Carcere: suicidi e affollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2020 Nonostante il Covid, le prigioni italiane sono ancora stracolme E nei primi sei mesi dell’anno 34 detenuti si sono tolti la vita. “Sofferenza” è la parola chiave del pre-rapporto di metà anno redatto dall’associazione Antigone sulle carceri. In primo luogo la sofferenza della malattia, quella caratterizzata dal Covid 19, per come è stata percepita dai detenuti osservando i bollettini provenienti dal mondo esterno. La sofferenza della solitudine, dell’abbandono, quella dettata dalla stagione estiva e quindi del caldo insopportabile che diventa sempre più insostenibile all’interno delle celle. La sofferenza psichica che in carcere si amplifica a dismisura e può portare al suicidio. Durante la presentazione del pre- rapporto, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ha elencato tutte queste sofferenze che vivono i reclusi, compresa quelle indotte, ovvero quelle fisiche commesse da alcuni agenti penitenziari che ora la legge ha contemplato con il reato di tortura. “Proibire e reprimere la tortura - ha osservato Gonnella - vuol dire essere coerenti con la legge interna e quella internazionale”. E quindi, ha aggiunto il presidente di Antigone, “sarebbe importante che, quando il procedimento va avanti, lo Stato con le sue forme si costituisca parte civile, perché sarebbe un segnale importante”. Gonnella, in sintesi, ha spiegato che per ridurre il tasso di sofferenza, ci vuole “uno Stato forte che non si autoassolva e rompa con la retorica delle mele marce”. A proposito di suicidi, il presidente di Antigone ha sottolineato che l’anno scorso, in questo periodo, erano stati 26, quando la popolazione reclusa era di varie migliaia di unità in più. Ora, nello stesso periodo siamo invece arrivati già a 34 suicidi. Il 20% di questi aveva fra i 20 e i 29 anni (i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40-49 e 50-59 troviamo il 17% dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% al sud e il 23% al centro; in tre istituti sono avvenuti due suicidi: Como, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. Gonnella ha ricordato che ultimamente si sono ammazzati ragazzi giovani per i quali probabilmente il carcere non sarebbe stata la giusta opzione. “Per questo - ha spiegato Gonnella - vorremmo dedicare questo pre rapporto al giovane rapper Jhonny Cirillo, morto suicida nel carcere di Fuorni. Un ragazzo che, sì, aveva commesso un reato, ma la sua biografia richiedeva un’attenzione sociale ben diversa dall’imprigionamento, esito di una giustizia cieca e burocrate. Jhonny andava aiutato, sostenuto e non incarcerato”. Il presidente di Antigone ha concluso, infine, con un auspicio, ovvero che il tasso di sovraffollamento non ricominci a crescere e che, al contrario, si riduca ancora di più. Nel pre-rapporto, Antigone spiega che l’8 marzo entravano in vigore, con il decreto “Cura Italia”, le prime misure atte a contenere i numeri della popolazione detenuta per contrastare la diffusione del coronavirus in carcere. Nei mesi successivi le presenze, che peraltro già prima di queste misure erano iniziate a calare, raggiungevano a fine aprile le 53.904 unità. Tre mesi dopo, a fine luglio, le presenze in carcere, con 53.619 unità, restano sostanzialmente stabili. Il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma in ben 24 istituti supera ancora il 140% ed in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). Il reale tasso di affollamento nazionale - si legge nel documento di Antigone - è inoltre superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti. In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo: - 19,8% in Emilia- Romagna, - 15,2% in Campania, - 13,9% in Lombardia - 11,0% in Piemonte - 7,4% in Sicilia, - 7,3% in Veneto. Le Marche sono l’unica regione in Italia in cui la popolazione detenuta è aumentata nell’ultimo anno, con una crescita dell’1,1%. Secondo Antigone è necessario che si scenda a breve sotto i 50 mila detenuti per garantire spazio e distanziamento fisico. Secondo gli ultimi dati disponibili i casi totali in carcere fino al 7 luglio sono stati 287 con un picco massimo nella stessa giornata di 161 persone positive. Un numero contenuto, ma secondo Antigone da non sottovalutare: in rapporto al totale della popolazione detenuta è infatti superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del paese. Le misure prese a marzo a livello periferico sono state determinanti. “Non deve tornare l’affollamento in carcere - osserva Antigone-, altrimenti si rischia di trasformare queste ultime in luoghi fortemente a rischio, come lo sono state le Rsa”. Focolai si sono riscontrati a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. Più che in passato sono disponibili per personale e detenuti dispositivi di protezione individuale. Antigone, con il sostegno di Cild, ha donato migliaia di mascherine alle direzioni dei seguenti istituti: San Vittore Milano, Trieste, Bari, Rebibbia Nc, Regina Coeli nonché case famiglia per detenute madri e comunità dove sono ristretti minori. Secondo i dati rilevati da Antigone, Il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni per un totale di 18.856 detenuti. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%. Sono percentualmente aumentati i detenuti per i reati più gravi, a seguito delle scarcerazioni avvenute tra marzo e maggio di persone con pene brevi. I presenti con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali. A fine giugno 2020 erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416- bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri. Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone sottoposte al regime speciale di cui il 41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Aumenta anche l’età media. I detenuti con più di 50 anni erano il 25,2% a fine giugno 2019, mentre un anno dopo erano il 25,9% dei presenti. Un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno. Per questo secondo Antigone si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena. Ma nel frattempo crescono i numeri dei reclusi in custodia cautelare. A fine aprile 2020, calate notevolmente le presenze in carcere, i definitivi erano il 68,8% dei presenti (il 66% dei soli stranieri). Nonostante le misure deflattive previste riguardassero solo i detenuti con una condanna definitiva, la percentuale di persone in custodia cautelare in questo intervallo era addirittura leggermente calata, ed il calo era più significativo tra gli stranieri. A fine luglio 2020 aveva una condanna definitiva il 66,8% dei presenti (il 64,8% tra i soli stranieri). In pochi mesi dunque, nonostante la popolazione detenuta nel suo complesso sia sostanzialmente invariata, continuano a calare i definitivi ma aumentano le persone in custodia cautelare, segno che sono tornati ad aumentare gli ingressi in carcere. Sono 17.448 gli stranieri in carcere al 31 luglio 2020, per una percentuale pari al 32,5% del totale della popolazione detenuta. Tale percentuale - si legge nel pre- rapporto di Antigone - raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562. Al 31 luglio 2020 i 5 istituti penitenziari con il maggior numero di detenuti stranieri in termini assoluti erano: la CC di Torino (663 detenuti stranieri, 48,4% sul totale), la CC di Milano San Vittore (542 detenuti stranieri, 58,3 % sul totale), la CC di Roma Regina Coeli (496 detenuti stranieri, 49,5% sul totale), la CC Firenze Sollicciano (494 detenuti stranieri, 66,8% sul totale) e la CC di Roma Rebibbia NC (466 detenuti stranieri, 32,9% sul totale). Di questi 5 istituti, solo Firenze Sollicciano rientra tra i primi dieci con la più alta concentrazione in percentuale di stranieri, attestandosi al sesto posto. I primi cinque istituti per percentuale di stranieri sono due case di reclusione sarde, Onanì dove l’81,7% dei detenuti è di nazionalità non italiana e Arbus Is Arenas dove gli stranieri rappresentano l’80,9% del totale dei reclusi. A seguire le case circondariali di Bolzano (70,1%) Aosta (68,4%) e Padova (67,4%). Le cinque regioni con la più alta presenza in percentuale di stranieri detenuti negli istituti penitenziari sono la Valle d’Aosta (68,4%), il Trentino Alto Adige (63,1%), la Liguria (53,1%), il Veneto (53%) e la Toscana (49,9%). Sono comunque ben sopra la media nazionale (al 32,5% il 31 luglio 2020) l’Emilia- Romagna (48,3%), la Lombardia (43,7%), il Friuli Venezia Giulia (35,3%) ed il Piemonte (40,5%). Ben al di sotto della media nazionale la Calabria (18,4%), l’Abruzzo (17,6%), la Sicilia (18,7%), la Campania (13,6%), la Puglia (13,7%) e la Basilicata (12,3%). Per quanto riguarda le nazionalità più rappresentate all’interno dei nostri istituti di pena andiamo a distinguere tra popolazione reclusa maschile e femminile. Per quanto riguarda gli uomini, le cinque nazioni straniere più rappresentate sono (le percentuali sono da riferirsi sul totale dei detenuti non italiani): il Marocco (18,5%), la Romania (12,2%), l’Albania (11,7%), la Tunisia (10,2%), la Nigeria (8,6%). Quella femminile è storicamente una piccola minoranza, oggi - secondo Antigone - pari al 4,19% del totale. Negli ultimi trent’anni la presenza femminile in carcere è sempre oscillata tra i 4 e i 5 punti percentuali. Ma sono solo 4 gli istituti penitenziari interamente femminili in Italia, che ospitano in totale 554 donne. Ovvero un quarto della popolazione detenuta femminile. Ma Il resto delle donne si trovano nelle 43 sezioni femminili ubicate all’interno di carceri maschili, sparse in tutte le regioni del Paese, con capienze e modelli organizzativi molto diversi tra loro: la più piccola si trova a Paliano (Lazio) dove sono ristrette 2 donne. Le più grandi, che ospitano oltre cento detenute, sono Milano Bollate (118), Torino (110) e Firenze Sollicciano (114). Nel frattempo, al 31 luglio, ci sono ancora 33 bambini sotto i tre anni che vivono in carcere o negli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam). Il gruppo più numeroso (8 bambini) si trova a Torino, 6 sono i bambini a Rebibbia femminile e 7 nell’Icam di Lauro, in Campania. Le madri detenute con figli al seguito sono 31 (15 straniere e 16 italiane). A fine aprile i bambini detenuti erano 40 ed erano 59 a fine febbraio. Al 20 maggio le persone andate in detenzione domiciliare durante l’emergenza sanitaria erano 3.379. Di queste, a 975 era stato applicato il braccialetto elettronico (Fonte: Garante nazionale). I braccialetti elettronici diventati operativi negli ultimi mesi, secondo Antigone sono molti meno di quelli promessi nell’accordo tra ministeri dell’Interno e della Giustizia (300 a settimane), a conferma che si tratti di una misura costosa e di difficile applicazione. Carceri e Fase 2, per garantire il distanziamento serve scendere sotto le 50mila presenze di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2020 È stato presentato questa mattina il tradizionale Rapporto di metà anno dell’associazione Antigone, che fa il punto della situazione carceraria per il primo semestre dell’anno in corso. Il Rapporto, dal titolo “Salute, tecnologie, spazi, vita interna. Il carcere alla prova della fase 2”, raccoglie i numeri più significativi in relazione all’andamento della popolazione carceraria da gennaio a giugno, nonché: 1. uno studio a campione effettuato da Antigone nelle scorse settimane sulla ripartenza dopo le misure di totale chiusura adottate dalle carceri; 2. un elenco dei procedimenti penali in corso dove si indaga per presunte torture avvenute in carcere; 3. la sintesi di un documento di proposte sul modello di vita interna elaborato dall’associazione e inviato ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Emerge come si stia attenuando l’effetto delle misure di contenimento del sovraffollamento penitenziario introdotte dal decreto cosiddetto ‘Cura Italia’ dell’8 marzo, che avevano visto passare i detenuti presenti dalle 61.230 unità della fine di febbraio alle 53.904 della fine di aprile, con un calo di 7.326 unità in due mesi. Nei successivi tre mesi, fino al 31 luglio scorso, il calo ulteriore è stato infatti di soli 285 detenuti. Il tasso di affollamento ufficiale è oggi pari al 106,1%, ma due elementi vanno tenuti presenti: innanzitutto, che il tasso di affollamento reale è superiore, poiché non si tiene conto delle varie migliaia di posti inutilizzabili a causa della chiusura dei relativi reparti; in secondo luogo, che la situazione è disomogenea sul territorio nazionale e in ben 24 istituti il tasso di affollamento supera il 140%, mentre in 3 addirittura il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). In forte calo la presenza di detenuti stranieri, che negli ultimi dodici anni sono diminuiti di 4,3 punti percentuali. È necessario scendere sotto le 50.000 presenze per garantire spazio, distanziamento, possibilità di istituire sezioni di isolamento in ogni carcere. Se fortunatamente a oggi la situazione sanitaria penitenziaria non è esplosa, va comunque detto che il tasso di contagio (con 287 detenuti contagiati in totale, secondo l’ultimo dato disponibile del 7 luglio) è stato superiore a quello esterno e che il rischio che accada quanto successo nelle Rsa non va sottovalutato. Oltre la metà dei detenuti presenti in carcere (il 52,6%) ha un residuo di pena inferiore a tre anni. Una parte di queste persone potrebbe senz’altro accedere a misure alternative alla detenzione, che non significano affatto la libertà bensì una modalità diversa di scontare la pena, senz’altro più utile e decisamente meno costosa (Antigone ha calcolato che, se anche solo la metà dei detenuti con tale residuo pena accedessero a misure alternative al carcere, si potrebbero risparmiare fino a 500 milioni di euro di soldi pubblici all’anno). Lo studio a campione effettuato da Antigone ha mostrato come la fase 2 abbia visto riprendere ovunque i colloqui con i famigliari, la più dura delle restrizioni introdotte per arginare il virus. Naturalmente essi vengono effettuati adottando misure di prevenzione (separazioni in plexiglass, mascherine, controllo della temperatura, etc.) e varia il numero delle persone ammesse a colloquio (spesso è consentito l’accesso ad un solo familiare ma in alcuni istituti possono accedere un adulto e un minore). Quanto alle videochiamate, vera novità introdotta con l’emergenza sanitaria, continuano a venire effettuate in praticamente tutti gli istituti oggetto del monitoraggio. Nella maggior parte di essi, tuttavia, sono di fatto divenute alternative ai colloqui in presenza. Essendo prive di costi, di problemi di sicurezza ed essendo di facile realizzazione, sarebbe auspicabile che le videochiamate potessero aggiungersi ai colloqui visivi e non fossero alternativi a questi. Sono modalità di comunicazione che raggiungono persone diverse: i lunghi spostamenti per i colloqui spesso risultano troppo faticosi per genitori anziani o figli piccoli, che possono in questo caso preferire le videochiamate senza gravare sul numero massimo di incontri che un detenuto può avere con altri familiari. Sarebbe inoltre fondamentale che tale modalità di comunicazione, sperimentata nei mesi scorsi, venisse in futuro utilizzata anche per altre attività, prima tra tutte la didattica. L’analfabetismo informatico che investe le nostre carceri è quanto di più lontano dalla prospettiva di una reintegrazione in società destinata ad avere successo. Chiudiamo con uno sguardo sui procedimenti penali in corso per presunti episodi di tortura nei confronti di persone detenute. Sono attualmente 8 e si riferiscono a episodi che sarebbero avvenuti nelle carceri di Monza, San Gimignano, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Pavia. Negli ultimi 4 casi ci si riferisce a eventi che sarebbero accaduti a seguito delle rivolte penitenziarie del marzo scorso, quale presunta ritorsione contro chi avrebbe partecipato ai disordini. Antigone riporta la ricostruzione dei presunti accadimenti e lo stato dei procedimenti. Il Rapporto di metà anno di Antigone si inserisce all’interno del lavoro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, con il quale dal lontano 1998 l’associazione monitora lo stato delle carceri italiane, visitandole di continuo e rendendo trasparenti luoghi che possono rischiare, con la chiusura a sguardi esterni, di avallare abusi di potere. Il controllo sociale è sempre stato nella storia il massimo fattore di garanzia rispetto a qualsiasi potere che possa rischiare di uscire dalla legalità. Nel luogo deputato a rinchiudere il privato cittadino che non rispetta la legge, non si può tollerare che sia lo Stato a non rispettarla. *Coordinatrice associazione Antigone Carcere alla prova della fase 2. “Investire su pene alternative, risparmio da 500 milioni” dire.it, 11 agosto 2020 Rapporto Antigone: “un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa, una persona in misura alternativa dieci volte di meno”. Il 19,1% dei reclusi ha un residuo pena inferiore ad 1 anno; il 29,8% una condanna definitiva superiore ai 10 anni. Un investimento sulle pene alternative consentirebbe allo Stato di risparmiare almeno 500 milioni di euro. È quanto emerge dal rapporto di metà anno dell’associazione Antigone “Salute, tecnologie, spazi, vita interna: il carcere alla prova della Fase 2”. Il rapporto contiene da una parte i numeri generali del sistema penitenziario, dall’altra un’analisi che Antigone ha svolto su 30 grandi carceri italiane dal Nord al Sud d’Italia. Secondo Antigone, “posto che un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno, si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro (oltre che avere ritorni positivi per la sicurezza collettiva visto che una persona in misura alternativa ha un tasso di recidiva tre volte inferiore a una persona che sconta per intero la pena in carcere) se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena”. Per quanto riguarda le pene alternative, spiega ancora Antigone che “il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni per un totale di 18.856 detenuti. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%. Sono percentualmente aumentati i detenuti per i reati più gravi, a seguito delle scarcerazioni avvenute tra marzo e maggio di persone con pene brevi”. “I presenti con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali - continua il rapporto di metà anno dell’associazione Antigone- A fine giugno 2020 erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416-bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri. Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone sottoposte al regime speciale di cui all’41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza”. Aumenta anche l’età media: “I detenuti con più di 50 anni erano il 25,2% a fine giugno 2019 mentre un anno dopo erano il 25,9% dei presenti”. “Gli artt. 123 e 124 del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. Cura-Italia) continua il rapporto di Antigone- hanno introdotto da un lato modalità speciali per l’accesso alla detenzione domiciliare, dall’altro l’estensione delle licenze per i detenuti semiliberi. Entrambe le misure erano a termine, valide fino al 30 giugno 2020. L’obiettivo era quello di far fronte nell’immediato all’emergenza sanitaria in corso, contribuendo alla deflazione della popolazione detenuta”. Rapporto di Antigone sulle carceri: “Ancora troppe presenze, rischio di nuovi focolai” di Simona Olleni agi.it, 11 agosto 2020 Il sovraffollamento carcerario è comunque sceso al 106% dopo le misure anti-Covid. Allarme per i suicidi, già 34 nel 2020. Le presenze in carcere, a fine luglio, si attestano a 53.619 unità, dopo le misure adottate in marzo con il decreto Cura Italia nella fase di emergenza Covid, e il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma in ben 24 istituti supera ancora il 140% e in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). È quanto emerge dal rapporto di metà anno sulle carceri dell’associazione Antigone, la quale rileva che il reale tasso di affollamento nazionale è superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti. In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo: -19,8% in Emilia-Romagna, -15,2% in Campania -13,9% in Lombardia, -11,0% in Piemonte, -7,4% in Sicilia, -7,3% in Veneto. Le Marche sono l’unica regione in Italia in cui la popolazione detenuta è nell’ultimo anno aumentata, con una crescita dell’1,1%. Per evitare il rischio che le carceri “possano trasformarsi nelle nuove Rsa” e che “a settembre diventino nuovi focolai” bisogna andare avanti con “politiche dirette a ridurre la popolazione detenuta”, ha sottolineato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella: in particolare, per “assicurare il distanziamento fisico”, la soluzione proposta da Antigone sta nel ricorso alle “misure alternative”: nel dossier presentato oggi, si osserva che vi sono oltre 13mila persone detenute che per preclusioni di varia natura permangono in carcere nonostante un residuo pena basso. Al 20 maggio, riferisce Antigone, in 962 avevano una condanna inferiore a un anno e al 30 aprile 12.519 persone detenute dovevano scontare una pena o un residuo pena inferiore ai 3 anni. I numeri del Covid in carcere - I casi totali di detenuti positivi al Covid-19 fino al 7 luglio - dato disponibile più recente - sono stati 287, con un picco massimo nella stessa giornata di 161. Secondo Antigone, si tratta di “un numero contenuto, ma da non sottovalutare: in rapporto al totale della popolazione detenuta è infatti superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del Paese”. Focolai si sono riscontrati a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. Ai domiciliari in fase Covid 3.379 detenuti - Al 20 maggio scorso le persone andate in detenzione domiciliare durante l’emergenza sanitaria erano 3.379. Di queste, a 975 era stato applicato il braccialetto elettronico: i braccialetti elettronici diventati operativi negli ultimi mesi - si osserva nel rapporto - sono molti meno di quelli promessi nell’accordo tra ministeri dell’Interno e della Giustizia (300 a settimane), “a conferma che si tratta di una misura costosa e di difficile applicazione”. I semiliberi a cui è stata estesa la licenza sono stati 561. Allarme suicidi in cella - Sono 34 i suicidi avvenuti in carcere dall’inizio del 2020 fino al 1 agosto (l’anno scorso in questo stesso periodo erano stati 26). Lo si legge nel rapporto di metà anno dell’associazione Antigone, che cita dati del Garante nazionale. Per 30 di questi (su quattro non ci sono dati) nel 60% dei casi (18) si tratta di italiani e nel 40% (12) di stranieri. Il 20% di loro (6) aveva fra i 20 e i 29 anni (i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% (13) ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40-49 e 50-59 troviamo il 17% (5 e 5) dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% (12) dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% (11) al sud e il 23% (7) al centro; in tre istituti sono avvenuti due suicidi: Como, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. A gennaio, marzo e aprile sono avvenuti 9 suicidi (3 per ciascun mese), a febbraio e a luglio 12 (6 per ciascun mese) mentre a maggio e a giugno ne sono avvenuti rispettivamente 4 e 5. Il metodo prevalente per togliersi la vita è sempre quello dell’impiccamento (26 persone). Con le rivolte di marzo aumentati eventi critici - I dati al 30 aprile scorso indicano un forte aumento - causato dagli eventi dei primi mesi del 2020 - delle rivolte, che passano dalle 2 degli anni passati alle 37 di quest’anno. Per lo stesso motivo, gli isolamenti sanitari (1.567) sono quasi quattro volte il numero degli isolamenti sanitari messi in atto nel corso di tutto l’anno precedente (425). Stesso discorso per le manifestazioni di protesta collettiva (859) che sono i tre quarti di tutte le manifestazioni di protesta collettiva dell’anno scorso (1.188). In proporzione - si legge nel dossier - risultano leggermente più alti anche i numeri delle aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria - 311 rispetto alle 827 del 2019, degli atti di contenimento - 220 rispetto ai 488 del 2019 e di altre manifestazioni di protesta individuale - 4.388 rispetto ai 12.146 del 2019. Ripresi colloqui in presenza tra detenuti e familiari - Sono ripresi ovunque i colloqui in presenza tra i detenuti e i loro familiari dopo la sospensione per l’emergenza Covid. Lo riferisce l’associazione Antigone, che ha effettuato un monitoraggio su 30 carceri del Paese: solo in sei tra gli istituti monitorati, per lo più in Lazio ed Umbria, ci si è limitati alla misura minima prevista dalla legge, ossia di un colloquio al mese. Nel 60% la ripresa dei colloqui è stata più ampia, consentendo generalmente due colloqui al mese, effettuati adottando diverse misure di prevenzione (separazioni in plexiglass, mascherine, controllo della temperatura) ma varia significativamente il numero delle persone ammesse: molto spesso è consentito l’accesso ad un solo familiare ma in alcuni istituti i familiari possono essere due, un adulto ed un minore (ad esempio a Lecce, Caltagirone o Regina Coeli) o 3 come a Viterbo. Nonostante la ripresa dei colloqui, in 19 istituti, il 63% del campione preso in esame da Antigone, si continuano a concedere telefonate oltre i limiti in vigore prima della pandemia. Quanto alle videochiamate, sostanzialmente vengono effettuate ancora in tutti gli istituti oggetto del monitoraggio (86,7%). Nella maggior parte di questi però sono di fatto divenute alternative ai colloqui con i familiari, cumulabili con questi e conteggiati nel numero massimo di colloqui consentito. In pratica, attualmente, sta ai detenuti e ai loro familiari decidere se preferiscono fare il colloquio in presenza o una videochiamata. Nella maggior parte degli istituti monitorati sono riprese anche le attività che presuppongono l’ingresso di persone dall’esterno ma in 7 (il 23%) continua a non entrare nessuno da marzo o quando qualcuno entra, come a Prato, a Monza o a Siracusa per il rifornimento del magazzino vestiario per i detenuti indigenti, non ci sono comunque contatti con i detenuti. Quanto ai permessi, secondo i dati di Antigone risulta che i detenuti siano tornati ad uscire nel 60% degli istituti monitorati: variano però molto le misure adottate al rientro in carcere. In molti istituti (ad esempio Pavia, Velletri, Civitavecchia) al rientro vengono effettuati 14 giorni di quarantena, “cosa che - osserva l’associazione - scoraggia molti detenuti ad usufruire dei permessi”. In altri casi, come in Puglia, i detenuti, una volta rientrati, sono sottoposti a isolamento fiduciario di 72 ore. Vengono poi sottoposti al tampone il cui esito arriva nell’arco di qualche ora e a questo punto, se negativi, rientrano in sezione. Oltre 7mila i detenuti per mafia - I detenuti presenti in carcere con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali. A fine giugno 2020, invece, erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416-bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri. Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone al 41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%. Aumenta anche l’età media. I detenuti con più di 50 anni erano il 25,2% a fine giugno 2019 mentre un anno dopo erano il 25,9% dei presenti. Aumentano i detenuti in custodia cautelare - Continua a calare il numero dei detenuti in carcere condannati in via definitiva ma aumenta quello delle persone in custodia cautelare, “segno che sono tornati ad aumentare gli ingressi in carcere”, sottolinea Antigone, osservando che “a fine luglio 2019, i detenuti condannati in via definitiva erano il 68,6% dei presenti in carcere (il 64,5% tra i soli stranieri): a fine aprile 2020, calate notevolmente le presenze in carcere, i definitivi erano il 68,8% dei presenti (il 66% dei soli stranieri). Nonostante le misure deflattive previste riguardassero solo i detenuti con una condanna definitiva la percentuale di persone in custodia cautelare in questo intervallo era addirittura leggermente calata, ed il calo era più significativo tra gli stranieri. A fine luglio 2020 aveva una condanna definitiva il 66,8% dei presenti (il 64,8% tra i soli stranieri)”. Dal 2008 forte calo detenuti stranieri - Sono 17.510 gli stranieri in carcere al 30 giugno 2020, per una percentuale pari al 32,7% del totale della popolazione detenuta. Tale percentuale raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562. Al 30 giugno scorso, i 5 istituti penitenziari con il maggior numero di detenuti stranieri in termini assoluti erano: la casa circondariale di Torino (629 detenuti stranieri, 47,7% sul totale), quella di Milano San Vittore (514 detenuti stranieri, 59,2 % sul totale), quella di Roma Regina Coeli (502 detenuti stranieri, 51% sul totale), quella di Firenze Sollicciano (495 detenuti stranieri, 65,9% sul totale) e di Roma Rebibbia Nuovo complesso (461 detenuti stranieri, 32,6% sul totale). Di questi 5 istituti solo Firenze Sollicciano rientra tra i primi dieci con la più alta concentrazione in percentuale di stranieri, attestandosi al settimo posto. Carceri, si attenua l’effetto delle misure per contrastare il coronavirus tra i detenuti di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2020 Il rapporto di metà anno: tasso di affollamento sostanzialmente stabile. In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo tra le regioni. Si attenua l’effetto delle misure per contrastare il Covid-19 nelle carceri. È quanto emerge dal rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone dal titolo “Il carcere alla prova della fase 2” presentato oggi in diretta Facebook. L’8 marzo entravano in vigore, con il decreto “Cura Italia”, le prime misure atte a contenere i numeri della popolazione detenuta per contrastare la diffusione del coronavirus in carcere. Nei mesi successivi, si legge nel report, le presenze, “che peraltro già prima di queste misure erano iniziate a calare, raggiungevano a fine aprile le 53.904 unità. Tre mesi dopo, a fine luglio, le presenze in carcere, con 53.619 unità, restano sostanzialmente stabili”. Tra i detenuti 287 casi di contagio da coronavirus - Quanto invece alla diffusione del coronavirus negli istituti di pena, i casi totali al 7 luglio, dato disponibile più recente, sono stati 287 con un picco massimo nella stessa giornata di 161. Un numero contenuto, ma da non sottovalutare: in rapporto al totale della popolazione detenuta è infatti superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del paese. Focolai si sono riscontrati a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il Covid-19 hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. In calo il tasso di affollamento - Il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma stando al monitoraggio dell’associazione in 24 istituti supera ancora il 140% e in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il178,9%, Latina con il 197,4%). Il reale tasso di affollamento nazionale è inoltre superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti. In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo: -19,8% in Emilia-Romagna, -15,2% in Campania, - 13,9% in Lombardia, -11,0% in Piemonte, -7,4% in Sicilia, -7,3% in Veneto. Le Marche sono l’unica regione in Italia in cui la popolazione detenuta è nell’ultimo anno aumentata, con una crescita dell’1,1 per cento. Meno detenuti stranieri - Sono 17.510 gli stranieri in carcere al 30 giugno 2020, per una percentuale pari al 32,7% del totale della popolazione detenuta. Questa percentuale raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562. Le cinque regioni con la più alta presenza in percentuale di stranieri detenuti negli istituti penitenziari sono la Valle d’Aosta (68,8%), il Trentino Alto Adige (63,6%), la Liguria (54%), il Veneto (53,2%) e la Toscana (49,7%). Sono comunque sopra la media nazionale (al 32,7% il 30 giugno 2020) l’Emilia-Romagna (49%), la Lombardia (43,4%), il Friuli Venezia Giulia (41,7%) e il Piemonte (40,4%). Sono al di sotto della media nazionale la Calabria (19,2%), l’Abruzzo (18,4%), la Sicilia (17,9%), la Campania (14,1%), la Puglia (13,7%) e la Basilicata (11,7%). In media gli stranieri sono più giovani degli italiani - In media i detenuti stranieri sono più giovani degli italiani. Al 30 giugno 2020 avevano tra i21 e i 44 anni il 79,2% dei detenuti stranieri, contro il 50,7% dei detenuti italiani. Gli stranieri tra i 18 e i 20 anni sono il 2% dei detenuti stranieri totali (gli italiani lo 0,8%). Per quanto riguarda la posizione giuridica dei detenuti stranieri, al 31 luglio 2020, gli stranieri in custodia cautelare sono il 34,7% degli stranieri presenti, a fronte del 31,5% degli italiani. Per gli stranieri il ricorso alla custodia cautelare è evidentemente più frequente. Gli stranieri commettono reati meno gravi che vengono puniti con pene mediamente più basse. Il 57,8% dei detenuti stranieri condannati ha una pena inflitta inferiore o uguale a 5 anni. Per gli italiani questa percentuale è del 35 per cento. Jhonny era un rapper, non un numero di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 11 agosto 2020 Uno dei 34 detenuti morti suicidi dall’inizio dell’anno. Una giustizia anonima e burocratizzata lo aveva messo dentro per avere violato le norme sulla detenzione domiciliare. Il suo malessere è stato trattato con quel manicheismo repressivo che non ammette pietà. La pena è una sanzione, ma come ci raccontano i dizionari, è anche sinonimo di sofferenza. Una sofferenza che ha portato il povero Jhonny Cirillo, giovane rapper venticinquenne di Scafati, a suicidarsi nel carcere di Salerno. Jhonny è uno dei 34 detenuti suicida dall’inizio dell’anno. Una percentuale purtroppo in aumento rispetto all’anno scorso, segno che la pandemia ha aumentato il tasso di sofferenza. Ogni suicidio è comunque segno di disperazione individuale. Per questo non vanno cercati i capri espiatori tra coloro che hanno mere funzioni di custodia. Non vanno colpevolizzati coloro che non avrebbero sorvegliato minuto per minuto l’aspirante suicida. Il compito delle istituzioni sociali, sanitarie e penitenziarie non è togliere al detenuto il lenzuolo o la cintura dell’accappatoio per evitare un’impiccagione, ma togliergli la voglia di suicidarsi, attraverso l’ascolto, la cura, il dialogo. Il sovraffollamento rende le persone detenute anonime. La loro disperazione, la loro solitudine non è intercettata da operatori, medici, educatori. Così i detenuti restano soli con le loro paure e angosce. Jhonny non avrebbe dovuto stare in carcere. Aveva commesso piccoli reati. Una giustizia anonima e burocratizzata lo aveva messo dentro per avere violato le norme sulla detenzione domiciliare. Il suo malessere è stato trattato con quel manicheismo repressivo che non ammette pietà. A Jhonny e alla sua famiglia è stato dedicato il rapporto estivo sulle carceri presentato da Antigone ieri. In sintesi alcuni numeri che qualificano la condizione d vita negli istituti penitenziari in questa estate 2020. Permane un preoccupante elevato tasso di sovraffollamento (numero di detenuti rispetto alla capienza regolamentare), pari al 106%, secondo i dati ufficiali, ma sicuramente più alto se si considerano reparti e sezioni chiusi per varie ragioni. A fine luglio, le presenze in carcere erano 53.619, alcune migliaia in meno rispetto a febbraio 2020, ossia quando si è creata la necessità di ridurre gli spazi nelle carceri per evitare che queste si trasformassero, al pari delle residenze per anziani, in focolai pericolosi per la salute dello staff, dei detenuti e dell’intera comunità territoriale. Si consideri che in 24 istituti il tasso di affollamento supera il 140% ed in 3 il 170% (Taranto, Larino e Latina). Ad oggi il numero totale dei detenuti contagiati è stato inferiore alle 300 unità. Fortunatamente, grazie all’impegno di tanti procuratori, magistrati di sorveglianza, direttori, medici c’è stato un calo della popolazione detenuta di circa 8 mila unità tra febbraio e maggio. Ciò ha consentito di evitare la deriva degli Usa, dove il numero totale dei detenuti contagiati è superiore addirittura a 100 mila e sono 805 i detenuti morti per Covid, un numero che corrisponde al totale dei morti che si ha in 5 anni negli istituti di pena italiani. Il risultato italiano va capitalizzato, mantenendo alte le misure deflattive (lo ha ribadito in un documento recente la Conferenza Stato-Regioni) e preventive, nonché attraverso la messa a disposizione di mascherine, sapone, gel igienizzante e soprattutto adeguati spazi fisici. Un paio di dati vanno sottolineati, tra i tanti presenti in questo Rapporto di piena estate: il 52,6% dei detenuti - pari a ben 18.856 persone - condannati in via definitiva, deve scontare meno di tre anni di carcere, con conseguente possibilità di accesso a misure alternative. Posto che un detenuto costa in media circa 150 euro al giorno (costi che ovviamente comprendono la retribuzione dello staff e la manutenzione delle strutture), mentre una persona in misura alternativa costa allo Stato circa dieci volte di meno, attraverso progetti mirati e individuali di recupero sociale all’esterno si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro se solo la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la propria pena. Inoltre è dimostrato che il tasso di recidiva si abbatte nelle persone che non scontano per intero la pena in carcere. Un secondo dato riguarda il tema sensibile degli stranieri detenuti. Contro ogni stereotipo interpretativo, negli ultimi 12 anni la percentuale degli stranieri detenuti è scesa dal 37% all’attuale 32,7%. Un calo vistoso anche in termini assoluti: ci sono 4 mila stranieri in meno nelle prigioni italiane mentre è raddoppiata la popolazione straniera residente libera nel nostro Paese. Numeri che dovrebbero essere urlati contro i post xenofobi di politici privi di argomenti razionali. Lo spettacolo degradante e grossolano che va in scena ogni giorno nelle carceri di Guido Vitiello Il Foglio, 11 agosto 2020 La pena carceraria ci identifica senza residui con il crimine e ci sequestra per intero. Cari piccoli ostaggi, il vostro sequestratore vi dà il benvenuto a bordo della Open Bars. Nulla a che fare con gli alcolici gratis, si tratta solo di sbarre aperte: ma attenti, non è un inno all’evasione o un’invocazione dell’amnistia (che pure sarebbe utile); piuttosto, prendetelo come un invito a ficcare il naso tra le sbarre del carcere come tra i tendaggi di un sipario, e a osservare a mente sgombra, prima che ci si accampino come nubi turrite le mille spiegazioni, razionalizzazioni e giustificazioni, la pièce che va in scena là dentro tutti i giorni, a beneficio di un pubblico fantasma. Si intitola “Umani in gabbia”. Vi piace? Non sono un critico teatrale, ma vi dirò: a me pare uno spettacolo degradante, grossolano e intimamente assurdo. Degradante, perché non rende migliori né gli attori-detenuti, né gli impresari-carcerieri né noialtri che passiamo distrattamente accanto a quei teatri dalle cortine blindate. Grossolano, perché c’è un divario abissale tra una scienza giuridica che si fa sempre più sottile e ricca di sfumature e una pena che è ferma al giardino zoologico. Assurdo, infine, per la sproporzione intrinseca e vorrei dire metafisica tra il delitto, che riguarda sempre una provincia delimitata della nostra persona (i soldi, il lavoro, ecc.), e la pena carceraria, che ci identifica senza residui con il crimine e ci sequestra per intero, come io sto facendo con voi, piccoli ostaggi. Compito per casa: un libro di quattro studiosi, “Sulla pena. Al di là del carcere” (Liberilibri), introdotto da Giovanni Fiandaca. Sapete? Già da piccolo lo spettacolo degli umani in gabbia mi pareva così raccapricciante che avrei voluto far di tutto perché andasse in scena il meno possibile. Così sono diventato (scusate la parolaccia) garantista. Persino con Cutolo, lo Stato si distingue se ha la forza di tutelare la persona umana di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 11 agosto 2020 Il diritto alla dignità di un 80enne malato non può cedere alle esigenze di esecuzione della pena. Almeno ad articolo 27 invariato. solo due alternative: cambiare Costituzione. O Paese. Scrivere di carcere è diventato assai difficile. Il rischio di essere fraintesi - in certa misura fisiologico su temi così delicati - è oggi una quasi matematica certezza. Ci sarebbe da chiedersi cosa sia cambiato nella terra di Beccaria, perché sia diventato così complicato ragionare su temi cruciali del vivere collettivo; se non fosse che anche le possibili risposte corrono sul crinale del misunderstanding epistemologico. Proviamoci lo stesso però, partendo da un esempio, come ce ne sono tanti. Raffaele Cutolo ha commesso efferati delitti; ha meritato diversi ergastoli; li sta scontando da lunghissimo tempo (dei suoi 79 anni, ne ha trascorsi in detenzione circa 55 e 25 di questi al regime del 41bis o carcere duro, come lo chiama più spesso chi di carcere sa poco o nulla). Raffaele Cutolo, come tutti i detenuti, è un uomo: la loro dignità e il loro diritto alla salute non possono essere conculcati a nessun costo e per nessuna ragione, perché essi restano uomini e non sono la somma dei delitti che hanno commesso. Entrambi gli assunti sono incontestabili: se non li si può condividere integralmente è pressoché inutile proseguire nella lettura. Meglio una birra fresca, lo sguardo fisso all’orizzonte. Se invece si è scelto di andare avanti, si converrà che la questione attinge la ragione stessa del carcere come reazione all’illecito e che la partita si gioca proprio sull’equilibrio tra quei due cardini del sistema. In altre parole, ciò che definisce la giustezza della sanzione è l’equilibrio tra la necessità di far sì che essa sia proficua e l’impedire, al contempo, che annichilisca il punito. Che poi sono due prospettive diverse per rispondere alla stessa domanda: perché gli individui vanno in carcere? A ben vedere la questione è tutta lì; basta accordarsi sul perché si finisce in carcere e il gioco è fatto. Però, nell’accordarsi, sarà bene tenere a mente innanzitutto che il rischio più grave nell’operare scelte così è quello di indulgere alla tentazione di vellicare gli istinti bassi di una collettività nutrita a fandonie e urla da certe stampa e politica, non sempre acculturate in materia e a volte nemmeno in buona fede. Ma sarà pure bene tenere a mente che i Padri costituenti la scelta in realtà l’han già fatta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” (Art. 27 della Costituzione). Dunque, se ci si vuole discostare da questa visione, sarà bene operare per cambiare la Carta. Oppure emigrare. Posto però che le modifiche alla Carta sul punto richiedono risorse politiche (e, prima, culturali) che non si scorgono all’orizzonte e ipotizzando pure che nessuno voglia lasciare il Belpaese, non resta, per il momento, che attraccare sul molo solido e sicuro dell’articolo 27. Adesso torniamo all’esempio, fissando preliminarmente tre punti. Primo punto. Quale potenziale rieducativo può esprimere una pena eseguita quasi ininterrottamente per tempi lunghissimi (nell’esempio in discorso 55 anni) e senza la prospettiva nemmeno teorica di una risocializzazione del reo? Una pena così, non solo non rieduca, ma deresponsabilizza, perché sterilizza in radice ogni pulsione redimente, cancellando, subito e per sempre, la prospettiva anche solo teorica del rientro in società. Secondo punto. Cosa hanno a che vedere l’esecuzione della pena e la sua funzione rieducativa con la sospensione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario (leggi: 41- bis)? Nulla. Lo scopo della sospensione trattamentale - sarà bene informarne lo stuolo di non sempre consapevoli sostenitori - è quello di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza (qualunque cosa con ciò si voglia intendere) interrompendo i contatti del detenuto con la consorteria di riferimento. Terzo punto. Alla domanda se il diritto alla salute sia recessivo rispetto alle esigenze che l’esecuzione della pena e la sospensione trattamentale mirano a tutelare, la risposta è no. Checché ne pensino coloro che, con giugulari gonfie o penne leziose e fintamente ironiche, quotidianamente invocano l’inasprimento del “carcere duro” e l’innalzamento scriteriato delle pene, il diritto alla salute resta prioritario e i diritti vanno sempre garantiti, persino a coloro che hanno avuto sprezzo di quelli altrui. Ora, se per davvero Cutolo (e il discorso è identico quale che sia il nome del detenuto) è oramai un inerte ottantenne, ridotto su una sedia a rotelle e privo di reazioni, affetto da plurime e invalidanti patologie e incapace persino di portare una bottiglietta d’acqua alla bocca, e se non risultano contatti attuali con consorterie criminali, consegue che né le ragioni della pena, né quelle del trattamento di rigore hanno più la possibilità di essere onestamente invocate per mantenerlo in detenzione carceraria a dispetto della condizione di salute o addirittura per rifiutare l’accesso in carcere del medico di fiducia dei suoi familiari. Ciò che distingue lo Stato dal criminale è proprio la capacità di rispettare il diritto, che del primo è l’essenza, togliendo al reo solo ciò che gli va tolto (la libertà) e mai, proprio mai, ciò che gli appartiene ineluttabilmente e che nessuno quindi, men che mai lo Stato, ha il diritto di togliergli (la dignità). Esiste ancora una differenza tra il carnefice, la vittima e lo Stato. Chi deve lo affermi con chiarezza. Oppure emigri. *Avvocato, consigliere della Camera penale di Roma Sorpresa: adesso sono i 5 Stelle il vero partito “anti-magistrati” di Errico Novi Il Dubbio, 11 agosto 2020 “Addio al protagonismo delle toghe”: la riforma del Csm secondo Crimi e C.. Erano pronti a dirsi sì: il Movimento 5 Stelle da una parte, Nino Di Matteo dall’altra. Prima delle Politiche 2018 si dava per fatto il connubio. Poi è venuto il caso Giletti, la lite con Bonafede, le insinuazioni sgradevolissime sull’incarico da ministro dell’Interno sfumato in coincidenza con i ruggiti contrari dei mafiosi al 41 bis. Ora 5 Stelle e Di Matteo si trovano schierati su fronti opposti a proposito di riforma del Csm: i primi ovviamente stretti attorno alla legge delega del guardasigilli, il secondo contrariato dall’assenza di argini al fenomeno degli incarichi fuori ruolo attribuiti dal governo alle toghe. Ma si tratta di una contrapposizione emblematica, che corrisponde a un contrasto più generale: il partito di Bonafede, autore della riforma, è sempre più chiaramente il partito della linea dura sulle toghe. A quattro giorni dal varo del ddl in Consiglio dei ministeri, continuano ad arrivare conferme della imprevista mutazione anti- toghe compiuta dal Movimento. Nelle ultime ore sono intervenuti il capo politico Vito Crimi, il neoeletto presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Mario Perantoni, la vicepresidente della stessa prima commissione Elvira Evangelista. È lei in particolare a soffermarsi sul potere taumaturgico di una riforma in grado di “gettare le basi di una nuova magistratura, che sia più equilibrata” e di tenere “il protagonismo fuori dalle porte della giustizia”. Non sono parole riducibili alla posizione della singola parlamentare. Anche se non ricorre quell’espressione davvero sorprendente, “protagonismo”, concetti simili tornano anche nei comunicati di Crimi e Perantoni. Soprattutto torna l’enfasi sul divieto di rientro in magistratura di giudici e pm che scegliessero la politica. Il cosiddetto “stop alle porte girevoli”. Al di là dei dettagli sul sorteggio o sulla distinzione fra chi al Csm svolge funzioni disciplinari e chi si occupa di nomine, il partito del ministro ha deciso di intestarsi l’asserita stroncatura del collateralismo, delle sovrapposizioni fra politica e giudici. Comunque sia una posizione del genere segna una linea di separazione irreversibile fra i Cinque Stelle e l’ordine giudiziario. È un punto di non ritorno. Scritto, a ben guardare, nel dna del Movimento, antropologicamente contrapposto a qualsiasi élite. L’ostilità è stata a lungo mascherata da un equivoco: le posizioni rigoriste, giustizialiste dei pentastellati in materia penale hanno fatto credere che potesse crearsi una saldatura, se non con tutta l’Anm, almeno con i settori più intransigenti, favorevoli al diritto penale totale, Davigo in primis. Equivoco alimentato da un paio di episodi. Prima le voci, evidentemente artefatte dal circuito mediatico, di un incarico a Piercamillo Davigo in un eventuale monocolore grillino, circolate ben prima delle Politiche 2018. Poi l’intervento di un magistrato che con l’ex pm di Mani pulite ha fondato e tuttora anima Autonomia e Indipendenza, ossia Sebastiano Ardita, alla convention su Casaleggio della primavera 2017. Non si trattò di un endorsement, né dalla stipula di un’alleanza. Solo di un contributo cortese, certo non da pm organico. Fatto sta che tra le bizzarrie della discussione sulla magistratura c’è il nuovo ruolo di Bonafede e soprattutto del suo partito. Il ministro ha enfatizzato, subito dopo il via libera al suo ddl, il colpo inflitto alle degenerazioni del correntismo. A ruota sono venuti altri esponenti 5 Stelle, con Perantoni che ha celebrato la riforma mirata “a fare spazio ai candidati indipendenti” e all’”azzeramento delle correnti”. Azzeramento: espressioni che dalle parti del Pd non si sentirebbero mai. Nella linea del sottosegretario Andrea Giorgis e degli altri “delegati” sulla giustizia (che in futuro vedrà meno impegnato Walter Verini, divenuto, da responsabile di settore, tesoriere del partito) permane la difesa del pluralismo culturale. Si considera intangibile il diritto della magistratura associata a organizzarsi in correnti, a partecipare alle elezioni per il Csm, insomma a esistere. E certamente la differenza dal M5S si percepirà in modo netto durante l’esame parlamentare. Soprattutto sul “sorteggio residuale” previsto per eleggere i togati. All’Anm non piace: “È una risposta demagogica”, recita un comunicato diffuso lo scorso fine settimana dalla giunta di Luca Poniz. Che pure esprime “apprezzamento” per le diverse misure della legge delega evocative di “proposte” maturate nel “dibattito interno ai magistrati”. Sul sorteggio ci sarà tensione. Non solo fra Anm e Parlamento, ma soprattutto fra Pd, più attento alle ragioni del pluralismo associativo, e Movimento 5 Stelle, che in realtà aveva sposato l’opzione sorteggio fin dall’inizio. Nella versione della riforma proposta un anno fa da Bonafede a Salvini, c’era il sorteggio integrale dei candidabili. Non ci si poteva proporre come consiglieri superiori se non si faceva parte di una ristretta cerchia di magistrati estratti a sorte: 100 per ciascuno dei 19 collegi. Solo lo scorso autunno, mesi dopo la nascita del Conte 2, Bonafede ha iniziato a concedere le prime aperture: “Se si trova una soluzione altrettanto efficace per limitare il potere delle correnti, sono disponibile a discuterne”. Da lì è iniziato il lungo confronto che ha portato all’uninominale a doppio turno, corretto in extremis con il sorteggio dei candidati mancanti qualora in un determinato collegio non ve ne fossero almeno 10 spontanei, oltre che rispettosi della parità di genere. Tutti dicono di voler lasciare al Parlamento piena facoltà di svolgere le audizioni e di modificare eventualmente il testo del ddl. Bene. Quando toccherà all’Anm farsi audire, arriveranno le critiche già anticipate nella nota di sabato - e prima ancora, al Dubbio, da due leader dell’associazionismo giudiziario come Eugenio Albamonte e Antonio Sangermano. Cosa farà il Pd? Darà ascolto a queste voci? Se sì, si radicalizzerà ancora di più la posizione “anti-correnti” dei 5 Stelle. Che diventeranno in maniera conclamata quello che in realtà sono già abbastanza chiaramente ora: un partito distante dalla magistratura organizzata. In sintonia forse con quei segmenti dell’ordine giudiziario radicalmente ostili alle correnti: nelle ultime settimane si sono raccolti attorno al blog “Uguale per tutti” (toghe.blogspost.com). Ecco, con loro sì che il Movimento di Beppe Grillo potrà trovarsi in sintonia. Ma certo sarà tramontata per sempre la leggenda dei pentastellati avamposto di un assalto togato al potere. Sarà il contrario: si batteranno per spuntare gli artigli all’associazionismo giudiziario. Giustizialisti sì, ma non per questo pronti a consegnare le leve del comando all’Anm. Perché sempre di un’élite si tratta. Ecco l’imbroglio al Csm che non cambia di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 agosto 2020 La riforma del sistema di voto nasconde l’inghippo: conserva il correntismo. La delega alla riforma del Consiglio superiore della magistratura che il governo ha deciso di chiedere al Parlamento viene presentata dal ministro della Giustizia come la norma che porta alla dissoluzione del sistema correntizio che affligge da anni il sistema giudiziario e che è esploso con il caso Palamara. Ma è proprio così? C’è una norma che vieta ai membri del Csm di organizzarsi per gruppi, ma si tratta solo di una petizione di principio, facilissima da aggirare. Invece il meccanismo di elezione dei togati nel Consiglio è il punto cruciale, visto che è l’organizzazione per correnti dell’elettorato la base del potere correntizio. Il numero dei consiglieri aumenta (chissà perché, visto che si fa tanta propaganda sulla riduzione dei parlamentari) e avviene sulla base di 19 collegi uninominali. Potrebbe essere una misura che taglia le unghie al correntismo, se non fosse che il meccanismo è davvero molto strano: per essere eletto al primo turno nel suo collegio un magistrato deve ricevere almeno il 65 per cento dei voti, se nessuno raggiunge questa altissima percentuale si va al ballottaggio tra i quattro che hanno ottenuto più voti. I sistemi uninominali normalmente o sono a turno unico, come in Gran Bretagna, e passa chi ha più voti, o a doppio turno come in Francia, e vanno al ballottaggio i due candidati più votati. A che cosa serve, dunque un sistema così “strano” se non a consentire alle correnti di “scambiarsi i collegi come figurine”, come ha osservato un dirigente di Magistratura democratica? Si discute molto dell’assegnazione per sorteggio alle diverse commissioni dei membri del Csm, ma non ci si occupa abbastanza del particolare sistema elettorale che sembra studiato apposta per far rientrare dalla finestra il correntismo spartitorio che si dice di far uscire dalla porta. La delega è lunga, deve essere discussa in Parlamento, il che permetterebbe, se si fosse trattato di un errore involontario, di correggerlo. Se invece si insisterà per mantenerlo sarà ragionevole sospettare che la foga anti-correntizia di Alfonso Bonafede è solo una foglia di fico. “Attenti, a ottobre l’Anm va al voto: ne uscirà più forte e farà muro sul nuovo Csm” di Errico Novi Il Dubbio, 11 agosto 2020 Intervista a Giorgio Spangher professore di Diritto penale della Sapienza. “Si sottovaluta un aspetto politico: la magistratura non è come appare ora. Sarà un’altra. Perché con un Csm piuttosto indebolito dai motivi che sappiamo, sarà l’Associazione a interloquire con il Parlamento sulla riforma. Ma lo farà a pieno titolo, con una compagine nuova, dopo il voto che a ottobre ne rinnoverà i vertici”. Giorgio Spangher al Csm ci è stato, come laico. Si è trovato nella consiliatura più incandescente: “Quadriennio 2002- 2006. C’era Rognoni, c’erano Berlinguer, Menditto, Cesare Salvi. E soprattutto c’era il conflitto permanente con Berlusconi, che aveva disegnato ben altra riforma dell’ordinamento giudiziario. In quella dialettica accesissima il Consiglio superiore fu a tutti gli effetti il polo politico, assai più dell’Anm. Oggi è il contrario”, ricorda il professore di Diritto penale della Sapienza, “e per capire quale forza avrà la magistratura nel contestare gli aspetti sgraditi della legge delega, dovremo attendere l’esito delle elezioni di ottobre”. La linea dialogante dell’attuale giunta, presieduta da Poniz, non è il vero volto dell’Anm? Adesso Poniz deve assumere una posizione meno sbilanciata. È una giunta in prorogatio, da molti mesi. Già un anno fa, dopo il caso Palamara, una parte delle correnti si pronunciò a favore del voto anticipato. La componente di cui Poniz è espressione, dunque innanzitutto Area ma anche Unicost, ritenne che i tempi non fossero maturi. Poi è arrivato il covid che ha fatto saltare le elezioni della scorsa primavera. Insomma, l’orologio della magistratura associata porta quasi un anno di ritardo, ma è chiaro che dalla loro consultazione associativa potrebbe uscire una maggioranza politica più chiara, rafforzata, che avrà dunque mandato per interloquire con il Parlamento e il governo con toni più risoluti, a cominciare dalla questione del sorteggio. Insomma, non è il caso di dare per chiuso lo schema di riforma uscito venerdì dal Consiglio dei ministri: rischiamo di aver fatto i conti senza il titolare dell’osteria... Anche se a mio giudizio non si verificherà un conflitto neppure lontanamente paragonabile a quello dei primi anni Duemila. Il caso Palamara suggerisce comunque di misurarsi con prudenza. Lo suggerisce ai magistrati, intendo, ma anche i partiti potrebbero non spingersi troppo oltre, per esempio sul sorteggio. D’altronde c’è un presidente della Repubblica che una riforma la considera necessaria, lo ha fatto intendere in più di un’occasione in cui è intervenuto da presidente del Csm. Anche per questo, il banco non è destinato a saltare. Il presidente dell’Ucpi Caiazza dice: attenti, rischiamo di avere un Csm egemonizzato dalle Procure... Da una parte dovremmo considerare quanto ricorda il presidente Caiazza: non ci sarà più il doppio canale riservato, uno per i requirenti e l’altro per i giudicanti. In tutti e 19 i collegi, in teoria, potrebbe vincere sempre un pm o sempre un giudice, certo. Però va anche detto che i magistrati giudicanti sono in maggioranza. Credo che il peso dei requirenti nel futuro Csm, ammesso che la riforma sarà in vigore alla scadenza del Consiglio attuale, dipenderà sempre dall’esito del voto per l’Anm. Se ne uscirà una maggioranza nitida, il peso generale delle correnti continuerà a farsi sentire anche nell’elezione dei togati. E in quel caso la tradizionale prevalenza di candidati pm potrebbe confermarsi. Certo è difficile che si abbia una Anm condotta da una “maggioranza di tutti”, come è avvenuto all’inizio del quadriennio ormai concluso... Sì, all’epoca si decise di fare una turnazione: quattro correnti, tutte in maggioranza, un anno di presidenza a testa in modo da completare pacificamente il quadriennio. Adesso l’assetto pare sia molto più polarizzato, si avrà una maggioranza e un’opposizione. Sulla separazione delle funzioni tra pm e giudice ci si è limitati a ridurre da 3 a 2 i passaggi consentiti: non è poco? Il discorso relativo al Csm, certo non nel suo momento di massima forza politica, in parte riguarda anche il governo: sulla giustizia non ci si poteva aspettare un esito dirompente, considerato che sull’ordinamento in senso stretto è più conservativo il Movimento 5 Stelle, sulle correnti è meno tranchant il Pd, il cui peso non va dimenticato. Nel ddl c’è il potere, che pure rafforza le Procure, di definire priorità fra i reati da perseguire: l’obbligatorietà dell’azione penale non andrebbe superata con una modifica costituzionale? Sul punto bisogna essere chiari. Attualmente la scelta dei reati da perseguire è per certi aspetti dettata, seppur in via indiretta, dalla legge ordinaria. Nel momento in cui esistono delitti per i quali sono consentite misure cautelari, già se ne determina un ordine di priorità. Inoltre, spesso è il pm a lasciare volontariamente su un binario morto diversi fascicoli. E qui siamo alla contestazione dell’Unione Camere penali: l’obbligatorietà, ricordano, è arbitrariamente aggirata dal singolo sostituto procuratore che, a ordinamento vigente, può decidere quali reati lasciar marcire nell’attesa della prescrizione. Ed è meglio una decisione del procuratore capo che del suo sostituto? Mi segua. Certamente è meglio sottrarre la scelta al singolo pm. Dopodiché una norma simile alla fine consisterà nella regolazione concordata di linee guida a livello distrettuale: non deciderà il capo della singola Procura. Il vertice dell’ufficio capoluogo di distretto si confronterà con i procuratori delle altre sedi e nel Consiglio giudiziario. Ci sarà plausibilmente un contributo del Consiglio superiore sul piano delle indicazioni generali. Io non vedo una clamorosa distorsione, quanto meno rispetto alla prassi: diciamo che viene normato un fenomeno già in atto. Andiamo verso una stagione di confronto serrato, ma non di rottura. Mi sento di pronosticarlo proprio per aver vissuto da consigliere Csm una fase in cui le rotture erano permanenti. E oggi quelle condizioni non esistono più. “Io, sotto scorta, sento la solitudine” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 11 agosto 2020 Giletti: se altri si fossero occupati delle scarcerazioni non avrei bisogno di protezione. “Cosa provo? Profonda tristezza e senso di solitudine”. Massimo Giletti è sotto scorta da due settimane. A fine maggio il boss di Cosa Nostra Filippo Graviano in carcere, lamenta che il giornalista gli sta “rompendo la m...”. Da qui la decisione. “E se il Viminale mi ha assegnato la scorta vuol dire che nel mio programma Non è l’Arena abbiamo toccato qualcosa di grave e di molto pericoloso”. A fine maggio il boss Filippo Graviano in carcere si lamenta di quel giornalista che gli sta “rompendo la m...”. Ieri la notizia: da due settimane il conduttore di Non è l’Arena è sotto scorta. Massimo Giletti come ha accolto la decisione? “Profonda tristezza. Senso di solitudine. Se il Viminale mi assegna la scorta vuol dire che nel mio programma abbiamo toccato qualcosa di grave e molto pericoloso. Ma essere un unicum ti espone. Diventi obiettivo. È quello che faccio più fatica ad accettare”. A quali argomenti pericolosi si riferisce? “Alle puntate che abbiamo dedicato alle scarcerazioni dei boss mafiosi dopo la rivolta nelle carceri”. È ancora convinto che le due cose siano legate? “Erano anni che non c’erano rivolte nei padiglioni bassi. Stranamente dopo essere costate diverse vite e oltre 30 milioni di euro di danni, all’improvviso si sono fermate. Non vorrei che nel Paese delle trattative ci sia stato un accordo”. I provvedimenti successivi? “Non hanno risolto la situazione. Malgrado le nuove norme molti detenuti pericolosi non sono affatto tornati in carcere. E in ogni caso aver lasciato criminali come quelli sul territorio è stato un danno irreparabile. E il fatto che ora io sia un obiettivo significa che le nostre inchieste hanno colpito nel segno. Nonostante qualcuno abbia sostenuto il contrario”. C’è chi ha scritto che era diventato salviniano. È così? “Ho fatto sempre la mia strada. Non ho mai pensato di dover piacere per forza a chi appartiene ai salotti bene di Roma e ti guarda un po’ con la puzza sotto il naso perché non fai parte degli intellettuali di sinistra. Ma mi è sembrato un alibi banale per non occuparsi dei temi che avevamo sollevato. Se tutti se ne fossero occupati forse ora non avrei bisogno della scorta”. Parla di colleghi o di responsabili istituzionali? “Dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ancora mi aspetto una presa di distanze da quelle parole di Filippo Graviano, intercettate dal Gom. Mentre a me e al magistrato Nino Di Matteo dava dei rompiscatole, lo lodava dicendo: “Fa il suo lavoro”. E siccome non parliamo di un criminale qualsiasi ma dello stratega politico della mafia le sue parole hanno un peso ben preciso. Quindi non basta fare telefonate private di circostanza. Bisogna prendere una posizione pubblica. Ancora la aspetto. E però...”. E però? “E però quando un criminale di spessore come Benedetto Capizzi si rammarica che se non ci fossimo stati noi sarebbe tornato a casa, ti fa male pensare che altri colleghi non hanno ripreso le nostre inchieste su quello che è successo davvero, il ruolo dell’ex capo del Dap, Francesco Basentini, il retroscena da noi svelato sulla sua nomina dopo la proposta fatta a Di Matteo”. Deluso da qualcuno? “Marco Travaglio, giornalista che ho sempre stimato e difeso, ha definito il mio programma un covo di mitomani e siccome ho avuto ospiti come Catello Maresca, Di Matteo, Sebastiano Ardita, Luigi de Magistris, Antonio Ingroia e Sandra Amurri, mi sconforta. Proprio perche Il Fatto Quotidiano è il giornale simbolo dell’Antimafia”. Ci sarà stato anche qualcuno che le è stato di conforto. Chi? “Mi ha fatto piacere ricevere la telefonata del mio vecchio maestro, Giovanni Minoli”. Anche il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Beppe Giulietti, le ha offerto solidarietà a dispetto di chi gli chiedeva di tacere... “Mi fa piacere la solidarietà. Ringrazio. Ma gli chiederei la gentilezza e il coraggio, visto il ruolo che ha, di dire chi lo ha chiesto. Sarebbe opportuno tirar via i sepolcri imbiancati”. La scorta non è arrivata dopo le parole del boss, ma dopo la loro pubblicazione. Cosa ne pensa? “È un altro tassello misterioso. Non posso pensare che le istituzioni non sappiano quello che avviene se non lo leggono su un libro o su un giornale. C’è qualcuno che ha tenuto tutto nel cassetto. Se avrà voglia, un giorno me lo spiegherà”. A fine settembre riparte il suo programma su “La7”, tornerà su quei temi? “Molta gente semplice mi dice “vai avanti”. Una nonnetta, giorni fa, in un paesino vicino a Marsala, mi ha chiamato, ha tirato fuori un barattolo di melanzane sott’olio e offrendomelo ha detto a suo nipote: “Questo è un uomo vero”. Credo sia un dovere fare luce su verità in ombra. Mi costerà. Ma non posso tirarmi indietro”. Cancellare un reato non basta ad alleggerire la nostra giustizia di Pasquale Troncone* Il Riformista, 11 agosto 2020 Se si analizzano le fonti del diritto penale degli ultimi venti anni, lo stato dei Tribunali e delle carceri, si comprende come il sistema democratico italiano collida con la cultura della punizione espressa dalla Costituzione. La classe politica contrasta iniziative di tipo clemenziale, come amnistia e indulto, e depenalizzanti per ridurre le innumerevoli ipotesi di reato, mai praticate e a volte impraticabili, che costituiscono l’apparato punitivo. È difficile intuire la logica per cui, ad esempio, si abrogano le due ipotesi di delitto di trattamento illecito di dati personali per sostituirle con ben sette fattispecie, compresa quella dell’articolo 612- ter del codice penale. C’è una “finta” riduzione del quantitativo delle norme penali com’è accaduto con la depenalizzazione realizzata attraverso i decreti legislativi 7 e 8 del 2016. Si tratta di scelte legislative che sembrano enfatizzare gli aspetti repressivi, ma che, in realtà, si perdono nella palude della inoperatività. L’apparente eliminazione di un reato finisce per dare vita a una diversa incolpazione in un diverso procedimento, amministrativo secondo i canoni della legge 689 del 1981, o civile, come nel caso dell’ingiuria depenalizzata nel 2016. In altri termini, fattispecie incriminatrici, decriminalizzazione o depenalizzazione spariscono dal settore dell’ordinamento penale per trasfigurarsi nell’ambito di un settore diverso. Queste scelte rappresentano un oggettivo alleggerimento dell’ordinamento nel suo complesso? I due scenari rappresentati, clemenza e depenalizzazione, non sono praticabili perché non convenienti elettoralmente e, dunque, non in sintonia con le attuali scelte del Governo e del Parlamento. Tuttavia, in questa stagione di penalità a ogni costo compaiono scelte normative che, sfuggendo all’attenzione della classe politica, si pongono in aperta controtendenza con lo sventolato rigore punitivo. Gli effetti elusivi dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova e l’esclusione della punibilità per la “particolare tenuità del fatto” stabilita all’articolo 131bis del codice penale si presentano come soluzioni antitetiche alle tesi coltivate per affermare la “certezza della pena”. La messa alla prova è la dimostrazione di un sistema che fa la faccia feroce ma cede il suo rigore attraverso una serie di tecnicalità elusive della responsabilità penale: una sorta di depenalizzazione ad personam. L’articolo 131bis, che esclude la punibilità, è invece l’espediente per cancellare dal mondo del processo fatti che, pur rivestendo una indiscutibile illiceità penale, si appalesano di quasi nullo allarme sociale: una sorta di decriminalizzazione di fatti per la loro minima rilevanza che, tuttavia, continuano ad essere reato e ad essere sottoposti al giudice del dibattimento. Tuttavia, continua a permanere nel nostro sistema la norma dell’articolo 626 che punisce i furti di minima entità e addirittura il raspollamento o la spigolatura dei fondi dopo la mietitura. Può essere considerata una norma attuale quella che punisce un soggetto che va a raccogliere le spighe di grano lasciate nei campi e non trebbiate? Occorre, dunque, ripristinare una penalità coerente con il canone di legalità sancito dalla Costituzione. Da qui il superamento dell’idea carcerocentrica del diritto penale. Occorre, allora, pensare alla restrizione della libertà personale da declinare in forme prescrittive e temporaneamente inabilitative, ma espiate fuori dal contesto carcerario, nella consapevolezza che l’affidamento in prova al servizio sociale registra una recidiva su numeri bassissimi, diversamente da coloro che espiano la loro pena interamente in carcere che continua a mostrare punte di recidiva davvero allarmanti. Occorre allungare lo sguardo su soluzioni legislative che assicurino questa terna: l’accertamento della responsabilità, assistita da tutte le garanzie della persona; l’effettiva esecuzione della pena; la rieducazione del condannato attraverso esperienze pedagogico-dimostrative. Il primo capitolo da affrontare è quello delle misure alternative alla detenzione disciplinate dalla legge 354 del 1975, erroneamente qualificate come benefici penitenziari. In questo settore potrebbero essere resi più flessibili i presupposti sulla base dei quali scattano le misure alternative alla detenzione in carcere, primo fra tutti la misura della pena da espiare. In secondo luogo, l’esistenza di un apparato giurisdizionale, quello della sorveglianza, ha frammentato il processo penale, separando illegittimamente e irragionevolmente la fase della cognizione da quella della esecuzione. Per cui l’impegno costituzionale alla rieducazione diventa appannaggio del Tribunale di sorveglianza e non, prima ancora, del giudice della cognizione. Andrebbe superato questo processo bifasico privo di una razionale base legale e riportare la fase dell’esecuzione nell’alveo operativo dello stesso giudice che scrutina la pena. Potrebbe essere a questo punto immaginata una soluzione che blocchi il procedimento in uno dei diversi gradi di giudizio in cui l’imputato accetta di espiare una pena in libertà ma governata da serie e adeguate prescrizioni quotidiane: un esempio del genere era già parte del patrimonio della legge italiana previsto al comma 5bis dell’articolo 73 del Testo unico sulla droga. Altra ipotesi praticabile nella prospettiva delineata è l’ampliamento dell’operatività della sospensione condizionale della pena accompagnata dalla sottoposizione a una prova del condannato e non sospendere la pena senza alcuna ragione per poi dimenticarsene. Potrebbe essere immaginata la prova dei lavori di pubblica utilità, pur di lanciare un segnale conformativo alla collettività e non eludere ancora una volta una pena di misura cospicua quale quella fino ai due anni di detenzione. ul piano processuale si potrebbe, ad esempio, incentivare il ricorso ai riti alternativi e comunque ampliare i margini di applicabilità di quelli esistenti. Anche in questo modo si eviterebbe di mettere di nuovo mano alla prescrizione la cui eliminazione è la violazione del principio di certezza del diritto e l’anticamera della barbarie normativa. *Docente di Diritto penale all’università Federico II di Napoli “In Egitto diritti a rischio dopo i casi Regeni e Zaky”: e due migranti evitano l’espulsione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 agosto 2020 Il Tribunale di Milano: niente asilo, però dopo i casi di Regeni e Zaki il giovane che arrivò in Italia con una borsa di studio non va rimpatriato, avrà la protezione umanitaria. “Dall’aprile 2017 il presidente egiziano al-Sisi ha mantenuto uno stato di emergenza nazionale” nel quale, con “il presunto fine di combattere il terrorismo”, le polizia e la National Security Agency “effettuano abitualmente sparizioni forzate sistematiche e torture”: e “la sorte di Giulio Regeni, con la sostanziale impossibilità di far luce su un omicidio tanto efferato, nonché il recente caso della detenzione di Patrick Zaki, confermano la situazione di assoluta criticità dello Stato egiziano nel riconoscimento e nella tutela dei diritti fondamentali di chiunque, cittadino o no, si trovi sul suo territorio”. Per queste ragioni, in due decisioni parallele, la sezione immigrazione del Tribunale civile di Milano ravvisa nell’Egitto - partner dell’Italia nella vendita di armi o nell’estrazione di petrolio - un Paese invece non sicuro per rimpatriarvi non solo un dissidente renitente alla leva, al quale riconosce lo status di rifugiato; ma anche un altro giovane senza invece particolari connotazioni che ne giustifichino l’asilo politico, al quale nel contempo concede però la residuale e ormai rara (dopo i decreti Salvini del 2018) “protezione umanitaria” per “particolare vulnerabilità”, proprio perché “in caso di rientro in Egitto, concreto e diffuso è il rischio di una ingiustificata e gravissima limitazione della propria libertà e dei propri diritti fondamentali”. I due casi - Il primo dei due casi dipendeva dall’attendibilità del richiedente asilo, assistito dall’avvocato Livio Neri e non creduto nel 2018 dalla Commissione Territoriale sul rischio di essere al rientro perseguitato in quanto scrutatore al voto del 2012 e figlio di membri (nonché lui stesso simpatizzante) della “Fratellanza Musulmana”, dichiarata illegale in Egitto nel 2013 perché equiparata a una organizzazione terroristica: qui i giudici Caccialanza-Masetti Zannini-Canali si determinano a dare l’asilo politico al giovane che si è “volontariamente sottratto al servizio di leva obbligatorio avendo precedentemente manifestato la propria opposizione al governo” sia di Mubarak sia ora di al-Sisi. Un giovane operaio - Più generale l’impatto potenziale del secondo caso, un giovane operaio (assistito dall’avvocato Silvana Guglielmo) al quale viene negato l’asilo politico in assenza di specifiche dissidenze o persecuzioni religiose. Del giovane, arrivato con una borsa di studio nel 2011, i giudici Caccialanza-Canali-Flamini prendono però in considerazione “i timori di trattamenti vessatori”: “Io ho paura a rientrare in Egitto perché quando uno parla di politica e religione viene preso dalla polizia. Ho amici spariti perché hanno messo un post su Facebook... Uno può anche sparire senza motivo, fermato dalla polizia e portato in centrale solo perché non gli piaci. Non c’è legge lì”. Su questi temi il Tribunale - attingendo dai materiali di agenzie Onu, Ong locali e diplomazie internazionali raccolti secondo standard Ue nelle schede “C.O.I. Country Origin Information” recepite dalla legge italiana - osserva ad esempio che “secondo il rapporto 2019 del gruppo del Consiglio Onu per i diritti umani sulle sparizioni forzate, attualmente sono sotto analisi centinaia di casi”, così come “nel 2017 il report del Comitato Onu contro la tortura ha concluso che è praticata sistematicamente”. Caso per caso - Su questa base, comparando “caso per caso” (come vuole la Cassazione) “la vita del richiedente in Italia con la situazione personale vissuta prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio”, i giudici gli concedono la residuale protezione umanitaria, “non occorrendo, per vedere compressi i propri diritti fondamentali, essere un reale oppositore delle forze che dominano la scena politica e sociale egiziana”. All’insider secondario detenzione fino a dieci anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2020 Sanzioni più pesanti e colpito anche l’insider secondario. Tutto per scongiurare la procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea circa un anno fa per il mancato recepimento della direttiva Mad II sulle misure penali per abusi di mercato. Il Governo scopre le carte e riforma uno dei più “classici” reati finanziari. Nella legge Europea, ora all’esame del Parlamento, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri, si colpisce la condotta di chi utilizza l’informazione privilegiata di cui è entrato in possesso senza le distinzioni che tuttora il Tuf prevede, per effetto delle quali l’insider secondario può essere considerato penalmente responsabile solo a titolo di concorso nel reato proprio di abuso di informazioni privilegiate o di favoreggiamento; sino a oggi infatti la condotta è sanzionabile solo sul piano amministrativo. Ora la legge europea introduce una pena pesante, sia pure un po’ più lieve rispetto a quella dell’insider primario, di chi cioè utilizza informazioni privilegiate infrangendo gli obblighi di fedeltà e riservatezza impostigli dalla particolare posizione rivestita. Così la pena detentiva viene determinata tra un minimo di un anno e 6 mesi e un massimo di dieci anni, e la multa compresa tra un minimo di 20mila euro e un massimo di due milioni e 500mila euro. Ma l’intervento normativo stabilisce una stretta sul versante penale anche per una serie di condotte che fino ad ora sono state affrontate in maniera troppo blanda e poco in linea con la direttiva. Si tratta della punibilità solo a titolo di contravvenzione, decisa solo due anni fa dal decreto legislativo 107/18, per abuso di informazioni privilegiate oltre che delle condotte che hanno per oggetto strumenti finanziari negoziati su sistemi multilaterali di negoziazione(Mtf) anche di altri Paesi dell’Unione europea, anche delle condotte relative a strumenti finanziari negoziati su sistemi organizzati di negoziazione (Otf) e delle condotte relative a strumenti finanziari non quotati in sede di negoziazione, ma i cui prezzi dipendono da quelli di strumenti ammessi alla negoziazione. In questo catalogo rientrano infine anche le operazioni effettuate su strumenti finanziari fuori da sedi di negoziazione (Otc). Una scelta, quella del legislatore italiano che viene ora considerata non in sintonia con la direttiva che impedisce una differenziazione della qualificazione del reato a seconda della sede di negoziazione degli strumenti finanziari. Così le sanzioni penali, da uno a sei anni, già previste dagli articoli 184 e 185 del Tuf devono essere estese a tutti i casi di negoziazione. Sospensione condizionale: termine della provvisionale coincide con il giudicato della sentenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 10 agosto 2020 n. 23742. Se il giudice della cognizione non stabilisce un termine di pagamento per la provvisionale, stabilita in favore della parte civile - al cui pagamento è subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena - questo coincide con la data del passaggio in giudicato della sentenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 23742, accoglie il ricorso del pubblico ministero, contro la scelta del tribunale di respingere la sua richiesta di revoca della sospensione condizionale. Ad avviso del tribunale, infatti, pur essendo il beneficio condizionato al pagamento in favore della parte civile, il giudice non aveva stabilito alcun termine per adempiere. Di conseguenza, ad avviso dei giudici di merito, si doveva applicare il termine di cinque anni previsto dall’articolo 163 del Codice penale, non ancora decorso. La Cassazione, accogliendo il ricorso della pubblica accusa, dà atto del contrasto giurisprudenziale sul punto. C’è l’orientamento al quale aveva aderito la sentenza impugnata, che individua il termine da applicare nei cinque anni o due anni fissati dall’articolo 163 del Codice penale, a seconda che si tratti di una condanna relativa ad un delitto o una contravvenzione. Secondo un’altra tesi sarebbe il giudice dell’esecuzione a dover intervenire indicando la data mancante. La Suprema corte sceglie invece il principio secondo il quale, in caso di mancata indicazione da parte del giudice di cognizione, la dead line è quella del passaggio in giudicato della sentenza. Campania. Un tetto per 65 detenuti senza fissa dimora di Viviana Lanza Il Riformista, 11 agosto 2020 “Potranno scontare la pena fuori dal carcere”. Trecentomila euro saranno destinati alla realizzazione di centri d’accoglienza per detenuti e detenute senza fissa dimora. “Un atto di civiltà e di sicurezza”, commenta il garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania Samuele Ciambriello, annunciando la conclusione della procedura che consentirà al progetto di prendere corpo. È un’iniziativa che nasce dalla sinergia tra la Regione, l’assessorato alle Politiche sociali, di concerto con l’Ufficio del garante, con il Provveditorato regionale, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e il dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. La procedura consente di assegnare la somma di 300mila euro, concessa dalla Cassa delle ammende del Ministero di Giustizia, per la realizzazione di una progettualità rivolta all’accoglienza di detenuti, detenute, detenute madri con figli e giovani adulti dai 18 ai 25 anni, senza fissa dimora. Totale: 65 detenuti. Il percorso, della durata di sei mesi, si inserisce nell’ambito del più ampio programma di intervento della Cassa delle ammende per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 negli istituti penitenziari e si rivolge a enti e associazioni del terzo settore che abbiano risposto agli obiettivi fissati dalla Cassa delle ammende. Cosa prevede il progetto? Innanzitutto la collocazione dei detenuti coinvolti nel programma in unità abitative indipendenti o centri di accoglienza in ambito comunitario che rispettino i requisiti previsti dalla normativa. Inoltre, si prevedono interventi di sostegno economico e sociale per i destinatari delle misure, con particolare riferimento alle detenute madri che hanno figli minorenni, oltre che sostegno per esigenze di prima necessità. I fondi stanziati per l’esecuzione del programma saranno distribuiti in Campania tra otto associazioni: Migranti senza frontiere (Salerno), Cooperativa Sociale San Paolo (Salerno), Less Impresa Sociale (Napoli), Croce Rossa Italiana Comitato Napoli Nord (Arzano), Cooperativa Sociale L’Uomo e il legno (Melito di Napoli), Il Melograno (Benevento), Generazione Libera (Caserta), Tarita (Sant’Egidio del Monte Albino). Il programma rappresenterà un’alternativa concreta per 65 tra detenuti e detenute senza fissa dimora, persone che avrebbero possibilità di scontare la pena fuori dal carcere ma non avendo un domicilio avrebbero rischiato di non poter accedere al beneficio di misure alternative. Il programma prevede anche un aiuto per le detenute madri che in Campania sono sette, con nove bambini in totale e in tenerissima età. Un caso, quello delle detenute madri, su cui da tempo garanti, esperti di medicina penitenziaria e associazioni come Antigone hanno puntato l’attenzione evidenziando quanto importante e necessario sia trovare un’alternativa per evitare che i bambini vivano in carcere i primi anni della loro vita. Per il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, “l’intento è quello di garantire un alloggio, seppure transitorio, a detenuti senza fissa dimora, idonei ad una misura alternativa alla detenzione in carcere. Si tratta di garantire i diritti inalienabili che appartengono a tutti gli individui ma anche far fede alla promessa rieducativa sancita dalla Costituzione”. Il tema si incrocia anche con le tematiche sulla sicurezza. “Soccorrere chi abbia scontato la propria pena assegnandogli un alloggio, significa anche rispondere all’esigenza di sicurezza sempre più presente nelle nostre città - spiega il garante Ciambriello - Un detenuto il cui percorso risocializzante non si sia compiuto rischia di ricadere in una recidiva che bisogna assolutamente evitare”. Napoli. Tossisce sangue da mesi: il caso di Antonio e degli altri detenuti in attesa di cure di Roberta Caiano Il Riformista, 11 agosto 2020 Continua la battaglia per il diritto alla salute in carcere dei detenuti. L’ultimo caso arriva da Napoli direttamente dalle celle di Poggioreale dove un detenuto di 44 anni, Antonio Avitabile, tossisce sangue dalla bocca. Da due mesi in carcere e con una pena di 5 anni da scontare, la vicenda è stata segnalata sin da subito. Il detenuto, infatti, in passato ha subito un’operazione per un tumore alle corde vocali e il timore è che questo possa portare ripercussioni in vista delle sue ultime condizioni instabili. Il suo avvocato, Michele Riggi, ha segnalato il suo caso per richiedere che venisse trattato in maniera approfondita. Come ci spiega Riggi: “Il medico legale e i medici interni della struttura hanno attestato una displasia alle corde vocali e si sospetta sia arrivata fino ai polmoni e potrebbe compromettere gli altri organi. Tutti i cittadini hanno diritto alle cure e chiediamo che sia possibile anche per il mio assistito poter essere trattato come ogni altro cittadino che ha bisogno di cure urgenti”. Ma procediamo per gradi. Un mese fa l’uomo è stato portato all’Ospedale del Mare per effettuare una laringoscopia, mentre i primi giorni di agosto è stato sottoposto ad una gastroscopia. Ad oggi si attendono ancora dei risultati che sono stati segnalati come urgenti. Nel frattempo, si sono verificati una decina di episodi di perdita di sangue dalla bocca, tra cui l’ultimo avvenuto lo scorso sabato durante un colloquio tra l’avvocato e il detenuto. “Mentre stavo avendo un colloquio con Avitabile, ha cominciato a tossire sangue e ho subito chiamato la polizia penitenziaria per testimoniare la presenza reale di questa emorragia - racconta Riggi - Ho sottoposto questo episodio al magistrato di sorveglianza, al direttore del carcere di Poggioreale e ai garanti dei detenuti, comunale e regionale, sollecitando l’urgenza di visite più specifiche”. Infatti la richiesta dell’avvocato è quella di avere al più presto la possibilità di far effettuare al suo assistito degli approfondimenti diagnostici strutturali come una total body per verificare l’entità del suo problema: “La Costituzione prevede che tutti i cittadini debbano essere curati e richiediamo che vengano fatti approfondimenti diagnostici strutturali in maniera specialistica per approfondire la sua diagnosi e capire cosa possa provocare questi episodi di emorragia”, conclude il difensore. Lo stesso Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ha dichiarato al Riformista che ha personalmente inviato lettere e visitato il detenuto per accertarsi delle sue condizioni di salute: “Il detenuto è nell’ordinario Padiglione Napoli e ha rifiutato di andare al Padiglione San Paolo, una sorta di piccolo pronto soccorso per gli ammalati occupato da una sessantina di detenuti con problemi di salute. La direzione sanitaria del carcere parla di una fuoriuscita di sangue, sono state effettuate visite alla gola, all’esofago e visita otorinolaringoiatrica non ci sono questioni tumorali. Le visite specialistiche vengono effettuate all’esterno - continua il garante - La cosa che più mi premeva, infatti, è che venisse portato in ospedale per ulteriori accertamenti ed è stato effettivamente portato due volte all’Ospedale del Mare per delle visite”. Questo caso è soltanto la punta dell’iceberg di una situazione drammatica in cui versa la struttura penitenziaria. L’avvocato del detenuto specifica che per il Decreto legislativo 230 del 1999 all’articolo 1 comma terzo le Asl competenti per il territorio dove esistono le strutture carcerarie, sono obbligate ad erigere la Carta dei servizi per i detenuti, un vademecum di diritti che viene comunicato al detenuto quando entra in carcere e ne denuncia la mancanza a Poggioreale. Samuele Ciambriello ci ha effettivamente confermato che “la carta dei servizi a Poggioreale è rilasciata dalla direzione sanitaria del carcere ma quest’anno non è stata aggiornata e in quanto garante confermo questa mancanza”. Ma ciò che più gli preme sottolineare sono i dati allarmanti per cui non può essere garantita un’assistenza sanitaria sufficiente per tutti all’esterno dell’istituto penitenziario: “Ci sono richieste oltre 3600 visite negli ospedali e nelle cliniche private, ma almeno 1052 volte non si riesce a garantire la visita per mancanza di agenti e mezzi - dice Ciambriello - C’è necessità di una scorta di almeno 3-4 agenti ogni 6 ore. Bisogna aumentare il numero del personale”. Per lui la panacea per migliorare le condizioni dei diritti alla salute dei detenuti è avere tempi certi e visite specialistiche: “I posti dedicati ai detenuti sono troppo pochi. Dodici all’ospedale Cardarelli, dieci al Cotugno e tre all’Ospedale San Paolo, per un totale di 35 posti riservati. Ce ne vorrebbero molti di più. Per i detenuti della Asl Napoli 1, che abbracciano le carceri di Poggioreale e Secondigliano, sono pochissimi - conclude il garante - All’ospedale San Pio di Benevento, ad esempio, non c’è nessun posto riservato. Mi auguro che venga dedicato un reparto detentivo anche all’Ospedale del Mare”. Genova. Marassi: in carcere mancano i letti per i detenuti lavocedigenova.it, 11 agosto 2020 Lorenzo (Sappe): “Se anche Marassi è in over flow avendo superato la soglia dei 700 detenuti su una capienza di 511 posti letto, è dovuto all’effetto chiusura del carcere di Savona”. “Dovremmo proporre una lista d’attesa per i detenuti che devono scontare la pena nelle carceri liguri, con c’è altra soluzione”, riferisce la segreteria regionale del Sappe. “Dopo il sold out dei penitenziari del ponente ligure, com’era prevedibile, anche i posti letto del carcere di Marassi sono terminati. “Tutto ciò è fantascientifico - commenta il segretario regionale del Sappe Lorenzo - chi gestisce le carceri ha disposto che bisogna evitare il sovraffollamento delle celle, altrimenti a seguito di reclami dei detenuti lo Stato incorre in alcune sanzioni e loro ottengono la liberazione anticipata o un rimborso economico. Se anche Marassi è in over flow avendo superato la soglia dei 700 detenuti su una capienza di 511 posti letto, è dovuto all’effetto chiusura del carcere di Savona. Un esempio su tutti: oggi su 10 nuovi arrestati ben 8 provenivano dal territorio di Savona, non solo ma considerato il sovraffollamento di Marassi ben 6 sono stati dirottati verso altri penitenziari, in questo modo - continua il Sappe - non si fa altro che peggiorare la condizione detentiva di tutti gli istituti liguri. Mi appello al Ministro Bonafede che ben conscio di tale condizione dettata da Savona, non batte ciglia per rimediarvi. Ed allora cosa fare? in alternativa alla riapertura del carcere di Savona le soluzioni potrebbero essere, dirottare i detenuti su Chiavari il quale gestisce solo 45 detenuti, mentre con una rivisitazione ne potrebbe ospitare almeno il doppio oppure istituire una lista d’attesa degli arrestati in modo tale da non incorrere nelle sanzioni della comunità europea o nelle proteste delle associazioni e movimenti per i diritti dei detenuti. Nel frattempo la Polizia Penitenziaria della Liguria, in pieno periodo estivo è alle prese con i problemi, atavici, che affliggono le carceri liguri, cercando di arginare le proteste dei detenuti e gli eventi critici che si determinano in queste condizioni. Auspichiamo - conclude il segretario Lorenzo - che il Ministro della Giustizia Bonafede comprenda che l’assenza del carcere di Savona si ripercuote su tutta la Liguria. Il problema esiste, la soluzione?”. Padova. Il carcere Due Palazzi è il 7° in Italia per numero di stranieri Il Gazzettino, 11 agosto 2020 Il carcere di via Due Palazzi è il settimo istituto di reclusione per percentuale di stranieri dietro le sbarre. Il 67,4 per cento dei detenuti non è nato in Italia. Prima di Padova solo Torino, Milano, Roma Regina Coeli, Firenze, Roma Rebibbia e Aosta. È quanto emerge dal rapporto di metà anno sulle carceri dell’associazione Antigone, la quale rileva che il reale tasso di affollamento nazionale è superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti. Per evitare il rischio che le carceri “possano trasformarsi nelle nuove Rsa” e che “a settembre diventino nuovi focolai” bisogna andare avanti con “politiche dirette a ridurre la popolazione detenuta”, ha sottolineato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella: in particolare, per “assicurare il distanziamento fisico”, la soluzione proposta da Antigone sta nel ricorso alle misure alternative. Sulla questione padovana interviene anche Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale Funzione pubblica Cgil penitenziari: “La situazione esposta da Antigone rispecchia quella che è la realtà, però c’è molto da dire, in particolare per quanto riguarda i detenuti: ce ne sono moltissimi di cui non conosciamo né le origini né i problemi, in particolare quelli psicologici. E c’è da ricordare che la maggior parte delle aggressioni subìte dagli agenti della penitenziaria è avvenuto proprio per mano di persone con malattie psichiatriche”. Pegoraro parla anche della gestione del carcere: “Dovrebbe essere rivista tutta l’organizzazione del lavoro. C’è un’iniziativa a tal proposito da parte di Cgil che punta a differenziare ulteriormente i detenuti. In particolare, ad esempio, a Padova c’è una sezione fatta dall’Asl per i tossicodipendenti”. “I numeri delle aggressioni - continua Pegoraro - sono destinati ad aumentare se non si trova una soluzione politica, avremo sempre gli stessi problemi”. Per quanto riguarda, infine, la questione suicidi dei poliziotti penitenziari, il coordinatore ricorda che a Padova, da inizio anno, si è registrato un caso: “Occorre fare opera di educazione al personale, dire agli agenti che ci sono strutture apposite, e invitarli a usarle, non basta metterle a disposizione. Bisogna invitarli a frequentarle”. Messina. Un laboratorio di sartoria in carcere: le detenute creano mascherine Il Mattino, 11 agosto 2020 Un laboratorio di sartoria per realizzare mascherine personalizzate all’interno della sezione femminile del carcere di Messina “Gazzi”. Il progetto, nato con l’obiettivo di avviare percorsi di inclusione e di formazione al lavoro per le detenute nelle case circondariali italiane, è realizzato nell’ambito del programma “Si Sostiene in carcere 2019/2021” e del protocollo sottoscritto con il DAP e il Ministero Giustizia dal Soroptimist International d’Italia. In programma l’allestimento di un piccolo laboratorio di sartoria e la fornitura di macchine da cucire, materiali e ogni altra attrezzatura utile per un corso che prevede anche lezioni a distanza. Il percorso di tutoraggio è affidato all’associazione D’aRteventi, che già opera con le detenute, scelta su indicazione della Direzione del carcere per meglio organizzare localmente il corso e monitorarlo in collaborazione con le educatrici e la polizia penitenziaria. “Questa di Messina rappresenta una tappa importante dei nostri progetti di inclusione sociale dopo il successo del Regalo Solidale con 100 club aderenti, 3450 borse realizzate, quasi 26mila euro messi a disposizione delle sartorie sociali delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore. La nostra attenzione si è concentrata proprio sull’empowerment e sulla valorizzazione delle potenzialità lavorative che possono aprirsi attraverso un’attività sartoriale”, ha dichiarato Mariolina Coppola, presidente nazionale Soroptimist. “In questo ampio progetto era doveroso coinvolgere anche una struttura del Sud. A Messina abbiamo apprezzato le attività messe in campo negli ultimi tre anni dai nostri club, come la cura del verde, il cake design, il laboratorio di scrittura e per questo abbiamo deciso di varare il corso di taglio e cucito per offrire alle detenute opportunità formative ed occupazionali una volta uscite dalla struttura - ha aggiunto Paola Pizzaferri, coordinatrice nazionale del “Si Sostiene in carcere”. Fondamentale è stato poi il riscontro avuto dalla direttrice Angela Sciavicco che ha molto apprezzato la proposta e si è detta entusiasta e onorata di collaborare”. Covid e politica: l’estate del nostro scontento di Walter Veltroni Corriere della Sera, 11 agosto 2020 In queste settimane sospese, tutte le persone cercano una normalità che si erano illuse di aver ritrovato, e lo fanno con la paura del futuro. Per questo ci vogliono istituzioni robuste. Le persone cercano, in queste settimane sospese, una normalità che si erano illuse di aver ritrovato. Ma lo fanno con la paura di quello che le attende, nel lavoro o a scuola, e di quello che potrà accadere in un autunno che non è più una stagione, ma una minaccia. Faccio un solo esempio: lo smart working è sicuramente uno strumento importante per assicurare la tenuta delle strutture produttive in tempi di distanziamento sociale. Eppure questa condizione comporta una nuova solitudine, anche in termini di diritti, del lavoratore isolato da una dimensione sociale che appare peraltro necessaria anche per la qualità e la creatività del lavoro. E credo che a nessuno sfugga, se ha occhi per vedere, l’effetto di desertificazione urbana che questa condizione produce. In Italia sono migliaia gli esercizi commerciali, bar, ristoranti, negozi che hanno chiuso. Dietro quelle saracinesche vuote c’è la fine delle speranze di persone che hanno investito per anni nel loro lavoro, c’è il deprezzamento del valore degli immobili, c’è l’inaridirsi di un panorama urbano che si fa grigio come il colore delle lamiere che segnalano la fine di una storia economica e sociale. Chi ha amministrato qualsiasi comunità sa benissimo che c’è un solo rimedio al rischio del degrado: portare nei quartieri vita e luce, funzioni e servizi, attività e cultura. La prima cosa che oggi la democrazia deve fare, condizione della sua stessa sopravvivenza, è assicurare sicurezza sociale. La sicurezza generata nei cittadini dalle istituzioni, dalla competenza, dal rigore, dalla chiarezza di un indirizzo generale, di un disegno per il Paese. Ma questo richiederebbe un sistema politico e istituzionale equilibrato, fondato sulla coesistenza, tra governo e parlamento, di funzioni di decisione e controllo che oggi sono confuse in un pasticciato caos in cui coesistono stati d’emergenza e consociativismo. Ci vogliono governi scelti dai cittadini e non frutto di inopinati giri di valzer come quelli che hanno accompagnato le ultime legislature. La Seconda Repubblica non è mai cominciata. Essa dovrebbe essere frutto di un disegno d’insieme di revisione costituzionale e non di strappi in singoli punti, magari determinati da esigenze elettorali del momento. L’emergenza sociale richiede come non mai una politica alta, capace di decidere, non refrattaria ai controlli puntuali delle istituzioni. La fragilità del sistema ha conseguenze anche sulla scelta di impegno delle risorse disponibili. Come ha scritto Ferruccio de Bortoli su queste colonne, l’accensione di ulteriore deficit per cento miliardi non è un’occasione che l’Italia possa sprecare. È un carico sulle spalle delle generazioni future che merita di essere impegnato non con una miriade di interventi a pioggia, scelta tipica della politica fragile e impegnata a sopravvivere, ma con scelte strutturali capaci di mettere mano ai ritardi storici di un Paese grande e fragile: il Sud, la scuola, la stabilità dei lavori, le infrastrutture materiali e tecnologiche, la riconversione ambientale dell’economia. E bisogna farlo assicurando ai cittadini la necessaria semplicità. Esiste una singolare distorsione: la politica di oggi è semplificata fino a diventare grottesca. E invece il cittadino che si avvicina alle decisioni pubbliche è costantemente respinto da norme incomprensibili e contraddittorie. Bisognerebbe fare esattamente il contrario: la politica dovrebbe recuperare la complessità di una dimensione strategica che oggi è perduta e lo sforzo di chi governa e decide dovrebbe rendere la vita pubblica semplice, trasparente, accessibile, inclusiva. Per questo ci vogliono istituzioni robuste. La grandezza della democrazia è nell’equilibrio tra capacità di decisione dell’esecutivo e forza di controllo del Parlamento. Senza l’una e l’altra il rischio, in tempi di acuta crisi sociale, della crescita di moderne derive autoritarie è forte. Valga come augurio alla ragione la citazione del Riccardo III di Shakespeare da cui è tratto il titolo del libro di Steinbeck: “Ora l’inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano”. Cosa fa l’Italia per il disarmo nucleare? di Manlio Dinucci Il Manifesto, 11 agosto 2020 Nel 75° anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ribadito che “l’Italia sostiene con forza l’obiettivo di un mondo libero da armi nucleari”. Gli ha fatto eco il presidente della Commissione Difesa della Camera, Gianluca Rizzo (M5S): “Faccio mie le parole del presidente della Repubblica per una politica che punti ad un mondo libero da armi nucleari”. Massimo impegno istituzionale dunque, ma in quale direzione? Facciamo parlare i fatti. L’Italia ha ratificato nel 1975 il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari (Tnp), che stabilisce: “Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente”. Violando il Tnp, l’Italia ha concesso proprie basi per lo schieramento di armi nucleari Usa: attualmente bombe B61, il cui numero è stimato in alcune decine ma non è verificabile. Sono installate nelle basi di Aviano, insieme a caccia Usa F-16C/D, e a Ghedi-Torre dove Tornado PA-200 dell’Aeronautica italiana sono pronti all’attacco nucleare sotto comando Usa. L’Italia - conferma la Nato - fa parte dei paesi che “forniscono all’Alleanza aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari, su cui gli Stati uniti mantengono l’assoluto controllo, e personale addestrato a tale scopo”. La B61 sarà sostituita tra non molto dalla B61-12: una nuova bomba nucleare, con una potenza selezionabile al momento del lancio, che si dirige con precisione sull’obiettivo ed ha la capacità di penetrare nel sottosuolo per distruggere i bunker dei centri di comando. Il programma del Pentagono prevede la costruzione di 500 B61-12, con una spesa di 10 miliardi di dollari. Il programma è nella fase finale: nei poligoni nel Nevada sono in corso test di lancio della nuova bomba (senza testata nucleare). Tra gli aerei che vengono certificati per il suo uso vi sono il Tornado PA-200 e il nuovo F-35A, in dotazione all’Aeronautica italiana. Non si sa quante B61-12 verranno schierate in Italia e altri paesi europei. Esse potrebbero essere più delle precedenti B-61 ed essere installate anche in altre basi. Quella di Ghedi, ristrutturata, può accogliere fino a 30 caccia F-35A con 60 B61-12. Alle nuove bombe si aggiungono le armi nucleari della Sesta Flotta di stanza in Italia, il cui tipo e numero sono segreti. Inoltre, stracciato il Trattato Inf, gli Usa stanno sviluppando missili nucleari a gittata intermedia con base a terra, che, come gli euromissili degli anni Ottanta, potrebbero essere installati anche in basi italiane. L’Italia, ufficialmente Stato non-nucleare, svolge così la sempre più pericolosa funzione di base avanzata della strategia nucleare Usa/Nato contro la Russia e altri paesi. Quale membro del Consiglio Nord Atlantico, l’Italia ha respinto nel 2017 il Trattato Onu sulla abolizione delle armi nucleari. Nello stesso anno oltre 240 parlamentari italiani - in maggior parte del Pd e M5S, gli attuali partiti di governo - si sono impegnati, firmando l’Appello Ican, a promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato Onu. In prima fila l’attuale presidente della Commissione Difesa, Gianluca Rizzo, e l’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Tre anni dopo, alla prova dei fatti, il loro solenne impegno si rivela un espediente demagogico per raccogliere voti. Per attuare in Italia “una politica che punti ad un mondo libero da armi nucleari”, come declama Gianluca Rizzo, non c’è che un modo: liberare l’Italia dalle armi nucleari, come prescrive il Tnp, e aderire al Trattato Onu, attuando quanto stabilisce: “Ciascuno Stato che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi”. I firmatari dell’Impegno Ican richiedano quindi agli Stati uniti di rimuovere qualsiasi arma nucleare dall’Italia. Se in Parlamento c’è qualcuno che voglia un mondo libero da armi nucleari, lo dimostri non a parole ma con i fatti. Libano, la ricostruzione di uno Stato fantoccio di Alberto Negri Il Manifesto, 11 agosto 2020 Il Libano oggi non ha più un vero governo e probabilmente non ha mai avuto davvero uno stato: l’interrogativo è se questa crisi avrà uno sbocco politico o sarà l’ennesima delusione delle piazze arabe, un’altra tardiva primavera soffocata dentro una calda estate. Con la drammatica esplosione del 4 agosto al porto di Beirut che ormai conta più di 200 morti, è andata in pezzi una città e una grande finzione. Da ieri il Libano, con le dimissioni dell’esecutivo guidato da Diab - a dire il vero l’ultimo dei premier arrivati, in carica solo dal gennaio scorso e capro espiatorio di tutte le malefatte precedenti - non ha più un governo, che forse latitava da troppo tempo e probabilmente non ha mai avuto davvero uno Stato. A questo punto l’interrogativo che si pone è se questa crisi avrà uno sbocco politico o sarà l’ennesima delusione delle piazze arabe, un’altra tardiva primavera soffocata dentro una calda estate. La questione di fondo è se il movimento che nelle strade chiede insistentemente la liquidazione di una intera classe politica inetta e corrotta abbia davvero in mano qualche idea concreta e condivisa per sostituirla. Dicono che nelle piazze è scesa quella che comunemente viene chiamata la società civile, quella parte sana della nazione che punta a un totale rinnovamento dopo essersi liberata dalle divisioni confessionali e di clan. Ed è indubbiamente questo il Paese che la settimana scorsa ha accolto con entusiasmo la visita del presidente francese Macron, il quale ha organizzato con le Nazioni unite la videoconferenza che ha portato la comunità internazionale a sottoscrivere per il Libano aiuti del valore di oltre 250 milioni di euro. Sono i giovani che galvanizzati dalla visita del presidente francese e sull’onda di una collera che dura dal 2019 hanno assaltato i palazzi del potere dove il Gran Serraglio in queste ore concitate sta decidendo, dopo le dimissioni, la sorte non solo del governo possibile - arrivano addirittura voci di un incredibile incarico ad Hariri - ma del futuro prossimo del Libano, elezioni comprese. Elezioni che comunque se si svolgessero con l’attuale legge elettorale, basata sulla composizione confessionale uscita dagli accordi di Taif del 1989, (parzialmente riformata) difficilmente darebbero risultati così diversi dai precedenti. A Taif fu modificato l’articolo 24 della Costituzione per istituire la parità parlamentare tra cristiani e musulmani e fissare in 128 il numero dei deputati. Ma anche questa intesa mostra crepe evidenti, ha cristallizzato il potere non solo con divisioni settarie ma tra clan e famiglie che in buona parte dipendono da sponsor esterni. Il problema è che il Libano, con 18 comunità religiose tra cristiani e musulmani, vive uno straordinario e formidabile equivoco: chi sono e quanti sono i libanesi? Nessuno lo sa. Cento anni fa, proprio a Sanremo, la Società delle Nazioni affidò la Grande Siria, comprese le cinque province che oggi costituiscono il Libano, al controllo della Francia. All’indipendenza si arrivò nel 1943 quando la Francia era occupata dalla Germania nazista con una spartizione del potere basata sul censimento del 1933, l’ultimo in assoluto che si è mai svolto in Libano. Da allora i libanesi non si sono mai più contati. Nel 1948 arrivarono i palestinesi, dopo la Nakba, la catastrofe della sconfitta con Israele, che oggi sono 450mila: la guerra civile del 1975-1990 inizia proprio quando il 12 aprile 1975 i falangisti cristiani attaccarono, per rappresaglia, un autobus palestinese facendo 27 morti. Poi è venuta la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele e dopo il conflitto civile siriano il Libano è stato inondato da oltre un milione di profughi. Chiedersi chi è libanese oggi e quanti sono i libanesi non è un esercizio retorico ma sostanziale. Se vi vuole dare a uno Stato la possibilità di sopravvivere e di ricostruirlo bisogna almeno sapere per chi: o forse ci si vuole continuare a illudere che possono reggere accordi di 30 anni fa dopo quanto è intervenuto a stravolgere il Medio Oriente? Ma è questa la finzione che fa comodo anche agli attuali sponsor - i “donatori” - della ricostruzione del Libano: quella di uno Stato virtuale e per lo più assente dove mettere ai posti di comando gli uomini a loro graditi. Vale per l’Iran che sostiene il partito sciita Hezbollah, per i sauditi, i loro grandi rivali, che manovrano come pupazzi le famiglie sunnite, per i cristiani che si atteggiano a portabandiera della “civiltà” appoggiandosi alla Francia o agli Stati Uniti, ma non disdegnando intese con sunniti ed Hezbollah. Mentre Israele, che pattuglia il Libano dall’alto e bombarda in Siria, ha gioco facile a tenere il Paese sotto scacco con l’obiettivo ultimo di eliminare Hezbollah. Gli israeliani hanno davanti la loro grande opportunità per dimostrare, sulle rovine di Beirut, che il vero nemico del Libano non sono loro, che lo hanno occupato e distrutto, ma gli Hezbollah, il paravento di ogni colpa. Quando persino i media delle fazioni opposte al movimento sciita riconoscono che i fallimenti del Paese non sono certo dovuti solo a Hezbollah ma alla compartecipazione di tutte le fazioni del Paese dei Cedri. Quindi dimentichiamoci alla svelta di Sabra e Chatila, del massacro nel 1982 di palestinesi e sciiti libanesi compiuto dai falangisti cristiani con l’appoggio dell’esercito israeliano, e passiamo oltre: è il momento di costruire o ricostruire con i soldi della comunità internazionale, dei sauditi, degli Emirati un nuovo Stato fantoccio dove far trascorrere le vacanze sulla Corniche ai ricchi arabi del Golfo. Cosa del resto già accaduta. A meno che i libanesi stessi, quelli nelle piazze, abbiamo idee contrarie, migliori e vincenti. Hong Kong sempre più cinese: arrestati giornalisti, editori e attivisti di Serena Console Il Manifesto, 11 agosto 2020 I primi risultati della legge sulla sicurezza nazionale voluta da Pechino. Fermati giornalisti, attivisti e un magnate dell’editoria locale con l’accusa di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale. Pechino lancia un messaggio chiaro anche agli Usa. Il depotenziamento dell’assetto democratico di Hong Kong sembra essere determinante per l’efficacia della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino. A confermarlo è la serie di arresti che ha animato la giornata di ieri nell’ex colonia britannica: attivisti politici, giornalisti e un magnate dell’informazione sono finiti nel mirino della polizia con l’accusa di aver violato la controversa norma entrata in vigore il 1° luglio scorso. Il primo fermo è stato quello di Jimmy Lai, editore della testata Apple Daily sotto la holding Next Digital. Considerato il ‘Rupert Murdoch’ d’Asia, attraverso il suo giornale Lai ha sempre denunciato l’erosione della democrazia portata avanti da Pechino, raccontando le vicende del governo centrale e dei legislatori filo-cinesi. Insieme a lui, sono stati fermati anche i suoi due figli e altre quattro persone ai vertici dell’azienda giornalistica con l’accusa di collusione con forze straniere e cospirazione per commettere frodi. Il tycoon sapeva di essere una voce scomoda: nei vari incontri con gli esponenti dell’amministrazione americana, tra cui il Segretario di Stato Mike Pompeo, chiedeva da tempo un intervento concreto per fermare la repressione cinese. L’attività editoriale, avviata poco prima che la Cina riprendesse il controllo di Hong Kong nel 1997, ha superato anche i boicottaggi pubblicitari e le pressioni esercitate dai politici vicini a Pechino. Lai, con la linea graffiante del suo tabloid, aveva attirato le antipatie del Partito comunista, soprattutto per alcuni report che avrebbero mostrato le sue presunte donazioni ai gruppi pro-democratici impegnati nelle proteste del 2014. Il messaggio che ieri il governo ha voluto mandare agli organi di informazione di Hong Kong è stato chiaro quando 200 poliziotti hanno perquisito la redazione dell’Apple Daily alla ricerca di documenti non specificati. Un’azione che è stata fortemente criticata a livello internazionale, a cui si è aggiunta la voce di Bruxelles. Ma gli agenti del Dipartimento per la sicurezza nazionale, nel pomeriggio, sono stati occupati con l’arresto di Wilson Li, giornalista freelance dell’emittente ITV ed ex esponente del gruppo pro-democratico Scholarism, e dell’attivista Andy Li. In serata, è seguito l’arresto di Agnes Chow, il volto più noto dell’ormai smantellato gruppo politico Demosisto. La giovane attivista, il giorno prima, aveva denunciato su Facebook di essere stata pedinata da sconosciuti. Gli abitanti di Hong Kong, che attendono ancora di conoscere l’esito dell’attuale legislatura - in standby dopo la decisione della governatrice Carrie Lam di posticipare le elezioni - hanno il timore di perdere il sostegno internazionale. Il ministero degli Esteri cinese ieri ha sanzionato 11 cittadini americani, tra cui i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, il direttore esecutivo di Human Rights Watch, Kenneth Roth, e il presidente di Freedom House, Michael Abramowitz. L’azione cinese arriva dopo le sanzioni inflitte venerdì dagli Stati uniti alla leader di Hong Kong e ad altri dieci funzionari della città, per il loro ruolo nella repressione delle libertà. Ancora non si sa cosa comporti realmente la controversa norma voluta da Pechino, ma le vicende di ieri diranno se gli arrestati saranno estradati in Cina. Se tutto questo fosse successo qualche anno fa, gli hongkonghesi sarebbero scesi in strada per protestare contro il colpo inferto alla democrazia e alla libertà di stampa. Ma con la nuova legge sulla sicurezza nazionale, i cittadini dell’ex colonia britannica sono costretti a silenziare qualsiasi voce di dissenso. Hong Kong. La legge di Pechino: 200 poliziotti per arrestare l’editore dissidente di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 11 agosto 2020 Maxi-operazione: in manette Jimmy Lai e i figli. Poi tocca a una giovane attivista. “Collusione con potenze ed elementi stranieri” è l’accusa che ha portato in carcere a Hong Kong Jimmy Lai, 72 anni, proprietario di due giornali schierati contro il governo e critici del partito comunista di Pechino: il quotidiano Apple Daily e la rivista Next Magazine. Jimmy Lai è finora l’esponente più importante tra le decine di arrestati in base alla nuova legge sulla sicurezza nazionale cinese entrata in vigore a Hong Kong l’1 luglio. Con l’editore sono finiti in prigione i suoi due figli e quattro dirigenti del gruppo Next Digital. La retata è proseguita con la cattura di Agnes Chow, una giovane attivista democratica vicina a Joshua Wong. Il prossimo nella lista sembra inevitabilmente lui. Jimmy Lai è stato prelevato a casa al mattino, poi scortato in manette nella redazione di Apple Daily, mentre i cronisti filmavano e diffondevano in diretta la scena. Impressionante: più di 200 agenti a caccia di documenti tra le scrivanie dei cronisti, in uno show di forza che è un ulteriore monito. Quando un giornalista ha chiesto a un agente qual era il motivo della perquisizione, un ufficiale lo ha preso a spintoni e ha gridato ai colleghi: “Ricordate la sua faccia, se insiste, arrestate anche lui”. Pompeo a Washington, mentre Hong Kong era scossa dalle proteste del fronte democratico. Ora Pechino ha deciso di chiudere la partita con l’opposizione e le sue figure simbolo. Lai è accusato di collusione con lo straniero, anche se quegli incontri sono precedenti alla legge di sicurezza nazionale. Ma questa è teoria, per l’arresto basta ipotizzare che i contatti siano proseguiti. L’editore ha anche passaporto britannico. Nonostante la paura, c’è stato un sussulto di solidarietà popolare: una corsa ad acquistare azioni del gruppo editoriale, che nel pomeriggio alla Borsa di Hong Kong sono schizzate in alto guadagnando il 187%. Qualche analista però sospetta che dietro ci siano anche manovre oscure. La retata è anche un segnale agli Stati Uniti, che si sono impegnati in una campagna punitiva nei confronti del governo di Hong Kong. Dopo l’imposizione della legge cinese il presidente Trump ha ritirato lo status commerciale speciale per l’ex colonia britannica; la scorsa settimana ha messo in una lista nera 11 dirigenti politici hongkonghesi e cinesi, tra i quali la governatrice Carrie Lam, per aver soppresso il dissenso. Pechino ieri ha reagito mettendo nella sua lista nera 11 americani, tra cui i senatori Rubio, Cruz e Cotton e il direttore di Human Rights Watch. A questo punto è chiaro che il Partito-Stato non si fermerà nell’azione di normalizzazione del suo territorio ad amministrazione speciale, nonostante lo sdegno internazionale, nonostante il trattato firmato con Londra per la restituzione del 1997 contenesse l’impegno a mantenere la formula “Un Paese due sistemi” fino al 2047. Pechino risponde che è stato proprio per salvare la sovranità di “Un Paese” di fronte alla rivolta che è stato necessario introdurre la legge che impedisce la sovversione (equivalente di opposizione anti-comunista). Bielorussia. Lukashenko reprime le proteste. L’opposizione: “Un voto truccato” di Fabrizio Dragosei Corirere della Sera, 11 agosto 2020 Migliaia di arresti e feriti. Il presidente: “Proteste manovrate da fuori”. La Germania: sanzioni. L’esito delle urne è un rotondo 80 a 10, come si prevedeva fin dall’inizio; ma l’opposizione non ci sta. Continua a scendere in piazza, ha presentato un ricorso ufficiale alla commissione elettorale e chiede che nel Paese che fa da cuscinetto fra la Russia e l’Occidente si torni a votare. Aleksandr Lukashenko, il signore e padrone della Bielorussia da 26 anni, risponde con la polizia in assetto anti-sommossa e denuncia interferenze esterne. Non solo russe, ma anche ucraine, ceche e polacche: “Dirigono il quartier generale dove queste pecore non sanno cosa gli stanno facendo fare”, ha spiegato parlando del suo popolo. Lui pensava di aver organizzato “un giorno di festa” in occasione della sua sesta rielezione alla presidenza, “e invece questi vogliono rovinare tutto”. Già nella notte di domenica c’erano stati i primi scontri, dopo che la commissione elettorale aveva fatto capire chiaramente quale sarebbe stato il risultato finale dei conteggi, con oltre l’80 per cento per il “babbo”, come Lukashenko ama essere chiamato dai suoi. Dimostranti sono scesi in piazza nel centro di Minsk e di altre città, nonostante i massicci presidi delle forze dell’ordine. Nella capitale hanno tentato di dare l’assalto ai palazzi del potere, secondo la versione della polizia. L’opposizione e anche diverse capitali europee che hanno protestato, parlano invece di pacifici assembramenti sciolti con brutalità. A un certo punto un uomo è stato investito da un camion militare e subito trasportato in ospedale. Gli altri manifestanti hanno detto che era rimasto ucciso, mentre il ministro della Sanità ha dichiarato che è ancora ricoverato e che ha riportato “diversi traumi”. Ieri sera di nuovo agenti nelle strade, stazioni della metropolitana chiuse e gente che tentava di raggiungere le strade del centro cittadino a Minsk per riunirsi. Anche questa volta Lukashenko contava di riportare una tranquilla vittoria “bulgara” dopo aver messo in galera o costretto all’estero i suoi principali contendenti. Ma all’ultimo momento tre donne, legate ad altrettanti candidati fatti fuori dalla competizione elettorale, sono riuscite a coalizzare le forze d’opposizione dietro a una di loro, Svetlana Tikhanovskaya, la moglie di un blogger imprigionato. Secondo gli osservatori dell’opposizione, la donna avrebbe riportato ben più del 10 per cento attribuitole dalle autorità. Anzi, in molti collegi avrebbe stravinto. Ieri Svetlana ha presentato un ricorso ufficiale: “Non siamo affatto d’accordo con i risultati ufficiali. Anzi, noi abbiamo informazioni assolutamente opposte. Abbiamo i protocolli ufficiali di molti seggi nei quali i voti a mio favore sono molte volte superiori a quelli di qualsiasi altro candidato”, ha detto. A questo punto sarebbe assai facile verificare. Ma non è detto che verrà fatto. Vladimir Putin, che Lukashenko in queste ultime settimane ha attaccato frontalmente, si è affrettato a congratularsi con il presidente. La Russia tenta di fare la faccia feroce con Minsk, ma non ha alternative al “babbo”. L’Europa fa sentire la sua voce ma alla fine, si sa, è difficile che prenda iniziative. Gli Stati Uniti stanno da mesi tentando di ricucire i rapporti con la Bielorussia, e hanno appena nominato dopo anni un nuovo ambasciatore. Julie Fisher, in attesa dell’ok del Senato, ha detto la settimana scorsa che lo scopo degli Usa è quello di “appoggiare gli sforzi della Bielorussia per proteggere la propria sovranità e indipendenza di fronte alle pressioni politiche esterne”. Neanche una parola su diritti umani o libere elezioni. Ieri sera però la portavoce della Casa Bianca ha parlato di voto “compromesso”. La Polonia ha chiesto una riunione straordinaria del vertice Ue, mentre la Germania invoca il ripristino delle sanzioni: “Non si può parare di vere elezioni”, ha detto il ministro degli Esteri Heiko Maas. Somalia. Sommossa sedata nel carcere di Mogadiscio, almeno sei detenuti uccisi agenzianova.com, 11 agosto 2020 Almeno sei detenuti sono rimasti uccisi nel carcere centrale di Mogadiscio, in Somalia, a seguito di una rivolta all’interno dell’istituto. Lo rende noto la radio di Stato, secondo cui tra i prigionieri vi sarebbero anche sei feriti. Una fonte anonima tra le guardie carcerarie ha raccontato che gli ammutinati sono riusciti a sottrarre armi ai secondini in servizio oggi pomeriggio e a ucciderne tre. Le forze di sicurezza e le guardie carcerarie hanno risposto uccidendo sei aggressori e fermandone altri cinque. Secondo quanto riferito dalla radio di Stato sul suo sito web, “l’operazione per ristabilire l’ordine all’interno della prigione è stata completata”. Niger. Dopo l’attacco ai francesi Macron convoca il Consiglio di difesa di Benedetta Perilli La Repubblica, 11 agosto 2020 Otto persone, 4 uomini e 4 donne, sono morte dopo l’assalto nella zona di Kouré. La procura antiterrorismo di Parigi apre un’inchiesta. Quattro uomini e quattro donne di età compresa tra i 25 e i 50 anni. Iniziano a definirsi i profili delle otto persone uccise in Niger, domenica, da un commando armato sopraggiunto in moto durante una visita turistica nella zona di Kouré. Sei di nazionalità francese, tutti dipendenti della Ong Acted, e due di nazionalità nigerina, un autista sempre in forza ad Acted e una guida, come già si era appreso nelle ore successive all’uccisione. Ora però la Francia, che con il presidente Emmanuel Macron aveva immediatamente condannato l’attacco “codardo” promettendo di fare tutto per far luce sull’accaduto, accelera sulle indagini e prima indice un Consiglio di difesa che verrà presieduto domani dallo stesso Macron e poi, attraverso la procura nazionale antiterrorismo, apre un’inchiesta affidata alla Direzione generale della sicurezza interna per assassinio legato ad azione terroristica ed associazione a delinquere terroristica. Non solo, si intensificano anche le ricerche degli autori dell’uccisione con una collaborazione tra le forze armate nigerine e francesi. Intanto l’avvocato di Acted ha informato che la Ong presenterà una denuncia per la morte dei suoi dipendenti. “Lo facciamo affinché siano chiarite le condizioni di quello che è accaduto, perché le famiglie conoscano cosa è successo, se è stato un attacco casuale, se è stato pianificato, se è qualcosa che può succedere di nuovo”, ha spiegato Joseph Breham in una conferenza stampa. La stessa durante la quale il co-fondatore di Acted Frederic Roussel ha definito “deplorevole” che la comunità internazionale non garantisca la sicurezza dei lavoratori umanitari impegnati nelle zone a rischio. “Devono rendersi conto della contraddizione tra chiederci di sostenere queste popolazioni che vivono in modo drammatico e lasciarsi soli davanti a una violenza che ci vede i bersagli più facili”, ha spiegato Roussel. Dal 1993, quando è stata fondata con sede a Parigi, l’agenzia per la cooperazione tecnica e lo sviluppo opera in zone di conflitti o disastri naturali, ma anche in aree di povertà ed emergenza sanitaria. Secondo il rapporto annuale, l’Ong è presente in 37 paesi, con circa 6000 lavoratori al mondo, nel 2019 ha investito 316 milioni di euro per 419 progetti e nel solo Niger sono 158 i collaboratori. I suoi cooperanti sono stati vittime più volte di esecuzioni e sequestri. L’ultimo attacco, prima di domenica, era avvenuto il 23 luglio ai danni di un impiegato nigeriano rapito e ucciso in Nigeria da gruppi jihadisti insieme ad altri quattro cooperanti. Il 13 settembre 2014 l’inglese David Haines era stato decapitato, 18 mesi dopo il suo sequestro avvenuto in Siria. Nel novembre 2013 sei lavoratori afgani erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco. Nel 2014 l’italo-svizzero Fedrico Motka era stato rilasciato dopo il sequestro avvenuto in Siria nel marzo 2013. Sempre nel 2013 il francese Charles Ballard fu rilasciato a Kabul dopo 71 giorni di prigionia e, sempre in Afghanistan, nel 2011 erano stati brevemente detenuti quattro volontari afgani.