Magistrati, politica e prigioni di Franco Corleone Il Riformista, 11 agosto 2020 Sono loro che accusano, loro che giudicano, loro che guidano il ministero della Giustizia e fanno le leggi, e poi loro che hanno il potere assoluto nelle carceri. Alcuni sono ottime persone e ottimi professionisti, certo. Però... Discontinuità. Una parola scomparsa dal dizionario della politica di colpo, dopo essere stata evocata come fondamento di una operazione trasformistica. Ora si vuole tornare alla normalità pre-Covid in ogni settore economico o sociale. Nessuna riforma è all’orizzonte né nella sanità, né nella scuola, né nell’università, né nei consumi (tanto meno nei costumi), né nell’ambiente e nella produzione. Parodiando la abusata frase del Gattopardo si sente ripetere “che tutto torni come prima, presto” e soprattutto si sente la molla della dea pecunia, il denaro della vituperata Europa da sperperare senza controllo per grandi e piccole opere, spesso inutili se non dannose. Due grandi questioni di civiltà, il carcere e il rapporto tra magistratura e politica, sono state accantonate irresponsabilmente. Carcere e giustizia rappresentano un binomio che fa capire molto del potere e dei rapporti di potere nella società. La riforma del CSM si limita a una modifica della tecnica elettorale e a un bizzarro ricorso al sorteggio. Invece di puntare alla qualità si ricorre al caso, evitando le questioni spinose della responsabilità e degli errori. Il carcere rappresenta il deposito finale di una attività giudiziaria indirizzata alla repressione di questioni sociali come il consumo di droghe vietate in nome di un proibizionismo ideologico, l’immigrazione resa illegale, l’emarginazione sociale e, in ultima analisi, la povertà. Il totem della obbligatorietà dell’azione penale copre le scelte discrezionali per cui i reati dell’articolo 73 della legge antidroga relativi alla detenzione e al piccolo spaccio sono perseguiti in maniera esponenziale rispetto ai delitti contro la persona e il patrimonio. I dati clamorosi sono svelati nell’undicesimo Libro Bianco sugli effetti sulla giustizia e sul carcere del Dpr 309/90 (il decreto sulla droga). Il paradosso dell’Italia è che i magistrati giudicano nelle aule di tribunale, governano il ministero della Giustizia e sono padroni assoluti del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria che determina la vita delle carceri dove sono rinchiusi i condannati. Un potere unico che fa le leggi, condanna e vigila sul regime delle prigioni. Una evidente stonatura a cui si dovrebbe porre rimedio. Lo dico consapevole della qualità che in alcuni momenti storici è stata rappresentata proprio da magistrati che hanno rappresentato una eccelsa classe dirigente. Quando fui sottosegretario in via Arenula con Giovanni Maria Flick ministro, lo staff era composto da Loris D’Ambrosio, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Franco Ippolito, Vladimiro Zagrebelsky, Luigi Scotti e altri giovani collaboratori che ora sono in Cassazione (il mio capo segreteria era Giuseppe Cascini) e al Dap responsabili furono prima Michele Coiro e poi Sandro Margara. Se infine ricordo che in Parlamento erano presenti autorevolmente Luigi Saraceni, Elvio Fassone e Salvatore Senese si rischia di essere travolti da un mix di nostalgia e malinconia. Erano protagonisti A Montecitorio e a Palazzo Madama prestigiosi avvocati come Giuliano Pisapia, Guido Calvi e Gaetano Pecorella. Davvero un altro mondo. Però proprio in quegli anni ci si pose il problema di limitare il numero dei magistrati fuori ruolo nei ministeri e si approvò la legge per assicurare l’accesso degli avvocati in Cassazione, che non era un provvedimento corporativo ma di grande valore simbolico, anche se dispiace constatare che una riforma attesa da tanto tempo sia rimasta sostanzialmente bloccata e inapplicata. Purtroppo anche l’istituzione di una doppia dirigenza, in modo da attribuire i compiti amministrativi delle procure e dei tribunali a personale specializzato e non ai magistrati, è rimasta nel limbo dei desideri. Ma gravissima è stata la ripercussione sulla gestione del Dap che ha visto l’esclusione totale dei laici. Dall’epoca di Nicolò Amato fino a pochi anni fa, uno dei due vicecapi proveniva dalla carriera dei direttori. Nel momento in cui è stato previsto un solo vice, questo ruolo è stato affidato a un magistrato. Così oggi il Capo del Dap e il suo vice sono magistrati (che siano PM è irrilevante o un eccesso), il dirigente dei detenuti e del trattamento è un magistrato, il responsabile del personale e risorse è un magistrato. È una situazione aberrante e intollerabile. Come ha detto icasticamente Mauro Palma nell’incontro promosso dalla Società della Ragione il 29 luglio per prendere forza dal pensiero di Sandro Margara, il carcere è oggi un luogo vuoto e sordo. Il virus da combattere con intransigenza è quello che cancella i principi della Costituzione, i diritti e le garanzie. Il fantasma del carcere si chiama suicidio di Alessio Scandurra* Il Riformista, 11 agosto 2020 Le persone che si tolgono la vita sono 10 volte di più che nel mondo libero. Quest’anno già 34. L’ansia è la regina, in cella. Il sovraffollamento è ancora grande e tornerà a crescere. L’emergenza coronavirus è diventata l’ordinarietà, dentro e fuori dal carcere. Ed il sistema penitenziario italiano affronta questo agosto anomalo facendo i conti con la vita in carcere ai tempi del coronavirus. L’apice della crisi è passato, ma non senza lasciare ferite: 287 contagi in tutto ad inizio luglio ed 8 morti, 4 tra i detenuti, 2 tra il personale di polizia e 2 tra quello medico. Poteva andare molto peggio ma le misure di prevenzione, le limitazioni dei contatti con l’esterno ed il calo della popolazione detenuta hanno evitato che questo accadesse: a fine luglio c’erano nelle nostre carceri 53.619 persone, 7.611 in meno rispetto alla fine di febbraio. Le misure per il contrasto al sovraffollamento hanno dunque funzionato, ma abbiamo ancora più detenuti che posti regolamentari (50.588 in tutto, mentre i posti effettivamente disponibili sono almeno 4.000 in meno), mentre le misure adottate erano a tempo, e sono venute meno il 30 giugno. Da un momento all’altro dunque i numeri potrebbero tornare a crescere. Il tasso di affollamento ufficiale si ferma intanto al 106,1%, gli istituti più affollati sono Larino (178,9%), Taranto (177,8%) e soprattutto Latina (197,4%), mentre le regioni più affollate sono la Puglia (127,2%), il Friuli-Venezia Giulia (129,3%) ed il Molise (144,4%). Il contrasto al virus per ora ha almeno in parte funzionato, ma non tutto è andato per il meglio durante questa difficile prova. Da una parte va segnalato il numero dei suicidi, 34 dall’inizio del 2020, un numero molto alto rispetto agli anni passati, equivalente a più di 10 volte il tasso di suicidi della popolazione libera, certamente legato anche all’ansia per sé e per i propri cari, ansia che, come in molti, medici e detenuti, ci hanno testimoniato, in questi mesi ha raggiunto livelli eccezionali. Ma sono cresciute moltissimo in questo periodo anche le segnalazioni ricevute da Antigone per presunti maltrattamenti e violenze. Da Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere e Pavia ci sono arrivate notizie di rappresaglie da parte di elementi del personale di polizia penitenziaria ai danni di persone che avrebbero organizzato o partecipato alle rivolte di marzo. Durante le rivolte sono stati commessi dei reati, ai quali bisogna rispondere con le indagini e con i processi. Non con violenza arbitraria che, se venisse accertata in giudizio, configurerebbe veri e propri casi di tortura. Le indagini sono attualmente in corso e andranno seguite con attenzione. Intanto, come dicevamo, il carcere si adatta a questa nuova normalità. Sono ripresi i colloqui con i familiari quasi ovunque ma in molti istituti, per prevenire i contagi, si autorizza un solo familiare. In altri due o a volte anche tre, secondo una logica non troppo chiara. Continua anche l’uso delle videochiamate, che sono state utilissime per limitare in questi mesi l’isolamento e la preoccupazione dei detenuti. Queste però vengono sempre più autorizzate in alternativa ai colloqui, non in aggiunta a questi, costringendo i detenuti a scegliere ad esempio se passare un’ora di colloquio con il proprio partner o un’ora di videochiamata con quei membri della propria famiglia i quali, perché troppo giovani o troppo anziani, non possono affrontare il viaggio a volte lunghissimo per andare al colloquio. Ci auguriamo davvero che al più presto si decida, per favorire i rapporti con i familiari come sempre si dice di voler fare, che questo limite venga rimosso. I mesi passati hanno dimostrato come è possibile farlo. Così come è possibile allargare l’uso delle videochiamate oltre i colloqui con i familiari. L’esperienza della didattica a distanza in carcere non è andata benissimo, soprattutto per limiti tecnici. Le risorse (Pc, tablet, Internet, etc.) erano limitate e sono state usate soprattutto per favorire i contatti con i familiari. Ma da qualche parte sono state usate anche per altre attività, didattiche o formative, e si è trattato di esperienze certamente positive da preservare e moltiplicare, non certo da archiviare. *Associazione Antigone Suicidi e repressione. È così che il carcere fa ancora morire di Chiara Formica 2duerighe.com, 11 agosto 2020 È di ieri il rapporto di Antigone che fa luce sull’attuale situazione carceraria tra suicidi, contagi per il Covid-19 e sovraffollamento. Per quanto riguarda il primo punto, soltanto da gennaio al 1 agosto 2020, le persone detenute che si sono tolte la vita sono 34, di cui il 20 per cento giovanissimi. Tra questi gli ultimi due recenti casi, avvenuti nelle scorse settimane. “Un problema serio a cui vanno date risposte diverse rispetto al passato. Per i soggetti con problemi psichici e psichiatrici il carcere non basta, devono essere individuate forme d’intervento che vadano oltre la semplice restrizione nell’istituto penitenziario”, così Andrea Nobili, garante dei diritti delle persone private della libertà della Regione Marche, ha commentato il suicidio di un ragazzo 22enne con problemi psichiatrici, detenuto nel carcere di Fermo. Prima di lui, Jhonny Cirillo, rapper 23enne si è tolto la vita nel carcere di Fuorni. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, ha fatto sapere che il giovane richiedeva da tempo il trasferimento in una struttura sanitaria per il trattamento di patologie psichiche. Qual è l’utilità di queste osservazioni a posteriori? Qualsiasi fenomeno e luogo sociale è stato oggetto di ripensamento ed evoluzione nel corso della storia, il carcere no: la sua essenza è rimasta inalterata di fronte agli stravolgimenti culturali e alle rivoluzioni sociali. Il carcere non ha bisogno di subire trasformazioni perché risponde alla fondamentale esigenza umana della vendetta. Il cordoglio è inutile. Poco tempo prima, nel carcere di Bassone, a togliersi la vita è stato un ragazzo ventenne di origini marocchine. Sempre nella stessa struttura detentiva qualche mese prima un altro detenuto di 33 anni si è impiccato e altri due detenuti hanno provato a farlo. Dal rapporto di Antigone si evince che nel 2019 all’interno delle carceri italiane le persone detenute si sono tolte la vita 13,5 volte in più rispetto all’estero (53 suicidi negli istituti penitenziari italiani). “Ogni storia di suicidio è una storia di disperazione individuale. Ogni storia di suicidio non va risolta con il capro espiatorio, cioè prendersela con chi 10 minuti prima non ha fatto l’ultimo controllo: il poliziotto di sezione quasi sempre non ha nessuna responsabilità. Non ci dobbiamo accanire con chi non ha impedito il suicidio ma con chi non ha tolto la voglia di suicidarsi, che è ben altra cosa”, sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone durante la presentazione del rapporto. La reazione del Dap alle rivolte e ai suicidi - Comportamenti “anti-doverosi”. Punire perché in fondo va bene così: in questo modo le direttive del Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rimangono perfettamente coerenti con gli slogan politici che richiamano sicurezza e controllo. Di fronte alle rivolte avvenute nelle carceri durante le prime settimane di marzo e ai suicidi, il Dap risponde con una circolare riservata interna, il cui oggetto riporta “aggressioni al personale, linee di intervento”. La circolare in questione, datata 23 luglio, è stata resa nota da Il Riformista e ha come scopo, in perfetto stile militaresco, la punizione di comportamenti “anti-doverosi”. Se pubblicamente si parla di reinserimento, nelle note interne è soltanto l’approvazione e l’incitamento alla repressione a prevalere. Si incoraggia a dare una “dimostrazione fattiva della capacità reattiva” della polizia penitenziaria. I responsabili di eventuali nuovi disordini vanno sottoposti a misure disciplinari che arrivano fino alla sorveglianza particolare dell’ex articolo 14 bis. Si legge: “non possiamo escludere vi sia stata una sottostima di aree di criticità (…) nell’emergere di comportamenti violenti ed anti-doverosi”, ma non si fa minimamente menzione alle motivazioni e tanto meno allo svolgimento di ciò che effettivamente è accaduto. “A fronte di episodi di aggressione indirizzati contro il personale, pronta ed efficace deve essere l’azione della polizia penitenziaria per la prevenzione di tali tipi di condotte”. Quindi la repressione sarà la nuova prevenzione. La vulnerabilità è una condizione umana che va riconosciuta - I suicidi durante l’estate sono quasi una costante in carcere. Si amplifica il distacco e l’isolamento diventa immediatamente solitudine. I mesi estivi, soprattutto agosto, sono i più odiati e sofferti dalle persone recluse. L’aria densa del carcere modifica la capacità di respirare. È aria che pesa quella che bisogna incastrare nei polmoni, aria che mentre viene respirata già manca. È aria che scuce il tempo e lo dilata. Ma l’aria di un carcere in cui è appena morto qualcuno è diversa, ne ho avuto direttamente la prova quasi un anno fa dentro un reparto carcerario, dove poche ore prima una persona si era suicidata. Quella mattina tutto era diverso. Erano diversi i rumori: mancavano le voci e gli schiamazzi nei corridoi, mancava il brusio senza volto, quello delle persone chiuse nelle loro celle. I suoni che solitamente cercano di camuffare il rumore metallico e alienante dei cancelli erano spenti. Non c’erano. Ho capito il perché dell’insolita quiete appena varcato l’ingresso dell’aula universitaria: oltre agli ordinari imprevisti del carcere, la notte precedente una persona detenuta si era tolta la vita. Una persona che non conoscevo, a cui non sapevo attribuire neanche un’espressione facciale, era morta lì, pochi metri lontano dall’aula in cui studenti universitari detenuti tentavano di concedersi un futuro. In quello spazio senza confini il posto dove si muore è lo stesso del pasto, dei sogni, dello studio, delle fantasie. È uno spazio senza confini nel quale la morte, quando avviene, non può essere rinchiusa come un corpo in una stanza, esce e attecchisce su tutto ciò che trova. Non c’è abbastanza spazio in carcere per scansarsi dalla morte, bisogna sorbirla proprio negli stessi spazi in cui è concessa la socialità. Vivere respirando l’aria della fine non rientra in alcun orizzonte rieducativo né di reinserimento sociale. Vivere respirando la fine convince di non avere nulla da perdere. La vulnerabilità va riconosciuta come condizione umana, “nella speranza che in futuro si possano prendere in carico le storie, il disagio. Che il sistema si interroghi intorno alla sofferenza”, come ha auspicato Patrizio Gonnella. Il proporzionale per il Csm di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 11 agosto 2020 Nel clima segnato dallo sconcerto per quanto emerso dalla indagine di Perugia il dibattito sul Csm ha finito per concentrarsi sul sistema elettorale e la fantasia si è scatenata nel proporre i più diversi “toccasana”, non pochi dei quali francamente stravaganti. I sistemi elettorali sono materia tecnicamente complicata. Anche al sistema elettorale del Csm può applicarsi il monito di Alexander Hamilton (Federalist n. 51): “Se gli uomini fossero angeli, non sarebbe necessario un governo. Se i governanti fossero angeli, non sarebbe necessario alcun controllo né interno né esterno sul governo. Ma in un quadro in cui uomini governano uomini sorge un grande problema: in primo luogo lo stato deve controllare i governati, ma in secondo luogo occorre obbligare il governo a porre in essere forme di controllo di sé stesso. La dipendenza dal popolo del governo è senza dubbio il primo tipo di controllo, ma l’esperienza ha insegnato al genere umano che sono necessarie alcune precauzioni ausiliarie”. Gli uomini non sono angeli, i magistrati sono uomini e dunque non essendo angeli è bene che il sistema elettorale non li esponga ad eccessive tentazioni, come avvenne nel 1967 con il sistema maggioritario o nel 2002 con l’attuale sistema che ha prodotto i risultati ben noti, all’opposto di quello che il malaccorto legislatore si proponeva. Le “precauzioni ausiliarie” devono tener conto della specificità dell’elettorato e dell’organo di cui si eleggono i componenti. I magistrati in servizio all’11 agosto 2020 sono 9.707: un piccolo paese, supera non di molto il numero di abitanti di San Gimignano. I componenti magistrati da eleggere al Csm sono oggi 16, in passato, e in futuro forse, 20. Nei sistemi politici maggioritari può capitare che la maggioranza dei voti espressi a livello nazionale dagli elettori non si traduca in maggioranza dei seggi, ma l’evento non è frequente e la distanza tra i due dati non è rilevante. Nel piccolo paese, suddiviso in piccoli collegi le distorsioni possono essere rilevantissime. La legittimazione di un organo in cui la totalità o quasi dei componenti sia espressa da una minoranza degli elettori è soggetta a forti tensioni, come accadde per il Csm del 1972, al punto da indurre il Parlamento a mutare radicalmente, a larghissima maggioranza, il sistema che aveva consentito quel risultato. A seconda del numero, 16 o 20 dei componenti da eleggere in collegi uninominali, ciascun collegio è formato tra 500 e 600 elettori, un quartiere di un piccolo paese, ma le realtà sono molto diverse. A Milano città 537 magistrati lavorano nello stesso palazzo di Giustizia. Nella intera regione Umbria i magistrati sono 135. A Milano il mitico “magistrato della porta accanto” lavora ogni giorno nei diversi piani al civico 20123 Via Freguglia 1. In altri collegi il vicino della porta a fianco si trova a decine, talora a più di un centinaio di chilometri di distanza. Il maggioritario uninominale “1 collegio = 1 eletto” non assicura, nella maggioranza delle situazioni, la vicinanza eletto/elettore. Questa è peraltro un valore ove l’eletto legittimamente sia portatore delle istanze del territorio, ciò che avviene per le amministrazioni locali e anche per il Parlamento, sia pure con il temperamento previsto dall’art. 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Non lo è per il Csm, che deve svolgere il suo compito avendo di mira l’organizzazione della giustizia a livello nazionale, rifuggendo anzi dalle pressioni ed istanze localistiche. Ad assicurare il canale informativo e di proposta delle realtà territoriali sono previsti ed operano i Consigli Giudiziari presso ciascuna Corte di Appello. Il “vicino della porta accanto” potrebbe essere piuttosto il collega che opera nello stesso settore di specializzazione, in altri uffici e in altri distretti, ma con il quale si è venuti in contatto nei seminari, nei convegni e nello scambio quotidiano di opinioni, che a maggior ragione oggi internet rende possibile superando ogni distanza fisica. Il “vicino della porta accanto” potrebbe essere piuttosto, horresco referens, il collega del quale condivido le opinioni sul sistema di giustizia e sulle riforme necessarie, al quale magari mi accomuna l’adesione aduna gruppo che opera nell’ associazionismo giudiziario. Quelle che chiamiamo “correnti”, ma si può usare una denominazione diversa, sono libere, trasparenti associazioni di magistrati, che si formano sulla base di una concezione del sistema di giustizia e delle riforme da proporre. Con il collegio unico nazionale posso scegliermi il “vicino della porta accanto”. Il sistema proporzionale per liste concorrenti rispetta la mia volontà di elettore di contribuire alla elezione dei “colleghi della porta accanto” coni quali condivido le idee sulla giustizia, anche se la “porta accanto” è fisicamente molto distante. Il candidato che abbia molti “colleghi della porta accanto” declinata in questo modo, ha chances di essere eletto anche se opera in una realtà territoriale in cui il suo gruppo di riferimento raccolga un consenso limitato. Ciò che avvenne nelle elezioni del 1981. Per altro verso anche un piccolo raggruppamento di nuova costituzione può ottenere almeno un seggio come accadde nelle elezioni del 1986. È vero che le dirigenze dei gruppi formano la lista secondo le regole interne, ma nessun apparato potrebbe praticare scelte di esclusione in una lista ampia di 16 o 20 candidati e l’elettore, che possa esprimere un numero limitato di preferenze, ha un’ampia possibilità di scelta. La rigidità del meccanismo delle liste concorrenti, può essere poi attenuata in diversi modi. Si potrebbe sperimentare il sistema del Voto Singolo Trasferibile: altrimenti il cosiddetto panachage consente di esprimere una preferenza ulteriore per candidato di altra lista. Oggi di fronte alla frammentazione del sistema politico anche i sistemi maggioritari stentano a perseguire quelli che sono ritenuti i loro “pregi”: una maggioranza stabile che assicuri la governabilità, conoscere chi governerà appena finito lo spoglio. Per di più se i “pregi” fondamentali del maggioritario sono proprio quelli che per il Csm si devono comunque evitare, occorrerebbe essere molto cauti nel “giocare” con varie combinazioni incentrate sul maggioritario. I “pregi” che si attribuiscono ai sistemi maggioritari nelle elezioni politiche o amministrative sono esattamente ciò che per il Csm si deve cercare di evitare. I componenti del Csm eletti dalle “correnti” possono pervertire il confronto delle posizioni ideali per indulgere, come purtroppo è accaduto, a logiche clientelari e a pratiche di scambio. I notabili eletti dai colleghi della porta accanto, anche se continuano a far riferimento ad un gruppo associativo, tendono a rispondere al loro elettorato e per assicurare gli interessi del proprio collegio devono entrare in pratiche di scambio con gli eletti di altri collegi. A sistemi che hanno insiti i rischi del notabilato, delle visioni localistiche e delle pratiche di scambio, si contrappongono sistemi che operando per la rappresentanza del pluralismo di posizioni culturali e professionali, hanno in sé gli antidoti per quelle derive. Si tratta allora di operare per valorizzare quegli antidoti. Oggi il corpo elettorale della magistratura è composto per il 54 per cento da donne e per il 46 per cento da uomini. Negli ultimi anni la discriminazione di genere si è fortemente attenuata, anche se ai due incarichi di vertici della magistratura, presidente e procuratore generale della Cassazione finora non sono mai arrivate donne. È però un fatto la perdurante sotto-rappresentazione delle donne tra i componenti del Csm: si giustifica quindi tentare, attraverso una “azione positiva” nel sistema elettorale, di indurre un riequilibrio. Ma ancora una volta operando su piccoli numeri i meccanismi correttivi possono produrre distorsioni così rilevanti della volontà degli elettori da porre problemi di rappresentatività e anche di compatibilità costituzionale. Questi rischi sono evidenti nei sistemi maggioritari, mentre la finalità del riequilibrio può essere invece perseguita agevolmente, e senza distorsioni eccessive, in un sistema proporzionale in collegio unico nazionale ed è facilitata dall’aumento degli eletti da 16 a 20. Il pluralismo culturale e professionale caratterizza la magistratura, come qualunque altro gruppo professionale. Nonostante le degenerazioni questo pluralismo è insieme un valore positivo e una realtà che nessuna alchimia elettorale può eliminare. Ovunque vi è una elezione libera si confrontano diverse opinioni e si formano aggregazioni, nuove o preesistenti. Avviene anche nel Conclave per eleggere il Papa; lì il risultato finale è guidato dall’alto dal Padreterno. Per il Csm deve valere solo il libero confronto delle diverse opzioni evitando l’errore di proporre sistemi che lasciano mano libera alle manovre di piccoli “padreterni” nella raccolta del consenso. Si è parlato sin qui di “tecnicismi” sui sistemi elettorali. Il recupero di credibilità della giustizia, il “voltare pagina” richiesto dal presidente Mattarella già il 21 giugno 2019 non passa per le alchimie dei sistemi elettorali, ma è nelle mani dei magistrati se saranno capaci di rifuggire da pratiche deteriori e ritrovare l’orgoglio del confronto tra posizioni ideali nell’ associazionismo giudiziario, rivitalizzandone una storia non priva di momenti elevati, e nel Csm, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione. Bonafede schiavo degli eroi delle manette: al via la tirannide dei pm inquirenti di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 11 agosto 2020 Pretendere di riformare l’ordinamento giudiziario senza avere chiare le cause reali dei suoi malanni, è come voler curare una infezione ignorandone il germe patogeno. È proprio questo il caso del velleitario disegno di legge appena licenziato dal governo. Si dice di voler affrancare il nostro sistema giudiziario dal mortifero giogo delle correnti, restituendo il governo della magistratura e della giurisdizione a limpide dinamiche meritocratiche. Senonché il governo giallorosso si guarda bene dal mettere mano alla assurda anomalia italiana, unica al mondo - ripeto: unica al mondo - che dal 1970 ha eliminato ogni valutazione di merito nella progressione in carriera dei magistrati. A meno che il magistrato non sia uno squilibrato o un conclamato criminale, basta aver vinto il concorso di accesso alla professione per avere la certezza - in una percentuale che oscilla tra il 97,6 ed il 99,1 % - di concludere la carriera con grado e stipendio da consigliere di Cassazione. Non ci sono più le promozioni, pur pretese dalla Costituzione, ma le “valutazioni di professionalità”, con i risultati che ho appena ricordato. In Francia i magistrati meritevoli di ambire ai vertici di carriera sono in media il 9%, in Germania ancora di meno. Da noi oltre il 25%, vale a dire pressocchè il 100% dei magistrati al massimo di anzianità di carriera in quel momento. Dunque, come facciamo a distinguere il meritevole? Quando ti trovi a dover nominare - per dire - il Procuratore della Repubblica di Roma, i cinque o sei aspiranti avranno più o meno curricula tra di loro indistinguibili, sicché necessariamente la scelta seguirà altre logiche: di appartenenza, di visibilità politica, di continuità gestionale, ma comunque indifferenti al merito. La riforma ipocritamente introduce una cervellotica griglia di criteri - una decina - pretesamente oggettivi, che diventerà terreno ancor più fertile per le abili tecnicalità manovriere dei leader delle varie correnti. Perché il ministro Bonafede non ha messo mano a quell’assurdo unicum mondiale che connota il nostro ordinamento giudiziario? Ma è molto semplice: perché l’ordine giudiziario, cioè il potere più incontrollabile e invincibile del nostro sistema democratico, non glielo permette. E il nostro ministro, prudente e consapevole, pensa bene di tenersi lontano dai fili dell’alta tensione. Non è il primo, non sarà l’ultimo purtroppo, e l’intera compagine governativa (forse anche parte della opposizione) la pensa come lui. Meglio non prendere di petto la magistratura italiana mettendo mano ai privilegi che essa si è avidamente assegnata soprattutto in questo ultimo cinquantennio di storia repubblicana. Dunque, tutte chiacchiere, questa riforma, “chiacchiere e distintivo”, spacciate per riforme epocali giusto per guadagnare titoli su giornali ben disposti a spacciare a piene mani propaganda elettorale. Non paghi di produrre il nulla in punto di meriti carrieristici, i nostri governanti disegnano di introdurre una modifica del sistema elettorale tanto ingarbugliata quanto inidonea allo scopo (di liberazione dal giogo correntizio) come già denunciato da più componenti della stessa magistratura. Come se non bastasse, hanno concepito una follia - complimenti vivissimi - che consegnerà anche il Csm (come già accaduto con l’Anm) al dominio incontrastato dei magistrati del pubblico ministero. La riforma infatti elimina - Dio solo sa perché - la ripartizione dei componenti da eleggere al Csm tra magistrati giudicanti e requirenti. Cosa accadrà ce lo dice con certezza la trentennale esperienza elettorale dei vertici dell’Anm, dove i Pubblici Ministeri -che, per la cronaca, sono scarso il 20% del corpo elettorale togato- dominano incontrastati, come se fossero invece l’80%. La magistratura inquirente, come si sa, è quella che conta politicamente e mediaticamente, e i magistrati italiani, nella loro assoluta maggioranza, evidentemente anelano a essere rappresentati dai Gratteri, i Di Matteo, i Davigo, insomma gli eroi delle manette (come vadano a finire poi le loro inchieste, a chi importa? A chi importa del giudizio dei giudici? Nulla, in primis ai giudici medesimi!). Ecco, questo accadrà ora anche nella composizione dell’organo di autogoverno della Magistratura. Sarà il definitivo trionfo degli uffici di Procura, il governo della giurisdizione -dalle nomine dei Presidenti di Tribunali, Corte di Appello e Cassazione fino al controllo disciplinare- nelle mani di un manipolo di magistrati inquirenti. E poi c’è chi ha pure la faccia tosta di chiedere a noi avvocati penalisti: ma che c’entra la separazione delle carriere con la riforma dell’ordinamento giudiziario? Ecco, appunto. Quando la forza umilia il diritto di Ilaria Cucchi La Stampa, 11 agosto 2020 Tutti possiamo vedere le immagini, chiare e nitide di quel video. Le ricostruzioni giornalistiche dei fatti non possono fare certo i processi. Ma i video sì. I video sono spietati nella durezza di quelle immagini. Non danno scampo. Non cedono alle versioni delle cosiddette fonti ufficiali che si sono affrettate a fornire ricostruzioni e giustificazioni giuridicamente e civilmente inaccettabili. Potranno forse essere ignorati o diversamente interpretati nelle aule giudiziarie, come spesso purtroppo accade. Vicenza mi ricorda quel ragazzo che finì in coma con la testa rotta, mentre correva affianco a un cellulare della Polizia, fuggendo dai luoghi dove si stavano verificando alcuni disordini dopo la partita di calcio Vicenza-Sambenedettese: Luca Fanesi. Colpito violentemente da alcune manganellate al capo secondo numerosi testimoni. Colpito viceversa solo alle gambe e poi caduto violentemente contro una cancellata e al suolo, secondo la versione della Polizia vicentina che venne poi smentita anche dai colleghi di Ascoli Piceno, anch’essi presenti e in servizio quel giorno, su genesi, origine e dinamica di quegli scontri. Era il 2017. Luca rimase diversi mesi tra la vita e la morte. Ora attende di poter sottoporre la sua richiesta di Giustizia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quella Vicentina ha archiviato tutto. Ma qui abbiamo un video. Abbiamo anche le parole, preziose ed illuminanti, del Questore, come dicevamo. Voglio essere chiara per non essere poi accusata di essere “il tribuno di turno”. Quel giovanissimo ragazzo di colore si chiama Denis Jasel Guerra Romero ed è di origine cubana. Vive del tutto legittimamente in Italia da sei anni, ha un lavoro ed è incensurato. Circostanze queste, che mi vergogno a sottolineare di fronte a quelle immagini che non si potrebbero comprendere nemmeno se il contesto fosse tutto diverso e corrispondente ai comuni stereotipi che ci farebbero urlare frasi del tipo “in galera e buttate via le chiavi”, o “rimandatelo a calci a casa sua”. Ma sono proprio le parole del Questore a farmi venire i brividi: “Non c’è assolutamente atto di razzismo, nessuno dei miei uomini ha comportamenti razzisti è una questione di educazione alla legalità. C’è l’uso della forza, ma non della violenza gratuita. La stessa cosa sarebbe potuta accadere ad un italiano”. Proprio secondo la sua ricostruzione dei fatti, quel ragazzo non avrebbe esercitato nessuna forma di violenza nei confronti degli agenti o dì chicchessia. Sarebbe solo stato reo di aver riso o deriso gli agenti insieme ad alcuni suoi amici che, tuttavia, smentiscono. Ma anche a voler credere al Questore come si può permettergli di giustificare quella violenta presa al collo che sappiamo tutti essere vietata dai manuali Polizia perché estremamente pericolosa? Come gli si può giustificare l’uso della “forza” nei confronti di chi fino a quel momento non aveva esercitato alcuna forma di violenza o minaccia? Non certo per norma di codice che non lo consente. “Per una questione di educazione alla legalità”. “Sarebbe potuto accadere anche ad un italiano”. Certo, io gli credo. Denis è un ragazzo normale - questo possiamo dirlo - che non aveva commesso alcun reato. Era stato maleducato. Aveva perciò perso il diritto di libertà di stare dov’era, era poi stato trattato come un delinquente ed infine atterrato con una presa al collo pericolosissima. Ha avuto paura è scappato ed ora è agli arresti. La sua vita non sarà mai più come prima. Quale è la lezione che deve imparare? Quella dell’educazione cui fa riferimento il Questore? È semplice: Denis, immigrato regolare, tu non hai diritti se non nella misura in cui ti possano essere concessi non dalla legge, ma da chi la legge è chiamata ad applicare. Tu devi chiedere scusa sempre e comunque perché purtroppo tante volte, chi sbaglia portando una divisa è incapace di farlo. Questa è la lezione di educazione che devi imparare e, purtroppo, imparerai. Cutolo ammalato al 41bis, udienza negata da 10 mesi di Angela Stella Il Riformista, 11 agosto 2020 Perché Raffaele Cutolo è ancora ristretto al 41bis? È quanto si chiede il suo legale Gaetano Aufi ero che il 10 agosto ha inviato una istanza al ministro Bonafede per chiedere la revoca del regime di carcere duro. È venuta meno la capacità del condannato di mantenere collegamenti con qualsivoglia associazione criminale e/o di rivestire ruoli all’interno delle stesse. Di conseguenza, non sussistono più i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica giustificativi del mantenimento del regime detentivo speciale che, allo stato, in considerazione delle condizioni di salute del condannato, è inutilmente afflittivo. E perché, si chiede sempre il legale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma dopo dieci mesi dal reclamo difensivo ancora non fissa l’udienza per stabilire se sussistano le condizioni per trattenere al 41bis Cutolo? Il decreto di proroga del 41bis veniva emesso dal ministro della Giustizia l’11 settembre 2019; contro tale decisione il difensore ha proposto reclamo il 2 ottobre. Ebbene, ad oggi - ci dice Aufiero - a distanza di oltre 10 mesi dalla proposizione del reclamo e di 11 mesi dall’esecuzione del decreto, l’atto di impugnazione non è stato ancora fatto oggetto di discussione in quanto, nonostante l’inoltro di ben due solleciti, il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora provveduto alla fissazione della relativa udienza, così di fatto impedendo al condannato l’esercizio del suo legittimo diritto all’impugnazione del gravoso provvedimento eseguito nei suoi confronti. L’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell’eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni. Inoltre le condizioni di salute di Cutolo meritano maggiore attenzione, anche giudiziaria, e non consentono di aspettare tempo ulteriore. Come vi abbiamo infatti raccontato qualche giorno fa, l’uomo è ancora ricoverato nell’ospedale di Parma per un quadro clinico compromesso sotto diversi punti di vista. Inoltre lo scorso 7 agosto sua moglie Immacolata Iacone è andata a trovarlo ma ha trovato davanti a sé una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. Tali evidenti vuoti di memoria e disordini mentali rappresentano, secondo il legale e secondo il Primario del reparto dove Cutolo è ricoverato, sintomi inconfutabili di demenza senile. Pertanto in una seconda istanza, sempre del 10 agosto, l’avvocato Aufiero torna a chiedere una perizia medico legale sul suo assistito e il differimento della pena per motivi di salute. Si vuole lasciar morire Cutolo al 41bis? Ci si vuole accanire contro di lui come avvenuto con Provenzano? Il dubbio viene se la moglie racconta che durante il suo colloquio in ospedale non ha potuto toccare il marito allettato perché tra di loro sono state frapposte delle sedie ad impedire alcun contatto. Su sedia a rotelle chiede stop al “carcere duro”, ma la Cassazione dice no alla richiesta tusciaweb.eu, 11 agosto 2020 Bocciata dalla Cassazione la richiesta di differimento della pena per motivi di salute presentata dal 51enne Vincenzo Salvatore Santapaola, detenuto in regime di 41bis nel carcere di Mammagialla dove sta scontando una condanna a 18 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Santapaola, da quindici anni in carrozzina dopo un incidente in moto, ha anche chiesto di verificare la possibilità di accedere a pratiche di procreazione assistita. È Vincenzo Salvatore Santapaola, figlio primogenito di Nitto, l’ottantenne padrino di Catania, dove anche Vincenzo è nato, il 2 giugno 1969, e dove è stato condannato in via definitiva a una pena di 18 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso a maggio 2018, con fine pena il 17 settembre 2029. Santapaola è al 41bis dal 2012, in regime di carcere duro in una cella appositamente realizzata per portatori di handicap a Mammagialla, costretto sulla sedia a rotelle a seguito di un incidente in moto nel 2005 e affetto da una forma grave di pancreatite. Il tribunale di sorveglianza: “Fisioterapia interrotta dal paziente” - La difesa ha presentato ricorso contro l’ordinanza del 12 dicembre 2019 con cui il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di differimento della pena, disponendo che Santapaola fosse sottoposto a cinque cicli annui di dieci sedute di riabilitazione motoria e pelvico perineale manuale. “Un quadro clinico composito - si legge nelle motivazioni della sentenza dello scorso 17 luglio - in relazione al quale i periti avevano ritenuto sufficiente, con riferimento agli esiti della frattura, l’espletamento di cinque cicli di fisioterapia manuale ognuno dei quali composto di dieci sedute a cadenza almeno bisettimanale, da eseguire nel corso di un anno, condizionando al fallimento di tale intervento l’eventuale sperimentazione di macchinari o tecniche ulteriori”. “La circostanza che detti interventi non fossero stati eseguiti se non in minima parte (quattro sedute in luogo delle cinquanta ritenute necessarie) era dovuto all’interruzione volontaria degli stessi da parte del paziente. Quanto, poi, alla eziologia dell’ultimo episodio di pancreatite subito da Santapaola nel maggio 2019 e alla questione della crioconservazione spermatica, esse furono ritenute non rilevanti dal collegio ai fini del differimento della pena”. La difesa: “Nessuna risposta sulla procreazione assistita” - Il difensore Francesco Strano Tagliareni, nel ricorso, lamenta, oltre alla “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al rigetto dell’istanza di differimento della pena per grave infermità fisica”, anche “la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta, rimasta senza alcuna risposta, di approfondimenti diagnostici e specialistici al fine di verificare la possibilità per Santapaola di accedere a pratiche di procreazione assistita”. L’omessa motivazione sul punto, secondo il legale, inciderebbe sul diritto della persona detenuta a esercitare la funzione riproduttiva. Le motivazioni della cassazione - Rigettando il ricorso, il collegio osserva che: “L’ordinanza impugnata ha spiegato, in maniera puntuale, che il mancato conseguimento di risultati terapeutici da parte della fisiochinesiterapia manuale era legato alla discontinuità con cui essa era stata somministrata, a sua volta imputabile alla scelta del detenuto di interromperla”. Quanto, poi, alla questione della fecondazione assistita: “Si pone in termini del tutto eccentrici rispetto al thema decidendum, non afferendo al piano, qui in rilievo, della grave infermità fisica rilevante ai fini del differimento dell’esecuzione della pena”. “Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve quindi essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali”. la conclusione. 41bis: per l’invio di atti giudiziari al detenuto serve dichiarazione di conformità del difensore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 11 agosto 2020 n. 23820. Non viola il diritto di difesa imporre al difensore che invia la copia di un atto giudiziario al suo assistito, sottoposto al 41bis, di fare una dichiarazione di conformità con l’originale. Una “restrizione” che si giustifica per evitare il rischio che il testo venga alterato per veicolare informazioni non consentite. La Corte di cassazione, con la sentenza 23820, respinge il ricorso di un boss, contro la decisione di “fermare” una sentenza di oltre 1800 pagine che lo riguardava, spedita dal suo difensore, perché priva dell’attestato di conformità. Secondo il legale si era trattato di una violazione del diritto di difesa. La Cassazione respinge il ricorso. I giudici di legittimità, considerano la “limitazione” in linea con le esigenze di cautela imposte dalla particolare condizione detentiva del ricorrente, pur ricordando che non è espressamente prevista nella circolare del Dap, che non contiene specifiche indicazioni sulla consegna degli atti giudiziari in copia conforme. Per l’amministrazione certo leggere più di 1800 pagine di sentenza non era agevole, dunque la via è quella dell’attestato di conformità del difensore, da fare attraverso una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da apporre in calce all’atto da trasmettere La Cassazione apre alle videochiamate per detenuti al 41bis di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2020 Un altro punto a favore del boss Salvatore Madonia nella guerra al 41bis. L’esponente di Cosa Nostra, ora detenuto nel carcere di Sassari, dopo avere ottenuto a luglio dalla Cassazione il riconoscimento del diritto all’informazione quindi alla lettura dei quotidiani, ora si vede riconosciuto sempre dalla Cassazione il diritto a colloqui via video. La Corte, infatti, con la sentenza n. 23819 della Prima sezione penale, depositata ieri, ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia, con il quale si contestava la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma che già aveva aperto al diritto ai colloqui da remoto. Il ministero aveva messo in luce innanzitutto l’assenza di un’espressa disciplina dei video-collegamenti sia per i detenuti in regime ordinario sia per quelli al 41bis; inoltre, metteva in evidenza l’impugnazione, proprio per i detenuti in massima sicurezza la disciplina attuale prevede che i colloqui possono essere svolti soltanto in presenza, in locali attrezzati e comunque con modalità idonea a impedire lo scambio di oggetti. La Cassazione tuttavia non è stata di questo avviso, ricordando innanzitutto che i colloqui visivi rappresentano un fondamentale diritto del detenuto alla conservazione della vita familiare e al mantenimento di rapporti con i congiunti più stretti. Diritto che riguarda anche chi è sottoposto a regime di particolare restrizione. Quanto alle modalità, la sentenza ricorda che legge penitenziaria e regolamento di esecuzione prevedono i colloqui in presenza dell’interlocutore oppure per telefono. Però, prosegue la Corte, l’evoluzione tecnologica ha reso possibile l’utilizzo di nuove forme di comunicazione a distanza, con collegamenti audio e video che permettono di riprodurre accanto alla voce anche l’immagine (videochiamate). Già il regime introdotto nel momento più grave dell’emergenza sanitaria, preso atto dell’impraticabilità dei colloqui in presenza, aveva considerato anche il video uno strumento normale di svolgimento, senza distinzioni tra categorie di detenuti. Ora, la Cassazione, confutando i timori del ministero di ascolti illeciti, ricorda che l’utilizzo della rete intranet dello stesso ministero è in grado di rispondere alle esigenze di sicurezza; di più, l’uso di un’applicazione idonea, peraltro già individuata dalla stessa amministrazione penitenziaria in Skype for business per esempio, permette la registrazione della videochiamata, con la generazione di un file che può essere messo a disposizione della Direzione distrettuale antimafia. Inoltre la sorveglianza dell’operatore sulla chiamata dovrebbe permettere di interromperne lo svolgimento in caso di comportamenti non consentiti. In un caso poi come quello di Madonia, che lamentava l’impossibilità di potere sentire la moglie, anch’essa allora detenuta, la videochiamata rappresenta l’unica modalità per potere dare attuazione a un diritto altrimenti reso impraticabile per l’impossibilità della modalità in presenza. Piemonte. Il Garante richiama l’attenzione sulle “urgenze agostane nelle carceri” di Bruno Mellano atnews.it, 11 agosto 2020 Martedì 4 agosto nel corso di una relazione straordinaria all’Assemblea del Consiglio regionale ho potuto richiamare l’attenzione della Regione Piemonte su alcune situazioni urgenti, meritevoli di approfondimento ma soprattutto di una iniziativa politica ed amministrativa. La perdurante “non corrispondenza” dei posti di detenzione con il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane si riverbera anche sulle 13 carceri per adulti del Piemonte. I dati nazionali che, prima dell’inizio della pandemia avevamo raggiunto i 61 mila detenuti, per una capienza ordinaria che era, sulla carta, di 51 mila posti, ma che, sfrondata dei posti non disponibili per ragioni temporanee, scendeva a 47 mila, quindi con una differenza di ben 14 mila posti a livello italiano. Il 29 febbraio nelle carceri piemontesi vi erano collocati 4.553 detenuti, pari ad un tasso del 121% di sovraffollamento, essendo i posti realmente disponibili - secondo il calcolo fatto dal mio Ufficio - appena 3.783, sottraendo alla capienza i posti non disponibili per ragioni temporanee: si tratta quindi un 770 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari. Pur avendo registrato nelle settimane dell’emergenza Covid una diminuzione dei detenuti presenti nelle carceri piemontesi, il 2 agosto erano comunque presenti 4.202 detenuti e l’Amministrazione penitenziaria ha dichiarato che, nelle 13 carceri del Piemonte, al 3 agosto 248 camere di pernottamento non erano utilizzabili per motivi temporanei legati a lavori di ristrutturazione ordinaria o straordinaria da effettuare, e che a queste celle non utilizzabili corrispondevano ben 510 posti non disponibili, pari alla capienza di un carcere medio-grande. Le iniziative annunciate anche dagli ultimi Governi hanno rilanciato un piano di interventi sull’edilizia penitenziaria che toccherà anche la Regione Piemonte: è prevista la costruzione di un nuovo padiglione detentivo nell’ambito del carcere di Asti e la trasformazione in struttura penitenziaria di un’ex caserma abbandonata a Casale Monferrato. Dal gennaio 2016 risulta però da recuperare al pieno utilizzo il carcere di Alba, dove è ancora al punto di partenza un restauro legato al rifacimento dell’impianto idraulico per l’acqua potabile e per il riscaldamento a 5 anni dalla chiusura per epidemia da legionellosi: al momento non si hanno ancora notizie certe nemmeno sull’avviso pubblico per indire la gara d’appalto volta ad assegnare i lavori. Al 3 agosto ad Alba erano 91 camere soggette a lavori e ben 196 posti temporaneamente non disponibili. Nella Casa Circondariale di Cuneo l’intero padiglione “ex-Giudiziario” è in attesa, da oltre 10 anni, della conclusione di un piano di recupero, ma anche metà del padiglione “Cerialdo” - che ospita il regime del 41bis - attende da anni il suo completo ripristino che ne permetta il riutilizzo funzionale. Al 3 agosto a Cuneo erano 98 camere non utilizzabili e ben 192 posti che risultano temporaneamente non disponibili. Un carcere come quello di Cuneo mezzo vuoto, nonostante sia il più vicino ad un presidio sanitario di livello e che, invece, avrebbe la vocazione per essere il più importante fra i presidi penitenziari piemontesi legati alla sanità. Negli Istituti riunioni di Alessandria erano le 2 camere non utilizzabili per 10 posti alla Casa Circondariale don Soria e altre 28 camere per 55 posti alla Casa di Reclusione San Michele temporaneamente non disponibili. Nell’istituto di Biella da circa 5 anni è stata attivata una “Casa-Lavoro” per gli internati dopo la fine della pena detentiva e per il loro graduale reinserimento, trattandosi di persone sulle quali c’è ancora una valutazione di pericolosità sociale, ma la collocazione della struttura in una sezione della Casa Circondariale, cioè in un pezzo di carcere dove non c’è né la casa, né il lavoro, ma tantissime difficoltà gestionali e nessuna prospettiva concreta, pone seri dubbi sulla legittimità della situazione in uno dei carceri grandi e problematici del Piemonte. Da anni si è indicata a Roma la soluzione: i 50 posti oggi a Biella saranno suddivisi su Alba ed Alessandria, ma i lavori di manutenzione straordinaria sui due ambiti specifici non sono ancora neanche partiti. A Vercelli, dopo un balletto burocratico-surreale, si sono confermati i fondi per gli interventi strutturali sul quinto piano del carcere, in una chiave di trattamento e di progettualità scolastico-formative, ma ora si tratta di far partire effettivamente i progetti di recupero. A Verbania invece i fondi per riadattare per l’uso un cortile interno al carcere sono ancora una volta sfumati: ora la ripresentazione di una specifica richiesta alla Cassa delle Ammende è la premessa per la ripartenza del countdown, sperando sia lo volta buona. Alcune scelte, come quella di un costruire un nuovo padiglione penitenziario ad Asti o la trasformazione di una ex-caserma in struttura penitenziaria a Casale Monferrato oltre al fatto che sarebbe quanto mai opportuna una condivisione, almeno a livello di informativa, con gli enti territoriali, non sembrano essere di imminente realizzazione, mentre il recupero dei soli posti temporaneamente non disponibili ad Alba e a Cuneo corrisponderebbe alla capienza di due padiglioni dell’ultima generazione dell’edilizia penitenziaria. Non si può, dunque, lasciar passare quest’estate per molti aspetti straordinaria senza avere almeno una prospettiva abbozzata per la risoluzione - in tempi ragionevoli - delle urgenze strutturali delle carceri piemontesi. Poi parleremo anche del trattamento e dell’efficacia dell’esecuzione penale in carcere, ma intanto rendiamo gli spazi più adeguati alle richieste di distanziamento sociale che la pandemia impone. Piemonte. DemoS invita le istituzioni a rinnovare l’impegno per il mondo carcerario demospiemonte.it, 11 agosto 2020 “Al di là della diffusa consapevolezza delle responsabilità e delle difficoltà di gestione dell’Amministrazione Penitenziaria, credo sia doveroso che la Regione Piemonte, con gli Enti locali territoriali, rinnovi l’attenzione sul ruolo che essi hanno per la sanità, il lavoro, la formazione e le politiche sociali all’interno del carcere”: è quanto sostiene DemoS-Piemonte attraverso una nota del Coordinamento Regionale. “Sarebbe davvero ingiustificato lasciare da sola l’Amministrazione Penitenziaria a gestire con grande difficoltà momenti di crisi, di sovraffollamento, di pandemia, di violenze tra detenuti e tra agenti e detenuti” aggiunge Democrazia Solidale. Riferendo sull’emergenza Covid - in base ai dati diffusi dal Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano - dei circa 300 detenuti riscontrati positivi al Covid-19 nelle 190 carceri italiane, più di un terzo, oltre 110, sono stati riscontrati nelle 13 carceri del Piemonte tra Torino, Saluzzo e la Casa Circondariale Don Soria di Alessandria. Nello stesso periodo anche operatori di Polizia Penitenziaria, collaboratori amministrativi ed educatori dell’Amministrazione sono risultati positivi e si è registrato un morto fra i medici dell’assistenza penitenziaria piemontese. Tra le maggiori criticità, sottolinea DemoS, permangono quelle legate al sovraffollamento: al 3 agosto nelle tredici carceri per adulti del Piemonte erano presenti 4.202 detenuti su una capienza effettiva di 3.783 posti, con un sovraffollamento pari al 111%. La situazione è ancora più grave se si considera che, per il mancato recupero e restauro degli ambienti, le carceri piemontesi potrebbero disporre complessivamente di ben 510 posti in più. In particolare DemoS si sul trattamento dei detenuti malati psichici e sull’assenza nei reparti femminili della parte dedicata agli studi universitari: “ma più in generale è necessario fare di più sul trattamento sanitario”. Per DemoS “la soluzione al sovraffollamento non è tanto costruire nuove carceri quanto utilizzare le misure alternative già esistenti, lasciando il carcere come extrema ratio”. Modena. Due testimoni hanno raccontato di pestaggi nel carcere durante la pandemia di Manuela D’Alessandro agi.it, 11 agosto 2020 In un due lettere, di cui l’Agi è in possesso, danno la loro versione, negata dalla Polizia penitenziaria. Al di là delle presunte violenze, sono tanti i dubbi su come siano morte 13 persone, di cui 9 a Modena, 1 a Bologna e 3 a Rieti. Alcuni, come Salvatore Piscitelli, decedute nel trasferimento da un carcere all’altro. L’8 e il 9 marzo, mentre gli italiani iniziano la fase più dura della pandemia chiudendosi in casa, una settantina di carceri da nord a sud viene attraversata dalle violente proteste dei detenuti innescate dal divieto di colloquio coi familiari per evitare che il contagio dilaghi tra le mura. Nella bolgia degli istituti incendiati e devastati perdono la vita 13 persone, nove nel carcere di Modena di cui quattro durante il trasporto da qui ad altri istituti, uno alla ‘Dozza’ di Bologna e tre nella prigione di Rieti. La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga, stipati in celle di pochi metri. Dai primi riscontri emerge che il loro decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa l’ipotesi su cui si concentrano le indagini per ‘omicidio colposo’ e ‘morte in conseguenza di altro reato’ delle procure che hanno disposto gli esami tossicologici i cui primi esiti confermano l’assunzione delle sostanze, letali se prese in grande quantità. Ma gli avvocati dei morti, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti l’overdose a spiegare quanto accaduto. I testimoni, “spogliati e picchiati, il nostro amico morto non è stato curato” - In particolare, due detenuti denunciano di avere subito “abusi” nel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite altrove, nonostante stessero male. E’ una scenario, tutto da verificare e nell’ambito di una vicenda che apre molti altri interrogativi, raccontato in due lettere, di cui l’AGI è in possesso, firmate dai compagni di viaggio di Salvatore ‘Sasà’ Piscitelli, uno dei 13 morti, secondo i primi riscontri, a causa dell’abbuffata di medicinali. Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze gratuite hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la “verità” sulla sua scomparsa. Preferiscono restare anonime “per timore di ritorsioni”. E’ domenica 8 marzo quando inizia a ribollire il carcere di Modena coi detenuti che protestano anche per le restrizioni ai colloqui coi familiari. “A me dispiace molto per quello che è successo - è scritto nella prima delle due lettere - Io non c’entravo niente. Ho avuto paura…Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove “Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e “buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa”. “E anche qua - dice - veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce”. Il secondo detenuto conferma che “Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato”. Sostiene inoltre che nessuno dei compagni di viaggio sia stato visitato dai medici, come sarebbe stato obbligatorio per il ‘nulla osta’ per il trasferimento. La Polizia penitenziaria, nessuna violenza gratuita, situazione era devastante La parte del racconto sui pestaggi viene negata da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. “Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire ‘legittima’ perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni”. De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: “Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva l’obbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone”. “Segnaleremo queste testimonianze alla magistratura - dice la direttrice del carcere di Modena, Maria Martone - è giusto che si accerti quello che è successo, non abbiamo nulla da nascondere”. Gli avvocati delle famiglie: troppo facile l’accesso all’infermeria - Sui fatti di Modena la Procura ha aperto un’inchiesta complicata dalla morte improvvisa, l’11 luglio scorso, del procuratore capo Paolo Giovagnoli. Alcune famiglie dei reclusi hanno deciso di affidarsi ai legali che già assistevano i loro congiunti in questa indagine. Luca Sebastiani, avvocato di Hafedh Chouchane, racconta la difficoltà a comunicare il decesso ai parenti del suo assistito: “Se non fosse stato per me, la sua famiglia tunisina, mamma e fratelli, non avrebbe saputo della sua morte. Ho impiegato diversi giorni a rintracciarli attraverso il consolato. La sua morte mi ha sconvolto, era un ragazzo di 36 anni, sempre sorridente, ne ho un bel ricordo. Avrebbe beneficiato a breve della liberazione anticipata, avevo appena depositato l’istanza. Nel giro di un paio di settimane sarebbe uscito, pensava al futuro, a un lavoro. Non aveva un’indole violenta, mi è sembrato strano sia finito in episodi turbolenti”. Tommaso Creola, legale di Artur Luzy, moldavo di 31 anni, in carcere per rapina, spiega di avere aiutato i familiari a recuperare la salma del giovane: “Non so se siano state commesse delle negligenze nella gestione della rivolta, a Modena di solito lavorano bene, era una situazione molto particolare. La magistratura darà delle risposte”. Lorenzo Bergomi, legale di Ahmali Arial, marocchino di 36 anni, riferisce “di avere avuto un contatto coi familiari interessati al recupero della salma, poi più nulla”. Afferma “che a molti che si dice abbiano partecipato alla rivolta ora vengono negati i benefici, anche se non sono indagati e non hanno procedimenti disciplinari in corso. Uno di loro è stato riportato in carcere mentre stava scontando la pena ai domiciliari per il sospetto che abbia partecipato perché nella sua cella con altre 3 persone è stato trovato un coltello rudimentale e si trovava nella zona dove hanno sfondato il cancello. ‘Lo abbiamo fatto perché bruciava tutto’, mi ha assicurato, negando che il coltello fosse suo.”. L’informativa in Parlamento non fa cenno alle cure mediche - Un aspetto da chiarire è quello delle visite mediche. In un’informativa inviata al Parlamento, Franco Basentini, all’epoca capo del Dipartimento amministrazione giustizia, scrive che gli I agenti “riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti”. Non si fa cenno in questo passaggio ad alcuna visita medica. I familiari di Piscitelli, in particolare una giovane nipote che ha chiesto ai pm tramite l’avvocato Antonella Calcaterra di sapere come abbia perso lo zio, pensano che forse si sarebbe potuto salvare se fosse stato visitato prima di essere portato nelle Marche. Non è chiaro nemmeno dove sia morto: fonti interne al carcere affermano che sia spento nell’ospedale di Ascoli, al cui ingresso non avrebbe presentato segni di intossicazione né lesioni compatibili con violenze, a differenza del detenuto che parla di un decesso in cella preceduto da un forte malessere. A Bologna la Procura chiede di archiviare - Nella protesta al carcere di Bologna del 9 e 10 marzo è morta una persona, Kedri Haitem, 29 anni, tunisino. La Procura ha chiesto nei giorni scorsi l’archiviazione del fascicolo aperto a carico di ignoti con l’ipotesi di ‘morte in conseguenza di altro reato’. Secondo il pm Manuela Cavallo, “la ricostruzione dei fatti più plausibile è che la persona deceduta, già destinataria di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere due giorni prima durante la rivolta dei detenuti e che sia morto per overdose”. La sera del 10 marzo il ragazzo tunisino al compagno di cella confida che “durante la rivolta ha assunto farmaci”, dice che è stanco e che vuole dormire e a lungo. Alle 12.40 altri detenuti entrano nella cella per parlargli. Il compagno prova a svegliarlo ma si accorge che non respira più. Solo a quel punto, secondo questo testimone, viene perquisita la cella e sotto il materasso del ragazzo morto vengono trovate 103 pasticche e 6 siringhe. L’unica parte offesa nel procedimento, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha chiesto copia degli atti e non ha ancora comunicato se farà opposizione all’archiviazione. Sulla ribellione di Bologna, l’Agi ha raccolto le parole di un uomo nel frattempo uscito di prigione e ospite di una comunità di recupero: “I detenuti albanesi - dice il testimone - hanno fatto partire tutto in modo strumentale, gli altri africani gli sono andati dietro distruggendo tutto e minacciando di morte chi non avesse partecipato. Altri si sono chiusi nelle celle sbarrandole coi letti, intanto alcuni hanno assalito l’infermeria prendendo tutto quello che c’era”. Modena. “Salvatore era troppo debole. Ecco com’è morto” di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 11 agosto 2020 “Salvatore era troppo debole. Non è riuscito a resistere alle botte. Forse ha preso qualcosa. Solo Dio lo sa”. Due detenuti raccontano le ultime ore di vita di Salvatore “Sasà” Cuono Piscitelli, il quarantenne fragile morto ad Ascoli Piceno dopo le rivolte che a marzo hanno devastato decine di carceri. E’ la loro verità, affidata a due lettere, in attesa che qualcuno li convochi (le due procure competenti o l’avvocata della nipote di Sasà) e vada a cercare riscontri oggettivi o smentite. L’uomo era rinchiuso nella casa di reclusione di Modena, messa a ferro e fuoco, saccheggiata, devastata. Con altri 40 carcerati è stato caricato su un autobus diretto nella città marchigiana. Qualche ora dopo è morto. Anche per lui - come per gli altri 12 deceduti - le autorità carcerarie parlano di overdose di metadone e psicofarmaci. Ma le accuse dei due compagni di galera e di viaggio ora rilanciano pesanti interrogativi. E’ vero o no che tutti i reclusi dell’istituto modenese sono stati sottoposti a visita medica prima di essere trasferiti in altri penitenziari? Dal carcere e da Roma dicono di sì. Dal fronte dei detenuti arriva invece un no. Per i familiari di Sasà il dubbio è atroce: una diagnosi tempestiva e la somministrazione di un farmaco salvavita avrebbero evitato che lui morisse? E gli altri? A Modena, l’8 marzo, il carcere viene espugnato da decine di detenuti. La situazione è faticosamente riportata sotto controllo. Sono ore ad altissima tensione, seguite da fasi concitate. “A me dispiace molto per quello che è successo - dice la lettera del primo recluso, da depurare da errori di grammatica e ortografia. Io non centravo niente. Ho avuto paura…. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni… A me e a una altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole”. Una controparte dell’istituto semidistrutto -continua - “quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola. Ha detto che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. I pestaggi - sempre stando al detenuto, terrorizzato dalla paura di subire ritorsioni, sostiene - sarebbero cominciati dentro e continuati durante il viaggio verso Ascoli Piceno e una volta giunti a destinazione. Sasà - scrive ancora il testimone - “era troppo debole, forse ha preso qualcosa”. E’ stato “trascinato” fino a una cella e “buttato dentro come un sacco di patate”. L’infermiere di turno “non ti lasciava parlare con nessuno”. E “anche qua - prosegue - veniva la squadra. Comi aprivi la bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Venivano a picchiare con il passamontagna, per non farsi riconoscere”. Anche il secondo detenuto-testimone parla della fine di Sasà, in un italiano stentato, ma non per questo meno esplicito. Lui e Salvatore hanno viaggiato da Modena a Ascoli a bordo dello stesso bus. Il compagno “era malissimo” e “anche lo hanno picchiato” sul pullman. All’arrivo “lui non riusciva a camminare… era nella cella 52, nessuno lo ha aiutato”. Ma come è stato possibile? Come mai non ci si è accorti per tempo dei reclusi in condizioni fisiche critiche? La direttrice pro tempore del carcere Modena, Maria Martone, in un’intervista aveva garantito: “Prima di essere trasferiti, tutti i detenuti erano stati visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale”. Il rappresentante del governo, il sottosegretario all’istruzione Giuseppe De Cristoforo, aveva dato la stessa rassicurazione replicando all’unica interpellanza urgente presentata per chiedere notizie e verità sui 13 reclusi morti prima e dopo le rivolte (cinque nel penitenziario emiliano, altri tre durante o dopo il trasporto verso altri istituti, uno dalla Dozza di Bologna, tre nel penitenziario di Rieti): “Da quanto emerge dalla relazione del personale sanitario della casa circondariale di Modena - parole sue - i detenuti, prima del trasferimento, sono stati sottoposti a controllo medico da parte del personale sanitario del carcere o dei medici del 118”. Però pure dalla denuncia del secondo detenuto testimone, rispetto alla verifica delle condizioni fisiche di sfollati e trasportati, emerge un quadro diverso. A una domanda specifica risponde che no, non tutti i carcerati sono stati sottoposti a visita medica prima della partenza per altri istituti, come invece sarebbe stato d’obbligo. Non solo. Neppure tutte le donne detenute - entrate a contatto con gli uomini del reparto riservato ai lavoratori esterni - sarebbero state visitate prima del trasloco forzato da Modena. La donna interpellata dal magazine Carte Bollate, dettagliata nel raccontare quelle drammatiche ore, non fa il minimo cenno a controlli medici. Fonti carcerarie intanto smentiscono decisamente pestaggi e abusi. Confermano le visite mediche, “fatte a tutti, magari in modo diverso dal solito e per questo non percepite come tali dai detenuti”. Ricordano la drammaticità della situazione e l’urgenza di provvedere ai trasferimenti da Modena, iniziati “quando ancora non era stato accertato quel che era successo all’interno e in particolare la sottrazione di metadone e psicofarmaci dalla cassaforte” E chiedono di soppesare e filtrare le denunce dei detenuti: “Coloro che hanno partecipato alle rivolte e ai saccheggi sono finiti sotto inchiesta e potrebbero avere interesse a spostare l’attenzione su altro, per sminuire le proprie responsabilità. I primi trasferiti sono le persone più coinvolte nei disordini. L’istituto era devastato, inagibile. Abbiamo dovuto muoverci in fretta, dopo aver temuto un bilancio ancora più pesante, per la furia e le violenze del gruppo di detenuti più aggressivi e pronti a tutto”. Un documento ufficiale sembra però smontare queste indicazioni ufficiose, le rassicurazioni della direttrice Martone e anche l’intervento del sottosegretario De Cristofaro. L’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, nell’informativa integrativa girata il 23 marzo alla presidenza della Camera scrive, a proposito della fase post rivolta di Modena: “Le singole formazioni (di agenti della polpenitenziaria, ndr) riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e a collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti”. Non si fa alcun cenno a visite mediche o a controlli sanitari. Zero. Sulle ultime ore di vita di Salvatore c’è qualche precisazione, ufficiosa, sempre da fonti interne. Sasà e i compagni di viaggio “sono giunti nel carcere di Ascoli nella notte tra l’8 e 9 marzo, alle 2.30, mentre a Modena si accertava il maxi furto di sostanze, non noto all’ora della partenza di lui e del suo gruppo. All’ingresso, visitato dal medico di turno, l’uomo non presentava sintomi da intossicazione da farmaci e oppioidi e non aveva segni di botte né lesioni esterne. Nemmeno gli altri detenuti avevano ferite o tracce di pestaggi. Nessuno è stato picchiato, né nel penitenziario modenese né in quello marchigiano. Alle 13.30 del giorno 9 - sempre stando alle ricostruzioni ufficiose - il personale lo ha portato nell’infermeria del carcere, perché stava male. Alle 15, peggiorato, è stato trasferito in ospedale. Alle 17.30 purtroppo è stato constatato il decesso”. Chi mente e chi dice il vero? I numeri potrebbero aiutare a inquadrare gli aspetti sanitari della questione, tutt’altro che secondari. Dopo le devastazioni, dopo il furto di metadone e psicofarmaci, cinque detenuti sono morti all’interno del carcere di Modena. Per alcuni, un gruppo relativamente ristretto, è stato disposto il ricovero in ospedale. Per centinaia di altri (nell’ordine di 400-450) si è reso necessario il trasferimento in istituti sicuri, non danneggiati. I medici presenti avevano l’onere e il dovere di visitare tutti gli “sfollati”. Ma quanti dottori sono stati attivati e in quale arco temporale?”. La dottoressa di turno interno l’8 marzo, Maria Manfredonia, era scossa (e a distanza di tempo sceglie di non dire nulla) perché ha vissuto un drammatico pomeriggio. Ha visitato lo stesso? Oltre al responsabile dei servizi sanitari - Stefano Petrella, come la collega rimasto per un po’ bloccato all’interno dell’istituto e poi rilasciato - secondo un lancio d’Ansa il 9 marzo erano operativi due medici del “servizio territoriale dell’emergenza” (il 118) e un coordinatore, tre infermieri di supporto alla squadra. Nei tendoni allestiti nel piazzale si alternavano anche addetti della Croce rossa e della Protezione civile, un contingente non meglio precisato. Quanti detenuti ha visitato ciascun medico? Quanti minuti ha potuto dedicare a ogni recluso, per accertarsi che stesse bene e fosse nelle condizioni di viaggiare? Chi ha firmato il nulla osta sanitario per il trasferimento in un altro carcere di Sasà e dei tre compagni che non ce l’hanno fatta? I medici o la direzione hanno provveduto a caricare farmaci salvavita sui mezzi di trasporto usati per le traduzioni? Se no, perché? Le risposte dovrebbe già conoscerle da mesi l’assessore regionale emiliano alle Politiche per la salute Raffaele Donini, travolto dall’emergenza Covid, oberato dalle incombenze legate alla pandemia e su questi morti defilato, zitto. Eppure è lui ad avere la competenza sulla sanità penitenziaria, sulla medicina d’emergenza e sul trattamento delle tossicodipendenze, controlli compresi e con tutte le implicazioni del caso. Interpellato telefonicamente e per email, a inizio luglio, ha ammesso candidamente: “So poco, non molto di più di quello che ho letto sui giornali”. Per dare chiarimenti sui “suoi” detenuti di Modena e Bologna morti a inizio marzo - dieci “eventi critici” degni di approfondimenti e valutazioni, al di là della particolarità della situazione - ha delegato lo staff. Dopo più di quattro settimane, e una serie di solleciti, non è ancora arrivata alcuna informazione. Dopo quasi 5 mesi dai decessi l’Ausl di Modena manda una (non) risposta, generica, vaga: “L’attività del Servizio di medicina penitenziaria, espletata presso il presidio interno alla casa circondariale Modena “Sant’Anna”, ha come obiettivo la tutela della salute dei detenuti, attraverso l’offerta di assistenza sanitaria H24 e di programmi specifici di prevenzione e cura. I medici del Servizio assicurano dunque l’assistenza primaria ai detenuti, relazionandosi con gli specialisti in caso di necessità, e operando secondo le procedure indicate dai protocolli sanitari, regionali e ministeriali, in particolare per quanto riguarda la gestione delle terapie, lo svolgimento di visite mediche, il rilascio del nulla osta sanitario per ogni uscita o trasferimento dalla casa circondariale, la conservazione in sicurezza del metadone. I fatti che sono accaduti al “Sant’Anna” sono gravi, perché è grave quando persone perdono la vita in circostanze che sono ancora da chiarire. E per questo c’è una indagine giudiziaria in corso, che va rispettata in attesa di conoscerne l’esito. Ed è evidente che prima di allora, nessun commento nel merito potrà essere formulato.”. L’Ausl di Bologna non si palesa, nemmeno per dire cose scontate e sganciate dai fatti concreti, come fa l’azienda gemella. Bologna. Detenuta finisce in isolamento con la bimba di 4 anni di Claudia Osmetti Libero, 11 agosto 2020 Le norme prevedono che, oltre i tre anni, i piccoli e le loro madri vengano messi in strutture a custodia attenuata. Quattro giorni in isolamento in un carcere bolognese, assieme alla mamma detenuta, e solo perché il sistema giustizia, checché ne dicano lor signori dalle manette facili, è un colabrodo. Spiegateglielo a questa bambina di quattro anni che di colpe non ne ha e figuriamoci di segnalazioni sulla fedina penale, spiegateglielo che dietro le sbarre, lei, non ci doveva proprio essere. Che è andata così e basta, che la causa di tutto è il coronavirus, che la rete che doveva proteggerla non c’era. Casa circondariale La Dozza, periferia nord-est della rossa Bologna. Lunedì scorso arriva una donna straniera. Cos’abbia commesso per finire al fresco non si sa, non importa nemmeno: non cambia di una virgola quanto successo. Al suo fianco c’è una bimba, ha solo quattro anni. Forse la tiene per mano, forse ce l’ha in braccio. Varcano assieme i cancelli e già c’è da rabbrividire. Però questo è un periodo particolare un po’ per tutti. L’emergenza sanitaria, la pandemia mondiale, il Covid-19: anche nei penitenziari (giustamente) si sono alzate le norme di prevenzione al contagio. Per la donna e la sua bambina significa che non possono dormire in una cella comune. Assegnazione letti in camerata, nisba. Non possono avere contatti con le altre ospiti della struttura. Sono in isolamento totale. In quarantena preventiva. Al massimo hanno a disposizione un’ora d’aria al giorno, da sole, lontano da tutti. Fa pure caldo, è quasi Ferragosto, c’è un’afa che strozza. Loro passano quattro lunghi giorni in queste condizioni e, signori, non è facile per nessuno. Ma per una bambina che dovrebbe saltare e giocare e ridere con i suoi amichetti è anche peggio. Che vita è? Che responsabilità ha? Viene “liberata” giovedì, dopo che si celebra l’udienza di convalida per il processo della madre. Ma nel frattempo la frittata. Un frugoletto da asilo per l’infanzia messo in isolamento come un pericoloso criminale. Chi glieli restituisce, adesso, quei quattro giorni? Le norme penitenziarie parlano chiare: i bimbi possono stare in carcere al seguito delle loro madri solo fino al compimento del terzo anni di età, dopodiché sono previsti gli Istituti a custodia attenuata per le mamme detenute (al secolo gli Icam) o le case famiglia. In sostanza, nell’isolamento della piccola, non c’è niente che quadra. Primo, lei in carcere non ci doveva manco mettere piede. Secondo, gli Icam che avrebbero risolto la sua situazione sono le mosche bianche del sistema carcerario: a trovarne uno. “In Emilia Romagna non è presente alcuna delle strutture individuate dalla legge”, spiega al quotidiano Il Dubbio il garante regionale Marcello Marighelli. La disposizione c’è, insomma, per salvarsi la faccia (e magari pure la coscienza), ma la sua attuazione pratica è alquanto labile. In compenso le madri detenute non sono così rare: su un totale di 2.248 donne imprigionate al 31 luglio passato (dati AgenPress) quelle con la prole al seguito sono 31, 15 straniere e 16 italiane. I bimbi senza libertà (è brutto ma è così) sono 33. Trentatré ragazzini che stanno “pagando” gli sbagli dei loro genitori. Se è giustizia questa. Otto sono a Torino, sei a Rebibbia, sette a Lauro. “I numeri sono altalenanti, purtroppo una mappatura è molto difficile perché spesso queste donne restano negli istituti penitenziari per poco tempo”, racconta Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio Antigone, l’associazione che monitora il mondo carcerario. “La legge che consente a madre e bambino di stare assieme è stata pensata per non spezzare questo legame affettivo, ed è una buona legge perché pensa a delle soluzioni alternative rispetto alla detenzione. Purtroppo, però, finisce col portare alcuni bambini in carcere”. Secondo Scandurra gli inghippi sono due: da una parte mancano le strutture accreditate (di case famiglia ce ne sono solo due in tutto il Paese, di Icam cinque), dall’altro “alcune realtà deficitano del network di assistenza, che è quella rete che si attiva quando un bambino ha bisogno per trovare una sistemazione fuori dalle celle”. Oristano. L’ex boss Pasquale De Feo e le “piccole” ingiustizie in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2020 La drammatica missiva del detenuto sepolto vivo in un istituto di pena sardo dal 1983. Gli ritirano il computer che lo hanno aiutato con gli studi universitari, per accumulare un patrimonio culturale che lo ha fatto chiudere con il passato. Così come, tempo prima ha dovuto subire un torto riconosciuto in seguito dal magistrato di sorveglianza. In sostanza - dopo anni di 41bis - lui è da tempo in regime AS1, non ha la censura e quando ha fatto il piego di libri per spedire appunto i libri o i giornali, in maniera non corretta gli hanno applicato la procedura del pacco. Quindi ispezione, magazzino e gli inevitabili tempi lungi. Ma il piego di libri è corrispondenza, non un pacco. Parliamo di Pasquale De Feo, nato in provincia di Salerno, il 27 gennaio 1961, recluso dal 20 agosto 1983 quando aveva appena 22 anni. Sta scontando la pena dell’ergastolo ostativo in un carcere della Sardegna, sepolto vivo fra sbarre e cemento. Ha scritto una lettera all’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che prontamente l’ha rigirata a Il Dubbio affinché il mondo esterno capisca quanto sia complicato vivere la quotidianità in carcere. Piccole cose, per noi insignificanti, ma che tra le quattro mura diventano fastidiosissime e creano angoscia. “Io credo che la galera - spiega a Il Dubbio Carmelo Musumeci - così com’è, sia un’istituzione criminogena e oltre a farti perdere la libertà, la gestione della tua vita e spesso anche dei tuoi pensieri, ti spoglia della tua identità. Il carcere ti disinsegna a vivere. Quasi sempre rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia, un luogo di esclusione e di annullamento della persona umana: dietro la vuota retorica di risocializzazione, di rieducazione, si nasconde in realtà una vita non degna di essere vissuta”. Carmelo continua a sostenere che, nella maggioranza dei casi, in carcere il Diritto e i diritti dei detenuti sono calpestati e la legge è solo un’arma del potere, ad uso e abuso di tante ‘mele marce’. “In più di un quarto di secolo di prigione - continua Musumeci - ne ho viste di tutti i colori e adesso che per fortuna sono libero (o quasi) sono comunque informato tramite le lettere dei miei ex compagni e capisco che le cose, invece di migliorare, sono peggiorate”. Qui di seguito la lettera di Pasquale De Feo, direttamente dal carcere sardo di Massama, ad Oristano. “Caro Carmelo, lo sai anche tu, le lettere che ricevi in carcere sono gocce di vita e in trentasette anni di carcere mi hanno aiutato a sentirmi ancora umano. Adesso in questo lager vogliono farmi accettare che la corrispondenza, sia in arrivo che in partenza, tramite le buste A4 e A5 devono essere considerati come pacchi postali. Come sai, la procedura per spedire o ricevere un pacco è diversa, costosa e complicata, sia per gli agenti che per i detenuti. Senza contare che le spedizioni postali “piego di libri” (contenente libri, riviste, carte processuali ecc.) si affrancano con euro 1,28 centesimi ed è un servizio delle poste per consentire alla cultura di avere più facile diffusione. Perché in questo carcere i detenuti non ne possono usufruire? Mi hanno ordinato di spedire e ricevere la corrispondenza “Piego di libri” come se fossero dei pacchi. Io mi sono rifiutato e ho inoltrato reclamo al Magistrato di sorveglianza. Il Magistrato di sorveglianza mi ha dato ragione. Dopo appena mezzora che mi avevano consegnato le buste, mi hanno fatto una perquisizione in cella e in un libro hanno trovato un cd regolarmente allegato, come capita in tanti libri, e con questa scusa mi hanno ritirato il computer. Devi sapere che qui qualsiasi cosa arrivi da fuori passa sotto lo scanner (come quelli dell’aeroporto), se dentro una busta di corrispondenza risulta qualcosa che non è cartaceo, viene chiamato il recluso e gli dicono che bisogna aprire la busta perché c’è un oggetto non consentito. A tutti noi reclusi è capitato qualche volta, anche a me. Lo scanner è computerizzato, pertanto tutto viene registrato nel suo hard disk. Basterebbe controllare il computer dello scanner, per appurare che l’addetto al servizio sapeva del cd del libro, ma ora l’hanno usato come pretesto per ritirarmi il computer. Ti puoi immaginare come mi sento. Il computer lo uso per i miei studi universitari, per cercare di alimentare la mia conoscenza, consentendomi con il patrimonio culturale accumulato di poter dare una svolta alla mia vita e chiudere con il passato”. Torino. Migranti e violenza, così il questore spiazza la politica di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 11 agosto 2020 Le reazioni dopo l’intervista de La Stampa. Lega e Fratelli d’Italia: “Da Roma ora servono segnali”. Nel centrosinistra prevale la cautela: “Tema spigoloso”. Stavolta a sollevare una bufera sui migranti non è un politico. Ma il questore della città. Le frasi pronunciate da Giuseppe De Matteis, ieri in un’intervista a La Stampa, sulla “violenza che molti stranieri rivolgono alla polizia”, sulla “mancanza di rispetto per l’autorità” e sull’alto “tasso di delittuosità di alcune comunità di migranti”, dividono e infiammano la politica. Perché per il centro-destra le sue parole suonano come la prova di posizioni sostenute da sempre. Per il centrosinistra, tormentato da sempre dai dilemmi, rappresentano un grattacapo: come ci si deve comportare di fronte a un vertice istituzionale che sostiene opinioni che nel dibattito politico vengono considerate oltranziste? L’assessore regionale leghista alla sicurezza Fabrizio Ricca ci va a nozze. Dice è “inaccettabile non dare ascolto al grido dall’allarme del questore: Governo e politica non possono fare finta di non sentire”. Per poi passare all’attacco: “Vediamo il risultato di una immigrazione fuori controllo sorretta da una ideologia sgangherata dell’accoglienza a tutti i costi voluta dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle”. Condivide ogni parola del questore De Matteis un altro assessore regionale, Maurizio Marrone, Fratelli d’Italia. “Alcune comunità immigrati, anche se meno numerose, sono maggiormente inserite nella criminalità organizzata. Dobbiamo renderci conto che non esistono solo le mafie italiane ma anche quelle straniere che vanno riconosciute e quindi combattute come tali”. Inoltre, secondo Marrone, “è illusorio poter fronteggiare con la pura e semplice azione penale il comportamento di persone che provengono da paesi in cui il contesto e la Polizia hanno tratti decisamente più brutali dei nostri”. Fin qui tutto secondo copione. E la sinistra? Risponde con più imbarazzo. In parte perché il tradizionale rispetto istituzionale rende difficile entrate a gamba tesa. In parte perché si tocca un tema spigolosi sul piano elettorale e politico. C’è chi teme di sbagliare ad ogni mossa. Chi parla senza timore è il consigliere regionale di Luv Marco Grimaldi: “Il questore dovrebbe chiarire se ritiene la mafia nigeriana più arrogante di quella nostrana o se fa riferimento a profili etnici e culturali”. Aggiunge Grimaldi: “potrebbe essere utile che la questura avvii un confronto con mediatori culturali e le comunità di migranti in questione”. Nel dibattito interviene anche Monica Cristina Gallo, garante del Comune di Torino per i detenuti, riconfermata nel ruolo nei giorni degli scandali sulle violenze nelle carceri Russo e Cotugno. Molte le sue segnalazioni sulle condizioni dei carcerati o dei migranti trattenuti nel Cpr di corso Brunelleschi. “Senza mediatori, i migranti non capiscono che cosa succede intorno a loro quando vengono a contatto con gli istituti penitenziari. Ci presentano problemi linguistici e culturali”. Al Cpr, invece, la situazione è ancora più complessa: “Si tratta di una detenzione amministrativa, non penale - continua Gallo - Le persone trattenute all’interno, in assenza di rimpatri. Oltretutto, malgrado la natura della permanenza non viene permesso alle associazioni di poter operare all’interno”. Vicenza. Poliziotto blocca per il collo giovane cubano: il video e le polemiche di Davide Varì Il Riformista, 11 agosto 2020 Un agente di polizia tenta di immobilizzare un ragazzo di 21 anni di origine cubana stringendolo al collo. Una presa da wrestling immortalata in un video di poco meno di un minuto che in queste ore sta facendo molto discutere sui social. L’episodio è avvenuto a Vicenza, in piazza Castello nel tardo pomeriggio di lunedì 10 agosto. La vicenda viene ricostruita dai media locali e ha già provocato la reazione dei centri sociali che domani, mercoledì 12 agosto, si sono dati appuntamento all’esterno del Tribunale della città venuta dove si terrà la direttissima di Denis Jasel Guerra Romero, arrestato successivamente dalla polizia per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, in attesa delle immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti in piazza Castello e capaci di risalire ai motivi dell’alterco tra il poliziotto e il 21enne incensurato (che lavora come operaio in una ditta del Vicentino), una volante della polizia era intervenuta per una lite tra due persone. Poco distante, su un muretto, erano seduti alcuni giovani che avrebbero iniziato a ridere tra loro perché “un passante ha pestato il piede a un mio amico e mi sono messo a ridere” spiega Denis attraverso il suo legale Chiara Bellini. Per la polizia invece il ragazzo stava deridendo l’operato degli agenti che si sono così avvicinati per chiedere i documenti. “Io non stavo ridendo di lui ma quello si avvicina, mi prende per un braccio e mi chiede di fargli vedere i documenti. Da lì in poi si può facilmente vedere nel video cosa succede” racconta il 21enne. Nel video si vede l’agente immobilizzare con una presa a strozzo il ragazzo tra le urla dei presenti. C’è chi ricorda l’episodio di George Floyd, chi prova concretamente a separarli. I due finisco a terra, poi il 21enne riesce a liberarsi e a scappare via in bicicletta prima del fermo successivo di un’altra volante. Secondo la questura di Vicenza mentre i due agenti intervenivano per una lite segnalata tra due persone “c’era un gruppo di ragazzi che inveiva contro la polizia”. “I miei uomini hanno detto a tutti di allontanarsi e di evitare di stare lì intorno - spiega il questore Antonino Messineo - ma questi continuavano a ridere e schernirli. Hanno chiesto i documenti a uno di loro e si è rifiutato di darli, continuando a ridere in faccia ai poliziotti. A quel punto l’operatore l’ha preso per un braccio e poi nel modo in cui si vede nel video. La presa non è durata più di 4 secondi, perché poi sono finiti entrambi a terra. Dopo tutto questo il giovane è scappato ma è stato fermato da un’altra volante e arrestato per violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Il poliziotto, medicato in pronto soccorso, è stato dimesso con una prognosi di 3 giorni”. Il video è diventato subito virale sui social network. “Tutto è criticabile, tutto può essere oggetto di approfondimento interno. E tutto sarà oggetto di verifica” assicura il questore. Verona. Fattorie sociali portano le lezioni in carcere cronacadiverona.com, 11 agosto 2020 Impresa Verde Srl, l’ente di formazione di Coldiretti, è stata accolta a Montorio. Lezione nel carcere di Montorio per una quindicina di imprenditori agricoli in procinto di aprire una fattoria sociale. Il gruppo, che sta frequentando il corso organizzato da Impresa Verde Verona srl, l’ente di formazione della Coldiretti provinciale, è stato accolto dalla direttrice Mariagrazia Bregoli per conoscere le attività agricole in essere nella casa circondariale e individuare lo sviluppo di possibili progetti di inserimento lavorativo dei detenuti. “Oggi produrre in agricoltura non vuol dire soltanto portare il buon cibo sulle tavole degli italiani, ma rispondere a precise necessità della società in ambiti diversi. - precisa Chiara Recchia, responsabile Donne Impresa di Coldiretti Verona che porta avanti i progetti delle fattorie didattiche e sociali - Così, la didattica, il turismo in campagna, la vendita diretta, i servizi ambientali e di protezione civile diventano parte integrante dell’attività dell’agricoltore. A queste si aggiunge naturalmente l’agricoltura sociale che declina in norme, procedure, studi e comunicazione ciò che è da sempre prerogativa del “lavoro dei campi”: l’accoglienza. Nella famiglia rurale, infatti, l’integrazione non è un fatto straordinario e prevede uno spazio occupazionale per tutti. Si tratta di un patrimonio di valori spontaneo che trova nell’ospitalità in campagna persone disabili, carcerati e malati psichici o emarginati. Il lavoro dei campi e l’impegno delle fasi di semina, raccolta e trasformazione dei prodotti coinvolge in eguale misura tutti, senza differenze”. Il Veneto - evidenzia Coldiretti - vanta la prima normativa regionale ispirata dalla nutrita presenza delle varie espressioni della multifunzionalità agricola. 35 sono le realtà iscritte ufficialmente all’elenco regionale di cui 8 veronesi, oltre agli agricoltori scaligeri che hanno frequentato e stanno frequentando corsi di formazione e sostenuto l’esame finale per intraprendere presto questo indirizzo aziendale perfezionandolo in base al progetto di sviluppo. La Regione Veneto ha inserito recentemente le aziende solidali nella programmazione sanitaria riconoscendone l’importanza strategica nel terzo settore assistenziale. Cassino (Fr). I detenuti sistemeranno le strade della città di Antonio Mariozzi Corriere della Sera, 11 agosto 2020 Firmato un protocollo di intesa tra Autostrade per l’Italia, il Comune di Cassino e il ministero della Giustizia volto a formare e reimpiegare una selezione di detenuti del penitenziario comunale nella riqualifica delle strade cittadine. Lo rende noto Autostrade per l’Italia, che metterà a disposizione, a titolo gratuito, le proprie maestranze per la formazione tecnica del personale e fornirà i materiali, i macchinari e le attrezzature necessarie allo svolgimento del lavoro. Il percorso prevede una prima fase di formazione teorica in aula, dove verranno fornite nozioni di sicurezza sul lavoro e saranno introdotte le tecniche del mestiere. La seconda parte prevede invece un periodo di esercitazione su strada dove, sotto la guida delle maestranze di Aspi, i detenuti potranno mettere in pratica quanto appreso durante le sessioni in aula. Alla fine dei due mesi e mezzo di formazione sarà rilasciato un attestato professionale grazie al quale le squadre potranno svolgere i primi interventi su strada nell’area metropolitana della città, come pulizia delle caditoie, riparazione delle buche a caldo e manutenzione della segnaletica orizzontale. Per l’intera durata della convenzione - che prevede un periodo di 12 mesi, estensibile per un altro anno - Autostrade per l’Italia metterà a disposizione il proprio know-how, i propri tecnici caposquadra, i macchinari, i dispositivi di protezione individuale, le attrezzature e i materiali, mentre i cantieri saranno sotto la supervisione del Comune di Cassino. “Grazie a questo progetto - sottolinea Aspi nella nota - i detenuti impiegati avranno modo di rendersi utili alla comunità, di apprendere un nuovo mestiere e avere così l’opportunità concreta di un re-inserimento sociale”. Reggio Calabria. Condannato per associazione mafiosa, studia in carcere e diventa infermiere di Simone Gussoni nursetimes.org, 11 agosto 2020 Il neo-dottore sta scontando una pena detentiva di dodici anni nella casa circondariale “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria. Ha sostenuto tutti gli esami a distanza. Un giovane detenuto, recluso nella casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, ha coronato il sogno di conseguire la laurea in Infermieristica. Il neolaureato, 25enne, si chiama Francesco Leone e sta scontando una pena detentiva della durata di 12 anni per associazione mafiosa. La laurea è stata rilasciata dal dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina. L’uomo ha potuto usufruire dell’opportunità concessa ai detenuti che decidono di seguire un corso universitario. Grazie al supporto di educatori e del personale della polizia penitenziaria, ha potuto portare a termine l’intero percorso didattico. Ha sostenuto tutti gli esami a distanza con un sistema di videoconferenza in collegamento con la commissione esaminatrice. La sua tesi è intitolata L’infermiere e la prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza. Importante l’aiuto della professoressa Maria Caruso, relatrice dell’elaborato. “Ho il dovere di ringraziare - ha dichiarato il neo-dottore - la direttrice della casa circondariale “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, Carmela Longo, gli educatori e l’intero corpo di polizia penitenziaria, che mi hanno dato la possibilità di raggiungere questo importantissimo obiettivo, fondamentale per il mio futuro una volta che avrò pagato il mio debito con la giustizia. Un altro grazie va ai miei genitori, che nonostante tutto mi hanno dato ancora una volta fiducia, sostenendomi e accompagnandomi in questa straordinaria avventura, in attesa del giudizio di appello iniziato proprio il 28 marzo”. Livorno. Rugby, ripresi gli allenamenti delle “Pecore Nere” lionsamarantorugby.it, 11 agosto 2020 Doveroso continuare l’impagabile opera di Manrico Soriani. Decisivo il nulla osta firmato dal Direttore dell’istituto penitenziario de “Le Sughere” Carlo Alberto Mazzerbo: le “Pecore Nere”, dopo il lockdown ed il periodo più critico dell’emergenza legata al Covid-19, hanno ripreso, da metà giugno, ad allenarsi. Per tale squadra del tutto speciale, composta da detenuti del carcere labronico de ‘Le Sughere’, le sedute sono in programma una volta alla settimana, la domenica mattina, sul sintetico posto all’interno del carcere labronico. Già raggiunta una buona condizione fisico-atletica, sui livelli di quella evidenziata prima della sospensione dettata dalla pandemia, quando la rappresentativa de ‘Le Sughere’ stava disputando il suo primo campionato federale (aveva inanellato nel torneo amatoriale Old toscano, girone 2, un’eccellente striscia di tre vittorie ed un pareggio su quattro partite disputate). Non manca il tempo per migliorare ulteriormente la forma: prima del mese di ottobre ben difficilmente si giocheranno gare ufficiali, con punti in palio. La storia di un pallone ovale da far rotolare all’interno dell’istituto penitenziario cittadino si è materializzata grazie all’opera dei Lions Amaranto e, soprattutto, grazie al vero promotore dell’iniziativa, Manrico Soriani, già tecnico delle giovanili Lions (nonché capitano dei Rinocerotti, la rappresentativa Old dei Lions stessi), scomparso prematuramente, ad appena 55 anni d’età, lo scorso 5 luglio. Il progetto del rugby in carcere è nato circa 6 anni fa - sabato 27 settembre 2014 per la precisione - quando 22 giocatori amaranto, accompagnati da Soriani, dal presidente dei Lions Mauro Fraddanni e dai rappresentanti del comitato toscano della Fir, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, dettero vita, sul terreno di gioco situato all’interno della casa circondariale, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Fu grande l’entusiasmo mostrato dai circa cento detenuti presenti sugli spalti. Da quel giorno, grazie ai Lions, grazie all’Associazione Amatori Rugby, grazie all’opera di Manrico Soriani e degli altri due allenatori attivi a guidare la squadra, Michele Niccolai e Mario Lenzi, e grazie alla sensibilità ed alla concreta collaborazione della direzione e del personale de ‘Le Sughere’, sono scattati, ‘veri’ allenamenti per i detenuti. Ben presto è stata allestita una squadra di rugby composta, appunto, da atleti reclusi nel carcere livornese. La formazione, con grande autoironia, è stata battezzata, dagli stessi detenuti, ‘Pecore Nere’. L’intenzione di far disputare anche alcune gare amichevoli si è trasformata dopo alcuni mesi in realtà. Varie compagini di serie C si sono presentate all’interno dell’istituto carcerario, per giocare, contro tale formazione, partite ricche di significato. Cinque anni dopo il primo allenamento effettuato dai 22 atleti Lions di cui sopra, e più precisamente il 24 settembre 2019, nel corso della conferenza stampa svoltasi nella sala riunioni dell’istituto penitenziario di Livorno, ecco l’annuncio di una grande novità: grazie all’interessamento del Comitato Toscano della Fir, le ‘Pecore Nere’ possono partecipare all’imminente campionato federale ‘Old’. All’incontro con i giornalisti, oltre ai tecnici Soriani e a Niccolai, parteciparono tra gli altri il direttore dell’istituto de ‘Le Sughere’ Mazzerbo, il delegato provinciale del Coni Gianni Giannone, il presidente del comitato toscano della Fir, Riccardo Bonaccorsi, il consigliere dello stesso comitato Luca Sardelli, l’assessore al sociale del comune di Livorno Andrea Raspanti, il garante dei detenuti Giovanni De Peppo, in rappresentanza dell’Associazione Amatori Rugby Toscana Arienno Marconi e, per i Lions, il consigliere Fabio Bizzi e l’addetto stampa Fabio Giorgi. I giocatori delle ‘Pecore Nere’ sono tesserati Associazione Amatori Rugby Toscana. Nel campionato Old potrebbero militare solo atleti che hanno già compiuto 35 anni: prevista, per alcuni elementi della squadra dei detenuti, una deroga. Le partite, viste le dimensioni del campo, piuttosto ridotte, sono disputate con soli 13 elementi, senza flankers. Il 16 novembre 2019 iniziò l’avventura nel torneo ‘Old’. Un’avventura entusiasmante, bloccata, bruscamente, dall’emergenza legata al Covid-19. Un’avventura, per fortuna, non conclusa in modo definitivo. A guidare gli allenamenti Michele Niccolai e Mario Lenzi. È doveroso, per rispetto dell’impagabile opera di Soriani, dar continuità alla lodevole iniziativa di un pallone ovale da far viaggiare all’interno dell’istituto penitenziario labronico. Tutti i dettagli sul progetto delle ‘Pecore Nere’ hanno meritato un lungo paragrafo del libro ‘Un ruggito lungo 20 anni, la storia dei Lions Amaranto’, che uscirà nei prossimi giorni. Perché nessuno sia più legato, ricordando Elena di Giovanna Del Giudice* Il Manifesto, 11 agosto 2020 Nell’anniversario della morte di Elena Casetto, rimasta intrappolata durante un incendio nell’Ospedale giudiziario di Bergamo perché legata mani e piedi al letto. Si chiede l’abolizione della contenzione come pratica ospedaliera e di intervento. Un anno fa, il 13 agosto 2019, nel Servizio psichiatrico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, moriva Elena Casetto, 19 anni, trovata carbonizzata nel suo letto legata mani e piedi, a seguito di un incendio scoppiato nel reparto, forse dalla sua stanza. Qualche minuto prima, Elena era stata scoperta dagli infermieri mentre tentava il suicidio. Fu allora “bloccata” (legata) al letto e lasciata sola nella stanza chiusa a chiave. Al suo dolore, alla sua richiesta di aiuto, l’istituzione rispose con un gesto violento, di negazione e di abbandono, togliendole dignità e rispetto. Quale sarà stata la sua rabbia, il senso di impotenza e di annientamento? Ritorna il ricordo di Antonia Bernardini, morta la notte del 31 dicembre del 1974, dopo quattro giorni di agonia, per le ustioni riportate nell’incendio prodottosi nella stanza dove era legata da 43 giorni, nel manicomio criminale femminile di Pozzuoli. Dopo la morte di Antonia il manicomio criminale di Pozzuoli fu chiuso. Oggi, dopo la morte di Elena, chiediamo che nessuno più sia legato e che le istituzioni, le comunità, costruiscano città libere da contenzione. Nel primo anniversario della morte di Elena, il Comitato promotore di Bergamo libera da contenzione invia una lettera aperta alla stampa e alle istituzioni di Bergamo. Nella lettera si ricorda la mobilitazione del 13 febbraio scorso, quando le forze componenti il Comitato (Forum delle Associazioni per la salute mentale di Bergamo, Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale della Lombardia, Campagna …E tu slegalo subito, Conferenza nazionale Salute Mentale insieme a rappresentanti di associazioni, componenti del Comitato Nazionale di Bioetica, della Casa della Carità di Milano) si sono riunite a Bergamo per ricordare Elena e lanciare una iniziativa (allora prevista per il 2 aprile) dal titolo Città libere da contenzione. Insieme si può, chiedendo al Sindaco di Bergamo di diventare “garante” di questo processo. Scrive il Comitato: “Da quel 13 febbraio sembra passato un tempo infinito. In questi mesi tante altre morti hanno devastato Bergamo. Il Covid 19 si é abbattuto sulla città. La comunità ha subito sofferenze indicibili, drammatiche perdite di donne e uomini, morti spesso senza la vicinanza di una persona cara. L’appuntamento del 2 aprile non ha avuto luogo. Ora la città con la forza e tenacia dei suoi cittadini si sta risollevando. Ma le ferite restano aperte, il dolore e la sofferenza rimangono. Come rimane il dolore per Elena che, ad un anno dalla sua morte, vogliamo non dimenticare. Elena che scriveva poesie, che voleva studiare a Londra, che chiedeva aiuto per il suo dolore. E vogliamo farlo dicendo che nessuno sia più legato, che nessuno più muoia solo. Che la contenzione, pratica inumana, che toglie dignità, soggettività, storia e riduce l’altro/a a corpo da domare, sia abolita in tutti i servizi che assistono persone fragili, in modo da costruire Città libere da contenzione. Questo è il tempo. Il Paese sta ripensando, dopo l’epidemia del Covid, le proprie politiche sociali e sanitarie. La crisi ha evidenziato la centralità dei servizi territoriali, sociali e sanitari. Servizi aperti, radicati nei territori, che operano nelle case e nei luoghi della comunità, che mantengono un rapporto di continuità, di vicinanza, di supporto, perfino “di vigilanza” in particolare nelle situazioni di maggiore vulnerabilità e fragilità. Capaci di valorizzare le risorse, pure residue del soggetto, della famiglia, del vicinato, del contesto, prevenendo e riducendo l’istituzionalizzazione… anche per superare la contenzione, dobbiamo costruire percorsi di cambiamento culturale, organizzativo e gestionale nelle politiche sociali e sanitarie che mettano al centro le persone, i loro diritti, la loro dignità, coinvolgendo la comunità tutta. Perché nessuno più sia legato. *Portavoce della campagna “E tu slegalo subito” Migranti e pandemia: gli imprenditori della paura di Luigi Manconi La Repubblica, 11 agosto 2020 Le tappe che hanno portato alla realtà odierna sono rappresentative di due processi: la produzione di una condizione di marginalità sociale e la mobilitazione dell’ansia collettiva intorno a essa e contro di essa. Fino alla costruzione di un perfetto capro espiatorio: lo straniero untore. A voler essere sofisticati, si può parlare di una profezia che si auto-adempie. O, ancora, del tristo risultato perseguito da apprendisti stregoni, per poi menarne scandalo e trarne una qualche moneta elettorale. La vicenda della ex caserma Serena di Treviso è davvero esemplare di cosa significhi l’imprenditoria politica della paura e dell’allarme sociale. I dati: in quella struttura vivono da anni 281 stranieri; e vi operano 25 tra dipendenti e volontari; e, a meno di due mesi dai primi casi, 246 ospiti e 11 lavoratori sono risultati positivi al Covid 19. Di conseguenza, si comprende l’inquietudine per quello che è il più grande focolaio sul territorio nazionale. Meno, assai meno, è accettabile la speculazione che, intorno a tale situazione, viene alimentata da più soggetti, politici e mediatici. E, tra essi, i maggiori responsabili della condizione in cui si trova quell’assembramento di esseri umani, costretti all’interno di un edificio fatiscente. Come si è giunti allo sviluppo di un focolaio pandemico che assume, allo stesso tempo, la fisionomia simbolica di un lazzaretto conficcato alla periferia di Treviso e quella di un avamposto dell’invasione straniera in Italia? Le tappe che hanno portato alla realtà odierna sono rappresentative di due processi: la produzione di una condizione di marginalità sociale e la mobilitazione dell’ansia collettiva intorno a essa e contro di essa. Fino alla costruzione di un perfetto capro espiatorio - lo straniero untore - sul quale proiettare pulsioni e paranoie. Eppure, si tratta di un agglomerato di numerosi nuclei familiari, di persone che lavorano e che studiano e dove si trova un positivo livello di integrazione. Non “clandestini appena sbarcati”, dunque, bensì stranieri faticosamente impegnati in un percorso di accesso al sistema di cittadinanza. Non troppo dissimile ma ancora più drammatica è la situazione dell’ex caserma Cavarzerani, nelle vicinanze di Udine: circa 500 stranieri, tra i quali molti arrivati da pochi giorni. In entrambi i casi, emerge il dato di una vasta aggregazione di individui, dove la promiscuità incentiva la diffusione del contagio; e rende pressoché impossibile l’adozione di adeguate misure precauzionali. A ciò si è arrivati attraverso una sequenza di scelte politiche dovute, in primo luogo, al governo Conte 1 e all’allora ministro dell’Interno Salvini. Ecco i successivi passaggi: 1) smantellamento dello Sprar, ovvero del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, consistente nella distribuzione degli stranieri per famiglie o piccoli gruppi all’interno di comunità capaci di accoglierli e incentivate a farlo; 2) drastica riduzione degli investimenti economici in quella strategia, che ha portato all’impoverimento delle politiche di accoglienza e al licenziamento di centinaia di operatori (risorsa essenziale per il complessivo sistema di welfare italiano); 3) ridimensionamento, fino alla cancellazione, dei corsi per l’apprendimento della lingua italiana e di quelli di formazione professionale; 4) mancata realizzazione di strutture per “l’isolamento fiduciario” nel periodo della quarantena, secondo quanto previsto dal decreto del ministero della Salute di metà marzo. Ecco, è questo meccanismo in quattro tempi che produce lo stato di emergenza e un diffuso panico morale. E proprio considerando la dinamica che ha portato alla creazione di quei due focolai pandemici, si nota come il rapporto causa-effetto non si fondi su una comprovata equazione “straniero uguale contagio” bensì sul travisamento intenzionale dei dati di realtà. E su una fallimentare politica migratoria, voluta innanzitutto dal ministro Salvini e non radicalmente modificata dal successivo governo giallo-rosso. Ciò ha creato, negli ultimi tre anni, le condizioni più favorevoli al manifestarsi della xenofobia. Che non è un sinonimo di razzismo e non è destinata a tradursi fatalmente in razzismo ma esprime sentimenti di diffidenza e di angoscia nei confronti dello straniero e di ciò che appare sconosciuto. La politica dei grandi centri diaccoglienza - dell’addensamento di migranti e profughi in luoghi congestionati, dell’impoverimento delle misure di inclusione - è la causa prima della diffusione del contagio. E ne sono conseguenza l’incapacità di adottare efficaci misure di quarantena, la riluttanza di una parte degli stranieri a farle proprie, il sottrarsi al monitoraggio e il rifugiarsi in uno stato di semi-clandestinità. Insomma, chi oggi grida all’incendio ha svolto fino a ieri un’alacre attività di piromane e non sembra intenzionato a smetterla. Il forte romanzo di Gesualdo Bufalino trattava di altro (pur se vi si trovavano morbo e quarantena), ma quel titolo - Diceria dell’Untore - sembra pensato proprio per qualche leader sovranista, imbolsito e appannato. Braccianti con il permesso di soggiorno in scadenza: in Puglia i più sfruttati di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 agosto 2020 Regolarizzazione flop. Tre imprenditori arrestati a Spinazzola per aver impiegato manodopera a 3,80 euro l’ora. Intanto a fare domanda di emersione nelle campagne solo circa 22mila lavoratori stranieri, il governo ne stimava 200mila. Hanno tenuto d’occhio l’azienda agricola con i droni, ieri i carabinieri e l’Ispettorato del lavoro hanno arrestato in flagranza, e messo poi ai domiciliari, tre imprenditori di Spinazzola (sul versante occidentale delle Murge Pugliesi), proprietari dell’impresa di famiglia, con l’accusa di sfruttamento della manodopera più 73mila euro di sanzioni amministrative. I militari li hanno scoperti perché fin dall’alba si registrava un intenso via vai di braccianti a bordo di mezzi di fortuna. Al momento dell’ispezione erano presenti una decina di lavoratori fra italiani e africani. Le condizioni che dovevano sopportare erano brutali: 9 ore al giorno sui campi o nelle serre col caldo di agosto, una paga oraria di 3,80 euro invece dei 9,60 previsti dal contratto nazionale. Per nascondere la sproporzione fra orari e salari, veniva alterato il Lul, cioè vecchio libro paga, dove erano registrate 15 giornate invece delle 30 effettivamente prestate ogni mese. I braccianti venivano reclutati fra coloro che avevano maggiore bisogno, ad esempio perché con il permesso di soggiorno in scadenza. Alcuni vivevano sul posto, in un locale di 20 metri quadrati: un cubo di cemento, senza riparo dal sole, senza elettricità e senza servizi igienici. Le prestazioni erano monitorare con un sistema di telecamere installate dai datori di lavoro. L’agosto scorso nel barese vennero arrestati due titolari di un allevamento di ovini e suini a Poggiorsini: pagavano 70 centesimi l’ora (il contratto collettivo prevede almeno 10 euro) due immigrati che lavoravano per 12 ore al giorno senza riposi né ferie. Otto giorni fa, ancora a Spinazzola, altri arresti per gli stessi abusi. Nelle campagne si continua a lavorare in nero: la regolarizzazione dei braccianti, voluta dal governo e in particolare dalla ministra Teresa Bellanova, avrebbe dovuto portare all’emersione dello sfruttamento ma è un flop. La scadenza per fare domanda è il 15 agosto. Gli ultimi dati ufficiali sono aggiornati al 31 luglio: le domande di regolarizzazione (nei settori dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona) ricevute dal Viminale sono state 159.991, di cui 11.397 in corso di lavorazione. L’87% è per colf e badanti (128.719), il 75% di quelle in lavorazione (8.598) riguarda gli stessi due settori. Il lavoro subordinato, invece, copre solo il 13% delle domande già perfezionate (19.875) e il 25% di quelle in lavorazione (2.799). La Lombardia ha il record di colf e badanti (36.283), la Campania per il settore agricolo (5.134). Rispetto al paese di provenienza del lavoratore, ai primi posti risultano l’Ucraina, il Bangladesh e il Marocco per colf e badanti; l’Albania, l’India e il Marocco per il settore agricolo e l’allevamento. Presidio a Roma ieri di Usb e Movimento Migranti e rifugiati. Il sindacato spiega: “I ministeri competenti aveva stimato in 200mila il numero di lavoratori stranieri dell’agricoltura potenzialmente emergenti con il decreto. Invece appena il 5 o 6% dei braccianti senza permesso, forse anche meno, potrà usufruire del decreto, per tutti gli altri resta il super-sfruttamento”. Abdel El Mir lavora allo sportello del Movimento migranti di Napoli: “Da noi sono venuti in circa 1.500 tra lavoratori domestici e agricoli, quelli che hanno potuto fare richiesta solo 150. Molti imprenditori nascondono il loro reddito al fisco e di conseguenza non possono chiedere la regolarizzazione. Poi ci sono i truffatori, che offrono contratti falsi per 5mila euro, documenti che poi non superano i controlli. Il 25 agosto avremo un incontro con i rappresenti del governo. Chiederemo la proroga della scadenza e il permesso di lavoro di emergenza”. Cioè una regolarizzazione non legata a specifici settori e neppure ai documenti, che consenta l’accesso alla Sanità in tempo di pandemia. La deriva americana: se la patria delle libertà è una fabbrica di detenuti di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 11 agosto 2020 La popolazione carceraria è la quarta metropoli del Paese: una cifra quadruplicata negli ultimi quarant’anni. “Ehi boss, mi levo la maglietta”. “Ehi boss, sto togliendo il cappellino”. Giocavamo così, se si può dire, nell’ora d’aria al passeggio delle carceri speciali rivolgendoci alle guardie sulle garitte - io e Valerio, mi pare fossimo a Badu e Carros o a Rebibbia, che ci piccavamo di ricordare tutte le migliori battute dei film e siccome che non ce li facevano vedere provavamo a mantenerne il ricordo. Queste erano in Nick Mano fredda, una delle più belle interpretazioni di Paul Newman - e la scena, che si ripeteva, era di detenuti legati uno all’altro, la chain gang, che lavoravano a pulire strade o campi sotto un sole cocente, e sudavano come bestie, sorvegliati da guardie con il fucile sempre pronto a sparare, e ogni piccola mossa del corpo che facevano, ogni scarto dei gesti oltre quelli del lavoro, dovevano prima comunicarla al boss, lo sceriffo che sovrintendeva. Noi non lavoravamo, ma eravamo lo stesso come bestie guardate a vista. Oppure, sempre da quel film lì, quando venivano a buttarci giù dalle brande di notte per la “perquisa” e mettere tutto sottosopra con sadismo, e noi provavamo a dire di no, ci stava da dio la battuta al capoguardia: “Dire che è il tuo lavoro, non lo farà migliore, boss”. Il carcere è nel nostro immaginario, conficcato ben bene. Per quelli della mia età, c’era anche Quella sporca ultima meta - e quell’epica partita a football americano contro le guardie, con Burt Reynolds, un tempo glorioso quarterback e ora, per avere truccato partite, finito con la feccia in carcere, ma capace di riscattarsi e riscattare i suoi compagni contro i progetti di un perfido direttore. E poi sarebbero venuti Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, Il miglio verde. E tant’altro ancora. Quando sono entrato in carcere, pensavo di sapere tutto del carcere - lo avevo visto al cinema. È quello che dice anche Angela Davis, nel suo libro sull’abolizione del carcere “Aboliamo le prigioni?”, quando racconta: “Nel 1997, intervistando alcune donne in tre prigioni cubane, ho scoperto con stupore che la maggior parte descriveva la percezione del carcere che avevano in precedenza - vale a dire prima di finire in prigione loro stesse - come derivante dai molti film hollywoodiani che avevano visto. Tra le immagini che popolano la nostra mente, il carcere occupa dunque un posto di rilievo”. Figurarsi adesso - e poi con le serie tv di successo, come Prison Break, cinque stagioni, o The orange is the new black, sette stagioni, sulle carceri femminili. Eppure - credetemi sulla parola - del carcere non sai nulla, finché non ci finisci dentro. Perciò, nel nostro immaginario il carcere esiste, fin nei dettagli, e nello stesso tempo è la cosa più rimossa che c’è; è il luogo di cui abbiamo più fotogrammi immagazzinati ma anche il più invisibile; è lo spazio di cui crediamo di conoscere perfettamente le regole - quelle imposte dallo stato, quelle vigenti tra i detenuti - ma che diamo per scontato sia senza diritto comune, sottratto al diritto comune, con leggi sue proprie. Il carcere è il fenomeno più incredibile di presenza/ assenza nei nostri pensieri - come se una metà del cervello ne sapesse perfettamente l’esistenza e l’altra metà non volesse saperne proprio nulla. Sappiamo, ma non vediamo. Questa scontatezza del carcere fa somigliare il “processo” della colpa e della pena - commetti un reato, sei giudicato, finisci in carcere - come una cosa naturale, come un ciclo delle stagioni: se ora è estate, dopo viene l’autunno, un percorso obbligato. E se è scontato, se è obbligato, se tutti lo sanno - allora io sono esentato dalla responsabilità di interrogarmi. Se prendo la marmellata che mi è stata vietata, sarò punito - e tutti i miei pensieri ruoteranno intorno quest’unica domanda: come posso prendere la marmellata senza finire in prigione? Non mi chiederò mai se la prigione sia il “posto giusto” per avere preso la marmellata vietata. Angela Davis in prigione finì lei stessa per la sua militanza politica, all’inizio degli anni Settanta, e da allora è un’attivista contro il carcere come “unica soluzione”. Soprattutto negli Stati uniti. Scrive la Davis: “Più di due milioni di persone negli Stati uniti (su un totale mondiale di nove milioni) popolano attualmente le prigioni, i penitenziari, gli istituti minorili e i centri di detenzione per immigrati. La gravità di queste cifre è resa ancora più evidente se si considera che complessivamente la popolazione statunitense è inferiore al 5 percento del totale mondiale, mentre gli Stati uniti possono vantare più del 20 percento della popolazione carceraria” (i dati sono di una decina d’anni fa, ma niente fa credere che si siano modificati). A finire in carcere, in maniera sproporzionata, sono le minoranze etniche - neri, ispanici soprattutto - in un circolo vizioso senza possibilità di scarto che inizia dall’abbandono di interi quartieri, privi di scolarizzazione adeguata, di assistenza sanitaria, di possibilità di occupazione, e dove il percorso di un giovane porta quasi ineluttabilmente a delinquere. Oppure, come alternativa, a entrare nell’esercito. È Loïc Wacquant, in “Punire i poveri”, che spiega bene questo meccanismo infernale tra ghetto e prigione: “Alla fine degli anni Settanta, la prigione è improvvisamente tornata alla ribalta per offrirsi come la soluzione al tempo stesso semplice e universale a tutti i problemi sociali più urgenti. Problemi tra i quali figurava, al primo posto, l’evidente incapacità del ghetto nero nel contenere al proprio interno una popolazione in sovrannumero, priva di onore e considerata ora non solo come deviante e a rischio, ma anche come estremamente pericolosa per via delle violente rivolte che, da Watts a Detroit, hanno dilaniato le città statunitensi a metà degli anni Sessanta. Mentre le mura del ghetto tremano e rischiano di crollare, quelle delle prigioni si allungano, si allargano e si rinforzano. In breve tempo, il ghetto nero, trasformato in strumento di pura esclusione a causa della contrazione simultanea della sfera del lavoro salariato e dell’assistenza sociale, e ulteriormente destabilizzato dalla maggiore penetrazione del dispositivo penale dello Stato, si è trovato legato al sistema carcerario da una triplice relazione di equivalenza funzionale, di omologia strutturale e di sincretismo culturale, cosicché essi costituiscono attualmente un unico e solo continuum carcerario in cui è rinchiusa una nutrita schiera di giovani uomini (e, sempre più spesso, di donne) neri che percorrono un circuito delimitato da questi due poli, secondo un ciclo autoalimentato di marginalità sociale e legale dalle conseguenze personali e collettive devastanti”. Insomma, il carcere come una risposta alle questioni sociali - esso stesso quasi come un “orribile welfare” proprio quando il welfare comincia a essere smantellato. È l’indurimento delle pratiche di polizia per le strade, dei procedimenti giudiziari e delle pene, e della detenzione che costruisce questo “modello”, a partire dagli anni Ottanta: “Quando Reagan inaugura la sua presidenza, la polizia procede a circa 10,4 milioni di arresti a due terzi dei quali (69%) segue la carcerazione; quindici anni dopo, il numero di arresti annuale arriva a 15,2 milioni e quasi tutti (94%) approdano al carcere giudiziario. L’iperinflazione carceraria americana è difatti alimentata dall’incremento concomitante di due fattori: la durata della detenzione e il numero di condannati alla reclusione. Il prolungamento delle pene riflette l’irrigidimento della politica giudiziaria negli Stati Uniti: moltiplicazione dei reati che portano alla carcerazione, aumento della durata delle pene inflitte sia per i crimini non violenti (taccheggio, furto d’auto, possesso di droga) che per quelli violenti, abolizione della riduzione di pena per alcuni reati (stupefacenti, offese al buon costume) e perpetuità automatica al terzo crimine (“Three Strikes and You’re Out”), inasprimento generalizzato delle sanzioni in caso di recidiva, applicazione del codice penale degli adulti ai minori di sedici anni e limitazione, se non soppressione, della libertà vigilata. È nel 1973, all’indomani della rivolta di Attica nel corso della quale quarantatré persone tra prigionieri e guardie carcerarie tenute in ostaggio furono massacrate nell’assalto lanciato dalle truppe, che la popolazione carceraria degli Stati Uniti raggiunge il livello più basso dal dopoguerra. Il ribaltamento della demografia carceraria statunitense dopo il 1973 si rivelerà tanto brusco quanto stupefacente. Contro tutte le aspettative, la popolazione penitenziaria del paese comincia ad aumentare vertiginosamente: essa raddoppia in dieci anni e quadruplica in venti. Partito da meno di 380.000 nel 1975, il numero delle persone dietro le sbarre sfiora 500.000 nel 1980 e supera il milione nel 1990. Continua a crescere con un ritmo infernale dell’ 8% in media - ossia, 2000 detenuti in più ogni settimana - durante gli anni Novanta, al punto che, al 30 giugno 2000, l’America contava ufficialmente 1.931.850 detenuti. Se fosse una città, il sistema carcerario statunitense sarebbe la quarta più grande metropoli del paese, dietro Chicago” - è ancora Wacquant, che parla. È quello che Angela Davis chiama il “complesso carcerario-industriale”, di cui è esemplare la California: “Tra il 1852 e il 1955 sorsero in California nove prigioni. Nella seconda metà degli anni Sessanta non fu aperta nessuna prigione e neppure durante il decennio successivo. Tra il 1984 e il 1989 furono inaugurati nove istituti di pena: c’erano voluti più di cento anni per costruire le prime nove prigioni californiane; in meno di un decennio quel numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne sono aggiunti altri dodici, tra cui due penitenziari femminili”. Osservando la carta della California e la posizione delle prigioni, queste hanno lentamente e letteralmente invaso gli spazi, come se, dice la geografa Ruth Gilmore, l’espansione delle prigioni fosse “una soluzione geografica a problemi socio-economici”. Certo, spesso queste nuove prigioni non sono state “imposte” ma sono state costruite con il consenso dell’opinione pubblica - la gente voleva credere che altre prigioni avrebbero ridotto il crimine e che avrebbero fornito posti di lavoro e sviluppo per le comunità locali. Eppure, quando è iniziato il boom della costruzione delle carceri, le statistiche ufficiali rivelavano già una diminuzione dei dati sulla criminalità. Il punto è che non si può non mettere in correlazione la de- industrializzazione e la reclusione di massa. Paradossalmente, per alcune comunità locali, il carcere avrebbe rappresentato un volano di “sviluppo”. Non solo, ma la “privatizzazione” della gestione delle prigioni ha significato anche l’ingresso massiccio di aziende che sfruttano il lavoro carcerario - a un costo significativamente più basso. E parliamo di aziende di prima grandezza - che traggono profitti enormi non solo dalla fornitura alle carceri. All’inizio del XXI secolo, le numerose società per la gestione di prigioni private operanti negli Usa possedevano e amministravano strutture che ospitavano 91.828 detenuti. Il Texas e l’Oklahoma vantavano il maggior numero di detenuti in prigioni private, ma il New Mexico ospitava il 44 percento della sua popolazione carceraria in strutture private, e stati come il Montana, l’Alaska e il Wyoming avevano “ceduto” oltre il 25 percento della loro popolazione carceraria. È un “fenomeno” che è andato crescendo e allargandosi, dagli Stati uniti all’Australia, ma anche in Turchia. Che il carcere sia, negli Stati uniti, anche una “questione razziale” lo si capisce - oltre che dai numeri di proporzione tra bianchi, neri e ispanici incarcerati che corrispondono in modo rovesciato alla presenza in società - proprio dal “lavoro forzato”. Perché la sua istituzione ripercorre passo passo quella della schiavitù - e per molti versi ne fu una versione peggiorativa. Negli Stati del Sud un nero in prigione era una rarità prima della Liberazione, divennero la normalità dopo: chi visitava le prigioni del Mississippi negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento trovava “i prigionieri che mangiavano e dormivano sulla nuda terra, senza coperte né materassi e spesso senza vestiti... i detenuti morivano di sfinimento, polmonite, malaria, congelamento...” (da David Oshinsky, Worse than Slavery). Prima, come schiavo il nero era comunque un bene in cui si era investito e che andava mantenuto perché producesse, dopo era manodopera intercambiabile in un mercato, quello del carcere, abbondante. Considerare scontato il carcere non ci fa neppure interrogare se possano esistere possibilità alternative - ci sembra impossibile, proprio come ci sembrerebbe impossibile invertire un fatto della natura. Anche per la pena di morte, l’alternativa che viene prospettata è quella del carcere a vita, in alternativa. Ricordava Jack Abbott, nel suo “Nel ventre della bestia”, come fosse stato proprio Gary Gilmore, che aveva passato più di metà della sua vita in carcere, a chiedere - dopo la sentenza del 1976 che lo condannava per due omicidi - di essere giustiziato, finendo con l’essere il primo dopo dieci anni che la pena di morte era stata sospesa. Fu fucilato nel 1977. Abbott pensava a un senso di “espiazione” - ma è difficile definire “vita” un ergastolo senza alcuna possibilità di remissione in condizioni di assoluto isolamento per decenni e decenni. Eppure, proprio come l’indurimento delle pene e la “rapidità” dei procedimenti contro lo spaccio di droga sono stati tra i “volani” più significativi dell’aumento della popolazione carceraria - e di tutta la crescita del complesso carcerario- industriale - forse abolendone alcuni meccanismi obbligati, ci sarebbero già significative riduzioni e delle alternative. E lo stesso varrebbe per la prostituzione, a esempio. Il primo passo è riconoscere che non esiste un’unica modalità della pena. E non pensare a “soluzioni” che siano “il carcere in altra forma”, come gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Il primo passo è rompere il legame tra delitto e castigo. Patrick e gli altri detenuti, la meglio gioventù d’Egitto di Riccardo Noury lanuovaecologia.it, 11 agosto 2020 Contro Patrick Zaki il regime egiziano ha riproposto il “set” di accuse rivolte ad avvocati, giornalisti, blogger e difensori dei diritti umani. L’appello di Amnesty per la sua scarcerazione. Dal mensile di luglio-agosto - Mentre scrivo questo articolo, Patrick Zaki è entrato nel quinto mese di detenzione preventiva. Per la procedura penale in vigore in Egitto potrebbe restarci per altri 19 mesi. Patrick è stato arrestato la notte tra il 7 e l’8 febbraio all’aeroporto del Cairo, proveniente da Bologna, dove da settembre stava frequentando con successo un master in studi di genere. Dopo un periodo di sparizione forzata di circa un giorno, durante il quale è stato bendato e torturato nel corso degli interrogatori, Patrick è comparso negli uffici della procura della città di Mansoura. È stato poi posto in detenzione preventiva, indagato per cinque diversi capi d’accusa contenuti in un mandato di cattura emesso nel settembre 2019, quando era già in Italia: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Si tratta dello stesso “set” di accuse formulato nei confronti di tantissimi altri detenuti: attivisti per i diritti umani, avvocati, giornalisti, blogger, esponenti dell’opposizione politica, difensori dei diritti umani. Per i reati che gli sono contestati, Patrick rischia l’ergastolo, che in Egitto è automaticamente commutato in 25 anni di carcere. Di Patrick, dopo che il 9 marzo è stato visitato dai genitori per l’ultima volta, non si hanno notizie dirette. Le udienze per il rinnovo dei termini di detenzione preventiva si tengono a porte chiuse, in assenza dell’imputato e degli avvocati cui viene notificato l’esito soltanto giorni dopo. La sua storia, così come quella di tanti altri rappresentanti della “meglio gioventù” egiziana, sa di persecuzione politica. Il verbale d’arresto è stato completamente falsificato e fabbricato. Il documento consegnato dalla polizia alla procura afferma che è stato arrestato a un posto di blocco della polizia nella sua città natale di Mansoura, mentre l’arresto è avvenuto all’aeroporto del Cairo il giorno prima. Patrick si trova nella sezione del centro penitenziario di Tora riservata ai detenuti politici. Qui il sovraffollamento e le pessime condizioni igienico-sanitarie hanno favorito l’ingresso della pandemia da Covid-19. Sebbene il governo neghi, le organizzazioni locali per i diritti umani hanno già denunciato la morte di un impiegato della struttura, che chissà se e quante altre persone abbia contagiato. Considerato che essendo affetto da asma bronchiale è un soggetto a rischio, Amnesty International, Università di Bologna, Comune di Bologna e Regione Emilia-Romagna continuano a sollecitare un intervento della Farnesina affinché le autorità giudiziarie del Cairo dispongano il rilascio di Patrick per motivi di salute. *Portavoce Amnesty International Italia Nigeria. Musicista colpevole di blasfemia: condannato a morte per impiccagione La Repubblica, 11 agosto 2020 Yahaya Sharif-Aminu, 22 anni, a marzo ha composto una canzone in lode a un imam “superiore” al Profeta. Il tribunale della sharia ha emesso la sentenza, ora manca solamente la firma del governatore dello Stato di Kano. Non ha insultato il Profeta. Ha osannato un imam. Scatenando così la rabbia e l’indignazione dei suoi cittadini che si sono rivolti alla giustizia. E l’Alta Corte della sharia dello Stato nigeriano di Kano ha emesso una sentenza di morte per un giovane musicista gospel di 22 anni riconosciuto colpevole di blasfemia. Yahaya Sharif-Aminu a marzo ha composto una canzone, fatta circolare su WhatsApp ai suoi fan, in cui esprime ammirazione per un imam della confraternita musulmana di Tijaniya, originaria del Senegal. Le lodi cantate dal giovane lasciano intuire una considerazione che supera quella per il Profeta Maometto. Dal 1999, anno dell’istituzione dell’Alta Corte della sharia, questa è la seconda condanna a morte. La prima è stata nel 2002: un uomo che ha ucciso una donna e i suoi due figli. Da quando è stata diffusa la canzone, il 22enne, popolare soprattutto all’interno della sua confraternita, si è dovuto nascondere per la rappresaglia della popolazione che ha bruciato la sua casa e quella della sua famiglia e ha manifestato giorno dopo giorno davanti al quartier generale della polizia perché venisse arrestato. Idris Ibrahim, a capo della protesta, ha detto alla Bbc che questa punizione “servirà da deterrente per chiunque pensi di poter insultare la nostra religione o il Profeta”. Per l’esecuzione dell’impiccagione manca solo la firma del governatore di Kano. La legge della sharia viene applicata in 12 Stati della Nigeria su 36, e può giudicare solo i musulmani. Le punizioni vanno dal linciaggio all’amputazione, all’impiccagione. Algeria. Condannato a tre anni il giornalista Khaled Drareni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 agosto 2020 Quella emessa ieri pomeriggio dal tribunale della città algerina di Sidi M’hamed è una sentenza vergognosa: una parodia della giustizia, come l’ha definita Amnesty International. Al giornalista Khaled Drareni sono stati inflitti tre anni di carcere e una multa equivalente a oltre 350 euro, unicamente per aver seguito le manifestazioni del movimento di protesta Hirak, iniziate nel febbraio 2019. I reati di cui è stato giudicato colpevole sono quelli di istigazione a manifestazione non autorizzata e minaccia all’unità nazionale. Drareni, rappresentante di Reporter senza frontiere per l’Algeria, corrispondente da Algeri per l’emittente francese TV5 Monde e fondatore e direttore del portale Casbah Tribune, era in carcere dal 27 marzo. Si trova attualmente nella prigione di El Kolea. Il tribunale di Sidi M’hamed ha inoltre condannato a due anni di carcere l’attivista politico Samir Ben Larbi e il coordinatore nazionale delle famiglie degli scomparsi, Slimane Hamitouche, a causa dei contenuti delle loro pubblicazioni online e per aver preso parte alle proteste. Ben Larbi e Hamitouche, arrestati il 7 marzo, sono stati rilasciati il 2 luglio e attenderanno in libertà l’esito del processo d’appello. Hong Kong. Rilasciati su cauzione il magnate Jimmy Lai e l’attivista Agnes Chow di Filippo Santelli La Repubblica, 11 agosto 2020 Scarcerati a meno di due giorni dall’arresto, avvenuto in applicazione della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino. L’Assemblea del popolo cinese proroga di un anno il Parlamento locale, dopo il rinvio del voto. Il magnate dell’editoria Jimmy Lai e la giovane attivista Agnes Chow sono stati rilasciati su cauzione. Meno di due giorni dopo il loro arresto per sospetta violazione della legge sulla sicurezza nazionale, due delle figure simbolo del campo democratico di Hong Kong tornano in libertà. Un piccolissimo segnale positivo per l’opposizione in città, visto che la norma introdotta da Pechino raccomanda di privilegiare la custodia in carcere e che qualche giorno fa la cauzione era stata negata a uno dei primi cittadini arrestati alla luce della nuova legge, un centauro che si era lanciato con la moto contro degli agenti di polizia. Agnes Chow, 23 anni, in prima linea nelle battaglie studentesche per l’autodeterminazione di Hong Kong al fianco di Joshua Wong, è uscita dal commissariato di polizia poco prima della mezzanotte di martedì. L’accusa nei suoi confronti, secondo quanto lei stessa ha riferito, è di sospetta collusione con le forze straniere, per i messaggi pubblicati sui social dopo l’entrata in vigore della legge. Messaggi che in realtà appaiono generici inviti a supportare Hong Kong. A notte inoltrata è stato liberato anche il 72enne Jimmy Lai, schierato con il suo quotidiano Apple Daily dalla parte dei democratici e contro il Partito comunista cinese. Lai è stato arrestato con le accuse di collusione con una forza straniera, invito alla secessione e frode, ma le procedure per la cauzione sarebbero sul punto di essere formalizzate, scrive lo stesso Apple Daily. Nelle ore precedenti erano già state liberate alcune delle persone fermate insieme a lui, tra cui il figlio Ian Lai e i dirigenti della sua azienda editoriale, Next Digital. Martedì, in una mobilitazione a difesa di Lai e della libertà di stampa, i cittadini di Hong Kong hanno acquistato in massa copie di Apple Daily e comprato azioni di Next Digital in Borsa, moltiplicandone il valore per dodici volte. Intanto il comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo, il Parlamento cinese, ha stabilito che l’attuale Consiglio legislativo di Hong Kong, controllato da forze filo-Pechino, resterà in carica “come minimo” un altro anno. Il rinvio delle elezioni previste all’inizio di settembre aveva creato un vuoto normativo, visto che l’assemblea sarebbe decaduta alla fine del mese, al termine dei regolari quattro anni. Vuoto che le autorità di Pechino hanno colmato garantendosi almeno per altri 365 giorni istituzioni “amiche”. Ufficialmente la decisione di posticipare di un anno il voto è dovuta a ragioni sanitarie, cioè la ripresa dell’epidemia in città, ma secondo il campo democratico è uno stratagemma del governo di Carrie Lam per evitare una disfatta alle urne.