Torniamo alla legalità: aboliamo il 41bis di Andrea Pugiotto Il Riformista, 14 agosto 2020 Inumano, degradante, illegale, il carcere duro va abolito. Breve guida ragionata a un monstrum giuridico. Il 41bis non è più una norma giuridica, ma uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi - per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole - non lo sarebbe abbastanza. Ma la verità è che parliamo di una norma costituzionalmente borderline. Che nasce con la data di scadenza: 8 agosto 1995, e di proroga in proroga, nata con l’urgenza del decreto, si incunea in pianta stabile nelle istituzioni nonostante la sua origine emergenziale. Una norma duramente contestata più volte dalla Cedu, in quanto viola il divieto di trattamenti inumani e degradanti. 1. Nei giorni scorsi Sergio D’Elia e Luigi Manconi, su questo giornale, hanno parlato criticamente del regime detentivo speciale previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario. Entrambi se ne intendono: D’Elia è coautore del primo pionieristico libro sull’effettività del cosiddetto carcere duro (Tortura democratica. Inchiesta su “la comunità del 41bis reale”, Marsilio, 2002); Manconi, da presidente di Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, ha firmato nella scorsa legislatura una relazione che documenta lo iato tra apparenza e sostanza normativa del 41bis. Il diritto alla conoscenza sulle situazioni in cui è in gioco la libertà personale, e dunque l’habeas corpus di cui già si preoccupava nel 1215 la Magna Charta libertatum, è interesse di tutti: “carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà”, per dirla con Adriano Sofri. Eppure, ciò sembra non valere per il regime speciale del 41bis. Finanche la legge delega n. 103 del 2017, promossa dall’allora guardasigilli Orlando, disegnava un complessivo e ambizioso progetto di riforma dell’intero ordinamento penitenziario, “fermo restando quanto previsto dall’art. 41bis”. Hic sunt leones, come si tracciava sulle mappe a indicare territori incogniti. Perché questa assenza di contraddittorio? 2. La risposta è nelle molteplici dimensioni in cui è stato collocato il 41bis, rendendolo inattingibile a una discussione razionale che, per essere tale, presuppone due condizioni parimenti essenziali: la disponibilità all’ascolto delle ragioni altrui e la possibilità di un mutamento delle proprie. Quello sul 41bis è invece un dialogo tra sordi, innanzitutto in ragione della sua dimensione simbolica. Non è più una norma giuridica, ma uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi - per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole - non lo sarebbe abbastanza. Come ha scritto Nicolò Amato (I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro, Armando editore, 2012), in tutto ciò “vi è una sorta di implicita intimidazione: “Stai bene attento a come scegli”, il riflesso notturno di un sabba di streghe e demoni. Chi non è amico, è nemico. Chi non è con me, è contro di me”. Anche Amato sa di cosa parla: da capo del Dap nel decennio 1983-1993, ha visto la genesi del 41bis e l’inasprimento dei regimi speciali tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Quando però una norma si eleva a simbolo, a lume votivo, svela la propria natura costituzionalmente borderline. Mi è già accaduto di dirlo, ma ripetere giova. Il simbolico e il diritto abitano mondi diversi: emotivo e irrazionale il primo, perché agìto da pulsioni profonde; ragionevole il secondo, perché frutto di scelte misurate e predeterminate. Non è un caso se, diversamente dagli stati autoritari, lo Stato di diritto è molto cauto nel plasmare norme emblematiche, escludendole categoricamente in materia di reati e sanzioni. Un diritto penale liberale, infatti, persegue reati, non fenomeni criminali. Accerta responsabilità individuali, non collettive. Punisce persone, non gruppi. Sanziona secondo proporzione, non in misura esemplare. Diversamente, muterebbe in un diritto penale del nemico finalizzato al suo annientamento, secondo una logica bellica extra ordinem, perché il diritto serve a domare la violenza, non a scatenarla. 3. Il 41bis abita inoltre una rivelatrice dimensione semantica. In gergo lo si chiama con il nome di “carcere duro”. È una locuzione ingannevole. Lascia intendere che il nostro ordinamento preveda una pena ulteriore e di specie diversa, più afflittiva delle altre, riservata a colpevoli dalla mostruosa biografia personale, dunque da neutralizzare e punire attraverso un regime detentivo caratterizzato da un surplus di severità. Non è questo, invece, ciò che dichiaratamente prescrive l’art. 41bis. La sua rubrica (“situazioni di emergenza”), i suoi presupposti (“gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”), la sua adozione (“con decreto motivato del ministro della Giustizia, anche su richiesta del ministro dell’Interno”), ne disegnano uno statuto incompatibile con quello di una sanzione penale. Le pene, infatti, sono predeterminate per legge, non nascono provvisorie, vanno inflitte da un potere giurisdizionale autonomo e indipendente da quello esecutivo. Inoltre, applicandosi in base al reato, il 41bis riguarda (anche) semplici imputati, mentre una pena punisce un colpevole condannato al termine di un giusto processo. Di più. Ciò che tale norma consente è esclusivamente “la facoltà di sospendere, in tutto o in parte”, e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di “impedire i collegamenti” tra il dentro e il fuori. Lo scopo dichiarato, dunque, non è punire in modo esemplare, ma evitare che anche dal carcere i capi cosca possano impartire direttive al proprio sodalizio criminale. Ogni altra diversa finalità rende illegittima la misura applicata con provvedimento ministeriale, perché “puramente afflittiva” (così la sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale). 4. Gravato da tutta questa eccedenza simbolica e semantica, il 41bis ha finito inevitabilmente per affrancarsi dalla sua primigenia dimensione emergenziale. Il cosiddetto carcere duro nasce, infatti, a cavallo di due emergenze: quella terroristica al tramonto, e quella in atto dello stragismo mafioso. Emergenziale è il vettore normativo che lo introduce, il decreto legge n. 306 del 1992. E poiché - come insegna la Corte costituzionale - “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea” (sent. n. 15/1982), il 41bis nasce con la data di scadenza: 8 agosto 1995, prorogata con altri decreti legge al 31 dicembre 1999, poi al 31 dicembre 2002, infine stabilizzato con legge n. 279 del 2002 (e successivamente inasprito con il cosiddetto pacchetto sicurezza Maroni del 2009). Da allora, l’ordinamento incapsula un doppio binario, giustificato dall’ossimoro di un’emergenza quotidiana sempre più inclusiva. Lo scambio scatta in presenza dell’imputazione o della condanna per reati dal particolare allarme sociale (catalogati nel sempre più lungo e cangiante art. 4bis), indirizzando il ristretto verso regimi investigativi, probatori, processuali, detentivi, sanzionatori, governati secondo regole speciali. Nel tempo, dunque, l’ordinamento si è assuefatto a un corpo prima estraneo, poi penetrato sottopelle, infine metabolizzato. Eppure tutto ciò pare non costituire un problema. Anzi, la stabilizzazione del 41bis è stata salutata con favore, perché la definitività crea certezza del diritto, preferibile a un’anomala precarietà normativa. La sua natura di norma dichiarativa e non impositiva assolverebbe il 41bis da ogni censura di legittimità, da rivolgere semmai ai singoli provvedimenti ministeriali applicativi, dei quali andrebbero misurate la congruità allo scopo, la proporzionalità, l’osservanza al divieto di trattamenti inumani. Curiosa argomentazione. Equivale a dire che - per assurdo - non sarebbe un problema (costituzionale) la previsione, a regime, della pena capitale o della tortura di Stato, ma solo la loro concreta inflazione caso per caso. 5. Si spiega così la dimensione apparentemente micro-conflittuale del 41bis. Derubricatane l’esistenza a falso problema, la giurisprudenza costituzionale si concentra oramai su suoi singoli e specifici ambiti di applicazione: il numero di colloqui con il proprio difensore (sent. n. 143/2013), il divieto di ricevere libri e riviste (sent. n. 122/2017) o di cuocere cibi in cella (sent. n. 186/2018) o di scambiarsi tra detenuti zucchero, caffè, saponetta e detersivo (sent. n. 97/2020). A breve, la Corte dovrà scrutinare le modalità dei colloqui tra i figli minorenni e il padre in regime detentivo speciale. È una microconflittualità alimentata da una pervasiva normazione sublegislativa, che - con la circolare Dap del 2 ottobre 2017 - si spinge a stabilire, ad esempio, le dimensioni dell’unica pentola (25 cm) e dell’unico pentolino (22 cm) in lega di acciaio leggero, il numero (non più di 30) e la misura (20x30 cm) delle fotografie consentite in cella, la quantità di matite colorate (non superiore a 12) nella disponibilità del ristretto in 41bis. Inviterei a non sottovalutare tale contenzioso. E non solo perché - come osservano inequivocabilmente i giudici costituzionali - in gioco sono “quei piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso” (sent. n. 97/2020). Guardata in campo lungo, quella microconflittualità rivela uno stillicidio di misure che, nel loro insieme, dettano il ritmo e il respiro di una detenzione quotidiana perennemente a rischio di tradursi in un trattamento contrario alla dignità umana, che con la persona fa tutt’uno. Questo raccontano le testimonianze di chi, in 41bis, ha trascorso o ancora trascorre lustri e talvolta decenni della propria vita. Questa è la preoccupazione che attraversa i report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, all’esito delle loro attività ispettive. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, più volte ha commisurato le applicazioni del 41bis al divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu), e non sempre l’Italia ne è uscita assolta, perché quel divieto è generale e assoluto, inderogabile anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). 6. Forse è l’ora di guardare alla luna (l’art. 41bis) e non alla punta del dito che la indica (la singola misura applicativa del 41bis). Forse va ripensata una giurisprudenza costituzionale dall’evidente vocazione ortopedica. Due soli esempi, a futura memoria. La Corte europea dei diritti valorizza il fattore-tempo come misura del grado di afflittività dei regimi detentivi speciali. Ebbene - ai sensi dell’art. 41bis - il carcere duro “ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni”, potenzialmente sine die, anche perché “il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente” per revocare o alleggerire le limitazioni imposte. Davvero ciò non viola l’art. 117, 1° comma, della Costituzione, che esige il rispetto dei nostri obblighi internazionali pattizi? La Corte costituzionale ora riconosce natura materialmente penale a tutte quelle misure penitenziarie idonee a trasformare la natura della pena e ad incidere concretamente sulla libertà personale (sent. n. 32/2020). Alla stregua di ciò, il 41bis va assunto per quel che concretamente è: una “pena accessoria speciale, a carattere discrezionale, da eseguirsi durante l’esecuzione della pena principale” (Angela Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffré, 2016). Attratta così nell’orbita del diritto penale sostanziale, ne dovrà rispettare tutte le garanzie costituzionali: riserva assoluta di legge, riserva di giurisdizione, irretroattività delle sue modifiche in peius, proporzionalità, funzione rieducativa della detenzione. Davvero il carcere duro sta dentro questo rigoroso perimetro? 7. A tali interrogativi la risposta più comune è un’alzata di spalle, facilmente traducibile: a mali estremi, estremi rimedi. E se circa 800 detenuti per reati efferati sono sottoposti al carcere duro, poco male: se lo sono meritati. Ricordo una vignetta di Altan, a rappresentare il dialogo tra un mafioso e il piccolo dodicenne Di Matteo (rapito perché figlio di un pentito, poi strangolato e infine sciolto nell’acido). Dice il primo: “Il carcere duro è inumano”. Risponde il secondo: “Vuoi fare cambio?”. È una tesi largamente diffusa e di facilissimo consenso. Non può però essere la tesi di uno Stato di diritto, dove la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo quella conforme a Costituzione. Rivolte, pestaggi e “infedeltà”: il vaso di pandora della sicurezza di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 14 agosto 2020 Un panorama sconfortante, anche per chi continui a credere nei principi di law and order. Soltanto all’esito dei procedimenti giudiziari e disciplinari sapremo, forse, cosa per davvero sia accaduto nella Caserma dei Carabinieri “Levante” di Piacenza, idem per quanto verificatosi presso le celle delle carceri Lorusso - Cotugno di Torino; si tratta di vicende opache che, verosimilmente, inquietano anche quanti se ne stanno occupando. Il lockdown trascorso, tra l’altro, non ha contribuito ad accrescerne il sentiment positivo; le immagini virali di operazioni muscolari, rimbalzate sulla rete, verso cittadini, anche giovanissimi, oppure verso signore di mezza età, che chiacchieravano su una panchina, o su adulti che si giustificavano goffamente asserendo di essersi allontanati dai luoghi di residenza per acquistare le sigarette o per la i ricorrenti slogan della comunicazione istituzionale, che celebravano il poliziotto di quartiere e la vicinanza delle forze dell’ordine ai cittadini. Il distanziamento sociale di fatto ha colpito cittadini ed istituzioni, determinando scomposte ma anche spiegabili reazioni: le proteste dei familiari dei detenuti fuori le carceri e di questi ultimi che salivano sui tetti perché temevano di fare la fine dei topi in gabbia, poi però sarebbero stati imitati dagli agenti di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, anch’essi saliti sui tetti per manifestare la loro rabbia per come l’A.G. li avesse trattati per episodi di violenza che sarebbero avvenuti nei confronti di persone sottoposte alla loro custodia. Nel mentre le procure indagavano sulle rivolte esplose nei già malconci istituti penitenziari e sulla morte di numerosi prigionieri; nel frattempo prendeva corpo la vicenda del giudice Palamara e di quei cluster di più o meno togati che, nel mercato delle grida giudiziarie, pare lanciassero le loro OPA, da opache, succedanee del non più aggiornato “Manuale Cencelli”, per gli uffici direttivi più appetibili e gli incarichi fuori ruolo. Insomma, un panorama sconfortante, anche per chi continui a credere nei principi di Law and order. Ma torniamo a Piacenza e alle sue storie, pur sperando di sentir dire che è stato tutto un abbaglio e non un metodo consolidato, seppure in quello specifico contesto territoriale, di governare la sicurezza, gettando prede innocenti tra la fauci del facocero della giustizia approssimativa, quella che immagino alimentarsi di statistiche anzitutto. Quante persone, ed in relazione a quali periodi di tempo, sarebbero state private della libertà personale sulla scorta di infedeli relazioni di servizio? Gli atti seguivano, come sarebbe d’attendersi, un regolare iter gerarchico-funzionale, passando sotto lo sguardo esperito, prudente, qualificato dei diretti superiori dei militari indagati, i quali, pur non apportando alcuna modifica, avevano però la possibilità di accompagnarli con le più pertinenti osservazioni, per agevolare il lavoro di comprensione da parte dei magistrati, in ossequio al principio della leale e doverosa collaborazione verso l’autorità giudiziaria? Quanti degli arresti in questione sono stati convalidati dalle autorità giudiziarie e per quanti indagati è stata disposta la custodia cautelare in carcere? Quanti, arrestati, ponendo in essere atti autolesionistici, perché protestavano la loro innocenza hanno tentato il suicidio e con quali esiti refertati? Quanti ingiustamente detenuti, per le intemperanze dettate dal loro proclamarsi innocenti o comunque contrariati dall’arresto subito, sono stati rapportati e sottoposti ai relativi procedimenti disciplinari e quanti ancora, per motivi precauzionali, sono stati collocati in ambienti “idonei”, semmai in isolamento, e come i medici hanno vigilato sulla loro situazione? È accaduto che i difensori abbiano tentato di spiegare le ragioni dei propri assistiti circa la falsità delle accuse, invocando quanto contemplato dall’art. 358 del Codice di Procedura Penale, in tema di raccolta di prove anche a favore dell’imputato. Quanti arrestati, a motivo delle condotte penitenziarie “irregolari”, sono poi stati trasferiti per motivi disciplinari e/ o per sicurezza in carceri più lontane, affievolendosi, così il diritto di difesa e penalizzandone i familiari, costretti all’onere di pesanti trasferte per incontrarli? Non raramente mi sono imbattuto in persone detenute le quali, pur rappresentandomi di essere state condannate per un reato non commesso, ammettevano però, senza ovviamente entrare nei dettagli, delle tante volte in cui l’avevano fatta franca, per cui accettavano la cosa come se si trattasse di una semplice compensazione della sorte, ma qui è diverso, non c’è ragione di Stato che tenga e né lo Stato può mai barare. Soldi, pare che ne girassero parecchi, e anche droga. È però legittimo chiedersi se vi siano mai state, e con quali esiti, delle segnalazioni di servizio redatte dai superiori dei militari coinvolti in merito al loro stile di vita, incompatibile con i misurati stipendi che, ancora oggi, vengono elargiti alle forze dell’ordine, pure ove si calcoli il compenso per le ore di straordinario, per i turni di servizio in giornate festive e in ore notturne, all’aperto e d’inverno, il Fesi (Fondo Efficienza Servizi Istituzionali), etc. È vero, il controllo sullo stile di vita dei propri dipendenti, in una strabica visione del diritto alla privacy, stesa oramai come un sudario pure sulle istituzioni che si occupano di sicurezza (tra l’altro pare scomparso l’obbligo del poliziotto, funzionario, dirigente, di informare sul proprio stato patrimoniale…), nel nome che uno è uguale ad uno, può esporre il superiore gerarchico al rischio del contenzioso, ove si soffermi nell’osservare con curiosità i propri subordinati, quelli di cui, in operazioni investigative e di polizia dovrebbe fare affidamento, occorre essere prudenti, ma il cogliere l’olezzo della infedeltà rappresenta anch’essa una caratteristica professionale: sarebbe imbarazzante se all’esito delle indagini si scoprisse che tutti sapessero tranne che i diretti superiori. Non lo si deve escludere a priori, seppure ulteriori considerazioni sulla tenuta del sistema poi si imporrebbero. Forse, così come sono disciplinati, i soli concorsi pubblici non sono più affidabili per ingaggiare il personale delle forze dell’ordine e delle forze armate, tra l’altro “Google” racconta di diversi procedimenti penali pendenti relativi a concorsi con esiti falsati, di preziosi algoritmi, di un ventaglio di prezzi, a seconda dell’aspirazione del candidato, sia per l’Amministrazione che per il grado, irridendo così i concorrenti onesti. Certo, in caso di concorsi “regolari”, il superamento di prove culturali e attitudinali e il periodo di formazione, fino ad arrivare al giuramento, dovrebbero assicurarci, sempre che il momento solenne non si riduca ad un mero singulto tra giuro e l’ho duro, ma proprio per questo, in una logica di self-control istituzionale, comunque andrebbe mantenuta un’attenzione sulle condotte professionali e gli stili di vita, perché ci riferiamo a servitori dello Stato che possono sottrarre la libertà ad altri cittadini, anche ove occorra con strumenti di coercizione e le armi. Allora, ripiegandoci su Piacenza sarà da chiarire ogni cosa, per trasformare questo incidente in una opportunità di miglioramento. In caso diverso, sarebbe il cursore di una situazione grave, pericolosa per la tenuta della stessa democrazia. Si tratta di temi “tosti” che non piacciono, ma andranno affrontati per il bene del Paese e per il rispetto che si deve a quel carabiniere in pensione, impettito e zoppicante, e che spesso incrocio per strada. I suoi occhi ancora si inumidiscono ammirando il tricolore: raccontano, senza parlare, di spirito di sacrificio, di pericoli corsi e di difesa a favore dei deboli. *Penitenziarista - già Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria Il Dap non vuole farci visitare le celle di Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro* Il Riformista, 14 agosto 2020 Come lo scorso anno, le Camere penali hanno aderito al “Ferragosto in carcere” promosso dai radicali. Ma stavolta sono state ammesse visite ispettive solo in 5 carceri su 198. Lo scorso anno l’Unione delle Camere Penali e il suo Osservatorio sul Carcere avevano partecipato con straordinario entusiasmo alla iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal Partito Radicale. Centinaia di avvocati penalisti, unitamente a militanti e dirigenti radicali, decine di parlamentari e garanti territoriali avevano dato luogo a una mobilitazione su vasta scala visitando, a cavallo del 15 agosto, circa 80 istituti penitenziari, in 18 regioni italiane. Da Tolmezzo a Palermo, da Torino a Salerno, da Trieste a Bari, da Aosta a Reggio Calabria, passando per Roma, Milano, Napoli e Firenze. Una mobilitazione di grande valore civile che ha consentito di avere un quadro d’insieme del sistema penitenziario nazionale, smascherando l’ipocrita affermazione che in Italia non vi fosse sovraffollamento, una sanità penitenziaria carente, disagi e trattamenti detentivi disumani e degradanti. Numerose, quindi, le interrogazioni parlamentari al ministro della Giustizia sulle gravi distorsioni riscontrate nelle numerose visite. Dopo il flagello del coronavirus, che ha messo a nudo le criticità strutturali e organizzative del pianeta carcere nazionale e che ha imposto una rigida chiusura agli accessi esterni al carcere (su tutti colloqui familiari, colloqui avvocati, volontari) e la sospensione di tutte le attività trattamentali, in quei pochi istituti ove venivano tenute, dopo le rivolte, con la morte violenta di 13 detenuti (una delle pagine più brutte dei nostri giorni ancora avvolta nel mistero più profondo), con un elevato numero di suicidi sino a oggi registrato (ben 33 detenuti), ci saremmo aspettati una disponibilità rinnovata del Dap al Ferragosto in una volta, dal Partito Radicale. E invece il Dap ha autorizzato visite in carcere, pur in numero ridotto (due persone), in soli 5 istituti penitenziari. Una concessione che rende ancor più fosco il quadro già oscuro delle nostre prigioni. Pur comprendendo le ragioni che hanno imposto la limitazione numerica delle delegazioni autorizzate alla visita, francamente non riusciamo davvero a darci una spiegazione razionale sulla scellerata decisione dei vertici del Dap - rinnovati dopo le sceneggiate messe in onda nella sanguinosa “Arena” televisiva di Giletti - di consentire le visite per il “Ferragosto in carcere” solo in 5 istituti su 198, come se i restanti 193 fossero già contagiati dal virus e si temesse di diffonderlo all’esterno. È davvero difficile comprendere una scelta così illogica quanto scriteriata che non aiuta il mondo carcerario a recuperare quella tranquillità già messa in discussione dalla privazione della libertà, dalla lontananza degli affetti familiari e che rischia di diffondere, tra i detenuti ed i detenenti, un virus ancora più violento e mortale del Covid: l’indifferenza ed il silenzio verso un mondo posto al di là dei confini della nostra civiltà. Eppure l’Oms, nelle linee guida appositamente predisposte per affrontare il pericolo contagio del coronavirus nelle carceri di tutta Europa, pur riconoscendo l’opportunità di limitare, temporaneamente e in via straordinaria, i contatti con il mondo esterno, ha segnalato i gravi rischi che l’isolamento prolungato possa comportare in termini di violazione dei diritti umani, ammonendo, infine, i governi di tutta Europa a non utilizzare il rischio epidemiologico per opporsi “all’ispezione esterna delle carceri e degli altri luoghi di detenzione”. Non siamo per nulla rassegnati dinanzi a queste restrittive decisioni del Dap e siamo mobilitati per procedere ad una campagna massiccia di visite, in numero non superiore a 2 persone, negli istituti penitenziari di tutta Italia a partire da settembre, convinti che il carcere non possa essere il cimitero dei vivi. *Responsabili Osservatorio Carcere Unione Camere Penali italiane Carceri: Ramonda (Apg23), “meno braccialetti e più comunità” agensir.it, 14 agosto 2020 “Apprezziamo lo sforzo che lo Stato ha fatto negli scorsi mesi per decongestionare le carceri, anche attraverso il ricorso alle comunità esterne. Un impegno che ci stimola nell’affrontare sempre meglio l’emergenza sanitaria e ancor più quella educativa”. Lo dichiara il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23), Giovanni Paolo Ramonda, intervenendo sul tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, a seguito della pubblicazione del rapporto dell’Associazione Antigone su salute, tecnologie, spazi e vita interna nelle carceri italiane, avvenuta il 10 agosto. Il rapporto denuncia un tasso di affollamento delle carceri di oltre il 106%, seppur in calo, con 24 istituti ancora al 140% ed addirittura con picchi del 170%. A Latina - denuncia il rapporto - si raggiunge quasi il 200%: per ogni posto disponibile sono recluse due persone. Ramonda propone alcuni spunti di lavoro: “Dissentiamo dall’uso dei braccialetti elettronici, ai quali di fatto viene delegata una responsabilità educativa: non sono di aiuto ai percorsi di riabilitazione e di reinserimento sociale degli autori di reati”. “Un’espiazione intelligente della pena può avvenire soltanto quando il reo viene messo in grado di affrontare i problemi alla radice, ragionando sulle cause che spingono a delinquere. Una redenzione vera, con un ritorno in società sicuro, avviene all’interno di percorsi educativi in cui proprio le comunità educative esterne possono avere un ruolo di primo piano. Le azioni future auspicate richiedono un’azione sinergica tra istituzioni, mondo del no-profit, mondo delle imprese. Come diceva don Oreste Benzi: Un uomo recuperato non è più pericoloso, per questo dobbiamo passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero. E anche: L’uomo non è il suo errore”. Sono 62 i bimbi in carcere per stare vicini alle mamme, il record nel Centro-sud ilsudonline.it, 14 agosto 2020 Dei 62 bambini fino a 6 anni che si trovano ospiti delle carceri italiane per stare vicini alle loro mamme il 58% è “dietro le sbarre” al centro sud con il record di oltre un quarto proprio nella sezione femminile di Rebibbia. È quanto emerge da un’analisi dell’Unione europea delle cooperative Uecoop su dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in relazione al dramma che si è consumato nel penitenziario di Rebibbia dove una madre tedesca ha gettato nella tromba delle scale i suoi due bambini di 4 mesi deceduto sul colpo e di 2 anni per il quale è stato avviato l’accertamento della morte cerebrale. Un dramma - sottolinea Uecoop - che colpisce tutti gli operatori socio assistenziali attivi anche nelle carceri italiane, dove si trovano 52 mamme di cui quasi la metà straniere. Il mondo dietro le sbarre è fra i più delicati e complessi dove il tempo della pena detentiva può essere impiegato in progetti di recupero fra studio e lavoro che - conclude Uecoop - aiutano i detenuti a individuare una prospettiva per quando verrà il momento di lasciarsi alle spalle i cancelli del carcere. Revoca del carcere duro a Cutolo, l’udienza il 2 ottobre: “Qualcosa funziona ancora” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 14 agosto 2020 L’udienza di reclamo per la revoca del 41bis a Raffaele Cutolo è stata fissata il prossimo 2 ottobre innanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Dopo la denuncia del Riformista, che nei giorni scorsi ha sottolineato i dieci mesi di attesa trascorsi dal reclamo presentato dall’avvocato Gaetano Aufiero, difensore dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata (che in galera ha scontato, fino ad ora 57 dei suoi quasi 80 anni), dopo il decreto di proroga del carcere duro emesso dal ministero della Giustizia lo scorso 11 settembre 2019. A un anno esatto dal primo reclamo inviato da Aufiero, è arrivata finalmente la risposta dei magistrati del tribunale di Sorveglianza capitolino. Autorizzato anche l’ingresso di uno psichiatra di parte mentre è stato rigettato quello relativo a un secondo medico, un geriatra di Parma, indicato dallo stesso legale. “Vedo comunque il bicchiere mezzo pieno anche se non ho capito il perché del rifiuto” commenta Aufiero che aggiunge: “Grazie all’intervento del vostro giornale e ai documenti dell’Unione Camere Penali, sia nazionale che di Napoli e Avellino, dove sono iscritto, qualcosa si è finalmente mosso e all’antivigilia di ferragosto il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma ha risposto dopo le numerose istanze inviate (anche per conoscenza al Csm e al ministero della Giustizia). Ero quasi diventato uno stalker” spiega Aufiero. “Non credo alle coincidenze e ribadisco che quando si crea un movimento rappresentato da voi media e dalle nostre associazioni di categoria, un magistrato serio, anche se appisolato, non può non fare nulla. Questo significa che qualcosa funziona ancora”. Anche la data scelta (2 ottobre) per discutere il reclamo non è una coincidenza per Aufiero: “È la festa degli angeli custodi, speriamo che quel giorno sia la festa degli angeli della giustizia”. Le condizioni di cutolo - L’ex boss è ricoverato in ospedale a Parma da diverse settimane a causa di un quadro clinico compromesso in seguito a diverse patologie che si porta dietro da decenni. “Insieme allo psichiatra napoletano da me indicato, andrò a verificare se quello che ha scritto la direzione sanitaria del carcere di Parma 20 giorni fa (Cutolo “è orientato nel tempo e nello spazio, è perfettamente presente a sé stesso) corrisponde con gli attuali sintomi inconfutabili di demenza senili, confermato anche dal primario del reparto”. Sarà lo psichiatra a verificare a quando risale la forma di demenza. Cutolo intanto è allettato e non può avere contatti fisici nemmeno con la moglie. “Quando è andata a trovarlo in ospedale sono stati messi tra loro suppellettili per evitare che la donna lo accarezzasse o gli prendesse la mano. Tutto questo - commenta Aufiero - è inumano. Lei non sa manco se lo rivedrà vivo la prossima volta”. Lo scorso 7 agosto Immacolata Iacone si è ritrovata davanti una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. “Cosa c’entra il 41bis con tutto questo? La stessa cosa è stata fatta qualche anno fa con Provenzano. Era un vegetale ma negarono ai suoi familiari di salutarlo con affetto prima che morisse”. La giustizia italiana bocciata dall’Europa: processi-lumaca in una giungla di norme di Viviana Lanza Il Riformista, 14 agosto 2020 Anche l’Europa bacchetta l’Italia per i risultati del suo sistema giudiziario. Il tema dei processi troppo numerosi e troppo lunghi è un argomento che ha una doppia rilevanza, non solo locale ma anche europea. Il nostro Paese è al ventiduesimo posto nell’Unione europea per numero di giudici ogni 100mila abitanti ed è anche tra i Paesi con il maggior numero di avvocati (se ne contano quattro ogni mille abitanti). Tanti giudici, tanti avvocati, quindi. Ma anche tante norme, circa 13mila tra i settori della giustizia penale, civile, amministrativa e tributaria. Una selva normativa, un surplus di leggi e regolamenti e decreti e normative nati troppo spesso più sull’onda dell’emergenza del momento che in un’ottica di sistema. Ed ecco che negli ultimi tempi è diventata attuale e diffusa l’esigenza di una inversione di rotta, di una riforma organica della giustizia, di un approccio diverso. Lo dice anche l’Europa. Nel più recente quadro di valutazione Ue della giustizia, l’Italia non esce bene dal confronto con gli altri Stati membri sui temi della efficienza, della qualità e dell’indipendenza dei sistemi giudiziari. Eppure l’Italia è la patria del diritto, terra di cultura e tradizioni. Ma non basta più. Secondo l’Europa, il nostro Paese deve migliorare l’efficienza della giustizia e il funzionamento della pubblica amministrazione. Troppe leggi, troppi processi, procedure troppo lunghe, una scarsa capacità amministrativa e un basso livello di digitalizzazione: eccoli, secondo il quadro di valutazione Ue della giustizia 2020, i motivi delle inefficienze del nostro sistema giudiziario. Ed ecco, di riflesso, i motivi per cui in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, si fa fatica a rilanciare l’economia e a sostenere progetti imprenditoriali. È la stessa Commissione europea a sottolineare, nel report che dal 2013 è uno degli strumenti con cui si monitorano Stato di diritto e riforme degli Stati membri, come un sistema giudiziario efficiente sia alla base di una economia capace di attirare imprenditori e investimenti. Anche il Riformista lo ha più volte ribadito raccontando la cronaca dei fatti e raccogliendo le riflessioni di autorevoli giuristi ed esponenti del mondo accademico. L’incertezza e la varietà delle decisioni giurisprudenziali, unite ai lunghi tempi dei processi, impediscono la crescita dimensionale delle imprese e rendono più difficili le condizioni di finanziamento per tutti, consumatori e imprese, incidendo negativamente anche sulle opere pubbliche. In Europa l’Italia è 18esima per numero di cause in generale, e 19esima per durata stimata dei procedimenti collocandosi tra i Paesi con i tempi più lunghi. Questo dato si incrocia con quello dei processi pendenti, che è altissimo e dà la misura di quanti casi sono ancora sospesi in attesa di una risposta da parte della giustizia. Tutto questo incide anche in termini di costi. In Italia la giustizia costa nonostante il nostro sia un Paese con una forma di gratuito patrocinio che copre le spese legali, ma solo per le persone con un reddito che supera di poco più del 10 per cento la soglia di povertà. La recente emergenza-Covid, inoltre, ha fatto scoprire a ciascun tribunale italiano l’importanza della digitalizzazione ma i risultati come le dotazioni informatiche del nostro sistema giustizia sono ancora lontani dagli standard europei e i nostri tribunali sono solo 15esimi in Europa. Di qui l’esigenza di investire di più nella giustizia: l’Italia è all’11esimo posto nell’Unione europea per risorse finanziarie destinate al comparto giustizia. Nuovo Csm stroncato da Md: “Così diventiamo un esercito di burocrati carrieristi” di Errico Novi Il Dubbio, 14 agosto 2020 Dal gruppo delle toghe “di sinistra” uno spietato documento sulla riforma varata dal governo. Magistratura democratica è un’avanguardia progressista e interna a un’élite. Un unicum ormai: con i partiti politici ridotti a drappelli di agit prop digitali, con una regressione che non risparmia neppure la sinistra, è chiaro che le cosiddette toghe rosse sono merce rara. Ma è vero pure che delle élite intellettuali, gli associati a Md hanno anche il riflesso condizionato dell’eufemismo. Visibile in un passaggio dell’ampio documento diffuso ieri dal gruppo di magistrati a proposito della riforma del Csm varata una settimana fa in Consiglio dei ministri: “Le ragioni più profonde della crisi disvelata dai fatti di Perugia vanno ricercate nelle gravi deviazioni e regressioni culturali che in questi anni hanno allontanato la magistratura e il suo sistema di governo autonomo dalla fisionomia voluta dal costituente”. Si riferiscono alla gerarchizzazione degli uffici giudiziari, soprattutto delle Procure, che ha indotto il carrierismo e la conseguente compulsività degli intrighi fra correnti, intessuti proprio per soddisfare la sete di carriera propagatasi fra i giudici. È il passaggio chiave di un vero e proprio decreto di rigetto del ddl. Gran parte delle obiezioni avanzate da Md sono derivate da quella premessa e portano a una conclusione: con una riforma simile rischiamo di impoverire i magistrati italiani in una riserva di burocrati carrieristi e individualisti. Una botta niente male. Che mette in risalto un effetto collaterale finora taciuto: la burocratizzazione appunto. “Ridurre momenti dell’autogoverno”, cioè la discrezionalità del Csm, significa, per il direttivo di Magistratura democratica, ingrigire le toghe. Può darsi. E soprattutto, non è detto che una magistratura più grigia sia davvero “inoffensiva”. Potrebbe essere il contrario: la frustrazione per il ridursi a ceto “funzionariale”, per citare l’illuminante aggettivo usato dalle toghe progressiste, potrebbe finire per incattivire giudice e pm. Non si può negare, scrive il gruppo guidato dalla segretaria Mariarosaria Guglielmi e dal presidente Riccardo De Vito, “il valore di alcuni specifici e settoriali interventi, pure sollecitati dalla magistratura associata o che recepiscono soluzioni di buona amministrazione già previste dalla prassi (come l’obbligo di rispettare l’ordine di vacanza dei posti per le decisioni su incarichi direttivi e semidirettivi)”. Neppure si può nascondere, e sarebbe strano se lo facessero dei magistrati di sinistra, “l’impatto di riforme positive e capaci di produrre importanti e duraturi effetti “di sistema” - come quella dell’accesso, con l’attesa abolizione del concorso di II grado che in questi anni ha determinato di fatto una selezione per censo”. Ma tutto, per Md, “rischia di essere sminuito nel nuovo assetto ordinamentale e di governo autonomo disegnato dal ddl”. Un assetto in cui si rischia di approdare a un plenum chiamato a “funzioni meramente compilative o applicative di criteri, punteggi, parametri e indicatori fissati dalla normativa primaria”. E qui il dibattito si preannuncia vivace, perché la scelta di definire gli incarichi direttivi attraverso norme di legge, e non più circolari interne di Palazzo dei Marescialli, è stata apertamente rivendicata per esempio dal Pd, che ne ha segnalato la capacità di sciogliere i grovigli tecnicistici nei quali allignavano scelte basate sull’appartenenza. Qual è il danno più grave: un Csm mortificato dai troppi automatismi o un plenum così libero di scegliere i criteri per gli incarichi da affidarli direttamente alla compulsione clientelare? Bella domanda. E però Md ne pone parecchie, interessantissime, che meriterebbero comunque di trovare interlocutori all’altezza in Parlamento, di qui a breve chiamato a esaminare il ddl del guardasigilli Bonafede. Da sinistra, il documento chiede di smorzare quegli impulsi alla “verticizzazione legati a gerarchie interne e a percorsi di carriera ascendente”. Invertire la rotta sarebbe “necessario e possibile solo rivitalizzando l’esempio di una magistratura organizzata su basi egualitarie, inverando il modello costituzionale di un potere giudiziario diffuso e orizzontale”. E come si fa? Ci vorrebbe la svolta verso una idea di dirigenza in magistratura come “esperienza diffusa” e “funzione reversibile, attraverso meccanismi di effettiva attuazione del principio di temporaneità”. In questo Md ha una sua radicalità. D’altra parte dalla dialettica con Area - il rassemblement progressista di cui Md fa parte - che pare celarsi tra le righe del documento, sembra farsi sempre più probabile una vera e propria scissione (a sinistra, come nei partiti). Non a caso il documento dell’esecutivo di Md attacca proprio quella riforma per l’elezione dei togati che potrebbe complicare la tentazione del distacco da Area: “La natura puramente individuale delle candidature, in presenza di ineliminabili aggregazioni per idee e visioni, non garantisce che aree culturali di minoranza siano in qualche modo rappresentate”. E ancora, “la previsione delle preferenze multiple si presta a favorire pratiche di scambio e accordi sul voto nei diversi collegi tra i gruppi maggiori, con una riproduzione in forma diversa delle peggiori dinamiche del “correntismo”. Altro colpo durissimo, che sembra convergere con i timori di “desistenze” avanzati, sul fonte moderato, da Magistratura indipendente. Si diceva degli eufemismi. Non riguardano solo la gerarchizzazione. Ce n’è un altro interessante anche dal punto di vista degli avvocati: “Nel sistema riformato, non può escludersi la possibilità di un risultato elettorale che non dia rappresentanza, attraverso gli eletti, alla pluralità delle funzioni, con perdita delle esperienze di cui queste sono espressione”. In altre parole, si condivide il sospetto avanzato dal presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, secondo cui la prevista rinuncia alla distinzione degli eletti in base alle categorie requirente e giudicante potrebbe “consegnare il Csm nelle mani delle Procure”. O comunque sbilanciare in modo clamoroso la composizione di un organo in cui, finora. i togati giudici sono stati il doppio dei pm, giustamente, visto che l’intera magistratura prevede una sproporzione anche più impietosa tra le due funzioni. La grande onestà con cui Md evita di occultare un simile aspetto non trattiene il direttivo del gruppo dal lamentare le “ulteriori limitazioni poste al passaggio di funzioni giudicanti/ requirenti”. Ma per i penalisti, che hanno raccolto 74mila firme per separare le carriere, è vero l’esatto contrario. Dulcis in fundo, “la previsione della parità di “chance” assicurata per le candidature e l’alternanza per genere delle preferenze non assicurano l’elezione di candidate e, quindi, la risposta ad una questione non più eludibile”. Md sembra d’accordo con la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane Carla Lendaro, che sul Dubbio di ieri ha a propria volta parlato di riforma insufficiente a garantire la parità di genere. Ma resta soprattutto quel macigno: “La magistratura riformata secondo il recente ddl rischia di rafforzarsi come corpo burocratico e funzionariale”. Un rischio annidato negli automatismi gerarchici, nelle rigidità quantitative delle scelte compiute dal Csm e dai “capi”, nel “frazionamento del corpo elettorale per categorie” dovuto alla “previsione di collegi separati”. Può darsi che Md ci abbia visto giusto. E qualora si stabilisse che è davvero è così, si dovrà anche capire se un simile approdo sia, per la giurisdizione e dunque per coloro che ne fanno parte, innanzitutto gli avvocati, effettivamente “il bene” rispetto al caso Palamara. La riforma Bonafede è una normalizzazione burocratica Il Manifesto, 14 agosto 2020 Csm. Pubblichiamo un documento di Magistratura Democratica. Una valutazione molto negativa del testo della riforma del Consiglio superiore della Magistratura, appena approvato dal Consiglio dei Ministri. È molto duro il giudizio che Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, riserva alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura nel testo appena approvato dal Consiglio dei ministri. La valutazione ampiamente negativa, ben oltre le perplessità che aveva sollevato Area democratica per la giustizia, il raggruppamento al quale pure Magistratura democratica aderisce, si può leggere in questo documento approvato il 13 agosto dall’esecutivo di Md. *********************************************************************** 1. Nelle norme di ordinamento giudiziario deve trovare concreta attuazione il modello di magistratura disegnato dalla Costituzione, non solo indipendente dai poteri esterni, ma libera da condizionamenti e auto-condizionamenti interni. L’eguaglianza delle funzioni sancita dal terzo comma dell’art. 107 (“i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni”) è il “germe positivo” che la Costituzione ha inoculato nella struttura del sistema giudiziario contro i rischi di verticizzazione legati a gerarchie interne e a percorsi di carriera ascendente, e contro gli effetti indotti di conformismo e di ricerca di consonanza con il potere esterno. Le ragioni più profonde della crisi disvelata dai fatti di Perugia vanno ricercate nelle gravi deviazioni e regressioni culturali che in questi anni hanno allontanato la magistratura e il suo sistema di governo autonomo dalla loro fisionomia voluta dal costituente. Invertire la rotta è necessario e possibile solo rivitalizzando l’esempio di una magistratura organizzata su basi egualitarie, inverando il modello costituzionale di un potere giudiziario diffuso e orizzontale, valorizzando tutte le potenzialità che al CSM sono state conferite nell’interesse della giurisdizione. 2. Non pensiamo che la riforma disegnata dal recente DDL vada in questa direzione. Per molti versi, rischiamo viceversa di allontanarci ulteriormente dal modello culturale da ritrovare, restituendo pari dignità alle funzioni giudiziarie e, a quelle dirigenziali, il significato di un incarico di servizio. Per questo, il giudizio negativo sul risultato complessivo della riforma non è controbilanciabile con il valore di alcuni specifici e settoriali interventi, pure sollecitati dalla magistratura associata, o che recepiscono soluzioni di buona amministrazione già previste dalla prassi (come l’obbligo di rispettare l’ordine di vacanza dei posti per le decisioni su incarichi direttivi e semidirettivi) e indicazioni elaborate dalla normativa secondaria del CSM (come le disposizioni sui progetti organizzativi delle Procure). Anche l’impatto di riforme positive e capaci di produrre importanti e duraturi effetti “di sistema” - come quella dell’accesso, con l’attesa abolizione del concorso di II grado che in questi anni ha determinato di fatto una selezione per censo - rischia di essere sminuito nel nuovo assetto ordinamentale e di governo autonomo disegnato dal DDL. Nelle disposizioni che riformano la legge elettorale del CSM, riservando l’elezione dei magistrati con funzioni di legittimità ai soli magistrati di Cassazione, si ritrova la visione di un ufficio separato e di “vertice”; si ritorna così alla distinzione della magistratura alta contrapposta a quella bassa; si compromette la visione unitaria della giurisdizione e delle funzioni. In tale direzione vanno anche le ulteriori limitazioni poste al passaggio di funzioni giudicanti/requirenti e le disposizioni che distinguono il corpo elettorale sulla base della diversità di funzioni esercitate o di uffici di appartenenza (accanto al collegio per la Cassazione, altro collegio elettorale separato è riservato ai magistrati fuori ruolo, dell’ufficio del massimario e del ruolo della Cassazione e della Direzione nazionale antimafia e terrorismo, soluzione che contribuisce a rafforzare la visione di una magistratura non unitaria, e di carriere o uffici portatori di interessi specifici). 3. L’obiettivo di disincentivare il carrierismo si persegue attraverso quello di mettere sotto tutela il CSM, imbrigliandone la discrezionalità e chiudendo gli spazi anche per gli interventi di normativa secondaria (da qui la disciplina dettagliata di parametri e indicatori dell’attitudine direttiva, e la delega al legislatore per individuare il peso che dovranno assumere quelli specifici nella valutazione comparativa). Pur avendo raccolto alcune proposte emerse dal dibattito associativo (come l’ampliamento del tempo minimo di permanenza nell’incarico direttivo prima del passaggio ad altro ufficio), la scelta più qualificante della riforma, in questo ambito, è costituita del rafforzamento del ruolo dell’anzianità sia come criterio di legittimazione (si innalza per i direttivi il livello di professionalità richiesto), sia come fascia, introdotta con funzione di moralizzazione per delimitare la gamma degli aspiranti legittimati a concorrere (così la relazione introduttiva al DDL). Un deciso passo indietro rispetto alla precedente scelta legislativa di riduzione del peso dell’anzianità e una soluzione che, se scoraggia la corsa agli incarichi e l’attenzione alla programmazione e costruzione di percorsi professionali mirati alla dirigenza, non elimina affatto l’idea di carriera, che a ben vedere si concilia anche con quella dell’avanzamento per anzianità. Una soluzione, quindi, che non segna la svolta in funzione del cambiamento culturale richiesto: quello volto a disegnare una magistratura “senza carriera” e una dirigenza non intesa come corpo separato nella magistratura, fondato su uno status permanente e su percorsi paralleli a quelli giurisdizionali, ma come esperienza diffusa e come funzione reversibile, attraverso meccanismi di effettiva attuazione del principio di temporaneità. 4. Il sistema elettorale prescelto, di tipo maggioritario, non appare idoneo a garantire obiettivi prioritari per la legittimazione e l’autorevolezza del CSM, come la sua rappresentatività in relazione alle diverse opzioni culturali presenti in magistratura (dei gruppi e dei singoli) e la paritaria rappresentanza di genere. La riforma presenta, anzi, numerose criticità che rischiano di enfatizzare i “mali” che si propone di sconfiggere e di innescare ulteriori distorsioni: la natura puramente individuale delle candidature, in presenza di ineliminabili aggregazioni per idee e visioni, non garantisce che aree culturali di minoranza siano in qualche modo rappresentate; la previsione delle preferenze multiple si presta a favorire pratiche di scambio e accordi sul voto nei diversi collegi tra i gruppi maggiori, con una riproduzione in forma diversa delle peggiori dinamiche del “correntismo” indotte dall’ attuale legge elettorale, a scapito della rappresentanza delle minoranze e dell’effettivo potere di scelta dell’elettore; la previsione di collegi elettorali separati produce il frazionamento del corpo elettorale per categorie, mentre la Costituzione prevede tale distinzione solo per i magistrati da eleggere (art. 104, quarto comma); d’altra parte, nel sistema riformato, non può escludersi la possibilità di un risultato elettorale che non dia rappresentanza, attraverso gli eletti, alla pluralità delle funzioni, con perdita delle esperienze di cui queste sono espressione. La previsione della parità di “chance” assicurata per le candidature (almeno cinque in ogni collegio) e l’alternanza per genere delle preferenze non assicurano l’elezione di candidate e, quindi, la risposta ad una questione non più eludibile, che ha a che fare con l’essenza e l’effettività della democrazia, con il pieno sviluppo dei principi dello stato di diritto e della loro sostanza, quali sono i valori del pluralismo, delle differenze e della eguaglianza effettiva fra i generi. Anche sotto questo profilo la riforma non è in grado di assicurare una composizione del CSM in funzione della sua rappresentatività, autorevolezza e legittimazione rispetto alla composizione della magistratura, che oggi vede una presenza di oltre il 50% di donne. La previsione, sia pure in via residuale, del ricorso al sorteggio per la composizione delle liste completa, anche con forte valenza simbolica, il quadro delle criticità: si introduce per la prima volta nella procedura di composizione di un organo di rilevanza costituzionale un elemento di casualità, che ne svilisce il valore e la funzione. 5. La magistratura riformata secondo il recente DDL rischia di rafforzarsi come corpo burocratico e funzionariale. Alla sua burocratizzazione prelude la previsione di meccanismi che tendono a ridurre momenti dell’autogoverno, che incidono nella costruzione del nostro modello di magistratura (come la selezione per incarichi direttivi e l’accesso alle funzioni di legittimità), a funzioni meramente compilative o applicative di criteri, punteggi, parametri e indicatori fissati dalla normativa primaria. Il CSM - ha scritto Pino Borrè - è l’istituzione che ha dato senso e realtà all’evoluzione della magistratura: “se la giurisdizione è uno strumento, un istituto di garanzia, il CSM è in qualche modo la garanzia della garanzia, la chiave di volta che rende realistico, possibile, un sistema giudiziario democratico”. Nella riforma Bonafede, con pochi tratti di penna, si eliminano queste potenzialità. Il sorteggio dei componenti delle commissioni e il divieto di costituzione dei gruppi riscrivono la fisionomia di una istituzione che viene privata della sua politicità, necessaria per orientare le scelte di amministrazione verso le esigenze della giurisdizione, e della rappresentanza come indispensabile veicolo di idealità, di opzioni politico-culturali diverse, delle varie sensibilità presenti tra i magistrati e, in definitiva, del pluralismo interno alla magistratura. Occorre essere consapevoli delle evoluzioni che si intravedono dietro queste riforme strutturali, di sostanziale cambiamento della fisionomia costituzionale del Consiglio. Neutralizzarne la “politicità”, espropriarlo delle prerogative di discrezionalità essenziali per l’esercizio dell’autogoverno, è la premessa per renderlo subalterno alle logiche e al controllo della sfera politica esterna. Trasformare il Consiglio in un organo di amministrazione e di governo del personale è il primo passo verso una ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario e, dunque, verso la perdita del suo assetto funzionale ad una giurisdizione indipendente. Le magistrate: “Cambiate la riforma o la parità al Csm resta un miraggio” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 agosto 2020 “Viene introdotta una parità di chance, ed è positivo, ma il meccanismo previsto nella riforma del Csm per avere un equilibrio di genere nella componente togata non è in grado di produrre effettive conseguenze sull’esito del voto”. A dirlo è Carla Lendaro, presidente dell’Associazione donne magistrate. La riforma garantisce: nel nuovo Consiglio superiore della Magistratura ci sarà più spazio per le donne. Ma la disciplina che introduce la parità di genere tra i togati resisterà alla prova elettorale? Per Carla Marina Lendaro, presidente dell’Associazione Donne Magistrate Italiane, quella prevista con il ddl Bonafede è niente più che una “quota di chance”. “È stato affermato un principio importante, quello della parità di genere, che è un principio di democrazia - spiega Lendaro. In questo senso, il fatto che sia contenuto in una norma di legge, è una grossa conquista per tutte le donne. Ma le modifiche introdotte sono inadeguate e insufficienti”. La debolezza della norma è presto detta. Approvato lo scorso venerdì dal governo, il disegno di legge che comincerà l’iter parlamentare dopo la sospensione dei lavori, introduce alcune modifiche sostanziali nell’elezione dei consiglieri togati che compongono una parte del Csm: il numero di magistrati scelti da altri magistrati passa a 20, tutti eletti in 19 collegi uninominali dislocati sul territorio nazionale attraverso un sistema maggioritario a doppio turno. Ma ecco l’altra novità: ogni collegio deve indicare almeno dieci candidati, di cui cinque per ciascun genere. La parità è garantita anche nelle preferenze: al primo turno, ogni magistrato elettore può esprimerne fino a quattro, alternando candidati di genere diverso. Passa il primo turno chi abbia ottenuto almeno il 65% dei voti di preferenza. Se non si raggiunge la maggioranza, si passa al ballottaggio: in corsa restano i quattro candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti, applicando al secondo, al terzo e al quarto posto sulla scheda un “coefficiente di riduzione pari, rispettivamente, a 0,90, 0,80 e 0,70”. Insomma, il peso di ogni candidato sulla scheda si alleggerisce dopo il primo posto. “La previsione della parità di “chance” assicurata per le candidature aggiunge la Presidente dell’Associazione magistrate - e l’alternanza per genere delle quattro preferenze, che è possibile esprimere al “primo turno”, così come la seconda preferenza di genere non obbligatoria nell’eventuale “secondo turno”, non solo costituiscono meccanismi di non facile applicazione ma, soprattutto, non garantiscono l’elezione di candidate, che ben possono restare soccombenti per ragioni diverse che operano sul piano socio- culturale e dell’organizzazione sociale, inoltre sarà possibile introdurre candidature di facciata a fronte di nomi noti e roboanti del genere opposto, ai più noti per il clamore delle loro inchieste rimbalzate sulla stampa”. Dunque, lo strumento che dovrebbe aiutare a superare il problema della “sotto- rappresentanza”, fortemente voluto dal Pd, rischia di vanificarsi alla prova della realtà. Se l’Associazione Donne Magistrate è certa che “nelle audizioni parlamentari verranno fuori anche da parte delle costituzionaliste, delle parlamentari, e dell’avvocatura femminile, suggerimenti per introdurre correttivi sul sistema elettorale”, c’è chi storce il naso sulla necessità di introdurre “quote rosa”. Il pm Nino di Matteo le considera “un’offesa al valore oggettivo delle donne magistrato. Alcune (6 sui 16 togati) già meritoriamente nel Csm. Tanto più ora che finalmente le donne iniziano a ricoprire importanti incarichi apicali”. È il caso di due donne magistrato che hanno scalato la carriera nelle istituzioni segnando primati storici: Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, e Margherita Cassano, nominata di recente Presidente aggiunto della Cassazione. Un risultato, comunque, che non basta a soddisfare la domanda di rappresentanza per chi, come Lendaro, in replica a Di Matteo precisa: “La vera umiliazione non sta nella necessità di usufruire delle quote, ma nei numeri: ad oggi, le magistrate rappresentano il 53,8% del totale, ma nella storia del Csm il 95% di consiglieri eletti sono uomini, a fronte solo del 5% delle consigliere: appena 28 in tutto”. Quando la legge ti spinge nel baratro: l’economia è in crisi, ma se non paghi l’Iva vai dritto in galera di Viviana Lanza Il Riformista, 14 agosto 2020 Il bilancio della giustizia nel distretto di Napoli, per il primo trimestre del 2020 è un bilancio particolare, diverso rispetto ai periodici monitoraggi distrettuali che il ministero della Giustizia realizza per analizzare le performance di Tribunali e Corti di Appello. È unico se si considera che tiene conto anche del primo mese di lockdown. Raccoglie i dati sull’attività giudiziaria dal primo gennaio al 31 marzo scorsi. E le somme rivelano gli alti numeri della giustizia, le dimensioni dei suoi carichi, in un certo senso anche le ragioni dei suoi affanni. Numeri di fronte ai quali appare sempre più utile e necessaria una riforma del sistema giustizia pensata non soltanto per tamponare emergenze del momento o far breccia nell’opinione pubblica e sulla sua emotività. La riforma di cui si parla è una riforma che dovrebbe andare nel senso del recupero della efficienza e della tempestività della risposta giudiziaria, della semplificazione. Se si considerano i numeri dell’ultimo report trimestrale, colpisce che, tra i casi giudiziari pendenti in primo e in secondo grado, ci sono tra Napoli e provincia circa 100mila storie sospese. Sono tante, tantissime. Troppe, se si vuole una giustizia più giusta, più celere, più efficace. Nel primo trimestre 2020, nel settore penale, in Corte di Appello a Napoli si sono contati 55.549 processi pendenti con una variazione negli ultimi due anni del 16,3%, mentre in Tribunale sono stati 44.443 i processi pendenti a fronte dei 41.375 registrati al 31 dicembre 2017 e dunque con una variazione del 7,4% con riferimento all’ultimo biennio. Sono davvero tutti processi necessari? Sono davvero tutti casi che non si sarebbero potuti eventualmente sanzionare con procedure e tempi diversi da quelli della giustizia penale? Sono interrogativi leciti. Perché c’è un così ampio ricorso alla giustizia penale? Giriamo la domanda a Pasquale Troncone, docente di Diritto penale all’università di Napoli Federico II. “Si pensa sempre che la faccia feroce del diritto penale riesca a dissuadere dal compiere illeciti”, spiega. Anche fattispecie che fino ad alcuni anni fa rientravano nella sfera delle condotte punibili con sanzioni amministrative sono passate dall’area della rilevanza tributaria, per esempio, a quella penale. “Ma si tratta di interventi che rischiano di rivelarsi inutili - sottolinea Troncone - Penso agli articoli 10bis e 10ter del decreto 74 del 2000 che puniscono con la reclusione da sei mesi a due anni gli imprenditori che non riescono a pagare l’Iva o la ritenuta d’acconto regolarmente denunciata. Considerando il particolare momento di difficoltà economica, è facile immaginare che potrebbero essere moltissimi gli imprenditori in crisi di liquidità, soprattutto tra i piccoli imprenditori che sono poi quelli che più caratterizzano il tessuto economico del nostro territorio”. Le prospettive non sono incoraggianti. “Se questi piccoli imprenditori spariranno dal mercato cederemo la nostra economia, fortemente legata al territorio, all’economia del digitale e dei colossi stranieri. Non credo che sia un disegno, ma questi sono gli effetti del decreto 74 del 2000”. Per Troncone, dunque, “bisognerebbe ripensare a questo intervento legislativo”. E non solo. “La parte speciale della legislazione penale è sovrabbondante, si pensi alle fattispecie indicate nel Testo unico della finanza, alle norme del codice civile che prevedono il falso in bilancio o la corruzione tra privati (reato, quest’ultimo, che il legislatore ha arbitrariamente sganciato dalla corruzione pubblica diversamente da quanto previsto dagli obblighi internazionali). In un momento come questo, inoltre, il fatto che l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza sia stato rimandato è una contraddizione profonda. Per come è stato pensato il nuovo Codice avrebbe evitato il fallimento di molte aziende in difficoltà economica”. Di qui il riferimento alle due norme introdotte con il decreto del 2000: “Mi allarmano - spiega Troncone - Se un’azienda è in crisi di liquidità rischia in questo modo un’inchiesta penale dopo la denuncia all’Agenzia delle Entrate e il sequestro dei beni”. Per questi casi, che riguardano l’omesso versamento di Iva o ritenuta d’acconto”, Troncone spiega che si potrebbe utilizzare la leva amministrativa: “Ci sono forme di intervento alternativo a quello penale che consentirebbero anche di non appesantire il lavoro nei tribunali”. 41bis: no alla richiesta del detenuto di derogare alla regola dei colloqui mensili di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 13 agosto 2020 n. 23945. La direzione del penitenziario, in nome del diritto preminente alla sicurezza pubblica, può rifiutare la richiesta del carcerato, sottoposto al regime speciale del 41bis, di derogare alla regola dei trenta giorni di distanza fissati per i colloqui visivi e telefonici con i congiunti. La Corte di cassazione, con la sentenza 23945, accoglie il ricorso del ministero della Giustizia, contro la decisione del tribunale di sorveglianza di accogliere il reclamo del detenuto, respinto invece dal magistrato di sorveglianza. L’uomo, condannato all’ergastolo per reati di mafia e ristretto nel carcere di Viterbo, aveva chiesto di poter vedere i congiunti che arrivavano dalla lontana Sicilia a distanza di un paio di giorni, stabilendo gli incontri alla fine del mese e all’inizio del successivo e dunque in mesi diversi ma in date ravvicinate. Per il tribunale di sorveglianza la richiesta non poteva essere considerata in contrasto con l’ordinamento penitenziario, che riguarda il numero dei colloqui, uno al mese e la cadenza regolare. La Cassazione accoglie invece il ricorso di Via Arenula dando un peso preminente alla sicurezza pubblica. Motivo principale della necessità di far passare un ampio margine di tempo tra un colloquio e l’altro, sta nell’esigenza di prevenire il rischio che, malgrado i controlli, possano esserci tra i gruppi criminali esterni e sottoposti al 41bis, flussi informativi costanti. Il tempo è dunque un ostacolo alla veicolazione di eventuali direttive illecite. Per la Suprema corte è escluso anche l’eccesso di potere: l’amministrazione penitenziaria si è mossa in coerenza con i limiti previsti dal regime speciale. Infine i giudici di legittimità sottolineano come nel caso esaminato sia in gioco un legittimo interesse del detenuto e non un diritto soggettivo. Piemonte. Il sovraffollamento delle carceri tocca il 121% targatocn.it, 14 agosto 2020 Il Garante regionale dei detenuti è intervenuto davanti all’Assemblea del Consiglio regionale per relazionare in merito alla situazione delle carceri piemontesi: sorvegliate speciali le strutture di Cuneo e Alba. 61mila detenuti su una capienza di 51mila posti: sono questi i dati, sempre preoccupanti, della situazione delle carceri a livello nazionale, che nel periodo di più stretta epidemia da Covid hanno subito una leggera inflessione ma che ora, a distanza di mesi, continuano a preoccupare. E preoccupano anche a livello regionale. Martedì 4 agosto si è tenuta una relazione straordinaria all’Assemblea del Consiglio regionale da parte di Bruno Mellano, garante regionale dei diritti dei detenuti, che ha richiamato l’attenzione su alcune importanti situazioni, ma soprattutto sulla necessità di un’iniziativa politica e amministrativa ben chiara. A livello piemontese i detenuti delle carceri sono 4.553 su 3.783 posti effettivamente disponibili, per una percentuale del 121 di sovraffollamento; in agosto si è segnalata la presenza di 4.202 detenuti e di 248 camere di pernottamento non utilizzabili per motivi temporanei legati a lavori (per circa 510 posti non disponibili). Tra le 13 carceri piemontesi spiccano alcune situazioni presenti nel nostro territorio provinciale. “Dal gennaio 2016 risulta da recuperare al pieno utilizzo il carcere di Alba, dove è ancora al punto di partenza un restauro legato al rifacimento dell’impianto idraulico per l’acqua potabile e per il riscaldamento, a 5 anni dalla chiusura per epidemia da legionellosi: al momento non si hanno ancora notizie certe nemmeno sull’avviso pubblico per indire la gara d’appalto volta ad assegnare i lavori. Al 3 agosto ad Alba erano 91 le camere soggette a lavori e ben 196 i posti temporaneamente non disponibili” specifica Mellano. “Nella Casa Circondariale di Cuneo l’intero padiglione “ex-Giudiziario” è in attesa, da oltre 10 anni, della conclusione di un piano di recupero ma anche metà del padiglione “Cerialdo”, che ospita il regime del 41 bis, attende da anni il suo completo ripristino che ne permetta il riutilizzo funzionale - aggiunge il garante regionale. Al 3 agosto a Cuneo erano 98 le camere non utilizzabili e ben 192 i posti che risultano temporaneamente non disponibili. Un carcere come quello di Cuneo risulta mezzo vuoto nonostante sia il più vicino a un presidio sanitario di livello e che, invece, avrebbe la vocazione per essere il più importante fra i presidi penitenziari piemontesi legati alla sanità”. Mellano, insomma, chiede una prospettiva (anche abbozzata) di risoluzione in tempi ragionevoli di tutte le urgenze delle carceri piemontesi: prima di parlare “del trattamento e dell’efficacia dell’esecuzione penale in carcere”, serve rendere “gli spazi più adeguati alle richieste di distanziamento sociale che la pandemia impone” Modena. Strage in carcere, le autopsie confermano la morte per overdose di Francesco Baraldi Gazzetta di Modena, 14 agosto 2020 “Niente segni di violenza”. Depositati dal medico legale i documenti conclusivi della perizia svolta sui 5 detenuti morti durante le ore della drammatica rivolta. Ormai a buon punto le indagini sulla ricostruzione della dinamica. Proseguono nel consueto riserbo della Procura le indagini sui drammatici fatti dell’8 marzo scorso nel carcere di Sant’Anna, costati la vita a nove detenuti. Stamane il procuratore vicario Giuseppe Di Giorgio ha confermato che sono stati depositati i risultati della perizia medico legale, che confermano le ipotesi circolate nelle ore immediatamente successive alla rivolta e alla scoperta dei decessi. “La causa esclusiva del decesso è collegabile all’abuso di stupefacenti, verosimilmente quelli sottratti dalla farmacia interna del carcere - spiega Di Giorgio, che poi sottolinea - Non sono stati riscontrati segni di violenza sui corpi”. La relazione conclusiva, svolta in forma garantita, è ora a disposizione delle parti coinvolte nell’inchiesta, che potranno presentare richieste di approfondimenti o integrazioni. Oltre alla questione centrale della perdita di vite umane, vi è poi quella relativa alla rivolta vera e propria. La Procura e la Squadra Mobile, delegata all’indagine, è alle prese con una difficile ricostruzione di quanto avvenuto nelle celle, nei corridoi e negli spazi comuni del Sant’Anna in quell’interminabile pomeriggio di passione. “La ricostruzione dei disordini è complessa - ha aggiunto il magistrato - soprattutto per la non semplice attribuzione delle responsabilità individuali. È ancora in corso ma è ormai a buon punto”. Ricordiamo che a seguito dei fatti di Modena morirono 9 detenuti: la procura modenese indaga sulle sorti di solo 5 di loro, ovvero quelli receduti all’interno del carcere. Altre 4 persone, infatti, morirono nelle ore seguenti dopo il trasporto verso altri penitenziari, visto che la struttura modenese era ormai inagibile: delle loro vicende si occupano le procure del territorio dove si è verificata la morte. Un caso in particolare, quello di Salvatore Piscitelli deceduto dopo il trasporto nel penitenziario di Ascoli - sta creando dibattito e polemiche. Nelle scorse ore, infatti, l’agenzia di stampa AGI ha reso noto il contenuto di alcune lettere firmate dai compagni di carcere e di viaggio di Piscitelli, i quali hanno denunciato presunti pestaggi commessi dalle forze dell’ordine, ma soprattutto la presunta assenza di assistenza medica nei confronti dell’uomo che presentava già i primi sintomi dell’intossicazione che gli sarebbe costata la vita. Melfi (Pz). Antigone denuncia violenze e torture sui detenuti di Fabrizio Di Vito lanuova.net, 14 agosto 2020 Era stata senza dubbio una delle proteste più violente scoppiate quasi in contemporanea in decine di carceri italiane: fatti sui quali anche la magistratura sta cercando di fare chiarezza anche per quanto accaduto nei giorni successivi. A Melfi, nel tardo pomeriggio dello scorso 8 marzo (il giorno in cui l’intero Paese era ufficialmente entrato nell’incubo pandemia da Covid-19), un centinaio di detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza si erano asserragliati per ore nelle rotonde di tre piani dell’istituto, prendendo in ostaggio un ispettore e tre assistenti capo coordinatori di polizia penitenziaria e personale addetto all’infermeria per un totale di nove persone. Una protesta andata avanti per ore, placata solo in piena notte, con ingenti danni causati dai detenuti che avevano praticamente distrutto qualsiasi cosa e bruciato materassi. Nessuno era però riuscire ad evadere dal carcere, come invece avvenuto nella vicina Foggia, l’altro carcere del Mezzogiorno dove la protesta era stata molto accesa. Disordini ufficialmente causati dalle restrizioni introdotte qualche giorno prima dal governo per contenere il rischio contagio in cella, ma sui quali sono in corso diverse inchieste per cercare di delinearne altri contorni. In ogni caso, della protesta andata in scena a Melfi si parla diffusamente nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone dedicato proprio al mondo carcerario italiano. Palermo: il Partito Radicale visita l’Ucciardone: “Verificheremo condizioni dei detenuti” palermotoday.it, 14 agosto 2020 I rappresentanti del partito di Marco Pannella si recheranno domani mattina in visita nell’istituto penitenziario palermitano. Domani, venerdì 14 agosto, a partire dalle ore 10, una delegazione dei consiglieri generali del Partito Radicale, composta da Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli, effettuerà una visita all’interno dell’Ucciardone di Palermo. “La visita - si legge in una nota - rientra nella tradizionale iniziativa del Ferragosto in carcere, che vedrà i rappresentanti del partito di Marco Pannella in visita nei penitenziari di Cagliari Uta, Palermo Ucciardone, Tolmezzo (Udine), Bologna e Napoli Poggioreale. Quest’anno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha autorizzato il Partito Radicale a recarsi in visita in soli cinque istituti di pena su tutto il territorio nazionale, con delegazioni composte al massimo da due persone”. “Il carcere palermitano dell’Ucciardone è l’unico dei 23 penitenziari siciliani che visiteremo nell’ambito del Ferragosto in carcere radicale, che quest’anno si svolge in forma ridotta - dicono in coro Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli, membri del Consiglio generale del Partito Radicale. Verificheremo le condizioni di detenzione ed effettueremo una prima valutazione dell’impatto del Covid-19 sulla realtà penitenziaria. Rivolgiamo un appello a tutti i parlamentari nazionali e regionali, che non hanno bisogno di autorizzazione per visitare le carceri, ad esercitare le loro prerogative recandosi in visita negli istituti di pena in questa caldissima e per molti versi anomala estate del 2020”. Piazza Armerina (En). Nel carcere l’evento “Pizza galeotta” di Elisa Saccullo Quotidiano di Sicilia, 14 agosto 2020 Iniziativa di solidarietà all’interno della Casa circondariale, organizzata in collaborazione con la Cisi. Uno dei primi eventi organizzati dopo la fase di emergenza legata al Coronavirus. Pizza, cultura e solidarietà. La Casa circondariale piazzese, in occasione della conclusione di un corso di formazione per pizzaiolo svolto all’interno dell’istituto a cura del Cisi di Enna, ha organizzato l’evento “Pizza galeotta - Metti una pizza a Piazza”. L’occasione è stata utile per fare gustare le pizze, realizzate dai detenuti allievi del corso con la guida dei maestri pizzaioli, a vari ospiti, tra i quali anche il sindaco della Città dei mosaici, Nino Cammarata. L’idea, messa a punto dalla direzione del carcere con il contributo della collaboratrice culturale Samantha Intelisano, ha previsto anche la consegna degli attestati, una degustazione, letture scelte a cura di Roberta Battista e musiche, il tutto ospitato nei locali della Biblioteca. Si è trattato di uno dei primi eventi realizzati in un istituto penitenziario dopo la fase di maggiore emergenza legata al Covid-19. “La Biblioteca della Casa circondariale - ha sottolineato il direttore Antonio Gelardi - non vuole essere un on mero luogo di smistamento di libri, ma il centro di cultura dell’Istituto, luogo di riunioni e di diffusione del sapere. Un secondo appuntamento con le pizze realizzate dei detenuti è stato organizzato con i parenti di questi ultimi, per consentire un ulteriore incontro, pur nel rispetto delle misure precauzionali, in ore diverse da quelle dei normali colloqui. Verona. Imprenditori agricoli a lezione nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 agosto 2020 Quindici imprenditori agricoli iscritti al corso sulle fattorie sociali, organizzato da Impresa Verde Verona srl, ente di formazione della Coldiretti provinciale, hanno assistito lunedì 10 agosto a una lezione all’interno della casa circondariale di Verona Montorio. Una scelta solo apparentemente insolita, in quanto nelle carceri sono in aumento le iniziative di agricoltura sociale, settore che, si ritiene, possa offrire sbocchi occupazionali importanti e aprire nuove strade, anche per suoi risvolti in ambiti quali quello dell’ecosostenibilità e del turismo. Oggi la lavorazione della terra, nella sua accezione più attuale di agricoltura multifunzionale - che comprende rispetto dell’ambiente, tutela della biodiversità, gestione sostenibile delle risorse del territorio - richiede il coinvolgimento, in termini di formazione, di tutte le realtà interessate a progetti in questo settore. Di qui l’importanza, per gli allievi del corso, di conoscere le specifiche esigenze e opportunità del carcere e individuare, insieme alla direzione, possibili progetti di inserimento lavorativo dei detenuti. “Produrre in questo settore - ha precisato Chiara Recchia, responsabile di donne impresa di Coldiretti Verona che coordina i progetti delle fattorie didattiche e sociali - non vuol dire soltanto portare cibo sulle tavole, ma rispondere anche a precise esigenze della società a più livelli”. Sono 9mila le fattorie inserite nella rete sociale di Coldiretti e sempre più numerosi - tra orti sociali, corsi, coltivazioni sperimentali - i progetti attuati negli istituti penitenziari di tutta Italia. Gorgona (Li). L’isola carcere un modello anche oltre confine livornotoday.it, 14 agosto 2020 Il servizio del The Guardian sulla colonia penitenziaria. Il prestigioso quotidiano inglese ha ripreso la notizia della chiusura del mattatoio locale portando alla ribalta le storie dei detenuti. Mazzerbo: “Qui nessuno si sente prigioniero”. Ci sono storie che meritano di essere raccontate. Come quella del “modello Gorgona”, splendida isola carcere dell’Arcipelago Toscano che nella sua natura incontaminata offre ai detenuti che la popolano una seconda possibilità, senza sbarre. E insieme ai detenuti gli unici abitanti del piccolo paradiso sono sempre stati gli animali che, all’interno del programma di lavoro dei carcerati, venivano allevati e, infine, destinati al locale mattatoio. Anni di battaglie da parte di politici e associazioni ambientaliste - Lav in prima linea - hanno portato a inizio 2020 alla firma di un protocollo d’intesa tra il Comune di Livorno e la Casa Circondariale di Livorno, diretta da Carlo Mazzerbo, che ha salvato la vita agli oltre 500 animali dell’isola. Il macello, lo scorso giugno, è stato infatti definitivamente smantellato e gli animali, sull’Arca della Libertà, hanno guadagnato la terraferma e la libertà. The Guardian: il quotidiano inglese racconta in un reportage “l’isola dei sogni” - Una storia da raccontare, dicevamo, che ha attirato l’attenzione anche del quotidiano The Guardian che in un articolo di Angela Giuffrida ha raccontato la vita a stretto contatto con la natura dei detenuti dell’ultima colonia penitenziaria della penisola. Il prestigioso quotidiano inglese ha pubblicato in data 6 agosto un reportage dalla Gorgona e ha portato alla ribalta le storie di Orazio, Andrea e degli altri detenuti e il loro rapporto con gli animali dell’isola che loro stessi hanno accompagnato fino alla libertà. “Sì, sono in prigione, ma qui non sempre si sentono prigionieri - le parole di Carlo Mazzerbo al The Guardian. Lavorano e lo fanno con soddisfazione perché sanno che aiuta tutti. Il lavoro, d’altronde, dà loro determinati valori, compreso il rispetto delle regole di altri. La cosa più bella di Gorgona è questo aspetto umano. È unico. Lavorare in natura ripaga e dà forza”. Punzo e i detenuti “dopo la tempesta” bresciaoggi.it, 14 agosto 2020 Più che mai quest’anno Armando Punzo per la Compagnia della Fortezza, composta dai reclusi del carcere di Volterra, ha creato, partendo dal mondo di Shakespeare per ricordarne i 400 anni dalla morte, uno spettacolo metaforico sulle incertezze della vita, sulla possibilità di essere travolti da una tempesta, poi di salvarsi naufraghi e pian piano di ricominciare una vita nuova, che pare alludere direttamente alle esperienze dei suoi attori, tutti detenuti con un passato pesante, un qualcosa che ha stravolto le loro vite, che ora, anche grazie al teatro, cominciano a guardare nuovamente avanti, a pensare a un futuro. Il titolo del lavoro è appunto Dopo la tempesta - L’opera segreta di Shakespeare alla Fortezza Medicea che in versione modificata, andrà anche in giro. Come il mago Prospero de La tempesta, Punzo in mezzo ai suoi attori si muove estraneo e complice assieme. Siamo nel grande spazio del cortile dell’ora d’aria del carcere, che come sempre è stato tutt’attorno e al centro addobbato con una scenografia esemplare firmata da Mazzetti, Bertoni e dallo stesso Punzo, tutta simboliche grandi e piccole croci di legno che si incastrano a formare un’intricata struttura in cui infilarsi come in una gabbia, su cui salire come verso il Golgota, mentre al centro è un grande letto, luogo di tradimenti e amori, da Otello e Desdemona a Romeo e Giulietta per riflettere sull’onesta e sulla fedeltà. Con loro tanti altri personaggi, identificabili magari da una battuta, da Riccardo III a Macbeth e Re Lear, una bianca figura gira trascinando un’alabarda come un fantasma dell’Amleto o magari Amleto stesso, così come Desdemona è legata al suo fatidico fazzoletto che recupera anche quando Prospero-Punzo glielo strappa dalle mani, quasi lei come tutti fossero prigionieri del loro personaggio, costretti su un’isola, dopo essere sopravvissuti a “tempeste che fanno naufragare”. La verità per tutti è che “la natura stessa guiderà a una seconda scelta”, l’importante è che si sappia “rinunciare a una parte di sé stessi”. Uno spettacolo raffinato, costruito nei particolari, con grandiosità e assieme attenzione all’azione dei singoli, che in questa inevitabile identificazione tra il gran mondo e l’umanità del Bardo e il caleidoscopio delle esistenze degli interpreti, vive di movimenti, di sorprese di bell’impatto visivo, di allusioni, di parole che acquistano una forza poetica e espressiva unica, momento evidente di libertà, di un riuscire a andar oltre in una situazione invece di costrizione, con la lunga fila di sbarre tutt’attorno allo spazio in cui attori e spettatori si trovano rinchiusi. Così gli applausi finali, calorosi, diventano anche un momento di liberazione. Bielorussia, agenti gettano la divisa in dissenso con i pestaggi di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 14 agosto 2020 Nauseati dalla repressione, uomini delle forze speciali hanno gettato la divisa nei cassonetti e preso le distanze dai loro colleghi che stanno eseguendo gli arresti e i pestaggi. Attese sanzioni Ue. Aleksandr Lukashenko, il padre e padrone della Bielorussia è seriamente preoccupato per gli ultimi avvenimenti nel suo Paese. Mentre per il quinto giorno migliaia di manifestanti occupano pacificamente le vie della città, sono altri i fatti che sembrano più gravi per le autorità. Le dimissioni di alcuni agenti di polizia, le immagini di ex membri delle truppe speciali che gettano la divisa nella spazzatura ma soprattutto la preoccupazione di Mosca che denuncia “interferenze esterne”. E questo tipo di linea del Cremlino ha costituito in altre circostanze (vedi la Crimea) la premessa di un “approfondito interessamento”, più o meno diretto. Una seria “preoccupazione” è stata espressa nel pomeriggio dalla portavoce del ministero degli esteri russo. Qualcuno, è la tesi di Mosca, sta cercando di destabilizzare il paese. Forse proprio di fronte alla pressione che arriva tanto dalla Russia quanto dall’Unione Europea che potrebbe imporre nuove sanzioni nelle prossime settimane, sembra che il presidente bielorusso abbia deciso di tenere un po’ a freno i responsabili della repressione di questi giorni. Una nuova catena umana per le strade di Minsk non è stata interrotta con brutalità dalle forze dell’ordine, mentre alcuni dei manifestanti arrestati sono stati rilasciati. Alcuni agenti in servizio hanno presentato le dimissioni in dissenso con le direttive ricevute dall’alto. Un capitano, Yegor Emelianov di Novo Polozk, è stato convocato nella sua ex stazione di polizia dove è stato fermato e messo sotto accusa per una violazione amministrativa. Su internet sono poi comparsi numerosi video di ex spetsnaz, gli uomini delle truppe speciali, che nauseati per la repressione, gettano la divisa nei cassonetti e prendono le distanze dai loro colleghi che stanno eseguendo gli arresti e i pestaggi. Un altro agente, Ivan Kolos, non si è dimesso ma ha scritto di non essere più disposto a obbedire a questo tipo di ordini e ha lanciato un appello ai suoi colleghi: “Abbiamo giurato di difendere il popolo bielorusso ma invece stiamo difendendo gli interessi di una persona che ha preso il potere con la forza ed ora non ha il coraggio di porre fine agli spargimenti di sangue consegnando il potere al popolo”. Ivan ha aggiunto che da ora prenderà ordini solo dalla Tikhanovskaya che considera il presidente legittimo del paese e ha invitato i suoi colleghi a fare altrettanto. In Libano è stato di polizia, poteri speciali all’esercito di Pasquale Porciello Il Manifesto, 14 agosto 2020 I militari potranno ora reprimere libertà di parola, stampa e assemblea, irrompere senza mandato in abitazioni private, arrestare arbitrariamente chiunque sia ritenuto pericolo pubblico. Votano sì tutti i parlamentari, tranne uno. E i casi di Covid-19 aumentano ancora. Stato di emergenza, o forse sarebbe più corretto dire Stato di polizia. Con il voto di ieri il parlamento libanese accorda poteri straordinari all’esercito, che può ora liberamente reprimere libertà di parola, stampa e assemblea, irrompere senza mandato in abitazioni private, arrestare arbitrariamente chiunque sia ritenuto pericolo pubblico. Magistratura scalzata, procedimenti giudiziari portati direttamente davanti alle corti militari, esercito a capo di tutte le forze di sicurezza. Il decreto ministeriale emanato dal premier ora dimissionario Diab all’indomani dell’esplosione al porto di Beirut (causa di circa 200 vittime, 6mila feriti e danni incalcolabili) e entrato in vigore il 7 agosto, è stato riconfermato fino al 21. In Libano è necessaria un’autorizzazione parlamentare per lo stato di emergenza che ha durata massima una settimana, poi bisogna rivotare. Le misure straordinarie prese fino al 7 sono tecnicamente illegali secondo Wissam el-Lahham, professore di diritto all’università Saint Joseph. Non era ancora chiaro neanche ai parlamentari se lo stato di emergenza fosse iniziato con l’annuncio di Diab o se sia cominciato ieri. L’approssimazione non è certo materia di scandalo in Libano. Fatto sta che ora le misure sono ufficiali e spaventano le associazioni umanitarie come l’Osservatorio per i Diritti umani o Legal Agenda, che hanno già denunciato l’uso eccessivo della forza e di armi illegali da parte della polizia durante le proteste dei giorni scorsi, supportate da referti medici e video che circolano da giorni sui social. Pratiche usuali in Libano su cui già esiste un’ampia letteratura. Dei 119 parlamentari riuniti eccezionalmente nella sede blindata dell’Unesco, solo Osama Saad (Organizzazione popolare nasserista) ha votato contro e denunciato la “militarizzazione dello Stato”. La risposta dalla terza carica dello Stato e leader di Amal Berri ha sottolineato come l’esercito, nonostante avesse potuto, “non abbia adottato misure di cui il popolo ha paura o soppresso i media e abbia permesso le proteste”, ma ha omesso che proprio la Guardia del Parlamento, in teoria al servizio dello Stato, ma formata da ex miliziani di Amal e da persone vicine a Berri - tanto che l’analista politico al-Amin ha parlato in passato di guardia personale di Berri pagata dallo Stato - è stata il corpo più violento negli scontri di questi giorni, come conferma la nostra intervista a Marwan Hamdan dell’8 agosto e numerose testimonianze. Se da un lato l’evento eccezionale del 4 agosto richiede un intervento eccezionale, non bisogna dimenticare che in Libano è in atto una rivolta popolare da ottobre. Lo stato di emergenza potrebbe essere l’occasione per arrestare sommariamente centinaia di attivisti che si sono esposti in questi mesi, dando il via libera a pratiche già largamente utilizzate. Sul versante sanitario la situazione non migliora: il ministro della salute ha annunciato la possibilità di nuovi lockdown per l’aumento dei casi di Covid (ieri 298 e tre morti). Giornata ricca di eventi quella di ieri: appuntato il giudice militare Fadi Sawan per l’inchiesta sull’esplosione al porto su suggerimento della ministra della giustizia Najem del governo Diab. Avrà il supporto dell’Fbi e di 22 investigatori francesi. E poi la pace storica tra Emirati e Israele, mediata da Trump, proprio alla vigilia dell’arrivo del sottosegretario di Stato per gli Affari politici David Hale, ex ambasciatore in Libano. Un clima generale in cui Hezballah è sempre più isolato. Lo stato di polizia è solo l’ennesima conferma che in Libano si fanno gli interessi di tutti, tranne che del popolo. Afghanistan. Via libera alla liberazione di 80 talebani per consentire l’avvio dei colloqui di pace La Repubblica, 14 agosto 2020 La scelta era stata contestata: ma gli studenti islamici hanno minacciato di non avviare le trattative se non fosse stata fatta. Il governo di Kabul ha annunciato la liberazione dei primi 80 detenuti talebani dei 400 che, su richiesta del movimento fondato dal mullah Omar e con il via libera della Loya Jirga, verranno rilasciati per consentire l’avvio dei difficili colloqui di pace. “Il governo della Repubblica Islamica dell’Afghanistan ha liberato ieri 80 detenuti talebani dei 400 per i quali è arrivata l’autorizzazione della Loya Jirga”, ha confermato stamani con un tweet il portavoce dell’ufficio del Consiglio di sicurezza nazionale, Javid Faisal. L’obiettivo, ha ripetuto, è “facilitare” i colloqui di pace e spianare la strada a un “cessate il fuoco duraturo in tutto il Paese”. Dopo la Loya Jirga del 9 agosto, il rappresentante speciale Usa Zalmay Khalilzad aveva detto di aspettarsi “il completamento del rilascio di prigionieri nei prossimi giorni”. E i Talebani - tramite un portavoce dell’ufficio politico, Suhail Shaheen - si erano detti pronti a colloqui di pace con il governo di Kabul “nell’arco di una settimana” dalla liberazione dei 400 prigionieri talebani da parte delle autorità afghane. I colloqui dovrebbero tenersi a Doha, in Qatar.