Detenuti picchiati, denudati e insultati: ma i media parlano solo di scarcerazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 agosto 2020 Pestaggi, ritorsioni nei confronti dei rivoltosi, presunte squadrette che hanno creato terrore nelle sezioni del carcere. Il biennio 2019 - 2020 è il periodo dove sono emerse denunce riguardanti presunti abusi all’interno dei penitenziari italiani. Il picco sarebbe stato raggiunto il giorno dopo le rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e l’11 marzo scorso. Mentre il tema “scarcerazioni” (che in realtà si trattava di differimento pena per motivi di salute ai tempi del Covid-19) ha monopolizzato i mass media e l’opinione pubblica, poco è stato detto sui presunti pestaggi dove alcune procure hanno avviato indagini - alcune conclusasi con la richiesta di rinvio a giudizio - con l’accusa di reato di tortura. In questo momento sono circa otto i procedimenti in corso per episodi di tortura che vedono implicati gli agenti della polizia penitenziaria. Partiamo dal carcere di San Gimignano dove l’associazione Yairaiha Onlus ha reso pubblica la lettera - pubblicata in esclusiva su Il Dubbio - da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore di un presunto pestaggio nei confronti di un extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha detto di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. L’altra conferma che qualcosa è accaduto è poi dovuta dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, è stata trasmessa la notizia di reato alla competente Procura di Siena. Poi, nell’ottobre del 2019, dopo un’accurata indagine con tanto di prove video, il pubblico ministero ha contestato il reato di tortura nei confronti di quindici agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione. Nei confronti di 4 poliziotti, a seguito di misura interdittiva disposta dalla procura, il Dap aveva disposto la sospensione dal servizio. Al termine del periodo sono regolarmente rientrati in servizio. Oltre Yairaiha Onlus, anche l’associazione Antigone è parte del procedimento in quanto a dicembre del 2019 ha presentato un proprio esposto sui fatti. L’udienza preliminare originariamente fissata per il 23 aprile 2020, a causa dell’emergenza sanitaria è stata rinviata al 10 settembre 2020. Parteciperà anche l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà come parte offesa. Come si legge nel pre-rapporto di Antigone c’è il caso del carcere di Monza. I fatti risalgono ad agosto 2019 e riguardano la violenta aggressione fisica denunciata da un detenuto. A fine settembre Antigone presenta un esposto, che si affianca alla denuncia presentata dalla vittima. Il magistrato, nel corso del procedimento, ha acquisito le videoregistrazioni relative a quanto accaduto. Nel febbraio del 2020 è stato avviato il procedimento per tortura contro taluni agenti. Le indagini sono attualmente in corso. Così come al carcere di Palermo, a gennaio di quest’anno, Antigone viene a conoscenza di un episodio di maltrattamenti nei confronti di una persona detenuta, il quale in Corte di Assise di Appello di Palermo rende dichiarazioni spontanee, denunciando le violenze subite all’arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura. A seguire Antigone ha presentato un esposto contro gli agenti per tortura e contro i medici per non avere accertato le lesioni. Anche in questo caso le indagini sono attualmente in corso. I pestaggi dopo le rivolte carcerarie - A marzo 2020, durante l’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del Covid-19, Antigone è stata contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, per le violenze, gli abusi e i maltrattamenti, come punizione per la rivolta precedentemente scoppiata nel I Reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura. Sempre a marzo 2020 - periodo delle rivolte - Antigone è stata contattata dai familiari di molte persone detenute presso il carcere di Melfi, le quali hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 03.30, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni conseguenti allo stato d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito nemmeno di andare in bagno. Ad esse sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui dichiaravano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Poi c’è il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel mese di aprile 2020 Antigone è stata contattata da diversi familiari di persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale campana per abusi, violenze e torture subite da taluni detenuti. Le violenze sarebbero avvenute nel pomeriggio del 6 aprile 2020 come ritorsione per la protesta svoltasi il giorno precedente dopo il diffondersi della notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici, in base a quanto denunciato, avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. Sin attivò anche il garante regionale Ciambriello. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento. Sempre nel marzo 2020 Antigone è stata contattata dai familiari di alcune persone detenute nel carcere di Pavia che hanno denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari subiti a seguito delle proteste di qualche giorno prima. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole degli indumenti e lasciandole senza cibo. Ai detenuti durante il trasferimento non sarebbe stato permesso di portare nulla dei propri effetti personali né di avvisare i familiari. A fine aprile Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e tortura. Le indagini sono attualmente in corso. Diverse persone sarebbero state già sentite dalle autorità inquirenti. Altri presunti pestaggi sarebbero avvenuti nel carcere di Foggia e sempre come ritorsione per la rivolta. A rendere pubblica l’esposto fatto in procura da parte dei familiari è Il Dubbio. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima dell’intervenuto trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze. Sarà la Procura ad accertare quanto sia effettivamente avvenuto e, nel caso, ad esercitare un’azione penale nei confronti dei responsabili di eventuali reati. Rimangono sullo sfondo le diverse testimonianze che coincidono perfettamente. Non per ultimo c’è il discorso dei 14 detenuti morti a seguito delle rivolte. Ufficialmente, dopo aver effettuato l’autopsia, risulta che sono morti per overdose. Ma resta aperto il discorso dei detenuti morti a seguito dei trasferimenti. Parliamo di quelli di Monza, morti uno dopo l’altro nel momento del trasferimento nelle altre carceri. Alcuni con viaggi durati ore. Cinque erano già morti nel carcere, mentre gli altri quattro sono morti durante il trasferimento. Come mai non si sono accorti che anche quest’ultimi avevano fatto una ingestione di metadone? Sarà eventualmente la magistratura a cercare la verità dei fatti. Attenti ad annientare Cutolo. È una persona, non un “simbolo” di Nicola Quatrano* Il Dubbio, 13 agosto 2020 Dietro il no alla scarcerazione, l’idea (incostituzionale) del 41bis come fabbrica di pentiti. Quando, nel 1982, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini intervenne per ottenere il trasferimento di Raffaele Cutolo dal carcere di Ascoli Piceno a quello di massima sicurezza dell’Asinara, riaperto appositamente per lui e dove per un paio di anni sarà l’unico detenuto, tutte le persone amanti della giustizia approvarono quella saggia iniziativa. La N.c.o. (Nuova camorra organizzata), fondata in carcere dal boss, aveva in poco tempo accumulato un enorme potere e assunto il controllo di vaste zone della Campania (e non solo), attraverso violenze di ogni tipo e omicidi efferati. Nel solo 1981, le vittime della guerra camorrista con la Nuova famiglia (la rivale associazione dei clan tradizionali) raggiunsero il numero di 295, furono 273 nel 1982, e toccarono quota 290 nel 1983. La diabolica intelligenza del professore aveva saputo costruire una organizzazione radicatissima che forniva “lavoro” e welfare, ma anche identità, a giovani senza altra prospettiva di futuro, riuscendo a pescare perfino negli ambienti politicizzati che vivevano con rabbia il “tradimento” delle promesse sui cui si era fondata l’impetuosa crescita di consensi al Pci negli anni Settanta (non tutti finirono nelle fila del “Movimento del 77”, qualcuno fu attirato dalla sirena camorrista). Inoltre Raffaele Cutolo aveva saputo cogliere l’occasione del rapimento dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, da parte delle Br, per entrare da protagonista nel grande gioco delle trattative con la Dc ed i Servizi segreti (non deviati). E fu proprio l’allarme per questa “trattativa”, i cui termini non erano affatto chiari, a spingere il saggio presidente Sandro Pertini a prendere un’iniziativa provvidenziale, che contribuì a stroncare un fenomeno nuovo e allarmante, e inferse senza dubbio un colpo gravissimo al prestigio di un uomo che non avrebbe dovuto averne, e alla forza di un’organizzazione che aveva prodotto solo danni alla civile convivenza. Ma, col tempo, le cose cambiarono, e oggi la Nco - checché ne pensi il Tribunale di Sorveglianza di Bologna - non esiste più, e anche il prestigio criminale del vecchio boss malato è oramai un ricordo del passato. Eppure, dal 1986, egli è ancora soggetto al regime “duro” del 41bis, senza davvero che ce ne sia alcun bisogno. Che cos’è il 41bis? Un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione, o l’imposizione di un vetro di separazione nel corso di colloqui controllati visivamente e registrati? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita impossibile? Un mio assistito, provetto pasticcere, lamenta di preparare la pasta frolla con il pan carré (che cucina poi in un forno di fortuna composto di due pentole sovrapposte), perché gli è vietato comprare la farina. Che cosa c’entra la sicurezza con la farina? Legittimo dunque il sospetto, avanzato da molti, che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta ad una revisione critica del proprio passato e alla decisione di farla finita col passato. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura. Nei giorni scorsi, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha respinto l’istanza di scarcerazione per motivi di salute avanzata nell’interesse di Raffaele Cutolo. Il suo avvocato, Gaetano Aufiero, ha assennatamente osservato: “Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da quarant’anni, dei quali venticinque al 41bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana”. Leggiamo sui giornali che il Tribunale avrebbe obiettato che la sua scarcerazione “potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”, e avrebbe aggiunto che il vecchio boss rappresenta “un simbolo”. Un simbolo? Che significa? Si mira forse a distruggere un “simbolo” attraverso l’annientamento fisico e morale di un essere umano? Sono parole che ricordano la violenta requisitoria che il pubblico ministero Michele Isgrò pronunciò nel corso del processo contro Antonio Gramsci e altri dirigenti del Pci. Era il 2 giugno 1928 e il rappresentante della pubblica accusa dinanzi al Tribunale Speciale disse che bisognava “far smettere di funzionare il cervello” del fondatore del Pci, perché era sommamente pericoloso. Voglio con questo dire che Raffaele Cutolo è una vittima innocente come lo fu Antonio Gramsci? NO, non ci penso proprio. Piuttosto è la cultura di certi magistrati di oggi e di tutti i tonitruanti difensori del carcere duro ad assomigliare pericolosamente a quella del fascismo. *Avvocato Cutolo sta morendo, silenzio di Stato da 10 mesi e lui scambia la moglie per la cognata morta di Angela Stella Il Riformista, 13 agosto 2020 Perché Raffaele Cutolo è ancora ristretto al 41bis? È quanto si chiede il suo legale Gaetano Aufiero che il 10 agosto ha inviato una istanza al ministro Bonafede per chiedere la revoca del regime di carcere duro: “È venuta meno la capacità del condannato di mantenere collegamenti con qualsivoglia associazione criminale e/o di rivestire ruoli all’interno delle stesse. Di conseguenza, non sussistono più i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica giustificativi del mantenimento del regime detentivo speciale che, allo stato, in considerazione delle condizioni di salute del condannato, è inutilmente afflittivo”. E perché, si chiede sempre il legale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma dopo dieci mesi dal reclamo difensivo ancora non fissa l’udienza per stabilire se sussistano le condizioni per trattenere al 41bis Cutolo? Il decreto di proroga del 41bis veniva emesso dal ministro della Giustizia l’11 settembre 2019; contro tale decisione il difensore ha proposto reclamo il 2 ottobre. “Ebbene, ad oggi - ci dice Aufiero - a distanza di oltre 10 mesi dalla proposizione del reclamo e di 11 mesi dall’esecuzione del decreto, l’atto di impugnazione non è stato ancora fatto oggetto di discussione in quanto, nonostante l’inoltro di ben due solleciti, il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora provveduto alla fissazione della relativa udienza, così di fatto impedendo al condannato l’esercizio del suo legittimo diritto all’impugnazione del gravoso provvedimento eseguito nei suoi confronti”. L’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell’eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni. Inoltre le condizioni di salute di Cutolo meritano maggiore attenzione, anche giudiziaria, e non consentono di aspettare tempo ulteriore. Come vi abbiamo infatti raccontato qualche giorno fa, l’uomo è ancora ricoverato nell’ospedale di Parma per un quadro clinico compromesso sotto diversi punti di vista. Inoltre lo scorso 7 agosto sua moglie Immacolata Iacone è andata a trovarlo ma ha trovato davanti a sé una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. Tali evidenti vuoti di memoria e disordini mentali rappresentano, secondo il legale e secondo il Primario del reparto dove Cutolo è ricoverato, sintomi inconfutabili di demenza senile. Pertanto in una seconda istanza, sempre del 10 agosto, l’avvocato Aufiero torna a chiedere una perizia medico legale sul suo assistito e il differimento della pena per motivi di salute. Si vuole lasciar morire Cutolo al 41bis? Ci si vuole accanire contro di lui come avvenuto con Provenzano? Il dubbio viene se la moglie racconta che durante il suo colloquio in ospedale non ha potuto toccare il marito allettato perché tra di loro sono state frapposte delle sedie ad impedire alcun contatto. La violenza di polizia come dispositivo dell’ordine politico di Donatella Di Cesare Il Manifesto, 13 agosto 2020 La violenza perpetrata da un poliziotto a Vicenza fa venire in mente una serie di episodi analoghi. E suscita sdegno proprio perché appare non un semplice incidente, bensì un gesto rivelativo. Si parla di “eccessi di forza”, di piccoli “abusi”. L’idea diffusa è che le forze dell’ordine rimettano a posto le cose. Nell’azione di controllo sarebbe poi inevitabile un cedimento, una mossa esagerata. Ma è davvero così? Si tratta di sporadiche anomalie all’interno di un sistema altrimenti corretto? Oppure la disfunzione è sistematica e lascia intravedere al fondo il funzionamento stesso di un’istituzione oscura? Da una parte i neri e dall’altra i bianchi, da una parte i poveri e dall’altra i ricchi, da una parte i garantiti, i protetti, gli intoccabili, dall’altra gli esposti, i reietti, i corpi importuni e superflui. Non si tratta di un’applicazione anomala, bensì di un dispositivo volto a definire l’ordine politico. La polizia traccia limiti, sceglie, discrimina, ammette al centro o respinge ai margini. In tal senso sembra fuorviante quella visione economicistica che nel compito della polizia vede solo una normalizzazione finalizzata ad accrescere la ricchezza di pochi. Piuttosto la questione della polizia si inscrive nell’economia dello spazio pubblico. Perché lì si decide il diritto di appartenenza e quello di apparizione: chi è autorizzato ad accedere, a circolare liberamente, a sentirsi a casa propria, e chi viene invece identificato, intimidito, ricacciato nell’invisibilità, se non addirittura rinchiuso in prigione. È innegabile l’uso segregativo che la polizia fa del potere, un modo per rinsaldare più o meno brutalmente la supremazia di alcuni - ma non è questo già razzismo, xenofobia di Stato? - e per acuire le differenze rendendole perspicue. Questo non vuol dire che la polizia sia illegale. Piuttosto è legalmente autorizzata a svolgere funzioni extralegali. Non si limita ad amministrare il diritto, ma ne stabilisce ogni volta i confini. Detiene non solo il monopolio della violenza interpretativa, perché ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria presa sulla vita dei singoli. Proprio per ciò le violenze della polizia non sono anomalie, ma rivelano il fondo oscuro di questa istituzione. Sono come istantanee che colgono la polizia mentre conquista spazio, acquisisce potere sui corpi, esamina e sperimenta una nuova legalità, ridefinisce i limiti del possibile. La scena di Vicenza, come purtroppo altre precedenti, suscita sconcerto, perché è l’indizio di un potere autoritario, la prova di uno Stato di polizia nello Stato di diritto. Sotto questo aspetto le violenze, mentre manifestano l’essenza della polizia, fanno affiorare l’architettura politica, che cattura e bandisce, include ed esclude, nella quale, insomma, la discriminazione è già sempre latente. La pandemia ha reso ancor più esclusiva l’immunizzazione per chi è dentro, implacabile l’esposizione per chi è fuori. Così si può dire che la polizia svela l’immunopolitica nello spazio pubblico. Arresto violento a Vicenza, avviata un’indagine di Marina Della Croce Il Manifesto, 13 agosto 2020 La questura di Vicenza ha aperto un’indagine interna per valutare il comportamento del poliziotto che lunedì ha fermato con una presa al collo un ragazzo cubano di 21 anni, Denis Jasel Guerra Romero, che si era rifiutato di mostrare i documenti. “Ovviamente le tecniche usate dall’agente vanno inserite in un contesto di carattere puntuale e particolare che sarà verificato senza alcun tipo di problema e senza remore” ha assicurato il questore, Antonino Messineo, per il quale il comportamento dell’agente non sarebbe stato dettato da motivazioni razziste. Ieri intanto il tribunale di Vicenza ha confermato l’arresto del giovane cubano, accusato di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e fissato l’udienza per direttissima per il 18 settembre. La vicenda ha inizio lunedì quando in pazza Castello arriva una volante chiamata per sedare una rissa tra due italiani. Secondo la versione fornita dalla polizia, mentre gli agenti stavano operando alcuni ragazzi prevalentemente di origine straniera si sarebbero avvicinati e avrebbero cominciato a sbeffeggiare gli agenti. Che prima gli avrebbero chiesto di allontanarsi e di non usare i telefonini, cosa che Denis Jasel Guerra Romero si sarebbe rifiutato di fare prendendo in giro l’agente. Una versione smentita però da Romero, secondo il quale il poliziotto lo avrebbe strattonato. Gli attimi successivi sono stati ripresi dai telefonini delle molte persone presenti. L’agente afferra con una presa al collo Romero che prima di cadere a terra prova divincolarsi con degli strattoni. Poi riesce a liberarsi ma viene fermato dagli agenti di una seconda volante sopraggiunti nel frattempo. Il poliziotto rimane invece a terra e in seguito viene medicato in ospedale. Quelle riprese con i cellulari dai molti testimoni sono immagini choc che fanno il giro della rete. Vi sono impressi gli attimi in cui il poliziotto dopo aver seguito per un tratto di strada Romero che prova ad allontanarsi, improvvisamente lo afferra al collo per poi cadere entrambi a terra. Immagini che inevitabilmente richiamano alle mente quanto accaduto lo scorso mese di maggio a Minneapolis e la tragedia di George Floyd e che adesso entreranno a far parte delle indagini insieme a quelle registrate dalle telecamere di sicurezza. Per questo il giudice ha dato tempo alle parti per raccogliere testimonianze e ulteriori immagini, a sostegno delle tesi che verranno portate in aula a settembre. Ieri durante l’udienza di convalida dell’arresto una quarantina di attivisti dei centri sociali ha dato vita a una manifestazione pacifica a sostegno di Romero esponendo davanti al tribunale uno striscione con la scritta “Basta abusi in divisa”. Il legale del giovane cubano non ha escluso che in un secondo momento “la famiglia del 21enne possa decidere di fare causa nei confronti dell’agente”. Salvini fa l’ultrà della polizia perché non tifa per l’umanità di Gioacchino Criaco Il Riformista, 13 agosto 2020 La libertà andrebbe interrotta solo per motivi gravi. Non si afferra un ragazzo per la gola come un gallinaceo. Le prevaricazioni non si accettano. In Inghilterra non esiste l’obbligo di portarsi dietro i documenti, la polizia ti chiede al massimo di declinare oralmente le generalità, ci si può attraversare la vita, da Soho alle colline del Sussex, senza incrociare un ordine dell’autorità. I Bobbies manco la pistola portano in giro. Al contrario, negli Stati Uniti, gli Sceriffi spesso dispensano violenze inaudite agli sfortunati di cui incrociano la via. Nella Locride, nel nisseno, nel foggiano o nel nuorese, per abitudine, nei periodi caldi, si poggia la patente sul cruscotto, tanto frequenti sono i controlli. E non è una cosa bella farsi frugare il corpo da mani estranee se si è impostata una vita ferreamente chiusa dentro le regole. E il detto che devi sottoporti ai controlli se non hai commesso niente, vale quanto quello che se ti arrestano qualcosa avrai fatto. Nulla. Tutto sta nel valore che si dà alla propria libertà, alla inviolabilità del proprio corpo, della propria solitudine. Nessuno dovrebbe avere il diritto di interrompere i pensieri altrui, se non per fatto grave. E quando il fatto è grave, perché una norma lo preveda, e chi interrompe la libertà, in qualunque forma, altrui è un uomo di Legge dovrebbe avere i modi e le forme le meno invasive possibili, ed essere quelle fisicamente invasive le ultime da utilizzare. Non lo si prende un ragazzo dal collo, come fosse un gallinaceo, che neppure quello va afferrato con violenza. E casomai succedesse, come è avvenuto a Vicenza, che un poliziotto ha afferrato per il collo e steso per terra un ragazzo, non dovrebbe accadere che un rappresentante del popolo giustificasse, senza approfondire, la presa: perché con le forze dell’ordine si parteggia a prescindere. È con l’umanità che si dovrebbe stare prima di tutto, e con chi la pratica. Chi esagera sbaglia, anche se indossa la divisa, e gli esempi di errori tragici di uomini in uniforme sono tanti, troppi. Si è con la polizia quando si criticano gli errori dei singoli poliziotti, non contro la polizia. Si è per forze dell’ordine migliori quando non si accettano le prevaricazioni. Si è con tutti e per tutti quando si vuole che sia il meglio a rappresentarci dentro le divise, che a indossarle siano quelli dotati non solo di più coraggio ma anche di maggiore sensibilità. E ogni volta che sotto una visiera vince la sensibilità e il coraggio, vinciamo tutti. Le immagini del video che a Vicenza mostrano un poliziotto prendere per il collo un ragazzo e stenderlo a terra, giustificato dal rifiuto di mostrare i documenti, non sono una vittoria di quello che dovrebbe stare a cuore a tutti, e chi rappresenta il popolo per essere il meglio dovrebbe stare col contenuto non con la forma, e mai a prescindere, sempre dopo essersi informato. Dalla caserma Levante di Piacenza al Cpr di Ponte Galeria di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 agosto 2020 La vicenda del cittadino marocchino Hachim Hikim: ha denunciato le angherie subite dai militari inquisiti, ma ora rischia di essere espulso. Nel centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, vicino Roma, è stato trasferito martedì 11 agosto Hachim Hikim, cittadino marocchino che ha denunciato di aver subito le angherie dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza. Pochi giorni dopo l’arresto dei militari di via Caccialupo, avvenuto il 22 luglio, il 34enne aveva raccontato la sua storia al sito ilpiacenza.it, mettendosi in contatto con la giornalista Emanuela Gatti dall’interno del Cpr di Gradisca. Nel centro era stato portato in seguito a un decreto di espulsione una volta scontata la condanna per spaccio nel carcere Le Novate di Piacenza. L’uomo si è convinto a raccontare la sua vicenda solo dopo aver riconosciuto l’appuntato Giuseppe Montella, il presunto capo del sistema criminale, sui principali mezzi di informazione. E ora rischia di finire in Marocco. “Quel pomeriggio del 30 ottobre in caserma mi hanno picchiato perché non volevo fare il loro informatore né spacciare per loro”, ha detto Hikim. La testimonianza ha diversi tratti in comune con quelle riferite da altri cittadini stranieri: la richiesta dei carabinieri di vendere la droga, le minacce, le botte e, in questo caso, la denuncia per spaccio e la condanna. I militari, infatti, si sarebbero vendicati del rifiuto a collaborare aggiungendo qualche grammo di hashish alla canna di cui era effettivamente in possesso al momento del fermo. Così, anche a causa di un precedente per lo stesso reato, è finito dietro le sbarre. Non è stato possibile parlare direttamente con il 34enne perché all’ingresso nel Cpr di Ponte Galeria gli è stato sequestrato il telefono, al pari degli altri reclusi. Hikim, comunque, ha riferito ai legali con cui è in contatto che gli agenti avrebbero giustificato lo spostamento di 650 chilometri con motivazioni legate ai posti liberi all’interno dei Cpr. A Gradisca l’uomo aveva protestato, anche attraverso uno sciopero della fame, per le condizioni di detenzione e le percosse subite da un altro recluso. Al momento le espulsioni verso il Marocco sono ferme a causa dell’emergenza sanitaria, ma se i voli verso Rabat dovessero ricominciare entro i cinque mesi che mancano allo scadere del limite massimo di trattenimento amministrativo (180 giorni) c’è il rischio che Hikim sia rimpatriato. In genere i voli partono proprio dalla capitale. “Ho presentato un’istanza di permesso per motivi di giustizia - afferma l’avvocata Barbara Citterio, nominata dall’uomo - Mi auguro che Hikim possa rimanere sul territorio italiano. Mi preme che venga fatto uscire da questi centri di detenzione, lager in cui non esistono nemmeno le garanzie minime previste in carcere”. Una prima istanza di revisione del trattenimento presentata dalla legale è stata respinta dal giudice di pace di Gorizia. La richiesta del permesso per motivi di giustizia, invece, è stata avanzata alla procura di Piacenza, sollecitata nuovamente nel giorno del trasferimento a Ponte Galeria. Si attende una decisione. “Spero che non lo rimpatrino per poi magari, tra un anno o due, chiedergli di tornare a deporre, perché a quel punto non è certo possa farlo”, continua Citterio. Hikim è stato interrogato a seguito della richiesta della legale dalla guardia di finanza di Gorizia, su ordine della procura di Piacenza. Le dichiarazioni, però, non sono state rilasciate in un incidente probatorio, quindi se risultassero importanti per l’accusa ma lui non fosse più in Italia durante il dibattimento il giudice non potrebbe utilizzarle come prova. Se fossero confermate le circostanze che hanno portato all’arresto del cittadino marocchino, Hikim sarebbe non solo totalmente estraneo alle accuse, ma avrebbe anche trascorso un periodo di ingiusta detenzione, di cui dovrebbe essere risarcito. Il rimpatrio, invece, rappresenterebbe una seconda condanna. Mae: no alla consegna basata sulla descrizione dei fatti contenuta sul mandato ma senza prove di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 12 agosto 2020 n. 23878. La corte d’appello non può dare il via libera alla consegna dell’imputato nell’ambito del mandato d’arresto europeo, basandosi solo sui fatti riportati nel Mae, senza l’indicazione delle fonti di prova in merito alla responsabilità nei reati contestati al soggetto richiesto. La Corte di cassazione, con la sentenza 23878, accoglie il ricorso di un cittadino sloveno contro la sentenza con la quale veniva disposta la sua consegna all’autorità giudiziaria slovacca. Una decisione presa senza chiedere allo stato richiedente di integrare la documentazione con l’ordinanza restrittiva o con la relazione. Per i giudici di legittimità la descrizione della dinamica del reato, nello specifico una rapina, non dice nulla sulla possibilità di attribuire il crimine alla persona oggetto del mandato d’arresto europeo. Per soddisfare il presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, richiesti dalla legge, è necessario che lo stato di emissione specifichi sul mandato d’arresto tutti gli elementi di prova, che consentano di valutare la responsabilità. In assenza di questa la decisione dei giudici di merito - che non si sono attivati per colmare le carenze - viola i principi di diritto in materia. Sanzionata anche la società per distacco fittizio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2020 Sanzionata la società sulla base del decreto 231 del 2002, per distacco fittizio di dipendenti. Non vanno confuse, sostenendo l’identità dell’oggetto, le sanzioni previste dalla Legge Biagi per una corretta applicazione dell’istituto del distacco e quelle del Codice penale che puniscono la truffa ai danni dello Stato. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza n. 23921 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così confermato la responsabilità di una Srl per l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 24 del decreto 231: la società aveva infatti utilizzato, attraverso il distacco, 22 dipendenti di un’altra Srl; quest’ultima però era emersa come una “scatola vuota”, priva di mezzi propri, e, che, soprattutto, aveva evitato di versare i contributi previsti. La prima società aveva così potuto aumentare l’organico aziendale senza dovere sostenere costi aggiuntivi di tipo previdenziale o fiscale. La difesa aveva invece chiesto l’annullamento della condanna perché i fatti accertati, che non venivano contestati, darebbero luogo non tanto a una violazione dell’articolo 640, comma 2 del Codice penale, che colpisce la truffa ai danni dello Stato, quanto piuttosto a una più lieve e contravvenzionale infrazione delle disposizioni, articoli 18 e 30 del Dlgs 276/03, a presidio della corretta applicazione dell’istituto del distacco. Per la Cassazione però la tesi difensiva va respinta perché non tiene conto del fatto che il profitto del reato di truffa consiste nel risparmio contributivo e previdenziale ottenuto attraverso il distacco fittizio, facendo figurare che i 22 lavoratori fossero in distacco presso la società X dalla società Y (senza che avessero svolto un solo giorno di lavoro nella società Y, che però li aveva formalmente assunti, e continuando peraltro a lavorare nella società Y anche dopo la scadenza del distacco), la cui unica attività era consistita nella firma degli accordi di distacco. Le norme del decreto 276, invece, hanno come obiettivo esclusivo la tutela del lavoratore, ricorda la Cassazione. Per arrivare a questa conclusione la sentenza mette in evidenza come la violazione considerata dalla Legge Biagi è quella di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicabili al lavoratore, avendo quest’ultimo come soggetto meritevole di tutela. In questo senso anche la circolare del dell’Ispettorato nazionale del lavoro, n. 3 del 2019, che valorizza la violazione degli obblighi su condizioni lavoro e occupazione, senza fare accenni agli oneri contributivi e previdenziali. Tutt’altro discorso deve essere fatto per la truffa realizzata attraverso la fittizia interposizione, dove la finalità è quella di assicurarsi un ingiusto profitto, con danno corrispondente agli enti previdenziali, consistente nel risparmio contributivo, finalità del tutto diversa da quella del mancato rispetto delle misure a protezione dei lavoratori. Palermo. Carcere Pagliarelli, un detenuto si è suicidato di Marianna La Barbera palermolive.it, 13 agosto 2020 Era in carcere con l’accusa di violenza domestica. Emanuele Riggio, 46 anni, è stato trovato impiccato nella sua cella. Due mesi fa era stato arrestato con l’accusa di stalking e maltrattamenti in famiglia. Era finito in galera agli inizi del mese di giugno con l’accusa di percosse e minacce, atti persecutori e maltrattamenti in famiglia. Uno scenario di violenza domestica contrassegnato da conflitti quotidiani, al quale si era aggiunta anche una denuncia per stalking da parte della moglie: a seguito delle indagini, ad Emanuele Riggio era stato contestato anche il tentato omicidio di quest’ultima. Accuse pesanti - avrebbe cercato di strangolare la consorte con una corda - che lo avevano spedito dritto alla Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo, ma le indagini non si erano ancora concluse: gli investigatori, infatti, volevano capire di più ascoltando alcuni testi. Riggio ha deciso di porre fine alla sua vita all’interno della cella dove era rinchiuso, secondo un tragico cliché, quello dell’impiccagione, ormai drammaticamente noto agli agenti penitenziari, alle prese con emergenze continue legate anche alla “storica” carenza di organici. La notizia è stata data dal Giornale di Sicilia e non si tratta, purtroppo, di un caso isolato, come suggeriscono i fatti di cronaca degli ultimi anni. Nella stessa Casa Circondariale, nel settembre del 2015, una detenuta straniera, entrata in carcere per spaccio di droga, si suicidò; nel giugno del 2016, a togliersi la vita fu un altro ristretto, Carlo Gregoli, in cella con l’accusa di avere freddato, in via Falsomiele, il vicino di casa Vincenzo Bontà e il giardiniere Giuseppe Vela. Nel 2018, un giovane di trentasette anni ricorse allo stesso estremo gesto dopo essere stato trasferito presso un altro reparto della struttura detentiva, a soli due mesi dalla fine della pena. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri - sosteneva Voltaire - poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”: un concetto estremamente attuale, più volte ribadito dagli stessi sindacati della Polizia Penitenziaria, che sottolineano la condizione di malessere generale che riguarda sia i detenuti che il personale. Palermo. Detenuto si suicida al Pagliarelli, Apprendi: “Serve garante dell’area metropolitana” palermotoday.it, 13 agosto 2020 Sono 35, a oggi, i suicidi nelle carceri italiane. Sono morti violente, dove difficilmente se ne ricostruiscono le esatte dinamiche. I compagni di cella non si accorgono di nulla, queste persone si muovono come i fantasmi, non fanno rumore, come la loro morte che non sente nessuno, tranne i propri cari, un silenzio spettrale. Sono morti scomodi, non li piangerà la società, anzi, un pensiero in meno, una bocca da sfamare in meno a spese dello Stato. I familiari, invano cercheranno di capire perché il padre, il figlio, ha deciso di cedere, forse la ricerca di quella libertà tanto sognata. Scegliere la morte per essere liberi per oltrepassare le sbarre del carcere. I ‘buoni” tireranno un sospiro di sollievo, ne leggeranno le sue malefatte e lo malediranno. Si fanno le campagne contro i Garanti regionali e nazionale, mentre a Palermo il comitato Esistono i Diritti si batte ormai da tempo per istituirne la figura dell’area metropolitana”. Lo dice Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia e co-presidente del Comitato Esistono i Diritti. Sanremo (Im). Carcere al collasso, zero posti letto per nuovi detenuti primalariviera.it, 13 agosto 2020 Non ci sono più posti letto disponibili, soprattutto per gli arrestati provenienti dalla libertà che devono essere necessariamente sottoposti a domiciliazione fiduciaria per evitare un eventuale contagio tra i detenuti. “Il carcere di Sanremo è ormai al collasso, non resta che riaprire il Forte di Santa Tecla e richiamare i pensionati in servizio”. È la provocazione del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, attraverso il segretario Guido Pregnolato che ha commentato così l’emergenza sovraffollamento del carcere di Valle Armea. Cinque anni fa l’Amministrazione Penitenziaria ha deciso di chiudere il carcere di Savona, una decisione scellerata che ha inciso negativamente sugli istituti della provincia di Imperia, già di per sé sovraffollati e adesso, in piena emergenza coronavirus. Non ci sono più posti letto disponibili, soprattutto per gli arrestati provenienti dalla libertà che devono essere necessariamente sottoposti a domiciliazione fiduciaria, misura importantissima per evitare un eventuale contagio tra la popolazione detenuta. È evidente che le rivolte penitenziarie avvenute nel mese di marzo, non hanno insegnato nulla - prosegue Pregnolato - Auspichiamo un intervento immediato delle Istituzioni e della politica, affinché si trovi una pronta soluzione alle criticità del penitenziario matuziano. A raccogliere l’allarme del Sappe è il capogruppo della Lega, Avv. Daniele Ventimiglia che dichiara: “massima solidarietà agli agenti di Valle Armea costretti a turni di lavoro massacranti. Ci sono troppe anomalie gestionali, non solo la questione del sovraffollamento, ma anche riguardo l’organico di polizia penitenziaria, ridotto ormai ai minimi termini. E non si può non sottolineare che all’interno delle nostre strutture carcerarie ormai oltre il 65% dei detenuti è straniero, di cui il 50% di questi è nordafricano. Sono consapevole che la mera solidarietà non basti più, sarà mia premura infatti, portare avanti le istanze della polizia penitenziaria sanremese, sia a livello regionale tramite il Presidente dell’Assemblea Legislativa ligure Alessandro Piana e a livello nazionale grazie all’On. Flavio Di Muro”. Venezia. Maschere veneziane e fumetti d’autore: l’arte possibile in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 agosto 2020 Anche in carcere possono nascere, sotto il segno dell’arte, relazioni importanti, in grado di aprire nuovi scenari, di far pensare a nuovi progetti di vita. È accaduto a Fabrizio Longo, insegnante di matematica e fisica alle soglie della pensione nella casa circondariale maschile di Venezia, e a un suo “alunno”, Mauro, 57 anni, all’epoca in carcere per scontare una breve pena per vecchi reati legati all’uso di droga. Tanto Fabrizio quanto Mauro non sono però soltanto un professore e un uomo con un passato problematico. Al primo il ruolo di insegnante va un po’ stretto e da molti anni organizza in carcere, come volontario, laboratori artistico artigianali. “L’atmosfera laboratoriale - spiega -aiuta a relazionarsi con gli altri, ad abbassare le tensioni, favorisce il dialogo e la collaborazione tra appartenenti a diverse etnie”. Mauro, il maturo uditore dei corsi di Fabrizio, nella vita libera è Mabo, mascarer cioè creatore di maschere in cartapesta nonché apprezzato pittore. Allievo di Guerrino Boatto, maestro italiano dell’arte aerografa famoso in tutto il mondo per le sue opere iperrealiste, Mabo ha al suo attivo mostre di un certo successo: efficaci e apprezzati dalla critica i ritratti di homeless tratti da foto di Lee Jeffries, esposti nella sua ultima mostra, prima che arrivasse il conto in sospeso con la giustizia. Fabrizio e Mabo hanno in comune l’amore per arte e artigianalità. “Il prof è uno che ci sa fare anche a livello psicologico. Ha capito che io potevo aiutarlo a creare nuovi interessi per gli ospiti”, racconta Mauro in un’intervista a “Il Gazzettino”. Prende corpo così il laboratorio “Maschere di libertà” in cui Mauro affianca Fabrizio nell’insegnamento, mettendo a disposizione la sua grande esperienza nella creazione di oggetti di cartapesta. “All’inizio hanno aderito solo tre detenuti stranieri - ricorda Fabrizio - ma dopo poco tempo siamo stati sommersi dalle richieste di iscrizione”. Intanto i due iniziano a pensare a un altro progetto che unisca talenti di entrambi. Nasce così la storia a fumetti “Il profumo di Venezia”, illustrata da Mabo con testi di Fabrizio Longo. Realizzato a titolo gratuito con il solo contributo, per la stampa, del Comune di Venezia, il comic -book, che narra con toni rispettosamente ironici una contrastata storia d’amore tra una principessa e un pescatore, vuole essere anche un omaggio a Hugo Pratt. Nel frattempo Mauro-Mabo in febbraio ha terminato la pena, giusto in tempo per affrontare un nuovo isolamento, quello imposto dal lockdown che ha molto rallentato l’attività del suo laboratorio in via del Pireghetto, a Mestre. “Mi piacerebbe - continua Fabrizio - organizzare per lui una mostra dei suoi lavori per dargli nuovi entusiasmi e farlo conoscere di più. Intanto insieme stiamo lavorando alla seconda puntata della storia dal titolo “Giacomino e Fosca alla Corte della Regina di Cipro”, per ora con pochi fondi e, tra questi, una donazione che il Patriarca di Venezia ci ha destinato dopo una visita natalizia carcere in cui ha avuto modo di apprezzare i nostri lavori. Anche i laboratori Maschere di libertà riapriranno al maschile e al femminile non appena riprenderanno le attività interrotte durante il lockdown”. Ma c’è un altro progetto che sta particolarmente a cuore a Fabrizio Longo: “L’idea è quella di realizzare un punto vendita in cui possano essere occupati detenuti lavoranti all’esterno. Sarebbe importante, da una parte per far conoscere un’attività che insegna ai detenuti un lavoro artigianale e dall’altra per commercializzare i prodotti e offrire così un guadagno onesto a chi li realizza”. La dimensione sociale della legalità e i benefici dello sviluppo del diritto positivo di Daniela Piana Il Dubbio, 13 agosto 2020 Sono ormai mesi che ci misuriamo, in modo più o meno consapevole, più o meno condiviso e chiaramente articolato, con un grande dilemma: quali sono gli strumenti che ci permettono di rendere prevedibile, ovvero determinabile, e quindi, anche, governabile in modo lineare, il comportamento sociale? Per quanto un diffuso e serpeggiante understatement emerso nel crollo delle grandi teorie - non delle grandi ideologie - sul funzionamento delle nostre società ci abbia accompagnato e ci abbia incoraggiati ad aderire ad un rassicurante evitamento delle grandi domande - “tanto, poi, non si trovano le risposte e quando le si trovano sono già oggetto di discussione e giammai di consenso, dunque inutili per prendere decisioni collettive” - questo pensiero minimo oggi ci aiuta assai poco. La realtà dei fatti ci ha sbattuto in faccia, con una violenza inedita, dapprima la questione del “Cigno nero”, poi la questione di come originare, di colpo nell’arco temporale di qualche giorno, un nomos sociale tutto nuovo, sospendendo e disapplicando i dispositivi di regolazione sociale cui eravamo abituati nel gestire le nostre vite quotidiane, gettandoci nello spaesamento di un mondo di regole artefatte, cogenti e strutturanti (cosi ci è parso, vedendoci camminare per strada, pochi e distanziati, vedendoci cedere il passo per non incrociarci nello spazio pubblico) per poi costringerci a cimentarci di nuovo con la questione dei limiti dello strumento del diritto positivo nell’orientare, no, anzi nel determinare, i comportamenti individuali. Ben venga dunque la presentazione al pubblico della traduzione del volume di Christian List, Why Free Will is Real, avvenuta qualche giorno fa sulla Lettura. Ben venga perché con la categoria del free will ci portiamo dietro moltissime conseguenze che pesano come macigni e che al contempo ci costringono ad interrogarci su uno strumento, quello cardine della società moderna e democratica, con cui siamo propensi a regolare i comportamenti individuali: ossia lo strumento del diritto positivo. Poniamoci alcune domane a mò di esempio. I cittadini italiani hanno seguito le regole del confinamento perché prevedevano le sanzioni previste dai Dpcm che si sono susseguiti, perché percepivano nel loro campo visivo quotidiano i segni palesi del controllo pubblico esercitato dalle forze dell’ordine - e quindi ne prevedevano in modo certo il potere sanzionatorio - o perché sulla base di informazioni e di valori interiorizzati hanno aderito ad una prospettiva di tutela collettiva? Ancora: le vicende che hanno messo al centro del dibattito istituzionale la questione del rapporto fra magistratura e politica si leggono, interpretano ed esplicano nei termini di “non sufficientemente cogenti interazioni” fra le strategie individuali e le norme disciplinari, ovvero le loro applicazioni, oppure abbiamo bisogno di categorie che ci aiutino a rimettere al centro la autonomia del giudizio e, quindi, quell’insieme di norme e di valori che non sono posti nelle leggi e nelle regolazioni, ma che attengono alla integrità? Sulla stessa falsariga: la recentissima vicenda dell’utilizzo distorto dei bonus ci parla di un comportamento che avrebbe dovuto essere prevenuto - ossia impedito - dalle norme che regolano l’erogazione dei bonus oppure di un self-restraint che sia interiorizzato dalle persone che svolgono funzioni pubbliche? Sarebbe troppo facile liquidare questi interrogativi come divertissement estivi di una vagante immaginazione filosofica, che forse può dare soddisfazione ad alcuni studiosi di eccellenza, come List, ma che poco ci aiuta nel governo e nella prospettazione della società di domani. Troppo facile: e quando le cose sono troppo facili, forse non sono correttamente impostate. Più adeguato ci pare sia tempo interrogarci su cosa siamo intenzionati a chiedere allo strumento del diritto positivo - sottraendolo così allo spazio della autonomia del giudizio e dell’azione regolati da meccanismi self restraining di integrità e diciamolo dalla dimensione sociale della legalità, proprio nel momento in cui la questione della disciplina e della coniugazione di comportamenti individuali con l’integrità pubblica ci appare uno dei grandi temi su cui investire per il futuro. Solo un difetto visivo che non ci possiamo concedere giustificherebbe dunque il passare a coté del procotollo recentemente sottoscritto dal Consiglio Nazionale Forense con il Ministero dell’Istruzione sul tema della cultura della legalità. Se si colgono nelle recenti esperienze fatte sul territorio italiano dagli Ordini forensi, in partenariato con le scuole, le radici di un modo di vedere la legalità nella sua dimensione sociale, che si nutre di un uso corretto delle parole per definire correttamente i comportamenti, dell’uso della prassi apprese in un percorso corale, come comportamenti che si rinforzano anche attraverso i meccanismi di controllo orizzontale - e non solo quelli verticali - come apprendimento di un diritto che ha le sue radici innanzitutto nella mente delle persone, prima che nei testi di legge, forse potremmo concederci un cauto, ma non freddo, positivo sentire, che vede nel diritto positivo una delle dimensioni della legalità, la quale sarebbe però incardinata nel senso dell’equità e della reciprocità, promosse attraverso due strumenti sui quali il Paese deve investire in modo sistematico: formazione e professionalità, interiorizzate, vissute, praticate dalle persone, governati e governanti. E deve farlo ora. Con la scusa del Covid i paesi latinoamericani seppelliscono i prigionieri di Angela Nocioni Il Dubbio, 13 agosto 2020 Dal brasile al Guatemala dal Venezuela al Perù la linea è la stessa: sigillare le prigioni. Per trovare dati aggiornati e disaggregati sulle attuali condizioni di vita nelle carceri dei vari Paesi latinoamericani bisogna ricorrere alle ricerche sull’effetto della diffusione del Covid. Impossibile confrontarli con cifre relative agli stessi istituti di pena in epoca pre-pandemia perché le indagini affidabili in materia scarseggiano. Ciò inquadra la questione fondamentale: la vita di chi sta dentro interessa solo se e quando minaccia quella di chi sta fuori. In caso di rivolta (le teste mozzate infilzate su bastoni che spuntano dai tetti di una prigione, incubo recente dell’immaginario brasiliano) o, come stavolta, in caso di grave epidemia. Che il Brasile sia al terzo posto per popolazione carceraria, dopo Stati uniti e Cina, non è certo una notizia. Eppure il dato stranoto campeggiava ovunque nei mesi scorsi in titoli di tg dal tono sorpreso nel Brasile attonito di fronte all’espandersi rapido del contagio negato dal governo. Test e tamponi sono limitati ad alcuni dei casi conclamati. Che per scongiurare la trasmissione del Covid-19 dalla popolazione carceraria a quella esterna non servisse a molto sigillare le prigioni impedendo visite di parenti e avvocati, sospendendo permessi, vietando l’ingresso di pacchi era anche immaginabile. A meno di voler seppellire lì dentro anche agenti, funzionari e tutti i lavoratori dell’indotto (terziarizzato ovunque e fuori controllo) che dalla prigione entra ed esce senza essere lì detenuto. Eppure la prima reazione isterica dell’intero mondo politico latinoamericano (ma non pare che in Europa sia andata poi molto meglio) è stato questo: chiudiamo tutto, così il virus non esce. Ovviamente in prigioni che contengono mediamente almeno il doppio del numero delle persone previste dalla loro capacità massima - ad Haiti, in Guatemala, Salvador, Honduras e Bolivia si oscilla tra il triplo e il quadruplo del massimo numero di detenuti consentito senza contare i presenti non censiti che in Bolivia ad esempio sono tantissimi, gente che sta lì e nessuno lo sa - con poca aria, spesso senza acqua, spessissimo senza sapone e senza possibilità di cure mediche nemmeno basiche, il virus non ha avuto bisogno di molto tempo per diffondersi. E rapidamente è colato anche oltre le sbarre. Infettando agenti, lavoratori dell’indotto carcerario, le loro famiglie e, da lì, il resto della popolazione. Ridurre prima possibile la popolazione carceraria - 1,9 milioni di persone nel continente - in un momento di pandemia era l’unica possibilità di limitare i danni. Ma i Paesi che l’hanno fatto sono stati pochi e l’hanno fatto troppo tardi. Il modo di correre ai ripari è stato di due tipi. Quello cileno: Santiago ha fatto fare test a campione e, una volta (fine aprile) stabilito che almeno 800 persone tra reclusi e personale penitenziario era stato colpito, ha deciso di concedere i domiciliari in un primo momento a 1600 condannati per piccoli reati non violenti e poi ha scarcerato, per decisione di singoli giudici, poco meno del 10% delle 13 mila persone in prigione preventiva in attesa del primo grado di giudizio (fonte Avvocati d’ufficio). Quello brasiliano: limitare allo 0,4% i test sierologici del virus, cosicché i detenuti infetti risultano magicamente essere pochissimi. Il Consiglio nazionale di giustizia del Brasile, organo con il ruolo di indicare politiche in materia carceraria, ha chiesto di liberare i detenuti in prigione preventiva non accusati di reati violenti. Ne sono stati carcerati 30.000 (in una popolazione carceraria di 746.000 persone). In Argentina, in Perù e in Honduras le remore alle scarcerazioni hanno avuto la meglio: meno del’ 1% dei detenuti è stato liberato a causa dell’emergenza sanitaria nelle carceri. In Colombia 566 in un totale di 130mila. In Bolivia 2 detenuti scarcerati, due di numero. Su 16mila. La notizia della rapidità del contagio e le restrizioni ulteriori imposte dalla decisione di sigillare le carceri hanno scatenato una serie di proteste dei detenuti in Colombia, in Venezuela, in Argentina e in Perù. Di queste sommosse nulla si è riusciti a sapere perché le prigioni interessate sono state ovunque sostanzialmente isolate da cordoni che hanno reso inaccessibili i paraggi. I morti ufficiali nelle rivolte erano 54 a fine marzo, appena iniziata la pandemia. È ragionevole supporre che siano stati molti di più. Centinaia i feriti. In Brasile il governo Bolsonaro ha reagito ferocemente alle prime scarcerazioni causa Covid e ha cercato, per ora senza successo, di reintrodurre l’utilizzo di container metallici all’esterno delle prigioni per far posto ai reclusi. Si tratta di scatole con tetti a pareti che diventano roventi al sole, bandite dal Brasile dieci anni fa quando uno scandalo (all’epoca del governo Lula) rivelò le condizioni inumane nelle quali erano stipate dentro queste scatole incandescenti migliaia di persone senza accesso ad acqua e con pochissima aria per respirare. In Ecuador, Guatemala e Salvador i dati sulle condizioni attuali di vita dei carcerati sono quasi inesistenti e le poche frammentarie notizie che ci sono i governi si rifiutano di confermarle o di smentirle. In Salvador sarebbero in procinto di liberare 577 detenuti oltre i 70 anni su un totale di 39000. In Guatemala sono state annunciate scarcerazioni, ma non sono state confermate. In Ecuador i giudici hanno snellito le procedure per scarcerazioni express ma il governo ha annunciato che l’indulto, se ci sarà, riguarderà “pochissime persone”. Stati Uniti. Emergenza Covid nel carcere di San Quintino in California Avvenire, 13 agosto 2020 È emergenza coronavirus nella prigione di San Quintino in California: 2.200 tra detenuti e agenti sono risultati positivi negli ultimi due mesi e 25 persone sono morte. Dati allarmanti che riguardano due terzi di una popolazione carceraria di 3.260 persone. San Quintino, dove il 42% dei detenuti era già “vulnerabile dal punto di vista medico” per l’età o per condizioni di salute preesistenti, era rimasto immune dal virus fino al trasferimento alla fine di maggio di 121 detenuti di un’altra prigione diventata uno dei primi focolai dell’infezione in California. Teoricamente tutti nuovi arrivati erano risultati negativi al tampone, alcuni però non erano stati testati da settimane. Il virus si è diffuso rapidamente non solo all’interno del carcere ma anche tra le famiglie dello staff. “Era impossibile non prenderselo”, ha detto al Los Angeles Times Michael Kirkpatrick, un ex detenuto rilasciato e risultato positivo al virus, secondo cui nel suo braccio di 50 celle solo 5 non ospitavano prigionieri infetti. Bielorussia. Giornalista italiano nel carcere di Minsk: “Tre giorni senza cibo” di Fausto Biloslavo Il Giornale, 13 agosto 2020 Liberato ieri Claudio Locatelli: “Ammassati in cella, arresti brutali”. Gli Usa: libertà un diritto. Fuori la situazione è esplosiva racconta Claudio Locatelli, il giornalista combattente appena liberato dalle galere bielorusse, al telefono con il Giornale dall’ambasciata italiana a Minsk. Il giovane free lance padovano era stato arrestato domenica sera durante la prima notte di proteste per le contestate elezioni che hanno confermato al potere il padre-padrone del paese, Aleksander Lukashenko. Non posso parlare molto, ma stavo riportando quello che accadeva con il mio cellulare e mi hanno brutalmente arrestato distruggendo il telefonino spiega Locatelli, diventato giornalista combattente in Siria, quando ha imbracciato le armi al fianco dei curdi contro le bandiere nere dell’Isis per liberare Raqqa, la capitale del Califfato. La polizia militare mi ha ammassato in una cella con altri stranieri per 60 ore. Finalmente sono libero, dopo tre giorni senza cibo e con pochissima acqua. Ne ho viste tante, ma è stata davvero brutta. Adesso sto bene spiega al Giornale. Fra i compagni di cella stranieri c’erano anche tre giornalisti russi, che sono stati liberati rivela Locatelli. In un video postato sulla sua pagina Facebook descrive la disavventura e ringrazia l’ambasciata italiana che ha fatto un gran bel lavoro arrivando alla mia liberazione dopo un enorme sforzo. E denuncia: La situazione è altamente drammatica. Locatelli era giunto in Bielorussia il 4 agosto per partecipare, assieme a tre amici, alla corsa dei bisonti, una competizione sportiva estrema. Domenica, dopo le elezioni considerate dall’Unione europea nè libere, né giuste sono scoppiate le proteste in tutto il paese. Come free lance unisco l’utile al dilettevole spiega Locatelli. L’ambasciatore italiano a Minsk, Mario Baldi, conferma che domenica sera si è trovato nel mezzo delle proteste. Stava solo scattando qualche foto quando è stato arrestato con l’accusa di partecipazione a una manifestazione non autorizzata. I bielorussi avrebbero potuto tenerlo dietro le sbarre per 15 giorni, ma la nostra diplomazia è riuscita a farlo liberare portandolo in ambasciata. Domani (oggi per chi legge nda) dovrei prendere il primo volo per Milano - chiarisce al telefono Locatelli - e una volta a casa potrò raccontare quello che è accaduto e la situazione. La copertina della sua pagina Facebook è dedicata a Lorenzo Orsetti, il volontario italiano nei ranghi dei curdi del Ypg ucciso nell’ultima sacca dell’Isis a Baghuz nel 2019. Due anni prima il giornalista combattente aveva partecipato ai duri scontri contro le bandiere nere scrivendo Nessuna resa, un libro sull’assedio di Raqqa e il pericolo ancora presente dell’Isis. Oltre a Locatelli sono stati arrestati 55 giornalisti, non solo locali, ma anche russi. Fra gli stranieri dietro le sbarre ci sono pure tre studenti polacchi e un cittadino svizzero. Niente in confronto ai 7mila arresti dall’inizio della rivolta. La repressione si sta facendo sempre più dura e ha già provocato un morto e 250 feriti sollevando le proteste dell’Onu. A Brest le forze di sicurezza hanno sparato colpi di arma da fuoco e non proiettili di gomma. Nella capitale, Minsk, sono scese in strada le donne vestite di bianco con in mano un fiore. La catena umana di circa 200 coraggiose bielorusse gridava “Vergogna!” per denunciare la violenza della polizia contro i manifestanti. Il capo dello Stato francese, Emmanuel Macron, ha parlato al telefono con il presidente russo Vladimir Putin esprimendo preoccupazione per le violenze. Domani si riuniranno i ministri egli Esteri della Ue, che potrebbero imporre sanzioni a Lukashenko. E il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha difeso i manifestanti sostenendo che gli Usa “hanno a cuore il popolo bielorusso” e vogliono che siano garantite “le libertà che chiede in piazza. In Libano regna il caos politico, istituzionale e sociale: aleggia lo spettro della guerra di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 13 agosto 2020 Senza governo. Senza pace. E con il rischio che il Paese dei Cedri possa trasformarsi una “nuova Siria”. Il Libano è in pieno caos: politico, istituzionale, sociale. E c’è chi teme, in una Beirut dove la tensione resta altissima, che il caos possa essere l’avvisaglia di qualcosa di ancor più grave: una guerra civile. Ieri sera, il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha annunciato in diretta tv le dimissioni del suo governo a seguito della devastante esplosione che la scorsa settimana ha colpito il porto di Beirut e della violenta reazione popolare. Il disastro - almeno 220 i morti, oltre 7mila i feriti, 4.200 edifici distrutti, 300mila gli sfollati - avvenuto martedì scorso a Beirut “è il risultato di una corruzione cronica” in Libano, che ha impedito una gestione efficace del Paese, ha detto. E poi, l’ammissione più grave: “Ogni singolo ministro di questo governo si è impegnato a fondo, non abbiamo altri interessi oltre a quello di salvaguardare lo Stato”, ha detto Diab nel suo discorso alla nazione. “Chiediamo un’indagine rapida che accerti le responsabilità e vogliamo un piano di salvataggio nazionale che veda la partecipazione dei libanesi. Ecco perché annuncio le dimissioni di questo governo. Possa Dio proteggere il Libano”. Ma la piazza non si accontenta. “Il governo che si dimette non ci basta, perché vogliamo che i responsabili dell’esplosione e di tutto quello che è successo da 30 anni a questa parte siano ritenuti responsabili”, dice un giovane. “Solo allora - aggiunge- saremo soddisfatti”. “Il prossimo passo è un governo di salvezza nazionale, che non abbia niente a che fare con la classe politica che ha portato il Libano in queste condizioni disperate, con un mandato speciale per affrontare la crisi umanitaria ed economica”, dice a Il Riformista Nadim Khoury, direttore esecutivo della Arab Reform Initiative. “Dovrebbe avere un mandato limitato a due o tre anni, e il suo compito sarebbe quello di preparare le elezioni sulla base di una nuova legge elettorale”. “L’attuale classe politica ovviamente non lo accetterà - aggiunge. Per questo è necessario uno sforzo popolare per rimuovere la “legittimità” dall’ordine attuale fino a quando non si renderanno conto che non possono più governare perché nessuno li ascolta”. Commentando le dimissioni del governo, il direttore del Carnegie Middle East Centre, Maha Yahya, rimarca: “I partiti politici sono i garanti dello status quo perché per molto tempo le istituzioni statali sono state la loro gallina dalle uova d’oro. Ora quella gallina è morta e lo Stato è in bancarotta. Ma non hanno altro modo per continuare a offrire favori ai loro elettori”. Gli economisti stimano che la ricostruzione di Beirut spazzerà via il 25% del Pil nazionale. E la panacea di tutti i mali non sembra essere il ritorno al voto. Il problema è che grazie al sistema elettorale basato su quote settarie, i capi delle comunità sono capaci di influenzare i loro elettori. Sciiti, sunniti, cristiani, drusi e tutte le 17 confessioni riconosciute nella Costituzione hanno poca libertà di manovra: di fatto sono costretti a eleggere gli stessi capi-famiglia che negli anni sono diventati capi-mafia, impegnati nel depredare il Libano delle sue ricchezze. In tutta la parte del Paese che si oppone al ruolo crescente di Hezbollah, aumenta l’ostilità per il ruolo sempre più influente che stanno conquistando gli sciiti guidati da Hassan Nasrallah, legati all’Iran. Il fatto che le 2750 tonnellate di nitrato di ammonio depositate al porto fossero in qualche modo sotto il controllo della sicurezza di Hezbollah fa circolare in Libano mille supposizioni sul ruolo dell’ala militare del “partito di Allah” nel custodire quell’enorme deposito di esplosivo. O come minimo di non aver gestito correttamente l’affare assieme agli alleati cristiano-maroniti del partito di Aoun. Lo spettro politico libanese quindi sta tornando a dividersi pericolosamente fra i partiti collegati all’Iran (Hezbollah e il movimento del cristiano Aoun) e quelli legati all’Occidente, in particolare a Francia e Stati Uniti, come i sunniti di Saad Hariri e i cristiani di Geagea e Gemayel. Con la possibilità che ripartano violenti i contrasti settari che non sono mai stati scongiurati. Ma le elezioni parlamentari anticipate consentirebbero di cambiare la situazione e di offrire finalmente al popolo libanese una prospettiva di uscita dalla crisi? Per gli analisti politici non ci sono dubbi sulla risposta. “È una trappola”, dicono a Il Riformista Karim Bitar, direttore dell’Istituto di Scienze Politiche della Saint Joseph University, e Joseph Bahout, che ha appena assunto la direzione dell’Issam Fares Institute dell’American University of Beirut (Aub). “Questa richiesta fatta da alcuni attori del movimento di protesta rischia di rivoltarsi contro di loro”, avverte Bahout. “I partiti tradizionali dell’establishment godono di un pubblico prigioniero, nutrito dal culto delle personalità dei signori della guerra. Secondo un sondaggio condotto prima del disastro, il 45% degli elettori ha dichiarato che avrebbe votato per le stesse persone del 2018. Solo un quarto di loro ha detto di essere pronto a cambiare”, ricorda Karim Bitar. “Oggi, il cambiamento potrebbe avvantaggiare alcuni partiti come il Kataëb e l’FL, e figure indipendenti, che beneficerebbero dell’erosione della popolarità del Movimento Patriottico Libero (il cui fondatore è l’attuale capo di Stato libanese, Michel Aoun, ndr) - rimarca Bitar - ma non fino al punto di ribaltare gli equilibri in parlamento”. Sulla stessa lunghezza d’onda è il direttore dell’Issam Fares Institute. “Il clima attuale non si presta a un dibattito elettorale - avverte Bahout - che per sua natura divide il Libano. Di cosa parleremo quando il paese sarà in piena crisi e non riusciremo nemmeno a concordare l’ammontare delle perdite? La prima priorità è avere un governo che possa fermare il deterioramento economico e negoziare con il Fmi per far uscire il paese dall’impasse. Solo dopo l’inizio di questo processo si può prevedere un dialogo nazionale su una legge elettorale e la ricostruzione del patto politico”. Ma per la piazza in rivolta il tempo dell’attesa è scaduto. Lo lasciano intendere i manifestanti che, a migliaia, a partire dalle 17:00, si sono radunati davanti alla statua dell’emigrato libanese, di fronte al porto, all’uscita nord di Beirut per dar vita a una dimostrazione di protesta che ha come slogan: “Seppellire prima le autorità”. E anche il giorno dopo le dimissioni del governo, la parola che più riecheggia in piazza è Thawra (Rivoluzione). Via dall’Afghanistan: gli Usa trattano con i Talebani di Gianandrea Gaiani lanuovabq.it, 13 agosto 2020 Riprenderanno a breve i colloqui fra il governo di Kabul e i Talebani, dopo la scarcerazione degli ultimi jihadisti ancora in carcere. Ma soprattutto a cambiare le carte in tavola sono le trattative riservate fra l’amministrazione statunitense e i Talebani, per riportare i soldati a casa il prima possibile. Potrebbero riprendere molto presto in Afghanistan i colloqui sugli accordi di pace tra Talebani e il governo di Kabul, dopo che l’esecutivo del presidente Ashraf Ghani ha annunciato la liberazione degli ultimi 400 ribelli detenuti. La decisione di liberare i miliziani, che si aggiungono ai quasi 5mila già liberati negli ultimi mesi scioglie definitivamente lo spinoso nodo delle scarcerazioni, uno dei punti chiave degli accordi che gli Stati Uniti e i Talebani hanno siglato il 29 febbraio a Doha, in Qatar, secondo il quale Washington avrebbe ritirato le sue truppe in cambio dell’impegno dei guerriglieri a negoziare con il governo di Kabul. La Loya Jirga, la grande assemblea del popolo afghano, aveva approvato nei giorni scorsi la scarcerazione degli ultimi detenuti talebani per “spianare la strada ai negoziati di pace” ed evitare ulteriore “spargimento di sangue”. Il portavoce talebano Suhail Shaheen ha dichiarato che “La nostra posizione è chiara. Non appena le scarcerazioni saranno concluse, saremo pronti per iniziare i colloqui intra-afghani, quindi entro una settimana”. Soddisfazione per il positivo sviluppo è stata espressa anche da Washington: “Una storica opportunità per la pace è ora possibile”, ha commentato l’inviato speciale degli Usa nel Paese, Zalmay Khalilzad. L’8 agosto Washington aveva comunicato ufficialmente che le sue forze in Afghanistan scenderanno sotto la soglia dei 5mila militari (la più bassa da quando nel 2001 iniziarono le operazioni nel paese asiatico) entro la fine di novembre, cioè entro la data del voto per le elezioni alla Casa Bianca. Lo ha annunciato il segretario alla Difesa Mark Esper, in un’intervista a Fox News spiegando che il Pentagono deve ancora informare i membri del Congresso sul piano e che vuole comunque assicurarsi che “gli Usa non siano minacciati dai terroristi che escono dall’Afghanistan”. Per il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini “l’annuncio della nuova riduzione di militari americani è in linea con quanto concordato alla Nato, anche nei giorni scorsi, tra i paesi contributori, tra cui l’Italia. Gli Stati Uniti continueranno ad assicurare il supporto strategico e il personale necessario all’intera operazione. La decisione si inquadra nell’evoluzione dell’operazione Nato Resolute Support, che prevede la progressiva riduzione delle capacità presenti in Afghanistan, condizionata allo sviluppo del negoziato interno al paese”. L’Italia, che sta avvicendando il proprio contingente con il cambio avvenuto ieri a Herat tra i militari della brigata Ariete guidato dal generale Enrico Barduani e gli alpini della brigata Julia al comando del generale Alberto Vezzoli, ha al momento una presenza in Afghanistan progressivamente vicina ai 650 effettivi previsti fino a giugno 2021, quando dovrebbe completarsi il ritiro dell’intero contingente italiano. Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha avuto il 5 agosto un colloquio in videoconferenza con il vice capo dei Talebani dell’Afghanistan, Mullah Abdul Ghani Baradar. Lo ha annunciato il portavoce del gruppo estremista islamico, Suhail Shaheen, che ha diffuso una foto del segretario di Stato Usa mentre parla in videoconferenza con Baradar. Un annuncio che potrebbe aver provocato qualche imbarazzo a Washington considerato che il dipartimento di Stato non aveva fatto cenno al colloquio di Pompeo col numero 2 dei Talebani, il secondo in un mese. Secondo quanto riferito dal portavoce dei talebani, i due hanno discusso dell’avvio dei colloqui intra-afgani e dell’attuale processo politico dopo il cessate il fuoco di tre giorni annunciato dai talebani per la festa dell’Eid al Adha, oltre che del rilascio dei prigionieri da parte del governo di Kabul. In precedenza l’inviato speciale Usa per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, si era recato in Qatar, Pakistan, Afghanistan, Norvegia e Bulgaria per aggiornare alleati Nato e partner sul processo di pace in Afghanistan. Il mese scorso, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha annunciato una riduzione del numero di militari in Afghanistan a 8.600 da circa 12mila, in base all’accordo di Doha. Un rapporto del Pentagono diffuso a luglio mette però in dubbio l’impegno degli insorti jihadisti a porre fine alle violenze e a tagliare completamente i legami con i gruppi terroristici come al-Qaeda. Al tempo stesso, un numero troppo ridotto di truppe Usa e Nato in Afghanistan non permetterebbe di disporre di capacità tattiche e operative utili a sostenere in combattimento le truppe di Kabul in caso di necessità. Filippine, omicidio molto sospetto di un attivista per la pace di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 agosto 2020 Il 10 agosto l’attivista per la pace Randall Echanis è stato ucciso, insieme a un vicino, nella sua abitazione di Quezon City. Il suo corpo è stato ritrovato pieno ferite da arma da taglio. Testimoni hanno visto delle persone in abiti civili uscire in tutta fretta dall’abitazione. Echanis era il presidente di Anakpawis Partylist e il vicesegretario generale del gruppo di contadini Kilusang Magbubukid ng Pilipinas. Soprattutto, era consulente politico del Fronte nazionale democratico delle Filippine, una coalizione di gruppi protagonisti di azioni insurrezionali in parti del paese, nei negoziati di pace col governo centrale: negoziati poi annullati dal presidente Rodrigo Duterte. Nel 2018 quello di Echanis era stato inserito, insieme ad altre centinaia di nomi, in una “lista di terroristi” redatta dal dipartimento della Giustizia. Poi era stato rimosso, insieme a quello di Victoria Tauli-Corpuz, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli nativi. Un altro consulente del Fronte nei negoziati di pace, Randy Malayao, era stato assassinato da persone tuttora non identificate nel gennaio 2019, nella provincia di Nueva Vizcaya. Stessa sorte per molte altre persone etichettate come “rosse”, “comuniste” o “terroriste” durante la presidenza di Duterte.