, il Comune apre il bando Il Gazzettino, 15 agosto 2020 Da giovedì 20 agosto al 15 settembre sarà possibile presentare la propria candidatura al ruolo di Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale nel Comune. Il regolamento che disciplina l’attività e la nomina del Garante, previsto dalla normativa nazionale, è stato approvato, all’unanimità, dal Consiglio comunale lo scorso 6 luglio. Il regolamento prevede che chi è in possesso dei necessari requisiti e competenze (ovviamente indicati nel regolamento) possa avanzare la propria candidatura a ricoprire questo ruolo, che ricordiamo, è svolto a titolo gratuito. Sottolinea l’assessora all’Inclusione sociale: “Ogni persona è titolare di diritti fondamentali, qualunque sia il suo stato. Essere privati delle proprie libertà è una ulteriore vulnerabilità rispetto alle fragilità che hanno portato a quella restrizione. Riguarda certamente i detenuti, ma anche tutte le persone che per qualche ragione non possono disporre pienamente della propria libertà. Dotare il Comune della figura del Garante è un elemento di civiltà che non poteva mancare”. Commenta l’assessora ai Diritti umani, Cooperazione Internazionale e Pace: “La figura di un Garante comunale che si affianca a quello regionale e nazionale permette un contatto più diretto con il territorio e le sue realtà. Ricordo che il Garante sarà eletto dal Consiglio comunale e al Consiglio dovrà riferire periodicamente della propria attività evidenziando le eventuali criticità riscontrate nelle carceri cittadine o in altre strutture dove si trovino persone anche solo momentaneamente private della propria libertà. Mi auguro che questo bando trovi l’attenzione che merita. Vogliamo affidare un ruolo così importante e delicato a una persona davvero capace e competente”. S.M. Capua Vetere (Ce). Carcere senza rete idrica nonostante i 2 milioni di finanziamento ottopagine.it, 15 agosto 2020 Il Garante dei detenuti Ciambriello: “Non si perda più tempo”. “Dal 1996, anno di costruzione del carcere, non è ancora stata realizzato l’allacciamento per la rete idrica. Eppure la Giunta Regionale della Campania, nel 2016 ha stanziato un notevole finanziamento, consegnando tali risorse al comune di Santa Maria Capua Vetere”. Così denuncia ritardi ed inefficienze amministrative il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. La Regione Campania con delibera della Giunta Regionale 142/05.04.2016 ha stanziato, in favore del comune di Santa Maria Capua Vetere per la costruzione di una condotta idrica a servizio della Casa Circondariale, E 2.190.000,00. Successivamente, su questo tema, la stessa Giunta, il 4.08.2016, ha firmato un protocollo d’intesa col Comune. Attualmente i detenuti presenti del Carcere di Santa Maria Capua Vetere sono 886, di cui 68 donne nel reparto Senna di alta sicurezza. Il garante Ciambriello così conclude: “L’approvvigionamento di acqua al carcere è assicurato mediante l’utilizzo di acqua di falda e di un impianto di potabilizzazione spesso mal funzionante, che comporta la fuoriuscita di acqua gialla dai rubinetti, con conseguenti dermatiti e altri problemi di salute per i detenuti. Ogni giorno due autobotti portano l’acqua per la mensa dei detenuti e degli agenti, da decenni i detenuti usufruiscono gratuitamente dall’amministrazione penitenziaria di due bottiglie d’acqua minerale al giorno. Ho recentemente scritto, sia a luglio che ad agosto, all’amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere per chiedere notizie sullo stato dei lavori, ancora non attuati dopo tanti anni, ma non ho ricevuto nessuna risposta. Invito la politica nazionale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e i consiglieri regionali a seguire con attenzione questa criticità che lede i diritti delle persone diversamente libere. Accanto alla certezza della pena ci deve essere la qualità della pena, alla persona che sbagli deve essere tolto il diritto alla libertà ma non il diritto alla dignità, alla tutela della salute. Non si perda più tempo”. Cagliari. “In carcere molti malati psichici e stranieri, subito la nomina di un Garante” L’Unione Sarda, 15 agosto 2020 Preminenza di malati psichici e di tossicodipendenti, ma anche di stranieri, unita alla carenza di organico tra gli agenti, psicologi ed educatori sono le principali criticità riscontrate nel sopralluogo effettuato dai Radicali nel carcere cagliaritano di Uta. “Da un punto di vista di presenze siamo alla pari tra 530 presenze e una capienza di 560 - spiega Irene Testa, tesoriere dei Radicali che ha visitato il carcere insieme ai consiglieri regionali Michele Cossa (Riformatori), Carla Cuccu (M5S) e Stefano Schirru (Psd’Az) - più che per il sovraffollamento la preoccupazione è il quel 70-80% di malati psichiatrici e tossicodipendenti: è un carcere ‘malato’ con persone che, non dovrebbero stare lì. Purtroppo l’unica residenza protetta, la Rems a di Capoterra ha solo 16 posti. Così il direttore e il personale devono gestire una situazione non di loro competenza specifica”. In più, spiega ancora Testa c’è il problema degli stranieri, “molti dei quali hanno problematiche di disagio e povertà: in Sardegna è un record di presenze con l’82% in tutte le 10 strutture dell’Isola”. Di fronte a questa situazione i Radicali premono perché venga nominato al più presto il garante dei diritti del detenuto: “in questo senso si sono impegnati i consiglieri regionali che mi hanno accompagnata nel sopralluogo”. Questione a parte l’emergenza Covid: “Non ci sono stati problemi né contagi - conclude Testa - l’istituto aveva a disposizione le mascherine necessarie e ha messo a disposizione dei detenuti i mezzi informatici via web per non perdere il contatto con le famiglie”. Pesaro. Il Garante in visita al carcere di Villa Fastiggi pu24.it, 15 agosto 2020 “Preoccupano detenuti psichiatrici e tossicodipendenti, sovraffollamento, carenza di organico e struttura”. Appuntamento a Villa Fastiggi di Pesaro per le visite in carcere del garante regionale Andrea Nobili anche nel periodo di Ferragosto. Conclusa la fase di monitoraggio per verificare la situazione complessiva dopo il periodo di lockdown, si è ritenuto opportuno, infatti, formulare un nuovo calendario di incontri, considerate le criticità presenti in alcuni istituti penitenziari e la possibilità del loro acuirsi durante il periodo estivo. Presso la Casa circondariale pesarese visita e numerosi colloqui con i detenuti, mentre in precedenza il Garante ha avuto un confronto costante con la direzione della struttura ed i responsabili della polizia penitenziaria. Al centro dell’attenzione i problemi derivanti da sovraffollamento, situazione sanitaria (con un numero significativo di soggetti con patologie di carattere psichiatrico o legate alla tossicodipendenza), carenze negli organici, necessità di manutenzione in diversi settori dell’edificio che ospita il carcere. Un quadro d’insieme che ha rischiato di aggravarsi durante il periodo dell’emergenza epidemiologica e più volte rappresentato dal garante che, proprio per questo motivo, ha sempre mantenuto attiva l’interlocuzione con i vertici della struttura e dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo consapevoli che la situazione - sottolinea Andrea Nobili - deve essere doverosamente attenzionata sotto diversi punti di vista e che sono necessari interventi non più rinviabili, a partire dalla questione degli organici. Fino ad oggi si è riusciti a fronteggiare le criticità dell’esistente, ma questo stato di cose non può protrarsi all’infinito. Nelle prossime settimane i problemi legati all’area sanitaria saranno oggetto di un intervento approfondito con i vertici Asur”. Il Garante rinnova l’auspicio per una collaborazione attiva di tutte le componenti chiamate ad intervenire direttamente nella realtà degli istituti penitenziari marchigiani. “Nelle scorse settimane - conclude - abbiamo salutato con soddisfazione l’arrivo di un nuovo Presidente per il Tribunale di sorveglianza di Ancona. Oggi rinnoviamo l’invito a chi di competenza per una presenza effettiva del Prap sul territorio regionale, che come sappiamo è invece chiamato a intervenire su Emilia Romagna e Marche con tutte le difficoltà del caso”. Torino. Ferragosto in carcere, Mellano (Radicali) visita le strutture di detenzione lavocetorino.it, 15 agosto 2020 Oggi il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, ha visitato due carceri torinesi. Anche quest’anno il Partito Radicale, per richiamare l’attenzione sulle condizioni di vita dei detenuti, ha promosso una visita in carcere nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ferragosto in carcere”. In particolare oggi il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, ha visitato due carceri torinesi, l’Istituto Penale per Minori “Ferrante Aporti” e il Padiglione femminile della Casa circondariale Lorusso Cotugno. Mellano ha incontrato i giovani rinchiusi al Ferrante accompagnato dalla direttrice Simona Vernaglione e dalla vicedirettrice Gabriella Picco. Ha aderito all’iniziativa oggi anche Sonia Caronni, Garante di Biella, che si è recata nel carcere cittadino. “Dal 1975 - spiega Mellano - il carcere è chiamato ad aprirsi al territorio e a diventare un luogo più trasparente anche per permettere un recupero il più ottimale possibile delle persone rinchiuse. Spesso questo però non avviene e per diverse ragioni, ma viceversa, ci sono carceri in cui lo sforzo per garantire questi diritti è molto sentito come nel carcere per i minori di Torino, modello virtuoso in Europa, e il Padiglione Femminile del Lorusso Cotugno”. Nelle Rsa ormai vivono peggio che in galera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2020 L’allarme dei familiari di persone anziane. Mentre perfino nelle carceri sono stati ripristinati i colloqui ordinari, nelle strutture socio-sanitarie e assistenziali (Rsa) gli anziani e disabili ancora vivono in isolamento. In pratica non è stata indicata nessuna nuova norma post Covid-19. Diverse rappresentanze dei familiari hanno lanciato l’allarme sugli effetti devastanti delle chiusure che ravvisiamo sui loro parenti ospiti delle strutture, fortemente segnati dal lungo distacco. A tal proposito si è attivato il garante nazionale delle persone private della libertà. Ha avviato un’interlocuzione con il Comitato tecnico scientifico per esprimere la profonda preoccupazione in merito al protrarsi dell’isolamento delle persone residenti in alcune strutture socio- sanitarie e socio- assistenziali per disabili o anziani nell’attuale fase di diffusione del virus Covid- 19. Le criticità segnalate dal Garante nazionale al Comitato tecnico scientifico riguardano appunto la limitazione a ricevere visite da parte di familiari o di persone con un legame affettivo, la resistenza da parte di alcuni Responsabili sanitari delle strutture a favorire dimissioni e nuovi ingressi sia nelle strutture socio- sanitarie e assistenziali a regime residenziale che in quelle a regime semiresidenziale. Il Garante nazionale, rinnovando la stima e la fiducia nel lavoro svolto da tutti i componenti il Comitato tecnico scientifico, ha sollecitato la disposizione di un documento scientifico che contenga indicazioni per dirimere tali criticità che richiedono urgenti risoluzioni al fine di garantire percorsi di salute e assistenza certi e omogenei in tutto il territorio nazionale a tutela di una fascia di popolazione particolarmente vulnerabile. D’altronde è ciò che hanno richiesto numerosi rappresentanti dei familiari. Quest’ultimi sono convinti che misure a favore del benessere psico-fisico dei loro cari, anziani, malati, invalidi e disabili all’interno delle strutture, a distanza di 5 mesi dal distacco imposto dalle chiusure, possano essere adottate, anche con un’auspicabile rapida revisione dei Protocolli, senza compromettere in alcun modo la sicurezza nel quadro complessivo della sanità pubblica. L’obiettivo posto dai rappresentanti dei familiari è quello di arrivare a delle rapide soluzioni migliorative delle norme di riapertura a seguito dell’emergenza coronavirus, ribadendo di voler continuare a tutelare massimamente la sicurezza dei residenti delle strutture. Tra i problemi evidenziati vi è appunto l’assoluta mancanza di contato fisico ed emotivo tra gli ospiti ed i loro familiari, le modalità di visita che non consentono di stare con i propri cari per tempi lunghi e su poche postazioni al chiuso. Vi sono poi turnazioni di visita del tutto insufficienti. Vi è l’impossibilità in molte Rsa di poter far visita ai parenti che si trovano a letto. Uno stile di vita che per certi aspetti comprometterebbe la salute degli ospiti, in particolare dal punto di vista psicofisico, per via del distacco dai propri familiari e parenti. I rappresentanti dei familiari hanno anche fornito delle proposte per quanto riguarda delle nuove modalità di riavvicinamento tra ospite e parente con delle linee guida che ammettano accessi sicuri e controllati da almeno un familiare per ospite. Tra le disponibilità offerte dai famigliari vi sono quelle di sottoporsi a tamponi a scadenza periodica, di acquistare a proprie spese i dispositivi di sicurezza e di sottoporsi anche alle dovute igienizzazioni secondo la prassi già in uso con sanificazioni. Migranti picchiati, ammassati e respinti: ecco il modello francese di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2020 La denuncia dell’associazione Progetto 20k che ha raccolto le testimonianze. Picchiati, brutalizzati e poi ammassati, spesso senza cibo né acqua, in container insalubri in metallo con bagni chimici e panchine di ferro. Parliamo dei migranti trattenuti dai corpi di polizia francese presso l’ufficio della Paf (Police Aux Frontières) a Ponte San Luigi, per poi respingerli in Italia. A denunciarlo è Progetto 20k, associazione italiana nata proprio per intervenire sui diritti dei migranti che subiscono veri e propri abusi nella frontiera franco-italiana. Attraverso varie testimonianze, l’associazione Progetto 20k ha potuto ricostruire come avvengono i respingimenti. Le persone arrestate in Francia, che non dispongono di documenti validi per l’espatrio, vengono portate dai corpi di polizia francese presso l’ufficio della Paf (Police Aux Frontières) a Ponte San Luigi: qui vengono trattenute il tempo di identificarle e di notificare loro il “refus d’entrée”, un documento che dichiara la non ammissione della persona sul territorio francese. Questi documenti - secondo Progetto 20k - vengono spesso falsificati, riportando date di nascita errate in modo da poter “legalmente” respingere anche minori non accompagnati che dovrebbero invece essere presi in carico nel Paese in cui si trovano. Presso la Paf è allestita una zona d’attesa (ironicamente definita come “zone de mise à l’abri” ossia zona di messa in sicurezza): si tratta di container insalubri in metallo di 15mq, con bagni chimici e panchine di ferro, dove le persone vengono trattenute per varie ore, un tempo che supera di lungo le 4 ore ammissibili di privazione della libertà ammesse dal Consiglio di Stato francese. Chi viene arrestato dopo le 18 vi passerà l’intera notte. Durante questo tempo, nessun diritto di base viene rispettato: le persone non possono chiamare un avvocato, un interprete, un medico, non hanno la possibilità di formulare la volontà di richiedere l’asilo. Spesso, non vengono dati acqua né cibo. In seguito al rilascio del “refus d’entrée”, le persone vengono rilasciate agli uffici di polizia di frontiera italiani, a qualche metro di distanza. Qui, vengono identificate e rimandate in Italia, a piedi. Da sottolineare che Ponte San Luigi si trova a una decina di chilometri da Ventimiglia, che a piedi si percorrono in non meno di 2 ore. Le persone ascoltate da Progetto 20k denunciano di essere trattate come animali, picchiate e brutalizzate dalle forze di polizia. Spesso si ravvisano furti da parte della polizia, di documenti e di effetti personali. In inverno si sbattono i denti dal freddo, d’estate i container sotto il sole arrivano a temperature allucinanti. Questa condizione la subirebbero anche donne, incinta o anziane, malate, e minori non accompagnati. Situazione che va avanti dal 2015, quando la Francia ha chiuso le sue frontiere interne. Poi c’è il discorso del Covid-19: secondo Progetto 20k nessuna norma sanitaria viene rispettata all’interno dei container, le persone vengono ammassate, senza possibilità di accedere all’acqua potabile, igienizzarsi e rispettare le distanze di sicurezza. Di solito, le persone che provano a lamentarsi si sentono rispondere che il Covid non esiste. Al tempo stesso, dall’inizio dell’emergenza sanitaria vengono distribuiti dei fogli informativi con qualche misura minima da rispettare per limitare la propagazione del Covid, che ovviamente non possono essere rispettate a causa delle condizioni strutturali di questi luoghi. Numerose sono state le denunce e segnalazioni da parte di Ong e associazioni francesi e italiane rispetto all’esistenza di queste strutture. In luglio scorso, il Consiglio di Stato francese ha sancito l’illegittimità del respingimento di un nucleo familiare da parte della polizia di frontiera, comunicando che “l’autorità amministrativa ha violato in modo grave e manifesto il diritto d’asilo, che costituisce una libertà fondamentale” rifiutando di registrare la domanda d’asilo e di esaminarla con le garanzie previste dalla legge nazionale. Ma secondo quanto riportato da Progetto 20k, sembra che questo non sia bastato per chiudere queste strutture. L’accusa alla Grecia: migranti messi sui gommoni e lasciati in mare Corriere della Sera, 15 agosto 2020 L’inchiesta del “New York Times”: oltre mille espulsi in 31 operazioni. Il governo: nessuna attività clandestina. È già buio la sera del 26 luglio, quando Najma al-Khatib, vedova siriana di 50 anni, detenuta in un campo profughi dell’isola di Rodi, dov’era sbarcata quattro giorni prima con due figli di 14 e 12 anni, viene convinta a salire con altri venti migranti su un autobus da poliziotti mascherati. Le spiegano che sarà trasferita in un’altra isola e da lì ad Atene. Invece vengono tutti caricati, inclusi due bebè, su due battelli che li portano in mare aperto, dove vengono trasferiti su gommoni senza timone e senza motore, molto simili a quelli con i quali erano arrivati dalla Turchia. E, infine, abbandonati alla deriva al limite delle acque territoriali di Ankara, finché non saranno soccorsi dalla guardia costiera turca. Funzionano così, secondo un’inchiesta del New York Times, i respingimenti alla greca. E funzionano da diversi mesi, se sono esatti i calcoli dei giornalisti americani secondo i quali 1.072 richiedenti asilo sono stati espulsi da marzo in 31 operazioni, perlopiù notturne, come questa. Prima di denunciare una pratica contraria alle norme europee e al diritto internazionale, oltre che a quelli umanitari, il quotidiano assicura di aver interpellato e ascoltato tre gruppi di controllo indipendenti, due ricercatori accademici, la guardia costiera turca, vari sopravvissuti e testimoni. Tutto coincide ed è suffragato da video e foto scattate al recupero dei naufraghi. Tuttavia le autorità greche negano qualsiasi “attività illegale”. Stelios Petsas, portavoce del governo ad Atene, esclude che “le autorità greche siano impegnate in attività clandestine”. Senza riuscire però a convincere gli autori dell’inchiesta, Patrick Kinglsley e Karam Shoumali. Se è vero che alla Grecia è mancato per anni l’appoggio europeo di fronte all’arrivo di decine di migliaia di profughi dal Medio Oriente - nota il New York Times - è anche vero che da quando l’anno scorso è salito al potere il conservatore Kyriakos Mitsotakis, le politiche del governo nei confronti dei migranti si sono parecchio inasprite. I pessimi rapporti con la Turchia, dove sono accampati 3 milioni e 600 mila migranti, in maggioranza siriani, complicano ulteriormente la situazione. Atene accusa Ankara di usare quell’umanità come arma di pressione sull’Occidente. Tra fine febbraio e inizio marzo ci sono state tensioni e qualche sparatoria alla frontiera terrestre greca, in Tracia, dove bus turchi sono arrivati carichi di profughi. Tutti respinti al mittente. Alcuni migranti raccontano di essere stati espulsi in gommone lungo il fiume Evros. Altri di essere stati lasciati di nascosto sull’isola disabitata di Ciplak, nelle acque turche, in attesa di essere tratti in salvo dalla guardia costiera. Estradizione in Cina? La proposta di Forza Italia, le riflessioni del Pd di Giulia Pompili Il Foglio, 15 agosto 2020 A Hong Kong il patto sociale si è rotto dopo una proposta di legge sull’estradizione. Ed è sull’estradizione, di nuovo, che si sta consumando l’ennesima guerra diplomatica tra Pechino e resto del mondo occidentale. Nel 2019 le proteste nell’ex colonia inglese cominciarono quando il governo locale propose una norma che avrebbe dato modo alla Cina di estradare da Hong Kong chi ritenesse in violazione della legge. Dopo le manifestazioni era stata accantonata, ma la proposta è stata poi sostituita da un’altra legge, ben più ampia e articolata: quella sulla sicurezza nazionale imposta dal governo centrale cinese ed entrata in vigore il 30 giugno scorso. Da un mese e mezzo il sistema giuridico di Pechino improvvisamente è entrato a far parte della vita quotidiana di Hong Kong, e in risposta agli arresti, alle denunce per sedizione, al giro di vite contro le libertà garantite nell’ex colonia inglese, si sono mossi vari paesi. Il primo governo a sospendere il trattato d’estradizione con Hong Kong è stato quello del Regno Unito, seguito poi da Nuova Zelanda, Canada, Australia e ultima la Germania. L’America di Donald Trump ha annunciato la stessa misura e la Francia ha fatto sapere che non ratificherà il trattato d’estradizione firmato tre anni fa. In risposta, il governo di Hong Kong ha deciso di sospendere la “collaborazione giudiziaria” con Germania e Francia. Il messaggio di certe azioni è chiaro: ci fidiamo del sistema giudiziario di Hong Kong, della Basic Law e delle garanzie di autonomia, ma ora che le mani di Pechino sono arrivate fino a lì non ci fidiamo più. Sebbene complicato, quello dell’estradizione è un tema importante anche politicamente, proprio perché Hong Kong ha sempre rappresentato l’avamposto d’occidente per fare affari con l’oriente. Mentre i giornali internazionali se ne vanno, e le aziende cercano sedi altrove, i governi occidentali si muovono per mandare segnali contro Pechino: ogni azione di forza è un passo indietro verso la collaborazione. L’Italia è stata molto debole, all’inizio, nella risposta all’entrata in vigore della legge sulla sicurezza. Specialmente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’uomo che ha posto la firma sulla Via della Seta con la Cina. Poi, ultimamente, il governo ha cambiato posizione. Da qui a mandare segnali concreti, però, ce ne vuole. Perché il nostro paese (come soltanto Francia, Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Lituania in Europa) ha un trattato di estradizione direttamente con la Cina. È entrato in vigore nel dicembre del 2015 e da allora, secondo fonti del ministero della Giustizia, Pechino ha richiesto all’Italia una ventina di persone, e ne sono state consegnate solo tre o quattro che avevano compiuto reati finanziari. Certo l’estradizione in un paese autoritario non è facile: serve che il reato sia tale in entrambi i paesi (dunque è fatta salva la libertà d’espressione, per esempio) e che nel paese richiedente non sia punito dalla pena di morte. Non solo: quando la Cina, per esempio, emette un red notice, un avviso d’arresto sul database dell’Iterpol, e la persona ricercata viene fermata dalle Forze dell’ordine italiane, la prima cosa che si fa è capire se è un perseguitato politico o religioso, oppure se ha già fatto domanda di asilo. In quel caso il red notice viene ignorato. Per Pechino però si tratta soprattutto di rafforzare le relazioni bilaterali, come nel caso della cooperazione di polizia: l’Italia è tra i pochissimi paesi al mondo che periodicamente ospita pattuglie cinesi sul suo territorio (una cooperazione che invece è stata interrotta in Francia): non vanno in giro ad arrestare la gente, e si occupano soprattutto per i turisti cinesi in Italia, ma è uno tra i tanti motivi per cui i dissidenti cinesi difficilmente scelgono il nostro paese per vivere. Con Hong Kong, invece, l’Italia negozia già da qualche anno un trattato di estradizione a cui manca solo la ratifica (proprio come la Francia). E sembra che Forza Italia sia pronta a chiedere al governo di non ratificare quell’accordo, e forse anche di sospendere il trattato di estradizione con la Cina. Se ne è parlato, ha detto al Foglio Lucio Malan, senatore di Forza Italia e cochair dell’Inter-Parliamentary Alliance on China, ma non c’è stata ancora nessuna azione concreta. E invece nel Partito democratico al governo, secondo quanto risulta al Foglio, non c’è ancora stata alcuna discussione su questo argomento: il segretario Nicola Zingaretti, che non ha mai avuto un rapporto particolarmente stretto con i rappresentanti di Pechino sin dai tempi del suo incontro con il Dalai Lama, sarebbe pure aperto alla possibilità. Il problema è che una eventuale proposta del Parlamento di sospensione del trattato dovrebbe passare attraverso il parere della Farnesina, cioè il ministero italiano considerato più filo-cinese e dalla coppia Di Maio Di Stefano, il sottosegretario grillino che l’anno scorso andò a Hong Kong nel mezzo delle proteste senza parlare mai di autonomia. Entrambi sono preoccupatissimi di perdere la faccia con Pechino, gli altri invece sono preoccupati di eventuali ritorsioni cinesi contro l’Italia considerata amica di tutti, quindi di nessuno. Il Pd insiste sulle azioni contro la Cina a livello europeo, ma è chiaro che su questa materia sono i singoli paesi a dover decidere. Cent’anni di impunità (Politica e Giustizia in Sudamerica) di Livio Zanotti articolo21.org, 15 agosto 2020 L’ex presidente e senatore Alvaro Uribe, l’uomo più potente e più odiato della politica colombiana, è stato l’unico a mostrare sorpresa quando l’hanno arrestato nei giorni scorsi. Senatore, eletto due volte alla massima magistratura dello stato, godeva dell’aura di aver governato il paese nel decennio più fortunato per l’economia nazionale (e dell’intera America Latina), grazie al boom dei prezzi internazionali delle materie prime, su cui si fonda il suo export. Le voci sul coinvolgimento personale e di parte della famiglia nel terrorismo dei gruppi paramilitari sanguinosamente attivi negli anni tra la fine del Novecento e il primo decennio del Duemila, erano nondimeno da lungo tempo diffuse e insistenti. Per ascoltarle esemplificate in circostanze molteplici e determinate non prive di dettagli (nei trasferimenti dalla capitale all’allora provincia di residenza -Antioquia-, si raccontava che lasciasse la custodia ufficiale del DAS, il dipartimento di sicurezza dei servizi segreti, per affidarsi ai suoi paramilitari) era sufficiente trattenersi la sera nei caffè alla moda di Bogotà frequentati dalla sinistra mondana così come in certi ambienti di Medellin più che vicini all’estrema destra spesso legata al narcotraffico. Non mancano neppure ricostruzioni che vi fanno risalire la successiva fondazione del Centro Democratico, base politica e parlamentare dell’attuale presidente Ivan Duque, erede di Uribe e ora suo massimo difensore. Ma prima di lui, nessun capo di stato aveva subito l’affronto delle manette. Il problema è che l’establishment è lo Stato e lo Stato è l’establishment, commentava lucidamente già molti anni addietro il diplomatico, senatore e acuto osservatore Plinio Apuleio Mendoza, che pure ne era parte. La guerriglia delle FARC era ancora potentissima; il suo capo, Manuel Marulanda, detto Tiro Fijo per il fiuto politico oltre che per la precisione con cui maneggiava il fucile, un mito. La regola era: non fidarsi di nessuno. La pace con le FARC ha cambiato il clima, sebbe non quanto si sperava. La Corte Suprema ha quindi ritenuto che Uribe non potesse attendere in totale libertà il processo in cui è accusato di aver favorito l’attività e forse la nascita di un gruppo armato di mercenari al proprio servizio. Poiché potrebbe aver già comprato con lusinghe e minacce alcuni testimoni in un altro procedimento giudiziario. Quello che l’oppone a un senatore della sinistra in uno scambio di accuse di connivenza con la violenza organizzata che per decenni ha lacerato il paese, causando decine di migliaia di morti e 4 milioni di profughi (tra l’altro Uribe è chiamato in causa insieme a numerosi altri latifondisti anche per l’appropriazione indebita di terre e altri beni forzosamente abbandonati dai fuggiaschi). Nè i giudici della Suprema sembrano finora intimoriti dalla reazione dei partigiani di Uribe guidati dal presidente Duque, che minacciano una riforma della giustizia capace di circoscriverne le prerogative. Ritengono di aver garantito l’ex capo di stato permettendogli la detenzione domiciliaria nell’immensa residenza di Monteria, nei pressi della capitale cerealicola nel nord della Colombia caraibica. In cui certamente non gli verranno meno le possibilità di continuare a esercitare pienamente o in parte la propria influenza. Hanno spiegato il compromesso giustificandolo con i tempi giudiziari che si annunciano lunghi e dalle conclusioni incerte. Ciò che in uno sguardo allargato all’intero subcontinente, non impedisce di osservare come anche la giustizia colombiana appaia adesso aggiungersi al protagonismo che negli ultimi anni vede il potere giudiziario affrontare se non opporsi a quello politico. Beninteso, in situazioni concrete ben diverse tra loro: non c’è un solo dato, ancorché minimo, capace di sostenere un parallelo tra Uribe e Lula, tra la Suprema Corte di Bogotà e l’ex giudice di Curitiba ed ex ministro di Bolsonaro, Sergio Moro. Ma il protagonismo dei tribunali, comunque lo si voglia leggere, è indiscutibile. Più difficile, invece, dire oggi se rispetto ai populismi sudamericani (veri o presunti dalla superficialità eurocentrica) sia una manifestazione che con Weber richiama il sistema istituzionale colombiano più alla razionalità o più a un carisma alternativo. Èun fatto che la Corte indaga ancora sullo spionaggio illegale dell’esercito su esponenti dell’attuale governo di Duque e forse sullo stesso Presidente, riceve quotidianamente le denunce di violazioni dei diritti umani da parte dell’opposizione: ha cioè molte questioni di cui render conto all’opinione pubblica. Bielorussia. Sanzioni Ue contro responsabili di brogli e violenze Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2020 Rilasciati mille manifestanti: denunciati maltrattamenti in carcere. A cinque giorni dalle elezioni che hanno scatenato le proteste in tutto il Paese, si continua a manifestare contro il regime del presidente Lukashenko. Il portavoce del governo tedesco: “Per Berlino servono sanzioni verso chi è responsabile di violare i diritti umani”. La presidente della Commissione: “Dimostriamo forte sostegno per i diritti delle persone”. Al termine di un lungo vertice tra i ministri degli Esteri dell’Unione europea, si è arrivati a un accordo politico per imporre sanzioni contro i responsabili delle violenze nei confronti dei manifestanti e dei presunti brogli elettorali in Bielorussia. Lo riferiscono fonti diplomatiche europee precisando che ora sarà necessario mettere nero su bianco, attraverso il lavoro tecnico, la decisione politica dei capi delle diplomazie europee, mentre l’adozione formale avverrà nelle prossime settimane. Così Bruxelles si schiera contro la gestione delle elezioni e delle successive manifestazioni da parte delle autorità guidate dal presidente Aleksandr Lukashenko, riconfermato per il sesto mandato consecutivo a capo del Paese, che hanno portato a oltre 7mila arresti in soli cinque giorni di proteste. A niente è quindi servito l’annuncio del governo del rilascio di oltre mille manifestanti. La conferma era arrivata dalla presidente del Senato Natalya Kochanova che ha anche comunicato la richiesta del presidente dell’apertura di un’indagine “su tutti gli arresti”. Dopo le denunce di maltrattamenti, con ferite e lividi sul corpo, e quelle che circolano sui media locali e sui social riguardo alle condizioni nelle celle, con poco spazio e niente cibo, il ministro degli Interni, Yury Karayev, si è scusato con la popolazione sulla tv di Stato per l’arresto di cittadini innocenti. Secondo i media locali molte persone sono state portate subito in ospedale dopo il rilascio. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e la cancelliera tedesca Angela Merkel erano state le prime leader europee a schierarsi apertamente a favore delle sanzioni contro la Bielorussia. A cinque giorni dalle elezioni che hanno fatto infuriare il popolo bielorusso, si continua a protestare. Centinaia di persone, medici e gruppi di donne, hanno formato catene umane a Minsk in segno di protesta contro il sesto mandato di Lukashenko: con una scena che si era ripetuta già ieri, con lunghe marce per le strade della capitale. Inoltre a protestare hanno iniziato pure i militari: in alcuni video postati sui social si sono ripresi mentre buttavano nell’immondizia le divise. E alla rivolta si è aggiunta pure la classe operaia: i lavoratori della BelAZ di Zhodino, potente società specializzata nella produzione di mezzi pesanti utilizzati nel settore edile, hanno marciato in segno di protesta. La leader dell’opposizione che ha sfidato il presidente Lukashenko alle ultime elezioni continua a parlare alle masse dal suo esilio in Lituania, dove ha ripiegato dopo la contestata sconfitta elettorale: “Chiedo a tutti i sindaci delle città di agire come organizzatori di assemblee pacifiche di massa dal 15 al 16 agosto - ha detto Svetlana Tikhanovskaya nel suo ultimo videomessaggio - Abbiamo sempre detto che la nostra posizione dovrebbe essere sostenuta solo da metodi legali e non violenti, le autorità invece hanno trasformato le proteste pacifiche dei cittadini in uno spargimento di sangue”. La leader si è poi rivolta proprio alle autorità bielorusse chiedendo di fermare le violenze e “di avviare un dialogo”. E a questo obiettivo devono contribuire anche i Paesi europei, spiega l’ormai ex candidata alla presidenza che ha proposto di istituire un Consiglio di coordinamento per garantire il passaggio di potere in Bielorussia: “Dati gli eventi che si stanno verificando nel Paese e la necessità di adottare misure urgenti per ripristinare lo stato di diritto in Bielorussia, io, Svetlana Tikhanovskaya, sto avviando l’istituzione di un Consiglio di coordinamento per garantire la transizione del potere”, ha detto in una dichiarazione citata da Interfax in cui chiede appunto ai Paesi europei di mediare affinché si apra un dialogo con le autorità bielorusse. Da parte sua, il governo ha fatto sapere di essere pronto per colloqui “costruttivi e obiettivi” con l’estero sulle sue controverse elezioni presidenziali e sui disordini post-voto. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Vladimir Makei, in una conversazione telefonica con la controparte svizzera, Ignazio Cassis. Intanto la Germania, presidente di turno dell’Unione europea, già giovedì ha convocato d’urgenza l’ambasciatore bielorusso per esprimere disapprovazione. Oggi il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert in conferenza stampa ha fatto sapere che Berlino sostiene le sanzioni alla Bielorussia: “Da parte nostra ci devono essere sanzioni verso chi è responsabile di violare i diritti umani”, ha detto Seibert. “Il governo tedesco sta dalla parte di tutti coloro che manifestano pacificamente le loro volontà perché è loro diritto in una democrazia”, ha aggiunto. A nome della cancelliera Merkel, Seibert ha spiegato che “la violenza brutale contro dimostranti pacifici e soprattutto la carcerazione dei manifestanti” in Bielorussia non è accettabile. La cancelliera “è scossa dalle notizie dei maltrattamenti dei manifestanti imprigionati”, ha aggiunto. Parole altrettanto dure in un tweet di Ursula von der Leyen: “Occorrono ulteriori sanzioni contro coloro che hanno violato i valori democratici o abusato dei diritti umani in Bielorussia. Sono fiduciosa che la discussione di oggi dei ministri degli Esteri dell’Ue dimostrerà il nostro forte sostegno per i diritti delle persone in Bielorussia, per i diritti fondamentali e per la democrazia”. Bielorussia, torture nel carcere degli orrori: le storie raccapriccianti di Giuseppe Agliastro La Stampa, 15 agosto 2020 Botte, privazione del sonno, mancanza di acqua e cibo. Poi urla, minacce di ogni tipo, compreso per le ragazze (l’immancabile) stupro ‘punitivo’. In una parola: torture. Il quadro che emerge in Bielorussia, man mano che i primi fermati nel corso delle proteste vengono rilasciati per scadenza dei termini, è pesantissimo. Le violenze sono documentate in modo inequivocabile. Dal centro per i diritti umani Viasna, dai media indipendenti come Tut.by e Meduza, dal canale Telegram dell’opposizione Nexta e da singoli testimoni oculari sui social. Accuse rilanciate da Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale. “I centri di detenzione sono diventati camere di tortura, dove i manifestanti sono costretti a giacere per terra mentre la polizia li prende a calci e li picchia con i manganelli” ha denunciato Struthers. Uno, in particolare, il Centro di Isolamento di via Akrestsin a Minsk, è diventata la prigione degli orrori. È qui che sono state inviate la maggior parte delle 6.700 persone fermate nel corso degli scontri. Ed è qui che alle 22.30 del 13 agosto i primi liberati hanno iniziato rivelare la dimensione della loro ordalia. “Mi hanno picchiata, umiliata, mi hanno tolto le mutandine, mi hanno detto che mi avrebbero violentata e che nemmeno mia madre mi avrebbe riconosciuta alla fine del trattamento...” racconta una ragazza in lacrime, scossa fino allo spasmo. La sua testimonianza circola su Twitter insieme a tante altre. Chi è lì, in via Akrestsin, descrive scene inimmaginabili, giovani sotto shock che piangono senza riuscire a parlare, feriti che zoppicano. Alcuni escono dalla prigione solo per essere caricati sulle ambulanze e portati direttamente in ospedale. In altri video si sentono distintamente urla e pianti provenire dalle prigioni avviluppate nell’oscurità. Perché le torture non avvengono solo a Minsk. Ma ovunque siano stati portati i manifestanti dopo che il sistema penitenziario è stato travolto dai numeri. Tanto che persino capire dove siano stati richiusi parenti e amici diventa arduo. “Dove si trovano le persone detenute è una bella domanda: noi stessi non sappiamo esattamente dove vengono portate” dice Valentin Stefanovich, attivista per i diritti umani di Viasna, a Meduza. “Nel centro di via Akrestsin, come sappiamo dalle persone che sono già state rilasciate, ci sono 30, 40, 50 e anche 60 persone in celle progettate per quattro o otto persone” ha detto Valdis Fugash, rappresentate di Human Constanta, un’altra ong attiva in Bielorussia. La ricerca dei propri cari passa allora per le chat Telegram, nel caos più totale e nella reticenza delle autorità. Tanto la situazione è sfuggita di mano che il ministro dell’Interno Yury Karayev è apparso in tv per gettare acqua sul fuoco. “Mi scuso per le ferite riportate dalle persone che durante le proteste che si sono trovate in mezzo” ha detto. Difficile che basti. Stati Uniti. Libertà per Chico Forti di Luigi Manconi L’Espresso, 15 agosto 2020 La prima volta in cui Enrico “Chico” Forti appare sul grande schermo è nel 1990. Mike Bongiorno lo accoglie con cordialità nel suo Telemike, colpito dalla memoria pronta di questo giovane trentenne. Ex campione di windsurf, poi videomaker e produttore televisivo, senza apparente difficoltà vince il premio di 80 milioni di lire e lascia Trento per gli Stati Uniti. Ma Mike Bongiorno non avrebbe certo immaginato che la storia pubblica di Forti dovesse ancora iniziare. A vedere le immagini della sua vita prima della condanna all’ergastolo negli Stati Uniti viene da pensare al Grande Gatsby: “Uno di quei rari sorrisi dotati di eterna rassicurazione, che s’incontrano quattro o cinque volte nella vita. Fronteggiava - o sembrava fronteggiare - l’intero mondo esteriore per un istante, e poi si concentrava su di te con un irresistibile pregiudizio a tuo favore”. (Francis Scott Key Fitzgerald). Nel 1998 Chico Forti vive agiatamente a Miami da quasi dieci anni, sposato e con tre figli, lavora come produttore e intermediario immobiliare. Proprio quest’ultima attività lo porterà a conoscere Anthony Pike, proprietario di un hotel di lusso a Ibiza, in via di fallimento. Tra i due si apre una trattativa, l’italiano intende rilevare l’immobile. Pyke chiede a Forti di pagargli il biglietto, per sé e per il figlio, dalla Malesia a Miami, così da poter firmare le ultime carte. A partire sarà però solo Dyle, il figlio. Forti lo andrà a prendere all’aeroporto e, da qui in avanti le rispettive versioni (di Forti e dei suoi accusatori) si contraddicono. È il 16 febbraio del 1998 quando il corpo senza vita di Dyle Pike viene ritrovato tra le sterpaglie di un bosco. L’arma del delitto, una pistola calibro 22, non verrà mai recuperata. Forti sostiene di aver appreso l’accaduto solo tre giorni dopo e decide di recarsi al commissariato di polizia per offrire la propria testimonianza. I poliziotti lo ascoltano, già sospettandolo come principale indiziato: il movente sembra chiaro da subito. Forti avrebbe inteso truffare il padre che, secondo l’accusa, non sarebbe stato più in grado di intendere e di volere. Da qui uno scontro col figlio, che avrebbe avuto la peggio. Mentre per il diritto penale italiano, durante l’interrogatorio “è vietato utilizzare metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti” dell’indiziato, negli Stati Uniti la possibilità di mentire, da parte delle forze di polizia, non è esclusa. Per l’ex capo della sezione omicidi di New York “l’utilizzo di false notizie per incastrare un presunto colpevole in 60 L’Espresso 15 agosto 2020 America è routine”. E, infatti, a Forti verrà fornita una falsa informazione, per la quale, a essere uccisi, sarebbero stati i entrambi i Pyke. Dopo 22 ore di interrogatorio senza avvocato, Chico Forti viene preso dal panico e pronuncerà quell’affermazione falsa che, presumibilmente, determinerà la sua condanna: nega di aver mai incontrato Dyle. Il tutto avviene senza che gli investigatori gli leggano “I diritti Miranda”, ossia le prerogative a tutela del sospettato prima che gli venga posta qualsiasi tipo di domanda. Nonostante questo, il giorno seguente Forti, a mente fredda, torna al posto di polizia e ammette di aver incontrato il figlio di Anthony all’aeroporto. Oltre al presunto movente e alla bugia su Dyle, tre mesi dopo le indagini i detective troveranno nell’auto di Forti, peraltro già controllata due volte, “qualche granello” di sabbia che, secondo alcuni periti, proverrebbe dallo stesso luogo dove venne trovato il cadavere. La vicenda giudiziaria di Forti si chiuderà con un processo della durata di 24 giorni, una giuria incerta che “pur di concludere” (dirà poi una delle giurate) decide per la condanna. Il 15 giugno del 2000 il presidente della giuria pronuncerà la sentenza: “La Corte non ha le prove che lei signor Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. La condanno all’ergastolo senza condizionale”. Da venti anni Chico Forti è detenuto negli Stati Uniti. Oggi si trova nel carcere di massima sicurezza vicino a Miami, il Dade Correctional Institution di Florida City. Tra i primi in Italia, oltre a parenti e amici, a denunciare la violazione dei diritti di Enrico Forti fu il magistrato Ferdinando Imposimato. È stato lui, infatti, nel 2012, a presentare un report al ministero degli Affari esteri che conteneva le motivazioni per la richiesta di revisione ed elencava le incongruenze del processo e le violazioni messe in atto dalle autorità americane. A partire dai primi due interrogatori che non vennero registrati, ma che, solo cinque mesi dopo, furono trascritti “sulla base dei ricordi” dei poliziotti. Il fermo di Forti, inoltre, avvenne in violazione dell’accordo di Vienna, segnalava Imposimato, poiché le autorità consolari italiane non vennero mai avvisate: come conferma un documento di scuse per “l’involontaria” omissione, recapitato dalla polizia al nostro consolato. A essere ignorata è stata anche la regola chiamata “Double Jeopardy” per la quale, se un imputato è stato assolto da un’accusa in un precedente processo (truffa), la stessa accusa non può essere usata come materia in un altro giudizio. Brasile. Il Dipartimento penitenziario autorizza visite virtuali nelle prigioni federali agenzianova.com, 15 agosto 2020 Il Dipartimento penitenziario nazionale del Brasile (Depen) ha autorizzato la realizzazione di visite virtuali per i detenuti nelle carceri federali del paese. La misura è stata disposta per garantire il diritto dei detenuti a incontrare i propri congiunti e per contenere la diffusione del coronavirus negli istituti penitenziari del Brasile. La decisione, presa in accordo con l’Ufficio del difensore pubblico federale, è stata pubblicata sull’edizione odierna della Gazzetta ufficiale. Il documento stabilisce anche le regole per i colloqui tra i difensori e i propri legali che saranno limitate a quattro finestre giornaliere di 30 minuti ciascuna, salvo casi urgenti. Alle amministrazioni dei penitenziari viene richiesto di aumentare la frequenza di pulizia dei luoghi destinati agli incontri. L’ordinanza stabilisce inoltre che i penitenziari debbano adottare le misure necessarie per promuovere il massimo isolamento dei detenuti di età superiore ai 60 anni o con malattie croniche, soprattutto nei movimenti interni agli istituti. In tutto, il Depen gestisce cinque carceri federali: Catanduvas, nello stato di Paraná, Campo Grande, in Mato Grosso do Sul, Porto Velho, in Rondonia, Mossoró, nel Rio Grande do Norte e Brasilia, nel Distretto Federale. Adesso in Libano a esplodere è il debito di Matteo Bortolon Il Manifesto, 15 agosto 2020 Il Libano è in fiamme da mesi. L’esplosione del 4 agosto si concretizzerà come il propellente per una rivolta sociale ancora più incontrollabile? Le immagini impressionanti della deflagrazione a Beirut hanno dato una impressione plastica di quella che senza dubbio è una catastrofe orribile: non solo per i morti ed i feriti, ma per i problemi che si prefigurano nella distruzione di buona parte della città, lasciando centinaia di migliaia di persone senza casa e saturando rapidamente le strutture sanitarie. In un paese in cui, nel generale disinteresse, da mesi bolliva un fremito di ribellione che il Libano non vedeva da molti anni per via di problemi economici e sociali. Dal 17 ottobre 2019 una fiumana di manifestanti ha iniziato a mobilitarsi insistentemente per cacciare tutti i partiti ed il governo in carica. Il contesto successivo al periodo di guerra civile, un quindicennio (1975-90) da cui è emerso un paese rigidamente definito dalla segmentazione etnico-confessionale (sunniti, sciiti, drusi, cristiani…) sul piano politico, vede una economia orientata alla priorità di servizi, banche e turismo e immobiliare, con settori agricolo e manifatturiero estremamente deboli. Se il PIL da una crescita di oltre il 10% di dieci anni fa è crollato vicino allo zero, il paese deve importare massicciamente dall’estero: il saldo fra esportazioni e import non solo è negativo da molti anni, ma supera il 25% del Pil, mentre il deficit del bilancio statale (saldo entrate e uscite) si attesta su dieci punti. Una situazione catastrofica; c’è da stupirsi della impennata della disoccupazione balzata oltre il 40%? Il Libano si piazza al 4° posto nella graduatoria mondiale delle peggiori forniture di elettricità, collocazione plasticamente confermata da reportage che testimoniano ore ed ore di black-out giornaliero, spengendo i semafori e lasciando gli ospedali a secco, obbligando a ritardare interventi operatori se non a chiudere interi settori delle strutture. Negli ultimi anni l’arrivo dei profughi siriani (ben sopra il milione in un paese di soli 6 mln!) hanno messo a durissima prova la tenuta del paese. L’oligarchia libanese al potere ha deciso di imprimere una svolta sostanziale con la dollarizzazione della valuta, congelata in cambi fissi in misura molto superiore ad altri paesi che declinano in maniera meno rigorosa la parità del cambio. L’aggancio ad una valuta forte è il biglietto da visita dell’inserimento dell’economia nazionale nel contesto finanziario globale, favorendo i capitali esteri che possono lucrare sui tassi di interesse senza timori di svalutazioni e ben accolta dai capitali domestici (per poter prendere a prestito a tassi che non incorporino il rischio-cambio). Ciò se da un lato ha danneggiato i settori produttivi del paese portandolo al mostruoso deficit commerciale già menzionato, ha permesso uno sviluppo abnorme dei servizi bancari: 142 istituti, secondo la Commissione governativa, con attività finanziarie pari a quattro volte il Pil dell’intero paese. Per nutrire tale livello di effervescenza la Banca Centrale non solo ha lottato con le unghie e coi denti per tenere il cambio fisso della lira libanese col dollaro (stabilita nel 1997) ma ha garantito altissimi livelli di remunerazione del capitale grazie… ai nuovi depositi. Diversi analisi parlano di uno schema Ponzi favorito dall’attuale governatore dell’istituto. Maggiori profitti, più incertezza e instabilità: questa ferrea regolarità dell’economia finanziarizzata trova una ulteriore conferma; con la guerra in Siria e una minor dinamica della finanza internazionale il sistema ha iniziato a vacillare, sboccando in un debito pubblico alto (152% sul Pil, ma altre stime sono più alte di anche venti punti!) e nell’annuncio per bocca del Primo Ministro il 9 marzo che il Libano non riuscirà a pagare la obbligazione in scadenza di 1,2 mld di dollari. Come finirà? Nel Libano in fiamme Hezbollah comanda con scuole e ospedali di Vincenzo Nigro La Repubblica, 15 agosto 2020 Le debolezze del governo di Beirut lasciano campo libero ai gruppi settari. Gli sciiti sostenuti dall’Iran hanno la loro macchina del consenso. Reportage. Lo Stato di Hezbollah finisce qui, nel Sud del Libano, nel territorio di questo piccolo comune sciita. Lungo le dolci colline pietrose che scivolano verso la stradina di terra e i reticolati in basso. Quella stradina è il confine di Israele. Le serre e i campi dal disegno elegante, coltivati con ordine e dedizione dagli agricoltori israeliani di Avivim. Sul cucuzzolo di questa collina di 911 metri c’è il “parco dell’Iran”, un’area celebrativa finanziata da Teheran per ricordare le guerre contro Israele. Da qualche parte, tutto intorno, ci saranno i sensori di rilevamento e magari anche le armi pronte ad essere utilizzate in una nuova guerra con Israele. Così come a distanza si vedono le postazioni e le torri di comunicazione dell’esercito israeliano. Da questa parte del confine, quella di Hezbollah, non ci sono però soltanto armi e miliziani armati. C’è un’organizzazione classificata terroristica da Stati Uniti e da molti altri governi, che parallelamente offre mille servizi ai suoi cittadini: il governo dei comuni, la sanità, la polizia, i vigili del fuoco. Il primo segnale è la sanità. A Bint Jbail, il capoluogo della contea, 14 mila cittadini e due ospedali: quello dello Stato libanese, e quello della “El Haya Sohia Islamyia”, l’Organizzazione sanitaria islamica, la Ong medica di Hezbollah. L’ospedale è dedicato a “Salah Ghandour”, c’è il suo ritratto all’esterno: era un miliziano di Hezbollah che si fece esplodere contro un gruppo di soldati israeliani. Un “martire” come li chiamano loro. Mohammed Suleiman, 50 anni è il direttore dell’ospedale: ha studiato a Mosca per 20 anni, da 12 mesi è il coordinatore. “Il nostro impegno principale? Lo vede da solo, come in tutto il Libano in questi mesi è stato il Coronavirus, siamo diventati un centro di coordinamento per la provincia, abbiamo creato un primo centro di cura per i contagiati, fuori dall’ospedale per non contaminare nessuno, e se serve siamo pronti ad aprirne altri 2”. Nell’ospedale di Hezbollah ci sono 2 sale operatorie, 42 letti, 3 di terapia intensiva. Ci lavorano a rotazione 90 medici, molti arrivano da Beirut: quasi tutti volontari, lavorano nel Sud come secondo impegno dopo quello nella capitale. L’orgoglio dell’ospedale di Hezbollah è la macchina per la coronarografia e la sala operatoria per l’emodinamica, gestita dal dottor Hassan Skafi, il cardio-chirurgo: è l’unico centro in tutto il Sud, non c’è nulla del genere negli ospedali pubblici, con le offerte dei libanesi e i fondi degli iraniani, Hezbollah mantiene alto il suo livello di popolarità. Arrivando da Beirut, attraversando Tiro e Sidone e le campagne rigogliose (in Libano coltivano anche banane, i campi sono di un verde smeraldo fiammeggiante), abbiamo visto ovunque due segnali: le bandiere gialle, i poster con i volti dei “martiri” di Hezbollah. E quelle verdi di Amal, l’altro movimento sciita, le foto del loro leader storico Nabih Berri, da 30 anni presidente del parlamento. Sono moltissime, insospettabile che Amal sia ancora così presente fra la popolazione. Ma uno scita che ci accompagna ammette chiaramente: “Con gli ospedali, con le scuole, con l’assistenza che fa anche grazie ai soldi che arrivano dall’Iran, Hezbollah sta mettendo da parte Amal, molto di più che con il suo stesso esercito e con la milizia”. Alla periferia di Beirut, nella sterminata area di Dahie, c’è un altro esempio dello “Stato” di Hezbollah. Questa è l’area bombardata con forza nel 2006 dagli israeliani perché nasconde i centri di comando militari di Hezbollah. Dahie è composta da 4 municipi: Gobeyri, Hadat, Hret Hreik e Borj al Barajneh. In quest’area immensa c’è di tutto, dall’aeroporto, ai campi profughi palestinesi di Chatila e di Borj. Hezbollah è in controllo totale, con Amal che fa da partito-ancella. Il sindaco di Gobeyri si chiama Maan Mounri Khalial, 49 anni, laureato in informatica, eletto all’unanimità dal consiglio comunale di 21 consiglieri in cui Hezbollah ha la maggioranza assoluta. “Il 4 agosto quella enorme bomba al porto era tanto forte da sembrare molto più vicina. I pompieri hanno mandato subito delle motociclette per capire cosa fosse successo, e hanno scoperto che il disastro era al porto. Dalle 4 del mattino con 115 impiegati del comune eravamo tutti lì, abbiamo lavorato su turni fino al giorno 11 e adesso stiamo tentando di riprendere il lavoro bloccato qui da noi”. Hezbollah è un partito molto polarizzato nella vita politica libanese, per non parlare dello scontro con Israele: come governa un sindaco del gruppo? “I consiglieri con cui lavoro sono sostanzialmente espressione delle famiglie della città. Sono espressione di una comunità di 250 mila persone che chiede di essere amministrata, che chiede servizi. Io faccio questo, lavoro al meglio per i miei cittadini: il traffico, la polizia urbana, le strade da asfaltare, i campi profughi dei rifugiati palestinesi e anche siriani, i depuratori che non ci sono… non faccio politica a livello globale, amministro”. Un altro che “non fa politica” ma spegne incendi è Hussein Karim, 47 anni, il capo dei vigili del fuoco di tutta Dahie, naturalmente i pompieri di Hezbollah, perché ci sono anche quelli dello Stato libanese, molto più inefficienti. “Ho studiato da elettricista, poi da 27 anni sono diventato pompiere: con l’assenza dello Stato in questa parte della città abbiamo dovuto fare di tutto. Corsi di istruzione e aggiornamento, con istruttori da Francia e Gran Bretagna. Abbiamo comprato tutti i nostri camion dalla Iveco: il loro general manager per il Medio Oriente ha detto che l’allestimento che abbiamo chiesto è uno dei più razionali ed efficienti nella regione. Il 4 agosto? Siamo accorsi in forze: abbiamo mandato prima 2 motociclette-staffetta, lo facciamo sempre per capire dove sono gli incendi o magari le autobombe come quelle che faceva esplodere l’Isis”. Sulla fiancata dei camion rosso-Ferrari c’è stilizzato il simbolo dei pompieri di Hezbollah. I pompieri, i medici, i sindaci di uno Stato che continua a crescere dentro lo stato libanese.