Il Libro Bianco sulle droghe e le carenze del sistema carcerario italiano di Valentina Spagnolo periodicoitalianomagazine.it, 10 agosto 2020 Sulla base del Libro Bianco 2020 si può giungere a una nuova norma maggiormente adeguata a quanto già predisposto scientificamente dalle ricerche su tale argomento, al fine di realizzare un modello detentivo che sia effettivamente riabilitativo. Considerando il nostro sistema carcerario in un momento storico come questo, le evidenti carenze sottolineate, soprattutto sotto gli aspetti dell’assistenza sanitaria da parte degli operatori regionali, acquisiscono oggi il significato di una richiesta di maggior sostegno e aiuto. Si afferma ciò per garantire sia i diritti fondamentali dei detenuti, ma soprattutto per assicurare uno stato stabile di igiene e sicurezza, che merita di essere valutato da ogni punto di vista. Le statistiche dell’anno 2019 hanno infatti riscontrato degli andamenti fluttuanti nei periodi critici, affrontati nel decennio 2009-2019, evidenziando come lo scorso anno sia stata effettivamente affrontata una situazione di ripristino della curva verso un miglioramento. Nonostante ciò, le considerazioni che ora richiedono una sottolineatura importante, corrispondono a un dato emergente rispettoso di ciò che è accaduto in questo difficile inverno. La problematica principale e l’argomento di cui oggi si sta discutendo è focalizzato sulle misure deflattive e di sorveglianza. Lo stesso ‘lockdown’, dal mese di marzo a oggi, ha costituito e rappresentato costituito, nelle carceri, identici ‘effetti di riflesso’ che sono, tra l’altro, già stati confrontati statisticamente durante l’intero anno 2019. L’analisi sul numero dei detenuti, il trattamento, gli ingressi e il contenimento della popolazione carceraria rivela la stessa tipologia di reati: quelli riferiti all’uso o allo spaccio di stupefacenti. Ribadendo che l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi ha segnato l’inizio per una discussione reale, maggiormente orientata verso una scelta coerente, concreta, ma soprattutto scientifica, cerchiamo ora di contestualizzare le domande che aprono il ‘Libro Bianco 2020’: un rapporto indipendente, giunto alla sua 11esima edizione, sui danni collaterali del Testo Unico sulle droghe, promosso da ‘La Società della Ragione’ insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, l’Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali, con l’adesione di ‘A Buon Diritto’, della Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Proprio in considerazione di questo tema per la legalizzazione della canapa, nei limiti dei parametri consentiti e a fini terapeutici, siamo senz’altro, ancora oggi, in cerca di una completa risposta. Infatti, proprio in queste settimane, sull’argomento sono iniziate a circolare alcune anticipazioni del Libro Bianco compilate soprattutto grazie alle dirette testimonianze per ciò che il Covid 19 ha chiaramente dimostrato e manifestato rispetto alle carenze del nostro sistema. Ciò soprattutto grazie all’impegno dimostrato da parte di tutti i principali operatori attivi nell’ambito dell’assistenza sanitaria. Infatti, alcuni gruppi di queste categorie stanno lavorando, proprio in questi giorni, su più punti di indirizzo e di sviluppo, per sostenere la riduzione degli ingressi negli istituti penitenziari e a favore di una detenzione necessaria, qualora possibile, più confacente e ristretta a ogni ragione etico-morale, soprattutto in questi periodi, ma anche di natura prettamente igienica per le strutture carcerarie. Così si chiarisce come dovrebbero essere considerati tutti quei soggetti trattenuti per una determinata tipologia di reati, che si possono definire ‘significativamente rilevanti’. Sorpassando ora questi aspetti, è stato evidenziato che il numero della popolazione detenuta ha continuato a crescere. E questi andamenti crescenti sono stati considerati proprio rispetto alla violazione dell’articolo 73 del codice penale, per uso e spaccio di sostanze stupefacenti. La stima riportata rispetto alla riduzione degli ingressi negli istituti penitenziari esprime dati significativi, in quanto sottolineano l’importanza della detenzione per quei soggetti trattenuti per una tipologia di reati significativamente rilevanti. In ogni caso, la popolazione detenuta ha continuato a crescere e, in violazione dell’art. 73 del codice penale, si è anche ribadito l’aumento dello spaccio di sostanze stupefacenti. Proprio come riconosciuto dagli stessi studi statistici, il ‘picco storico nazionale’ del 2010 ha già evidenziato la possibilità dell’affidamento in prova, sia per chi assume droghe, sia per chi ne è comunque dipendente. Tutto questo costituisce la base per la stessa adottabilità delle misure cautelative, che rappresentano quindi l’estraneità alla definitiva detenzione in carcere. Questa stima significativa, rilevata dal 2005 al 2019, mostra il seguente andamento; a) dal 2008 al 2014: picco esponenziale sino alla soglia dei 27-28 mila detenuti; b) dal 2014 n poi si è assistito a un nuovo incremento di circa 18 mila detenuti; c) nell’anno 2019, si è visto confermato un andamento costante di ricrescita sino ai 23 mila detenuti; d) nell’anno 2010 vi è stato il ‘picco storico nazionale’. Quindi, quel che si può chiaramente affermare è che l’affidamento in prova per chi assume droghe, soprattutto pesanti e ne è anche dipendente, è soggetto all’adottabilità delle misure cautelative, per di più estranee alla definitiva detenzione in carcere (questi sono gli aspetti più significativi riportati dalle discussioni attorno alla legge Fini-Giovanardi). Proprio per quanto esemplificato dalle statistiche degli ultimi venti anni, le richieste di programmi terapeutici risultano sicuramente e, in stima, aumentati, anche sotto l’ondata dell’emergenza da Covid 19. Come ha ribadito Riccardo De Facci: “L’importanza del Libro Bianco, in parlamento si sta orientando proprio nell’interesse all’accoglienza territoriale, incentrata soprattutto per un potenziamento ad alto sostenimento sul territorio”. Ciò in considerazione anche dei piccoli centri, privi territorialmente della dovuta e necessaria assistenza e a favore, quindi, di una migliore e cosiddetta ‘accoglienza territoriale inficiata’. Il secondo aspetto che merita alto e altro interesse è, invece, quello della modifica del sistema di articolazione pubblica e privata, sostenuta da un reale accompagnamento. Sicuramente, tali proponimenti sono mirati e focalizzati sui casi recidivanti e, quindi, per tutte quelle situazioni che richiedono un approccio socio-sanitario di grande attenzione, nonché strutturato su un punto di vista per lo più ‘ospedalocentrico’. Si è aggiunto che il supporto è stato, per le comunità ospiti, possibile soprattutto tramite semplici contatti territoriali. Lo stesso, cercando delle risposte non solo dalla medicina di base, ma dalle istituzioni, lo richiede comunque in prima linea, per quanto precedentemente descritto su ciò che sta accadendo quest’anno. La criticità dimostratasi soprattutto nelle piccole realtà territoriali ha evidenziato le reali necessità di aiuto, che sono state rese possibili da molte delle nostre strutture carcerarie dagli operatori e dall’impegno effettivo mostrato in questi settori. Dopo momenti di trascuratezza, risulta evidentissimo, così come testimoniato, che il decentramento territoriale, la stessa mancanza di coerenza nella quotidianità e le criticità delle situazioni di emergenza affrontate hanno posto in luce i punti fondamentali, su cui Riccardo De Facci si è fortemente battuto nella stesura del Libro Bianco. Egli ha infatti aggiunto che uno degli aspetti fondamentali per il rafforzamento delle strutture assistenziali, soprattutto per arginare e aiutare i casi più gravi delle emergenze da un punto di vista socio-sanitario e socio-assistenziale sia quello della deburocratizzazione. S’intende ciò, per gli stessi operatori che sono soggetti a multe proprio in momenti fortemente drammatici, sia per l’incidenza dei tempi di prolungamento sulle stesse assistenze, sia in ordine soprattutto all’uso dei farmaci sostitutivi di cura, per cui sono stati rilevati veramente dei dati preoccupanti ed afflittivi. Considerando i fatti rilevanti e di biasimo morale rispetto a reati attribuibili anche a soggetti minori, sanzionabili con pene inferiori da uno a due anni di carcere, in tale situazione diviene fondamentale una vera riforma del sistema carcerario e un netto cambio di orientamento in luce dei lavori predisposti in parlamento sulla base della stesura del ‘Libro Bianco 2020’: una risposta che sia, insomma, completa per questo rilevante problema. La stessa lettera di presentazione per l’introduzione della cannabis in qualità di farmaco nei parametri di uso consentito, come “per definizione” nel progetto di legge, coinvolge ancora oggi la responsabilità di ogni parlamentare, che dovrebbe adesso muoversi con ogni dato critico, analitico e scientifico a disposizione, per poterci condurre, concretamente, verso un testo di legge più equo ed equilibrato. Alla luce di quello che da un ventennio è già stato frutto di amplissimi studi e la stessa preoccupazione rispetto alla crisi del 2008-2009, pongono un’evidente e spontanea riflessione sulle problematiche annesse al narcotraffico, altra problematica che è già stata, nel merito di tale approccio sulla questione, valutata sotto il punto di vista della “flagranza di reato” e le possibilità attinenti per un miglioramento degli andamenti sopra evidenziati. Quindi, proprio nell’attesa di cui si continua a parlare in questi mesi e settimane rispetto al testo legislativo italiano, rispetto alla Convenzione internazionale sulle droghe e all’analisi scientifica sulla ‘canapa light’, a basso contenuto di thc, sono stati anche evidenziati tutti i costi che oggi coinvolgono il fenomeno repressivo, che pesa sempre più e rende sempre meno. Sotto l’evidenza degli aspetti critici, si pensa che si potranno sorpassare le “disserzioni estremamente chiuse”, affinchè si renda possibile ridurre non solo i costi, ma soprattutto il danno e gli stessi rischi sul danno. L’economista Davide Fortin ha sostenuto dagli ultimi studi esaminati ed effettuati, che “i costi legati alla repressione sottolineano, dal punto di vista economico, un aumento degli stessi. La prevenzione e il trattamento sono degli aspetti fondamentali, di cui i risultati d’impatto, riportati da una Regione all’altra, ne costituiscono evidenza. Infatti, alcune province che non hanno invece avuto un’alta rilevanza di impatto con il Covid 19, non hanno dovuto effettivamente sostenere alcun costo rispetto ad altre. Ciò incide anche sul numero dei sequestri evidenziati, a livello locale”. Si aggiunge, per parte nostra, che i rischi di arresto e carcerazione non vanno a incidere sul prezzo sul mercato della droga. E l’analisi di questi dati, grazie al Libro Bianco, possono aiutare in merito e in funzione dei lavori in parlamento. O, almeno, questo è quanto si auspica. Il fatto che siano anche scesi i permessi di soggiorno sottolinea come si ricostituisce la criminalità organizzata, secondo una repressione di un sistema di garanzia sul territorio. L’allontanamento dai servizi su base volontaria dei consumatori si dimostra ancora su quello che il sistema controllato dei traffici e degli usi riporta indicativamente, pensando alla Spagna o all’Uruguay, che rappresentano dei Paesi focalizzanti nel problema di assunzione di cannabis. Si richiedono, insomma, delle vere risposte dalla politica, così come suggerite dal Libro Bianco, ancora in corso di studi e di costruzione sino a settembre. E per la ricerca, soprattutto, si sta cercando una risposta politica sull’autoregolazione. La capacità di regolamento e controllo si ripercuote, infatti, anche sui consumatori, in quanto le stesse conseguenze del Covid sono stati dei potentissimi riflessi di questa problematica, che esigono ora propriamente di essere sconfitti razionalmente. Il vincolo del controllo della droga stessa è stato, infatti, l’aspetto più interessante e importante, da cui si è rilevato che, a causa dell’emergenza, è emersa una diminuzione del consumo proprio nel setting del divertimento. Si può dire che il mercato abbia registrato tale tipo di crisi nello stesso modo, considerando che lo stesso contenimento dei farmaci, dal punto di vista molecolare, non è cambiato. Le difficoltà dei consumatori con i servizi è stato davvero difficile, escludendo i casi richiedenti soltanto l’uso del Metadone. In ogni caso, tutto ciò si presenta, a livello sistemico, ancora caotico. Per cui, accanto alla stessa ripresa dei servizi territoriali, si attende soprattutto il contenimento e la riduzione del danno attraverso una risposta parlamentare nel testo di legge in attesa, affinché la stessa sia adeguata a quanto già predisposto scientificamente dalle ricerche su tale argomento. Destra, sinistra e il menefreghismo per la libertà dei poveri di Iuri Maria Prado Il Riformista, 10 agosto 2020 C’è un’emergenza doppia nella giustizia italiana. E sta nel fatto che essa violenta le libertà individuali mentre a patirne sono perlopiù i poveri. Non soltanto, ovviamente: ma di fatto è lì, dove c’è povertà, dove c’è emarginazione, dove c’è arretratezza culturale, è lì che più fortemente si scarica l’ingiustizia dell’ordinamento. E l’emergenza di questa doppia ingiustizia non è senza causa: ne ha una molto precisa e risiede nella speciale concezione dei diritti di libertà a destra e a sinistra, una concezione diversa ma che nei due casi conduce identicamente al sacrificio dei diritti dei più bisognosi, dei più deboli. Se non c’è né a destra né a sinistra sufficiente attenzione per i diritti di libertà è perché a destra essi sono concepiti come accessori garantiti dal censo mentre a sinistra sono considerati sostanzialmente irrilevanti o in ogni caso recessivi in favore di acquisizioni diverse (uguaglianza, progressione sociale tramite assistenza pubblica e via di questo passo). Il risultato ai danni della vittima principale, e cioè la povera gente, è tuttavia lo stesso: essa non trova protezione a destra perché lì il fervore garantista si eccita a patto che in gioco sia la libertà dei galantuomini, che vuol dire i ricchi; e non trova protezione a sinistra perché lì quel fervore non si eccita proprio. E nei due casi, appunto, a rimetterci sono i poveracci. La connotazione sociale, classista e dopotutto antidemocratica del maltrattamento delle libertà, di cui soffrono innanzitutto i ranghi bassi della società, non impensierisce il garantismo discriminatorio della destra né l’equanimità illiberale della sinistra: e il risultato identico è quello lì, con i poveri che identicamente sono estromessi dal godimento pieno dei diritti di libertà perché essi sono alternativamente un lusso da garantire a pochi (destra) o una cosa senza importanza da non garantire a nessuno (sinistra). Le carceri sono piene di poveri. E a riempirle di poveri è la combinazione condannatoria dell’apartheid liberale di destra con il sostanziale indifferentismo della controparte. Csm. Bonafede: “il magistrato eletto in politica non potrà più rientrare in magistratura a vita” agenpress.it, 10 agosto 2020 Con la riforma del Csm “viene accentuato e posto un confine una volta per tutte tra politica e magistratura” ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nella conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri, spiegando che non sarà possibile eleggere tra i membri laici “persone che ricoprono in quel momento o hanno ricoperto negli ultimi due anni ruoli di governo a livello nazionale o a livello regionale. Inoltre chi è stato membro del Consiglio superiore della magistratura”, al termine del mandato “nel quattro anni successivi non può presentare domande per incarichi direttivi e semi-direttivi”, per evitare “che il ruolo di membro del Consiglio superiore della magistratura possa rappresentare in qualche modo un vantaggio”. Con la riforma del Csm si punta a “scardinare il correntismo”. I componenti della sezione disciplinare verranno scelti con sorteggio e non potranno far parte di altre commissioni e per le nomine per gli uffici giudiziari si vuole evitare “qualsiasi logica spartitoria”, con lo “stop delle nomine a pacchetto: si deve seguire un ordine cronologico, in modo da evitare che possano arrivare sul tavolo del Consiglio più nomine contemporaneamente, che possono assecondare logiche spartitorie che vogliamo superare” ha sottolineato Bonafede. “Finalmente si scrive nero su bianco”, ha aggiunto il Guardasigilli, che “il magistrato che entra in politica, ed è assolutamente libero di farlo, una volta eletto ha perso il requisito di terzietà, per questo non potrà più tornare alla magistratura a vita. Al momento della candidatura non può candidarsi nel territorio in cui esercita in quel momento o ha esercitato negli ultimi due anni”. In caso di mancata elezione “si stabilisce che il magistrato non possa esercitare le funzioni nei tre anni successivi né nel territorio in cui si è candidato, né in quello in cui stava esercitando le funzioni al momento della candidatura. Negli altri territori non potrà esercitare le funzioni di pubblico ministero o di giudice delle indagini preliminari”. Previsti anche altri criteri per i magistrati che vogliono candidarsi in politica o Magistrato che, candidatosi in politica, non venga poi eletto. Introdotto inoltre il tetto massimo emolumenti e “criteri meritocratici nelle nomine” e su quest’ultime “per evitare logiche spartitoria c’è lo stop alle nomine a pacchetto” conclude Bonafede. Caiazza (Ucpi): “Attenti, così al Csm rischiamo di avere solo pubblici ministeri” Il Dubbio, 10 agosto 2020 Il presidente dell’Ucpi nota un aspetto sottovalutato del sistema per eleggere togati: l’eliminazione del doppio canale requirenti-giudicanti. “Così rischiamo di avere un Csm composto solo da pm, come già avviene in Anm: sarebbe devastante”. A proposito di riforma del Csm, di una cosa nessuno parla: l’abolizione delle “categorie riservate” nel sistema elettorale. Tra i pochi, anzi l’unico, a notarla è Gian Domenico Caiazza. Presidente dell’Unione Camere penali italiane e dunque leader di quella categoria, l’avvocatura penale, che è controparte del partito trasversale e dominante tra i magistrati: i pubblici ministeri. Caiazza ne pala in una conversazione con l’Adnkronos. E si sofferma anche su altri aspetti, in particolare i modesti passi avanti compiuti dal ddl sulle “valutazioni di professionalità”: non viene in realtà superato il meccanismo dell’”automatismo di carriera”. Vero, ed è paradossale che invece nella riforma penale si sia previsto di penalizzare chi non produce sentenze in fretta, come se l’obiettivo di un giudice non consistesse nel decidere bene ma nel decidere in modo seriale. Ma appunto il leader dell’Ucpi, vede in controluce un aspetto del sistema per eleggere i togati sul quale nessuno si è soffermato: l’abolizione della norma che distingueva i candidati al Csm in base alle categorie “requirente” e “giudicante”. oltre che per la categoria “di legittimità” (l’unica sopravvissuta). “La conseguenza sarà devastante perché potrebbero essere eletti principalmente pm, come per l’Anm”, nota Caiazza. “Mettere il Csm nelle mani dei pm è una deriva di governo delle toghe a prevalenza dei magistrati d’accusa. Sarebbe un organo di autogoverno nelle mani delle Procure”. In generale per il leader dei penalisti italiani si tratta di una riforma “gattopardesca”, che “sembra voler riformare tutto ma non riformerà nulla”. Perché? Spiega Caiazza: “Mancano interventi decisivi, come sull’automatismo di carriera dei magistrati, caso di distorsione italiano unico al mondo”. Nulla impedirà che anche toghe macchiate da clamorose inefficienze vengano riconosciute meritevoli di passare di gran carriera da una valutazione di professionalità (che equivale a scatti stipendiali) all’altra. “Dal 1970 sono state eliminate le promozioni basate sulle valutazioni di merito dei magistrati”, ricorda il presidente dell’Unione Camere penali. “Oggi si entra da uditori e si finisce con stipendi”, appunto, “da giudici di Cassazione, nel 99 per cento dei casi per automatismo. La conseguenza è il totale appiattimento valutativo e l’ingresso, all’occorrenza, del criterio correntizio. Siamo unici al mondo, nell’adoperare questa modalità, che porta alla distorsione di equiparare l’eccellenza all’anzianità”. Caiazza si rammarica di come, nonostante si parli di “oggettivizzazione dei criteri”, non ci sia “diversità oggettiva nelle carriere”. Essa sola “permette di valutare qualitativamente e in modo diverso un magistrato da un altro”. Se manca il coraggio di una scelta simile, il famoso “merito” proclamato dagli artefici della riforma, innanzitutto dal guardasigilli Bonafede, “è un’impresa impossibile”. L’Adnkronos ricorda come tra le novità introdotte dalla riforma nei criteri di assegnazione degli incarichi, vi sia un parziale ritorno all’anzianità. “Lo posso capire”, commenta Caiazza, “dato che non ci sono altri criteri valutativi oggettivi. Ma così poi il criterio di nomina rimarrà politico e comunque arbitrario”. In ogni caso, il vero baco del ddl varato venerdì sera è, per il presidente dell’Ucpi, quell’aspetto del nuovo sistema elettorale: “Devastante”, è l’aggettivo usato da Caiazza. Certo una paradossale replica alla proposta di separare le carriere avanzata proprio dai penalisti italiani. Con la “Spazza-correnti” nessun candidato indipendente riuscirà a entrare nel Csm di Andrea Reale* Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2020 Le sirene della propaganda governativa talvolta raggiungono livelli quasi lirici, perché suggeriscono nomi evocativi a provvedimenti che hanno tutt’altro contenuto. Mi riferisco allo schema di disegno di legge, ribattezzato “Spazza-correnti”, che il 3 agosto scorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha licenziato anche nella materia “ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità, di costituzione e funzionamento del Consiglio Superiore della magistratura”. La straordinaria occasione generata dalla pubblicità del “sistema delle correnti”, nata dall’indagine pendente a Perugia, avrebbe potuto dare all’esecutivo un assist formidabile - e motivato - per rivoluzionare il sistema di funzionamento dell’organo di governo della magistratura italiana, istituzione di garanzia di fondamentale importanza soprattutto per i cittadini, perché soltanto una giurisdizione davvero indipendente può permettere di tutelare i diritti di ogni singolo membro del consesso civile. Invece in Italia la scoperta della più purulenta cancrena della quale è affetta la magistratura associata dal dopoguerra ad oggi viene curata con uno spruzzo di acqua ossigenata. Dapprima con decreto legge il governo realizza una vera e propria “amnistia mascherata”, depenalizzando le condotte di abuso di ufficio nei casi di provvedimenti illegittimi, quando essi sono connotati da discrezionalità tecnica, ossia proprio in tutti i casi che le chat captate sul telefono di un ex presidente dell’Anm e componente di punta del precedente Csm documentavano in modo quasi scolastico. Adesso con lo schema del ddl in questione le intenzioni (e le speranze!) di abbattere la correntocrazia dentro quell’Organo di rilevanza costituzionale vengono definitivamente a tramontare. Se, in teoria, da un lato si vieta la costituzione di gruppi tra suoi componenti per consentire ad ogni singolo membro togato di esercitare le proprie funzioni in piena indipendenza ed imparzialità, dall’altra, in pratica, la legge elettorale escogitata per fronteggiare la patologia si rivela più una pillola dall’effetto placebo che un vero vaccino. Si vorrebbe introdurre, infatti, un sistema uninominale maggioritario su base territoriale a doppio turno. Si può essere eletti al primo turno soltanto quando si è capaci di ottenere il 65% delle preferenze in ciascun collegio. La maggioranza “bulgara” è un connotato tipico dei potentati correntizi locali, direi quasi dei “feudi” di certe regioni: soltanto un “boss delle correnti” potrebbe farcela con quei numeri. Ove non si arrivasse a quelle cifre, però, la competizione sarebbe, udite udite, tra i quattro maggiormente votati al primo turno. Va considerato che ogni elettore potrebbe esprimere fino a quel numero di opzioni. La novità è il voto “tarato” (verrebbe da dire taroccato), ossia la possibilità che le preferenze accordate abbiano pesi specifici diversi (il primo voto varrà uno, gli altri un po’ meno: 0,90, 0,80 e 0,70). Anche al secondo turno, però, il voto potrà essere doppio (da parte di ciascun elettore) con un diverso indice specifico (uno varrà uno; l’altro 0,80). Si comprende chiaramente come le correnti potranno, dunque, nel rispetto delle quote di genere, spartirsi ogni singolo “feudo” nel modo che più gli aggrada, facendo accordi di desistenza e concordando alleanze per sostenere il candidato “di bandiera”. Come hanno sempre fatto. Altro che depotenziamento! Nulla sarà la possibilità che un candidato indipendente possa riuscire nell’impresa di andare al Csm. Per dare un contentino a questa minoranza indisciplinata e talvolta rumorosa che chiede al Consiglio di avere una rappresentatività aliena da qualsivoglia dipendenza interna, però, al Ministero della Giustizia hanno pensato bene di introdurre un sistema di preselezione dell’elettorato passivo con sorteggio (ma solo ove in ciascun collegio non si raggiunga il numero di dieci candidati). L’unico metodo idoneo a recidere definitivamente il legame perverso tra i gruppi e il Csm viene relegato soltanto a preliminare meccanismo di arrotondamento delle liste dei candidati individuati dalle correnti more solito, quasi a spolverare la selezione operata da queste ultime di un inconsistente e formalistico velo democratico. Così accanto ai notabili correntizi prescelti per discendenza e per ceto (definibili “gli optimates”) verranno indicati i nomi di avventizi del popolo magistratuale (i “plebei clientesque”), che verranno premiati, al massimo, con un voto tarato da 0,70. Se qualche giovane pastore di nome Davide dovesse riuscire nell’impresa di arrivare al secondo turno, però, il ddl consegna l’arma micidiale al Golia tra gli optimates per allearsi insieme e abbattere il nemico con il voto specifico (quello che vale uno) compatto. Insomma la grande riforma del governo guidato dall’Avvocato del popolo, battezzata da qualche entusiasta voce “spazza-correnti”, dovrebbe chiamarsi, al contrario, “salva-correnti” o, al più “spalma-correnti”. Sì, perché non solo consente ai gruppi associati della magistratura una divisione scientifica del voto per territori, tramite accordi e spartizioni di bassa lega, dando sempre maggior forza ai vivi e vegeti notabilati locali (dove può essere ancor più forte il peso del ras di turno persino sul lavoro dei singoli magistrati), ma si rivela un atto di servile inchino del Ministero al mieloso potere interno della magistratura associata. *Magistrato Ai magistrati il potere (senza controlli) della polizia giudiziaria di Alberto Cisterna Il Riformista, 10 agosto 2020 Alcuni punti fermi nella discussione esistono. Allinearli rapidamente può essere utile per tentare un passo in avanti. Ad esempio non ci voleva lo scandalo delle toghe per enfatizzare un dato noto da tempo, ossia che la lotta per le carriere è al calor bianco soprattutto tra i pubblici ministeri e soprattutto quando si aspira a posti di comando nelle procure della Repubblica. A innescare la guerriglia e a dar fuoco alle polveri una pericolosa miscela che prende le mosse da improvvide riforme legislative (la brusca riduzione dell’età pensionabile a 70 anni e il rafforzamento, dal 2006, dei poteri dei capi degli uffici) e giunge sino alle opache commistioni - sempre più intime - tra non poche toghe e un certo giornalismo “da riporto” più che “da caccia”. Il tutto reso più instabile e precario dalla disponibilità sempre più vasta che i Pm esercitano sulla polizia giudiziaria; una potestà che ha addirittura un fondamento costituzionale e che, per tale ragione, si ritiene intangibile. Ci sarebbe altro, ma accontentiamoci di questo, per questa volta. Di tutte le criticità che affliggono settori esponenziali della magistratura inquirente quella delle relazioni tra Pm e polizia è la più difficile da affrontare. Invero in molti vorrebbero che non se parlasse affatto. È un intreccio inestricabile di norme, di prassi e di qualche devianza che affligge certo a macchia di leopardo la giustizia inquirente, ma che - come tutte le malattie pericolose - ha un alto tasso di contagiosità. È un connubio a geometria variabile quello tra Pm e polizia giudiziaria che, solitamente, vive sommerso, a pelo d’acqua, appena percepibile, ma che, tuttavia, è capace di ergersi possente e spietato quando occorre. Un potere in apparenza mite, cresciuto e giustificato dalla retorica del “fare squadra” che un senso aveva nella Palermo degli anni ‘80 in cui toghe e divise corrotte occupavano i palazzi del potere, isolando gli onesti, ma che è privo di ogni giustificazione in questi decenni del nuovo secolo, quando 40 anni sono passati, e non invano per fortuna, da quella stagione buia. Si diceva della disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero. A parlarne si varcano i cancelli di un giardino proibito e si affonda lo sguardo sui pilastri sommersi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura in Italia. Senza l’articolo 109 della Costituzione (“L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”) l’ordine giudiziario, la sua stessa rappresentazione iconografica, avrebbe in mano la bilancia, ma non la spada, ovvero il simbolo della sua capacità di recidere e colpire il male. Si badi bene: la giustizia penale in Italia non si limita a stabilire chi sia colpevole o innocente, come nel resto del mondo occidentale, ma dispone tra le proprie fila di un braccio operativo, di un’organizzazione praticamente illimitata, fondata sulla disponibilità che il pm ha di centinaia e centinaia di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria anche nel più minuto dei circondari di tribunale. Organizzazione che, come noto, ha un compito decisivo ovvero stabilire di cosa i giudici si possano e si debbano occupare. Anche solo indicare a chi competa la qualifica di operatore di polizia giudiziaria è un compito immane: oltre alle tradizionali forze di polizia, ci stanno dentro gli ispettori dell’Inail, quelli dell’Inps, quelli delle Dogane, quelli dell’Ispettorato del lavoro, gli uomini della polizia provinciale, quelli della polizia locale in ciascun comune, quelli dell’Agenzia delle entrate e tanti altri ancora. Un esercito che, manovrando abilmente, può rappresentare una forza d’urto incontenibile e che ciascun Pm può adoperare a propria discrezione: a Piacenza, per dire, le indagini sui carabinieri sono state condivise tra Guardia di finanza e Polizia municipale. In altri ordinamenti questa possente ed efficiente macchina da guerra viene tenuta meticolosamente distinta dai giudici. L’attività inquirente è concepita come un’attività amministrativa e non giurisdizionale e, quindi, soggiace naturalmente a un altro modello organizzativo. La pensava così anche Giovanni Falcone, come noto, che del processo accusatorio, quale strumento per battere le mafie, era un convinto e leale sostenitore. Il nocciolo della questione è che, distinta la bilancia dalla spada, il peso complessivo della corporazione svanirebbe o quasi, come in molti altri ordinamenti in cui la giustizia è un mero apparato di servizio e non la cruna dell’ago attraverso cui deve passare il cammello della moralità e della legalità di una Nazione. Ciò che rende centrale nel nostro ordinamento la posizione del Pm nei ranghi della giurisdizione è proprio questa incondizionata disponibilità di uomini e mezzi con un budget, a sua volta, privo di limitazioni finanziarie e di rendicontazioni contabili. Un fatto impensabile altrove. E’ l’ufficio del pubblico ministero che, per così dire, impugna la spada e - condividendo con i giudici l’appartenenza alla medesima corporazione - si pone, lui stesso e lui solo, alla ricerca dei colpevoli, senza incontrare alcun limite che non sia quello, fragile e indifeso, di incanalare le indagini all’interno di un fascicolo. Non importa, poi, quanto questo fascicolo sia smisurato e per quanto tempo resti aperto o che ci entri o ci esca con il sistema degli “stralci”. Non esiste, di fatti, alcun controllo su questo snodo del lavoro inquirente e ogni, pur recente, tentativo di porre un argine a queste prassi è naufragato a fronte di un’evidenza assoluta: per controllare l’ufficio del pm ci sarebbe in teoria la procura generale in ciascun distretto, ma i mezzi del primo surclassano quelli del secondo di innumerevoli volte. Il controllato è molto più efficiente e, quindi, molto più potente del controllore. Per cui partita chiusa; anzi mai disputata, se non in qualche rara occasione. È come far giocare Messi con il troppo cieco Mr. Magoo. L’erezione di questo monolite, si badi bene, è un’operazione complessa, richiede intelligenza, alleanze e una capacità di reclutamento tanto feroce quanto efficiente. Soprattutto richiede consenso e parecchio, in modo tale che non trovino ostacoli negli edifici del potere le prassi di cooptazione con cui il pm si sceglie la propria polizia giudiziaria e, altrettante volte, la polizia giudiziaria individua il proprio pubblico ministero. Il decennio appena trascorso appare, a ogni evidenza, come il laboratorio ideale in cui questo inatteso Moloch ha preso vita tra le maglie sfilacciate del processo. Su come sia stato possibile ne riparleremo. Per ora si profila chiaro che coloro i quali - da qualche decennio e invano - reclamano la separazione delle carriere tra giudici e pm in nome della parità tra le parti del processo, trascurano quasi sempre un fattore decisivo della partita che vorrebbero giocare: la diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pm. Una disponibilità che si è tentato inutilmente e blandamente di contenere da parte del potere politico e dei vertici delle forze di polizia (basta leggere la sentenza 229/2018 della Corte costituzionale) e su cui si fonda la complessiva potestas (più che l’ormai scarsa auctoritas) della magistratura italiana. Non è detto che il potere politico nasca sempre e ovunque dalla canna dei fucili (Mao Tsé-Tung), ma ci sarà una ragione se Brenno, durante il sacco del 387 a.C., davanti ai Romani che protestavano per la bilancia truccata con cui si pesava l’oro del riscatto consumò il gesto di lanciarvi sopra la propria spada prima di pronunciare il celebre “vae victis”. Ecco una spada che difende una bilancia truccata, pessimo monito per una protesta senza grandi speranze. Prefetti contro Lamorgese, le accuse: boom di dirigenti a Roma e disinteresse verso i migranti di Paolo Comi Il Riformista, 10 agosto 2020 È rivolta fra i prefetti contro la (non) gestione del Viminale da parte di Luciana Lamorgese. A un anno esatto dal suo insediamento, il giudizio nei confronti dell’ex collega, Lamorgese proviene dalla carriera prefettizia, è impietoso. L’accusa principale rivolta dai prefetti alla ministra è quella di non prestare attenzione ai territori maggiormente esposti dal fenomeno migratorio, lasciando le prefetture competenti senza guida. I dati riservati che Il Riformista ha potuto consultare raccontano di scoperture dell’organico dei funzionari spesso superiori al 50 per cento. La Prefettura di Agrigento, ad esempio, provincia nel cui territorio ricade l’isola di Lampedusa il cui hot spot è al collasso da settimane, è priva sia del dirigente dell’Area immigrazione (preposto alla gestione degli sbarchi) e sia del dirigente dell’Area economico-finanziaria (preposto alla gestione dei contratti per le strutture di accoglienza). Alla Prefettura di Crotone, altro territorio in prima linea per l’emergenza migranti, la scopertura è circa del 70 per cento (sono presenti, oltre al prefetto, soltanto due dirigenti sui sei previsti dalla pianta organica). Per quanto riguarda la gestione contrattuale delle navi da quarantena, i traghetti privati usati per isolare i migranti arrivati in Italia via mare, la confusione è totale. Istituite dal governo il 12 aprile con un decreto della Protezione civile dopo che era stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria, non è chiaro quale sarà il loro destino. Secondo il decreto, sui traghetti dovevano essere trasferite tutte le persone soccorse dalle imbarcazioni delle ong. Tuttavia negli ultimi mesi sono stati collocati su queste navi anche migranti che erano arrivati a terra direttamente con delle imbarcazioni partite dalla Tunisia o dalla Libia. Non sono, poi, chiari i protocolli seguiti a bordo delle navi da quarantena, a differenza dei centri a terra dove le normative (i “capitolati hotspot”) regolamentano le varie fasi dell’accoglienza. Il 20 maggio scorso, un ragazzo tunisino di 28 anni si era tuffato in mare da una di queste navi per raggiungere la costa ed era morto. La nave Ocean Viking dell’ong Sos Meditérranée era rimasta bloccata per dieci giorni in mare prima di ricevere dalle Autorità italiane l’autorizzazione ad attraccare a Porto Empedocle, da dove i migranti erano stati trasferiti sulla Moby Zazà. Per il nolo di questa nave, di proprietà della Compagnia italiana di navigazione, è stata prevista la somma di circa un milione di euro. La sorveglianza sanitaria a bordo è affidata agli operatori della Croce rossa italiana (Cri). Il Ministero dell’Interno, per sopperire alla scopertura della Prefettura di Agrigento, ha aggregato un funzionario da Messina con il compito di gestire tutte le operazioni. “Le navi non sono ospedali, sono traghetti passeggeri, attrezzati per ospitare circa 250 persone”, spiega la responsabile immigrazione della Croce rossa (Cri) Francesca Basile. “Dal 15 maggio la Moby Zazà ha ospitato 680 persone”, continua Basile, che assicura che sulla nave medici, infermieri e operatori culturali sono protetti da dispositivi di sicurezza e seguono tutti i protocolli sanitari per garantire la salute delle persone. Alla scopertura in periferia, si contrappone un “overbooking” nella Capitale: su un totale di 1041 dirigenti in servizio rispetto ai 1411 previsti, ben 361 sono in servizio a Roma. “L’errata gestione tecnica del fenomeno migratorio sta contribuendo ad alimentare una già generale situazione d’insicurezza collettiva”, dice un prefetto che vuole rimanere anonimo. “L’incremento degli arrivi, unito all’emergenza Covid-19, rischia di generare un circolo vizioso a cui l’opinione pubblica non può che assistere passivamente con buon gioco di chi continua a soffiare sul fuoco”, aggiunge. “E pensare che il Viminale è guidato da circa un anno da parte di chi ha (o dovrebbe) avere una piena conoscenza della complessa “macchina” amministrativa e che evidentemente ha concentrato le proprie attenzioni su altro, nonostante le numerose e continue sollecitazioni”, conclude il prefetto. Ieri, nel frattempo, Matteo Piantedosi, capo di gabinetto del Viminale, è stato nominato nuovo prefetto di Roma. Il suo posto è stato preso da Bruno Frattasi. Bruno Corda è invece il nuovo direttore agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati. Piantedosi è stato capo di gabinetto anche con Matteo Salvini e con lui ha gestito la vicenda delle navi Diciotti e Gregoretti. Stragi, uno strumento di destabilizzazione: cosa collega l’Italia con l’America Latina di Fabio Marcelli Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2020 Il 40esimo anniversario della strage di Bologna, il più grave atto di terrorismo mai verificatosi in Italia, ha riportato alla ribalta alcuni personaggi, peraltro da tempo morti e sepolti. Sulle loro responsabilità nell’organizzare e finanziare tale strage e nel tentare depistaggi volti a confondere le indagini e l’opinione pubblica, la magistratura ha acquisito delle certezze pressoché definitive. Peccato però che, nel frattempo, tali personaggi siano tutti passati a peggior vita. Si tratta in primo luogo del “Venerabile” Licio Gelli, il capo indiscusso della Loggia P2, luogo principe del complotto antidemocratico che ha avuto come scenario il nostro Paese dagli anni Sessanta in poi, in diretto collegamento con l’Operazione Stay Behind e con Gladio, l’esercito parallelo anticomunista destinato a contrastare l’adozione da parte dell’Italia di una linea politica non subalterna in tutto e per tutto ai desiderata del capofila atlantico, gli Stati Uniti d’America. Abbiamo poi Federico D’Amato, a lungo capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, uno dei gangli più delicati dell’amministrazione repressiva. Quindi l’editore della rivista di destra Il Borghese Mario Tedeschi e infine Umberto Ortolani, banchiere e tesoriere della Loggia citata. Ecco i quattro membri della Direzione strategica stragista (Dss) della quale facevano parte probabilmente anche altri personaggi, specie di Oltreoceano. Un’inevitabile ricostruzione storica di questa e altre stragi evidenzia il dato che purtroppo la magistratura italiana e le forze dell’ordine non sono stati in grado di cogliere in tempi utili per permettere alla giustizia di avere il suo corso con la punizione dei colpevoli. Sono stati condannati solo taluni esecutori, criminali fascisti, manovalanza tutto sommato di basso livello. E’ rimasto invece immune il disegno complessivo, caratterizzato da un attacco sistematico alla popolazione che attentati come quello di Bologna e altri dovevano terrorizzare, per avviare un processo di destabilizzazione della democrazia italiana, basato sulla diffusione di un clima di incertezza e paura. Nessun dubbio si può avere sul fatto che tale destabilizzazione abbia avuto successo. Nel 1980 comincia un processo di declino della democrazia italiana che aveva raggiunto negli anni Settanta, grazie alla mobilitazione sociale nelle scuole, nei posti di lavoro e nei quartieri, livelli abbastanza elevati. Negli anni immediatamente successivi avemmo il craxismo e il Pentapartito e poi, a partire dai primi anni Novanta - inaugurati a loro volta dalle stragi di mafia e dall’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino - il berlusconismo trionfante. Per non parlare del fatto che la totale sudditanza nei confronti degli Stati Uniti d’America sia sempre stata una cifra identificativa indispensabile di tutti i governi che si sono succeduti, sempre meno indipendenti nei confronti di Washington. Da tale punto di vista può forse essere utile un parallelo coll’America Latina. In tale continente il terrorismo di Stato assunse i connotati dell’Operazione Condor, coordinamento tra i servizi segreti e le autorità di vari Paesi per liquidare fisicamente la sinistra. Ne risultarono decine di migliaia di vittime in molti Paesi. Un’operazione sulla quale proprio recentemente la magistratura italiana ha avuto il merito di svolgere importanti valutazioni, condannandone alcuni protagonisti. In un intervento svoltosi all’Avana il 13 giugno 2005 il professor Luciano Vasapollo ebbe il merito di indicare le connessioni esistenti tra Operazione Condor e stragi italiane. Lo strumento della strage è stato peraltro usato più volte nei confronti di Cuba, coi vari attentati organizzati dalla rete terroristica basata a Miami. Da un punto di vista storico complessivo tali connessioni hanno la loro radice nella pervicace e strenua volontà dell’imperialismo internazionale di impedire il libero sviluppo dei popoli e la loro emancipazione dal proprio potere. Proprio per questo si tratta di questioni di grande attualità, come la cronaca di questi giorni si incarica purtroppo di ribadire puntualmente. Il reato di truffa contrattuale attraverso la vendita di prodotti online. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2020 Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode -Truffa - Vendita online - Condotta materiale - Elementi. Integra una condotta truffaldina la messa in vendita di un bene su un sito internet, accompagnata dalla mancata consegna del bene stesso all’acquirente e posta in essere da parte di chi falsamente si presenta come alienante con il solo proposito di indurre la controparte a versare una somma di denaro e a conseguire, quindi, un profitto. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 22 luglio 2020 n. 21932. Reati contro il patrimonio - Delitti - Truffa - Elemento oggettivo (materiale) - Artifici o raggiri - Messa in vendita di bene su sito internet - Soggetto che si presenti falsamente come alienante - Mancata consegna all’acquirente dopo il versamento del prezzo - Truffa contrattuale - Sussistenza. Integra il delitto di truffa contrattuale, ai sensi dell’art. 640 cod. pen., la condotta di messa in vendita di un bene su un sito internet accompagnata dalla sua mancata consegna all’acquirente dopo il pagamento del prezzo, posta in essere da parte di chi falsamente si presenti come alienante ma abbia il solo proposito di indurre la controparte a versare una somma di denaro e di conseguire, quindi, un profitto ingiusto. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 20 dicembre 2019 n. 51551. Reato - Circostanze - Aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Truffa ‘on - Line’ - Minorata difesa con riferimento al luogo di commissione del delitto - Sussistenza dell’aggravante - Condizioni. In tema di truffa on-line, è configurabile l’aggravante della minorata difesa, con riferimento all’approfittamento delle condizioni di luogo, solo quando l’autore abbia tratto, consapevolmente e in concreto, specifici vantaggi dall’utilizzazione dello strumento della rete. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 6 settembre 2018 n. 40045. Reato - Circostanze - Aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Truffa ‘on line’ - Minorata difesa con riferimento al ‘luogo’ di commissione del delitto - Sussistenza dell’aggravante - Ragioni. Sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5, cod. pen., abbia approfittato, nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti “on-line”, poichè, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. (In applicazione di tale principio, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale che aveva respinto l’appello avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta cautelare ed aveva escluso l’aggravante della minorata difesa ritenendo che l’annuncio relativo alla vendita di beni, inserito in un sito internet, costituisse una modalità della condotta, e non una circostanza di luogo, in cui la distanza accomuna entrambe le parti, che ne accettano i rischi affidandosi alla buona fede dell’interlocutore). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 aprile 2017 n. 17937. Truffa online - Vendita su web - Vendita di computer e i-Pad - Consegna di beni difformi - Pagamento con carta di credito - Aggravante della minorata difesa - Configurabilità - Esclusione. Nella truffa commessa attraverso la vendita di prodotti online è configurabile l’aggravante di cui all’articolo 640, comma 2, numero 2-bis, del Cp, con riferimento al luogo del commesso reato, in quanto il luogo fisico di consumazione della truffa (individuabile nel luogo in cui l’agente consegue l’indebito profitto) in tal caso possiede la caratteristica peculiare costituita dalla distanza che esso ha rispetto al luogo ove si trova l’acquirente che del prodotto venduto, secondo la prassi tipica di simili transazioni, ha pagato anticipatamente il prezzo. Proprio tale distanza tra il luogo di commissione del reato da parte dell’agente e il luogo dove si trova l’acquirente è l’elemento che pone l’autore della truffa in una posizione di forza e di maggior favore rispetto alla vittima, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi comodamente alle conseguenze dell’azione: vantaggi, che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta facilità, se la vendita avvenisse de visu. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 aprile 2017 n. 17937. Reato - Circostanze - Aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Truffa ‘on - line’ - Minorata difesa con riferimento al ‘luogo’ di commissione del delitto - Sussistenza dell’aggravante - Ragioni. Sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5, cod. pen., abbia approfittato, nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti “on-line”, poichè, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima e quello in cui, invece, si trova l’agente determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, che può facilmente schermare la sua identità, fuggire e non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 14 ottobre 2016 n. 43706. Parma. Carcere, i sindacati fanno ricorso contro l’apertura del nuovo padiglione La Repubblica, 10 agosto 2020 Le sigle sindacali Sappe, Osapp e Sinappe comunicano che, come preannunciato, è stato depositato al tribunale civile di Parma il ricorso ex articolo 28 per l’accertamento della condotta antisindacale da parte della direzione degli istituti penitenziari di Parma e del Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna e Marche, contro l’illecita apertura del nuovo padiglione detentivo. La trattazione di tale ricorso è stata fissata per il giorno 3 settembre 2020, di fronte al giudice del lavoro. Continua, da parte delle sigle sindacali, il “percorso di lotta per il rispetto dei diritti soggettivi del personale di polizia penitenziaria e per il ripristino di corrette relazioni sindacali per la risoluzione degli annosi problemi della struttura penitenziaria di Parma”. Bagheria (Pa). Sei persone condannate saranno impiegate come operatori ecologici lavocedibagheria.it, 10 agosto 2020 Sei persone con problemi giudiziari avranno un’altra possibilità per inserirsi nella società civile e lavorativa. È stata infatti firmata nei giorni scorsi la convenzione tra A.M.B. Spa e la cooperativa Centro Aurora onlus per l’utilizzo di 6 persone sottoposte a restrizioni di libertà per effetto di provvedimenti del giudice penale. A darne notizia è il presidente di AMB Vito Matranga. Le unità saranno applicate allo spazzamento delle vie cittadini ed impegnati in progetti di pubblica utilità. “L’attività si inserisce nel progetto “Working freedom 4” di cui all’avviso 10/2016 per l’inserimento socio lavorativo di soggetti in esecuzione di pena. Il CDA di AMB promuove la funzione riabilitativa della pena utilizzando il personale ristretto per fini di ripagamento della società - dice il presidente AMB”. L’amministrazione comunale con una nota ringrazia AMB e il Centro studi Aurora ed è certa che questa esperienza possa essere di aiuto anche alle 6 persone sottoposte a restrizioni di libertà affinché comprendano l’utilità del lavoro e si riabilitino. Cuneo. Bottiglie d’acqua per i detenuti indigenti, donazione consegnata dai volontari Crivop targatocn.it, 10 agosto 2020 Dopo la donazione del 19 giugno 2020 di 700 mascherine chirurgiche sabato 8 agosto 2020, un’altra donazione consegnata dai volontari della Crivop Italia Odv, questa volta di bottiglie di acqua da 0,50 cl, ricevuta dalla Carpenteria Metallica “Sellitto” di Cantalupo (Al) per i ristretti indigenti della Casa Circondariale di Cuneo. La Crivop, Organizzazione di Volontariato Penitenziario, è stata costituita a Messina dal Fondatore Michele Recupero il 1 dicembre 2008. Negli anni ha acquisito professionalità nelle attività di volontariato, grazie anche ai Corsi Base di Formazione Penitenziaria che il fondatore ha tenuto dal 2012 in diverse città d’Italia. L’Organizzazione operante a Torino dal 2016 ha portato sostegno morale e materiale a centinaia di detenuti e internati di vari istituti penitenziari nel territorio italiano, a molti ristretti sottoposti alla detenzione domiciliare ed a tante famiglie di detenuti, favorendo la riabilitazione e il reinserimento nella società attraverso un percorso di cambiamento, umano e relazionale. Milano. I detenuti della “Compagnia San Vittore” portano Shakespeare e Cervantes sul palco di Fabio Implicito mitomorrow.it, 10 agosto 2020 I detenuti pronti ad incantare il pubblico con una rivisitazione di alcuni pezzi dei più grandi del teatro: tutti i dettagli dello spettacolo. “Il Nuovo Teatrino delle Meraviglie” approda nel palinsesto dell’Estate Sforzesca. Lo spettacolo organizzato dal Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) Dentro/Fuori San Vittore, porterà in scena un curioso rifacimento di alcuni pezzi di Cervantes e Shakespeare. Ad interpretare il dramma detenute con permessi speciali, attori e anche un consigliere comunale. Lo spettacolo. Riscritto dalla drammaturga e regista Donatella Massimilla, sulla base di “Intermezzi” di Miguel de Cervantes e “Sogno di una notte di mezz’estate” di William Shakespeare, in calendario il 13 agosto, la proposta si inserisce nel palinsesto de “I Talenti delle Donne” promosso dal Comune di Milano. L’ambientazione è decisamente post lockdown. La narrazione comincia con l’arrivo a Milano di un gruppo di artisti smarriti e nomadi che vengono accolti dal Ghisa Furiere - interpretato dal consigliere Alessandro Giungi - al grido “distanziamento, distanziamento!”. Tuttavia non si perderanno d’animo e reinventeranno fantasmi, voci e visioni, in una città che, spiega la regista, “non ha paura di accogliere i sopravvissuti anche se dei diversi si ha sempre, in fondo in fondo, un malcelato timore”. “Ho pensato molto durante la pandemia, che ci ha colpito tutti, dentro e fuori, alla necessità di tornare in scena non solo con monologhi ma ancor più con un gruppo di teatro numeroso fatto di famiglia d’arte congiunta, stile “Fraternal Compagnia” - ha raccontato Donatella Massimila. Per ritrovare, forse, il senso smarrito di un teatro del cambiamento, interrotto in carcere a causa del Covid-19 da febbraio e solo ora autorizzato a riprendere il suo significativo cammino”. “Terroriste, Zerha e le altre”, il docu-film sulla lotta delle donne simbolo della causa curda di Marina Brudaglio vanityfair.it, 10 agosto 2020 In Turchia a girare ci sono arrivati muniti solo di visto turistico, reflex e cavalletto in miniatura per evitare pedinamenti e requisizioni. Faranno ritorno in Italia con le schede di registrazione attaccate addosso e non prima di aver spedito i diversi hard disk con tutto il materiale raccolto: sono Fabio Colazzo, video operatore, e la giornalista Francesca Nava, ideatrice e co-regista del docu-film “Terroriste, Zerha e le altre”. Prodotto dallo Studio Creative Nomads e distribuito in Italia da Fandango, il documentario testimonia la repressione del governo turco di Erdo?an, attraverso le storie di tre donne impegnate ed influenti, tutte incarcerate per aver sostenuto le istanze del popolo curdo: “Tre modi bellissimi di essere donna e attivista - racconta Marica Casalinuovo, altro volto della compartecipata regia insieme a Marella Bombino e Vicky Chinaglia - donne che senza mai conoscersi stavano contemporaneamente lottando sugli stessi fronti con armi diverse: Zehra Do?an con la sua arte tra le bombe, il medico ?ebnem Korur Fincanci, con le sue documentazioni, e la scrittrice Asli Erdo?an, voce della coscienza di un popolo”. “Questo documentario è un piccolo miracolo e ne vado orgogliosa” esordisce Francesca Nava, in occasione della première tenutasi a Roma lo scorso luglio, in collaborazione con Cine Detour, presso lo spazio socio-culturale autogestito Casetta Rossa (Garbatella), omaggiato con un’opera realizzata in loco proprio da lei, Zehra Do?an, donna simbolo della causa curda nel mondo, artista e giornalista, fondatrice dell’agenzia di stampa femminista curda Jinha (oggi Jin News), che ha scontato 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di carcere per un quadro raffigurante le bandiere turche sulle macerie della città di Nusaybin (Turchia sud orientale). Nel docu-film Zehra si racconta attraverso la voce di Kasia Smutniak, presente alla serata: “Questo progetto l’ho accolto sin dalle prime righe della proposta da parte della coproduttrice Marella Bombino”, racconta l’attrice. “Ho provato immediata empatia con questo team di donne, quelle da raccontare e quelle che volevano raccontarle. C’è chi le storie le vive sulla propria pelle mettendo a repentaglio la vita, poi c’è chi rischia per divulgarle personalmente, economicamente, facendo viaggiare lettere proibite, come tanti anelli di una catena. Si dice che manchino i punti di riferimento oggigiorno ma non è vero, tutte queste donne lo sono, Zehra a maggior ragione è una donna di questi tempi, con cui è facile identificarsi, non devi per forza vivere le stesse atrocità per farti contagiare da quel coraggio per poi usarlo nella propria quotidianità”. E così, anche fuori prigione, l’arma di resistenza contro le ingiustizie resterà per Zehra l’unione solidale tra donne: “Nelle carceri turche”, racconta l’artista alla platea, “le donne vengono picchiate, messe in isolamento, ferite e nemmeno visitate, ci sono anche tanti bambini che non sanno cosa siano gli animali, che non conoscono gli alberi e non sanno cosa voglia dire stare in un parco. E ci sono anziani accusati di terrorismo solo perché il curdo è l’unica lingua che conoscono”. E se il docu-film implicherebbe la conoscenza della causa del popolo curdo, vittima di una feroce repressione etnica, mentre lotta da secoli per la costituzione di uno Stato autonomo, è pur vero che siamo di fronte ad un format che ha la sagacia di non dare nulla per scontato. Il montaggio infatti, a cura di Serena Del Prete, miscela con maestria le riprese clandestine e le immagini shock di videomaker turchi e curdi con supporti grafici e infodata, oltre che con un’accattivante quanto funzionale illustrazione animata che aiuta a deglutire certe verità e riflette il senso dell’arte di Zehra Do?an. In carcere Zehra continua a dipingere in ogni modo possibile, capelli che diventano pennelli e sangue mestruale, spezie, caffè, come colori per dipingere su tele improvvisate: “L’arte di Zehra è arte viva, di denuncia che oltre a raccontare momenti della realtà contemporanea si distingue per essere arte collettiva che va oltre l’autoreferenzialità”, spiega Francesca Nava “Perché mette al centro i corpi delle donne sempre in relazione tra loro: corpi dilaniati, avvinghiati, frammentati, come se volesse cogliere l’istante esatto prima della loro ricomposizione. La sua arte ha parlato per lei al mondo intero e questo è stato un aspetto metaforico anche del nostro lavoro, l’averla cercata, l’aver scritto per lei, montare questo documentario senza mai averla avuta di fronte”. Giunta in Turchia infatti, Francesca dovrà rinunciare ad intervistare Zehra, in latitanza prima di essere arrestata definitivamente. La giornalista si dedicherà nel frattempo alle altre protagoniste come ?ebnem Korur Fincanci, medico legale, Presidente della Human Rights Foundation in Turchia e coautrice del Protocollo di Istanbul, riferimento internazionale per indagini su torture e pene disumane. La partecipazione ad una campagna in favore della libertà di stampa le era già costata un arresto per propaganda terrorista nel 2016, la condanna a 2 anni e 6 mesi di carcere arriverà nel 2018 per aver firmato una petizione che chiedeva di porre fine al massacro del popolo curdo. Una vendetta, secondo la giurista per aver redatto il Rapporto Cizre, report di una strage di 143 persone civili, tra cui tanti bambini nel sud est turco a maggioranza curda. Altra storia, stesso esito per Asli Erdo?an, oggi esiliata in Germania con rischio d’ergastolo e l’accusa di “agire per distruggere l’unità nazionale”, la pluripremiata editorialista e attivista turca per i diritti umani, tradotta in 20 lingue, aveva già conosciuto il carcere dopo il fallito colpo di stato in Turchia per alcuni articoli scritti sul giornale pro-curdo Özgür Gündem. “Abbiamo iniziato a lavorare sulle traduzioni e il montaggio quando Zehra era ancora in carcere, poi ciò che ci ha veramente fatto arrivare a lei è stata la rete umana di contatti, attivisti, associazioni che hanno collaborato in maniera spontanea”, racconta Serena Del Prete. “Casualità vuole che un ragazzo curdo che vive a Roma, nell’aiutarci riconosce Zehra, studiavano insieme. Un contatto tira l’altro e riusciamo a farle pervenire una lettera con delle domande in carcere”. A distanza di molto tempo verrà recapitata allo Studio Creative Nomads la risposta dell’artista, 22 pagine scritte a mano dal carcere militare di Tarso che cambieranno radicalmente l’assetto dell’intero documentario, facendo da telaio alle altre storie: “Avevamo tra le mani un documento prezioso, intimo, divulgarlo diventava una missione, una spinta emotiva fortissima per tutto il team”, dichiara Vicky Chinaglia, co-produttrice e Art Director di Creative Nomads, che ha seguito la parte grafica e artistica con l’illustratore Lorenzo Floriti e il dipartimento Creative Nomads Design. “La lettera era scritta in turco quindi abbiamo pensato di restituirla con disegni animati. Dovevamo ricostruire il personaggio, il suo carattere, le atmosfere anche drammatiche del suo vissuto e senza averla mai conosciuta, la chiave per interpretarla ce l’ha data proprio quel respiro che Zehra trova nell’arte”. “Siamo una piccola casa di produzione”, dichiara Marella Bombino, socia fondatrice di Creative Nomads insieme a Vicky. “E abbiamo sposato un progetto più grande di noi, l’abbiamo fatto col cuore, senza alcuna certezza di ritorni economici, mosse dalla gravità delle censure che avvengono dietro l’angolo di casa nostra e dall’urgenza di diffondere queste storie. Certo che ci siamo assunte dei rischi, molti collaboratori turchi e curdi non hanno voluto essere citati nei titoli di coda. Le paure ci sono ma è vero che il coraggio è contagioso ed ha prevalso”. Il documentario volge al termine e il retrogusto è un misto di commozione, amarezza e pungolo pungente, perché il sapore della complicità occidentale non tarda a toccare stomaco e coscienza: “Mentre ero ancora in carcere Banksy”, racconta Zehra “mi dedica un’opera su un muro di Manhattan, la eco del mio messaggio si fa dirompente e una volta fuori prigione (febbraio 2019) gli Stati Uniti mi invitano ad esporre, ricevo anche un premio al coraggio come giornalista, i media mi offrono interviste, scrivono del governo turco come di un governo assassino. Poi però, il visto dagli USA mi è stato negato due volte perché su di me pesa la condanna da terrorista. Ma perché tutto questo cerimoniale se poi non permettete che entri ufficialmente nei vostri paesi? Stessa cosa in Inghilterra dove ho vissuto sei mesi, affinchè io ottenga questo documento devono ancora fare indagini sul mio conto, sui processi aperti… rispetto all’Europa” continua “bisogna scindere, i popoli europei si battono per i diritti umani e sono molto solidali con il popolo curdo, gli Stati europei invece mostrano ambiguità: nel massacro di Nusaybin le armi erano svizzere, i carrarmati vengono venduti alla Turchia dalla Germania, gli elicotteri impiegati nel bombardamento di Afrin sono di produzione Italiana”. L’arte di Zehra che in Italia ha in serbo ben cinque progetti, continuerà la sua denuncia, così come il docu-film “Terroriste, Zehra e le altre” che tornerà nuovamente a Roma in settembre per poi raggiungere le città di Bologna, Brescia e Milano. Simonetta Matone: “Il ricordo più bello in tanti anni da giudice minorile” di Milena Castigli interris.it, 10 agosto 2020 Giudice, oggi Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, per 17 anni PM per il Tribunale dei Minori. In passato, capo di gabinetto del Ministro Mara Carfagna, vice capo vicario del Dap con il ministro Severino e capo del Dipartimento degli Affari di Giustizia con il ministro Cancellieri. Tutto questo e molto altro - è infatti madre di tre figli - è Simonetta Matone. Giudice Matone, quanto ha inciso il coronavirus nello svolgimento del suo ruolo quale Sostituto Procuratore Generale presso la corte di appello di Roma? “Il coronavirus ha inciso solo relativamente sulla mia attività lavorativa. Anche se a scartamento ridotto, in procura generale tutti hanno continuato a lavorare. Durante la pandemia, la giustizia (almeno quella penale) non si è fermata”. Qual è il problema principale della giustizia penale? “Il problema centrale della giustizia penale è il carico mostruoso di processi arretrati. Solo la Corte di Appello di Roma ne ha 46mila. Anche con sforzi immani, sono processi destinati inevitabilmente alla prescrizione. Purtroppo, manca il personale: non solo giudici e magistrati, ma che il personale esecutivo ed amministrativo che ha un sovraccarico di lavoro enorme. Purtroppo, siamo in perenne situazione di emergenza da almeno 30 anni”. Ha lavorato 17 anni alla Procura per i Minorenni. Cosa pensa della criminalità giovanile? “In genere, questi ragazzi hanno avuto delle storie personali fortemente segnate: abusi, violenze, famiglie sfasciate, microcriminalità etc. Siamo in presenza di situazioni che hanno una spiegazione: nessun ragazzo diventa un delinquente da adulto all’improvviso, ma c’è sempre qualcuno che lo spinge su questa strada. Una storia difficile che - pur non giustificando - spiega le ragioni alla base delle scelte sbagliate di tanti ragazzi. O “baby criminali”, come vengono spesso erroneamente definiti. Però i ragazzi non sono mai dei delinquenti ‘nati’, lo diventano a causa delle cattive influenze”. Ambiente, società, scuola o famiglia. Quale istituzione educativa ha fallito con questi ragazzi? “Principalmente la famiglia d’origine è alla base delle scelte e del tipo di vita che condurrà un giovane, in un verso o in un altro. Non è solo la società o l’ambiente circostante a incidere. Ciò che fa la differenza è la famiglia d’origine. Quale famiglia ha avuto il ragazzo alle spalle? Quale educazione, quali valori sono stati insegnati? Quante e quali violenze ha vissuto? Se la famiglia è assente o è malata, i figli quasi certamente seguiranno quell’esempio e faranno scelte sbagliate”. Che peso ha la scuola nel prevenire i fenomeni di criminalità giovanile? “La scuola può fare molto ma non tutto. Ci vorrebbero insegnanti non solo preparati dal punto di vista culturale, ma anche con un grande carisma, in grado di attrarre i giovani fuori dalla spirale delinquenziale. Cosa che non sempre accade. La scuola è importantissima e può ispirare il buono e al bello. Ma non può fare i miracoli, specie se la famiglia è inadatta al suo ruolo e educa i figli a dei disvalori. Quella tra famiglia e scuola è dunque una lotta impari”. Le cronache degli ultimi anni presentano un numero crescente di genitori che uccidono i propri figli. Cosa ne pensa? “Questo è un fenomeno nuovo e purtroppo in crescita negli ultimi anni. Vale a dire persone - in genere uomini - che non sopportano la rottura del rapporto e uccidono il partner o, peggio, uccidono i figli per vendetta. È una cosa spaventosa. Penso però che parlarne troppo, enfatizzando la notizia, sia un errore. Perché spinge all’emulazione i soggetti psicolabili. E questo spiegherebbe almeno in parte l’aumento improvviso di questo genere di delitti”. Qual è il ruolo della giustizia in una società sempre più indirizzata alla vendetta personale? “La giustizia ha un ruolo fondamentale per il benessere della società. La giustizia deve però essere certa, non esemplare. Deve cioè rappresentare un ruolo di garanzia, di equilibrio. La pena deve essere certa, ma misurata alla colpa. Altrimenti rischiamo di vivere come in un regime totalitario”. Oggi la giustizia è certa? “Purtroppo no. Molti pensano di delinquere e poi di potersela cavare. E, a volte, hanno ragione. Lo dimostrano il 46 mila casi penali pendenti”. Quanto è importante secondo lei la fede nella vita delle persone e nella società? “La fede è fondamentale. È la linfa vitale delle persone. Rappresenta inoltre la via di salvezza per una società scombinata come la nostra”. Ha conosciuto decine di storie terribili. Vuole raccontaci invece una storia a lieto fine? “Una delle mie più grandi soddisfazioni professionali l’ho vissuta quando ho rivisto tre sorelle che da bambine - la vicenda risale al 1993 - avevano subito violenze da un gruppo di ragazzi, molti dei quali minorenni. Una storia terribile. Dopo molti anni, le giovani vittime sono venute a trovarmi durante un convegno. Tutte e tre erano riuscite a superare quei traumi e a costruirsi una vita normale, addirittura felice”. Migranti. Suicidarsi a 14 anni perché si hanno troppe atrocità sulle spalle di Paolo Di Falco e Andrea Leone Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2020 Suicidarsi a 14 anni, quando hai tutta una vita ancora davanti, quando non hai avuto ancora la possibilità di vedere i tuoi sogni realizzati è una delle tragedie più terribili nella nostra società. Suicidarsi a 14 anni perché ti senti respinto da ogni Paese in cui metti piede e cominci a pensare che il problema sei tu perché sei nato con un passaporto sbagliato è davvero un dramma dei nostri tempi, a cui non facciamo nemmeno caso per la nostra continua fretta, la nostra frenesia che non ci dà nemmeno il tempo per fermarci e riflettere. È il caso di Ali Ghezawi, un adolescente siriano che sognava di diventare un cardiologo. Un sogno che era scaturito dalla lettura del libro Anatomy, tra le cui pagine resterà un segnalibro giallo a pagina 623. Ali parlava bene l’inglese e altre 5 lingue, ed era scappato insieme alla sua famiglia dalla Siria: dopo gli anni trascorsi in un campo in Libano, finalmente erano riusciti ad ottenere un permesso di soggiorno in Spagna, dove ad attenderli non era una vita migliore, ma una stanza, senza neanche una finestra, all’interno della quale dovevano convivere ben 8 persone. Si può questa chiamare vita? Mossi dalla speranza di un posto migliore e di condizioni di vita più adeguate, la famiglia arrivò nei Paesi Bassi, ma fu costretta a ritornare in Spagna, dove questa volta ad attenderli non c’era una stanzetta, bensì l’asfalto della strada. Successivamente si spostò di nuovo nei Paesi Bassi, il Paese in cui Ali si sentiva al sicuro e di cui condivideva la cultura, ma l’odissea dei Ghezawi non finì; così, dopo un fallito tentativo di suicidio nel 2019, alla notizia di non poter più restare nei Paesi Bassi Ali ha deciso di abbandonare quella vita che per lui aveva già riservato troppa sofferenza, troppe atrocità sulle spalle di un adolescente. “Vogliamo raccontare questa storia per dimostrare che i bambini rifugiati come Ali non hanno una casa sicura in Europa. Ed è tutt’altro che solo. Le procedure di asilo non solo richiedono molto tempo, ma ci sono così tante differenze nell’accoglienza per paese. La Spagna è stata un’esperienza terribile per Ali. Lo ha portato a una decisione disumana. Il suo sogno di vivere nei Paesi Bassi è andato in pezzi. La vita è diventata un incubo”. Queste le parole dei genitori di Ali, di fronte alle quali non si può non provare un sentimento di rabbia misto a vergogna. Rabbia per la morte di un adolescente la cui unica colpa era quella di essere nato dalla parte sbagliata del globo, vergogna per una burocrazia che non guarda in faccia nessuno, non guarda in faccia la tua vita, le tue emozioni. Come si può assegnare una piccola stanzetta ad una famiglia di ben 8 persone? Come si può restare indifferenti di fronte a questa storia? Mentre le nostre vite continueranno a scorrere come nulla fosse, il cuore di Ali ha cessato di battere perché troppo stanco di continuare a sopportare, di continuare a essere rifiutato. Un sogno spezzato che non potrà più essere realizzato, un segnalibro che rimarrà per sempre a pagina 623. In un clima sempre crescente di razzismo all’interno della nostra Italia, in cui, pensate un po’, un bambino di 8 anni cerca di fermare il papà che picchiava un senegalese, la cui unica colpa era stata quella di sedersi con un telo sotto un gazebo dove l’uomo aveva preso posto con il figlio. È davvero questa la nostra Italia? Davvero un bambino di 8 anni deve dire al padre “Papà, qui c’è posto per tutti” per far cessare la violenza che si prospetta dinnanzi ai suoi occhi innocenti? “Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini”. Questa bellissima frase del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer fa riflettere su uno degli aspetti più negativi di questi due episodi: una società così “occupata” da trascurare la crescita dei bambini. Tuttavia, se nell’ultimo caso quel bambino diventa “un eroe moderno”, inusuale per questi tempi, Ali è l’ennesima testimonianza di “vittima moderna”, facile da rintracciare nella tragicità odierna. Una delle cose più belle della gioventù è avere una vita intera davanti da poter impreziosire con progetti, sogni e obiettivi. Una delle più brutte è rendersi conto che molti di questi sogni si andranno a frantumare come le onde sugli scogli man mano che si cresce. La cosa più importante è trovare la forza e il coraggio per continuare a rincorrere le aspirazioni più grandi. Ad Ali è mancata questa forza mentale, forse perché prosciugata dalle falle della società nella quale sognava di avere un ruolo e di poterlo sfruttare per il bene altrui. Sì, perché questa società, nella quale senza accorgercene abbiamo tutti un peso, poggia i suoi pilastri sulla mentalità odierna e sui bisogni di chi un lavoro, una casa, una famiglia già ce l’ha. In poche parole, siamo una società egoista. Siamo diventati incapaci di andare avanti insieme a chi ci sta accanto. Forse è la paura, il disinteresse o come già detto la frenesia, fatto sta che non ci voltiamo mai indietro per tendere la mano a chi ci sta a fianco. Israele. I ragazzi di Bibi vanno in piazza. E il leader li chiama vandali di Davide Frattini Corriere della Sera, 10 agosto 2020 Più libertari che liberal, molti giovani israeliani hanno sostenuto Netanyahu. Ora una parte sembra aver cambiato idea. Il premier li chiama “smolanim”, parola che voleva dire “di sinistra” ma che oggi viene caricata di un significato dispregiativo. C’è il “muro delle mamme” che indossano i gilet gialli da guidatrici coscienziose per evitare la collisione dei loro figli con la polizia in assetto anti-sommossa. C’è il “nonno” da seguire perché di nottate agli incroci di Gerusalemme ne ha passate troppe da solo. Ci sono i veterani delle tante guerre di Israele e delle manifestazioni in piazza Rabin a Tel Aviv, quelli che il premier Benjamin Netanyahu e la destra chiamano gli “smolanim”: parola che in ebraico significa di sinistra, come una constatazione, e che in questi anni è diventata una contestazione dispregiativa dell’ideologia che ha fondato Israele e ora sta per sinistrorsi, anarchici, vandali. Le ragioni del disagio - Soprattutto ci sono i giovani che smolanim non si sono mai considerati perché non erano neppure nati quando l’ultimo primo ministro laburista (Ehud Barak) è stato al potere e sono cresciuti vedendo un solo uomo al comando (Netanyahu, 11 anni ininterrotti da capo del governo). In assenza di alternative hanno preferito diventare alternativi: poche rivendicazioni e non troppo politiche (quella per la legalizzazione della marijuana), più libertari che liberal. Eppure in questa estate di quarantena sono loro a riempire gli spazi svuotati dal distanziamento sociale, a colmare il buco dell’indifferenza che sembrava definire la generazione arrivata dopo tutto e la fine di tutto: i genitori hanno vissuto la speranza portata dagli accordi di Oslo, i figli solo il progressivo ammutolirsi della parola pace nelle campagne elettorali. Le bandiere nere - Fino al movimento delle “bandiere nere” (dai vessilli sventolati ogni sera sopra ai cavalcavia delle autostrade) Netanyahu aveva attirato il sostegno di chi ha tra i 18 e i 24 anni (65 per cento di preferenze contro il 17 al centrista Benny Gantz). Questi neo-votanti gli hanno garantito di vincere o pareggiare le ultime elezioni, tre in meno di un anno. Adesso un sondaggio pubblicato dal quotidiano Yedioth Ahronoth, il più venduto nel Paese, rileva che il 78 per cento dei giovani (20-35 anni) accusa il governo di aver perso il contatto con la gente. Gli errori di Netanyahu - L’aspetto più interessante è che dalle risposte ai ricercatori risulta evidente che questi ribelli non sono negazionisti del Covid-19, individualisti irresponsabili che pretendono un ritorno alla normalità forti di un sistema immunitario più fresco. Protestano perché secondo loro Bibi, com’è soprannominato il premier da amici e nemici, ha mal gestito l’emergenza sanitaria decidendo di riaprire la nazione in modo affrettato e disordinato dopo che la curva dei contagi si era appiattita - in queste settimane gli infettati raggiungono picchi da 2 mila nuovi casi al giorno. Chiedono riforme per contrastare la disparità economica, cominciano a chiedersi se non sia meglio mangiare insieme alla mensa comune dei kibbutz che restare fuori dai ristoranti troppo cari. “Il re è nudo”, perché immorale - La notte comincia con il rullo dei bonghi, danze, canti collettivi. “Il re è nudo” sta scritto sui cartelli, a spogliarsi sono anche i manifestanti. “Dov’è la morale? Dove sono i valori? Netanyahu non se ne andrà mai se non lo mandiamo via noi”, commenta Maayan, grafica disoccupata. Alle 23 (quando la legge impone la fine agli schiamazzi) nella coreografia intervengono le squadre della polizia che vogliono sgomberare via Balfour, davanti alla residenza del primo ministro. Gli scontri, i getti degli idranti a colpire in faccia (sarebbe vietato), gli arresti. La festa che diventa violenza. Lo choc degli scontri tra israeliani - Il “nonno” Amir Haskel di battaglie ne ha combattute molte, queste lo lasciano incredulo: israeliani che fronteggiano israeliani. È stato anche il suo arresto a richiamare in strada i ragazzi che hanno in media 40 anni meno di lui: le manette a un pilota decorato dell’aviazione sono un’immagine inaccettabile per un Paese dove l’etica del servizio in divisa resta ancora forte. Generale in pensione, per mesi si è piazzato su una sedia agli incroci più intasati di Gerusalemme in segno di protesta, umarell del cantiere democrazia. Non si sente capo-popolo, è convinto che sia stata la crisi causata dal Coronavirus a richiamare questi compagni di lotta inaspettati: “I giovani per loro natura non amano essere rinchiusi, che gli venga detto cosa fare o non fare”, dice al quotidiano Haaretz. “Alla loro età avrebbero dovuto essere in giro per il mondo dopo gli anni di militare obbligatorio o in cerca di un impiego. Invece le frontiere sono chiuse e lavoro non ce n’è. Mentre il premier è sotto processo per corruzione e pensa ad altro”. L’Europa deve giocare un proprio ruolo in Libano di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 10 agosto 2020 Lo Stato sembra talvolta un ospite, che si muove in punta di piedi a casa sua. Ma in una Beirut distrutta è impossibile fingere: bisogna ricostruire. Il Libano si è sempre mosso tra realtà complessa e sogno che talvolta è diventato incubo: così fu durante la guerra civile (1975-1990), che ridusse Beirut a campo di battaglia o, ora, con l’esplosione che ha distrutto la capitale, cuore e anima del Paese. Interpreti principali del sogno, da secoli, sono stati i maroniti, fieri cattolici abitanti della montagna, amici della Francia, che si dicono figli dei fenici, diversi dagli arabi. Il sogno si realizzò dopo la Prima guerra mondiale e le stragi dei cristiani nell’impero ottomano: un Libano dove i cristiani non fossero minoranza come in tutti i Paesi arabi (qui erano la metà). Per realizzarlo c’era bisogno della Francia, potenza mandataria. Nel 1920, l’alto commissario francese, generale Gouraud, proclamò la Repubblica del Libano sullo scalone dell’Hotel des Pins (dove si è recato Macron durante la sua visita), accanto al patriarca maronita e ai leader sunniti. Il Libano si reggeva sull’alleanza tra la borghesia sunnita e cristiana. La Siria lo considerava (ancora è così) parte della sua terra, tanto da non inviare un ambasciatore a Beirut. Più volte, è entrata con le truppe ed è un attore “interno” della politica in Libano. Eppure, qui si è sempre respirata aria di libertà a differenza dei Paesi arabi. Niente censura. Vita libera, case da gioco, spazio di respiro e divertimento per un mondo arabo conformista e compresso a casa propria. Dall’indipendenza, nel 1943, il genio del Paese è la convivenza tra le comunità religiose. Ben diciotto (l’ebraica è finita anche se è stata recentemente restaurata la sinagoga): dodici cristiane (prevalgono i maroniti), sei musulmane. Il primo ministro è sunnita e il presidente maronita. Il Libano fino agli anni Settanta era definito la Svizzera del Medio Oriente: paradiso fiscale e terra del buon vivere. Era le Liban du rêve! Ma non si è costruito uno Stato sociale, mentre i clan all’interno delle confessioni rafforzavano il loro potere, fino a formare milizie. Dal 1933 non si fa un censimento, che ora mostrerebbe i cristiani in minoranza turbando gli equilibri istituzionali. Nel 1948 arrivarono i palestinesi, ora 455.000, che abitano il Paese - nei campi, divenuti ormai veri quartieri - senza alcun riconoscimento. Popolo fantasma, ma con i propri armati, all’origine della guerra civile scoppiata nel 1975. In una guerra di quindici anni, con cambi di alleanze, l’ingresso delle truppe israeliane e poi con l’insediamento dei siriani, il sogno di convivenza va in pezzi. Non solo per le tante milizie, ma perché i poteri clanici, legati a interessi affaristici e famiglie si dividono e ricompongono. Irrompono sullo scenario gli sciiti, sottoproletariato dimenticato e disprezzato: manovali, contadini, camerieri delle ricche famiglie maronite e sunnite... L’imam Moussa Sadr, ucciso in Libia da Gheddafi nel 1978, fonda un movimento di riscatto sciita. Con la vittoria di Khomeini si sviluppa una “teologia della liberazione” islamica. Nel 1982 nasce Hezbollah, che si fa carico delle istanze di riscatto degli sciiti, ormai la componente più numerosa e forza militare più potente dell’esercito nazionale: uno Stato nello Stato, verso cui vanno i sospetti per l’esplosione al porto. Non si tratta di ricordare le vicende degli ultimi decenni, tra violenze, assassinii, cambi di governo. La guerra in Siria ha portato un milione di profughi, accolti con generosità in un Paese di quattro milioni di abitanti. La convivenza tra comunità è spesso scaduta in connivenza affaristica, minata dalla crisi della “lira libanese”. In un regime clanico e affaristico, s’è radicata la compatta testuggine di Hezbollah, che controlla quartieri, la regione Sud, ha sacrificato tanti uomini nella difesa di Assad in Siria. L’islamismo, come ideologia della liberazione, come fu il marxismo, ha derive terroristiche e criminali. Lo Stato in Libano sembra talvolta un ospite, che si muove in punta di piedi a casa sua. La terribile esplosione ha travolto il modus vivendi, per cui si fa finta, ci si ignora, si spartiscono spazi. Ormai, in una Beirut distrutta, è impossibile fingere. Bisogna ricostruire. Le forze sane sembrano i giovani e i meno giovani, liberatisi dalle differenze confessionali e claniche: chiedono un rinnovamento. Si sono stretti attorno a Macron, primo leader europeo a visitare subito il Libano. L’Europa deve giocare un proprio ruolo, come ha mostrato Charles Michel nella sua visita. La presenza dei militari italiani nella forza Onu deve essere la premessa per una politica italiana nel Paese, come ha dichiarato il ministro Guerini. L’alternativa è il fiume di petrodollari da Arabia Saudita ed Emirati: una ricostruzione affaristica (senza rispetto nemmeno per l’antica architettura) e per nulla democratica, che userà i clan libanesi arricchendoli e soffocando il rinnovamento della società civile, unica parte sana. Di Maio ha parlato del Libano come “seconda casa” per l’Italia. Ci vuole almeno una grande iniziativa italo-franco-tedesca. Perdere il Libano, con la crisi libica e le fragilità della Tunisia, è rassegnarsi a un Mediterraneo diverso, certamente peggiore. Libano. Emma Bonino: “Non mettiamo una pezza, aiutiamolo a ricostruirsi” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 10 agosto 2020 “Il Libano era un Paese fragile, sotto ogni punto di vista, già prima della tragedia di Beirut. Ma non intendo unirmi a chi sentenzia che sia un Paese finito. La comunità internazionale, e in essa l’Europa, ha il dovere, politico e non solo umanitario, di aiutare un popolo coraggioso, come è quello libanese, a risollevarsi. Dobbiamo fare di tutto perché il Libano non si aggiunga al lungo elenco degli Stati falliti in Medio Oriente e nel Nord Africa”. A sostenerlo, nell’intervista a Il Riformista, è una donna che quella martoriata area del mondo ha conosciuto molto bene, prima da Commissaria europea per gli aiuti umanitari e successivamente da ministra degli Esteri: Emma Bonino, leader storica dei Radicali, oggi senatrice di +Europa. Libano e non solo. Un altro tema caldo è quello dei migranti e la risposta del Governo italiano. Il giudizio dell’ex titolare della Farnesina è netto: “Al di là dei toni più sobri, cosa comunque da rimarcare, della ministra Lamorgese, quanto a scelte e atteggiamenti non vedo differenze tra il Conte I e il Conte II”. Il Libano è sconvolto dalla tragedia consumatasi martedì pomeriggio nel cuore di Beirut: i morti ufficiali dell’esplosione sono almeno 157, 5mila i feriti, decine e decine – nessuno sa davvero quanti – i dispersi ancora sotto le macerie. 300.000 le persone rimaste, in pochi secondi, senza una casa. Un Paese in ginocchio. Il Libano è un Paese fragilissimo, sul piano politico, con gli equilibri perennemente instabili tra le diverse comunità etnico-religiose, fragilissimo dal punto di vista economico, con una situazione anche pre-crisi Covid molto preoccupante, e, vista l’instabilità politica, con un accordo con il Fondo monetario internazionale bloccato. Su questa situazione già grave s’innesta la tragedia di martedì, che non si capisce se causata da incuria, negligenza, ma rimane il fatto che la pericolosità dello stoccaggio di queste 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, era stata segnalata almeno cinque-sei volte dalle autorità portuali senza mai ricevere alcun riscontro. Nel 2013, la “Rhosus”, una nave che batteva bandiera moldava e proveniva dalla Georgia, fece scalo a Beirut, in rotta verso il Mozambico: a bordo aveva 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio. Il carico fu sistemato nell’hangar numero 12, dedicato alle merci sequestrate. La nave finì per affondare. E sette anni dopo, l’hangar con il suo micidiale contenuto, esplode e determina una catastrofe. Leggo e sento di ipotesi le più varie: un attentato, il colore del fungo presuppone che ci sia del litio, dicono gli esperti, e quindi probabilmente un mix di queste tonnellate di nitrato d’ammonio più, forse, munizioni e bombe. Da qui la richiesta di una commissione d’inchiesta internazionale. Il Libano in più è un Paese fragilissimo perché è un Paese di quasi 7 milioni di abitanti che già ospitava circa 1,5 milioni di rifugiati siriani. Potete immaginare la situazione. Noi ci accorgiamo dei Paesi solo quando ci stanno grandi drammi o interessi in gioco, e quando tutto sembra fragile ma, insomma, tranquillo, ce ne occupiamo meno o li dimentichiamo proprio. Ovviamente, l’Europa si farà forte della robusta politica umanitaria decisa da Jacques Delors e dall’allora Commissario per le Relazioni con i Paesi del Sud del Mediterraneo, dell’America Latina e del Medio Oriente, Manuel Marìn, che io ho poi gestito, da Commissaria europea, per quattro anni. Quell’ufficio era ed è tutt’oggi l’European commission umanitarian office. Una politica robusta non solo in termini di finanziamenti ma anche di sostegno della Commissione europea. Quello che manca, come al solito, è la politica estera, quello che diciamo da sempre. Aiuti umanitari ce ne saranno ma temo senza una visione strategica che aiuti davvero il Libano a ricostruirsi e a rinnovarsi. Si cercherà di mettere la classica pezza per evitare che la crisi libanese deflagri al punto di coinvolgere i Paesi vicini o che possa produrre una implosione che avrebbe ugualmente gravissime conseguenze sul quadro regionale. C’è chi sostiene che la tragedia di Beirut segni la fine del Libano. È una profezia nefasta o un rischio reale? Il rischio indubbiamente c’è, ma non sarei così catastrofista. Io ho sempre visto uno spirito libanese molto reattivo, capace di reagire. E poi dipenderà, vista la situazione, dal contributo di sostegno vero, sia dal punto vista istituzionale che da quello finanziario, da parte della comunità internazionale. Da soli non ce la fanno di sicuro: hanno 300mila persone senza casa, lo sforzo di ricostruzione sarà enorme. Perché, è bene sottolinearlo ancora, la tragedia di Beirut si innesta su una situazione di estrema fragilità dal punto di vista finanziario, economico, istituzionale e demografico. Il Libano in ginocchio, la Siria devastata da una guerra senza fine, la tragedia umanitaria che sta flagellando lo Yemen, il caos armato in Libia, la Tunisia a rischio di implosione sociale. Il Sud del Mediterraneo rischia di essere un immenso cumulo di macerie? La situazione è davvero complessa, e s’intrecciano molte cose: la guerra inter sunnita, la guerra tra sunniti e sciiti, la presenza di tribù locali molto forti, ed è tutta un’area che caduto il vecchio ordine dei dittatori e degli autocrati, ancora non ha trovato una sua strada, perché di nemici interni e di potenziali alleati esterni non proprio affidabili, quest’area ne ha moltissimi. Un vecchio ordine è caduto e il nuovo stenta ad apparire. In questo scenario altamente instabile e denso di incognite, l’Italia sembra ridotta a un ruolo di comprimaria, in Libano come in Libia, solo per fare alcuni esempi di estrema attualità In Libano abbiamo una presenza che ci è riconosciuta in termini di comando della missione Unifil II dell’Onu. Non solo riconosciuta, in termini formali, ma tutti ci sono molto riconoscenti per il modo di fare, per il modo di essere dei nostri militari. Ed è chiaro che l’Italia da sola non è che si possa far carico di Libia, Siria, Libano etc., quando poi altri sono più interventisti, penso alla Turchia di Erdogan piuttosto che la Russia di Putin. È tutto un groviglio di interessi, e l’Europa che non ha una politica estera, ma Paesi come la Francia particolarmente attiva nel Sahel, come in Niger o in Libano, o altri Paesi completamente indifferenti, come quelli del Nord e dell’Est Europa, che hanno altre priorità e preoccupazioni, per cui andiamo a ruota libera e spesso in concorrenza tra di noi: la concorrenza energetica, tra le altre, tra Italia e Francia non è certo un mistero per nessuno. E queste contraddizioni nostre, quelli che si ritengono più forti, come la Russia e la Turchia, le vedono e potendo le sfruttano. Due atti di politica estera, per restare all’inquieto Mediterraneo, l’Italia li ha comunque compiuti nelle ultime settimane: il rifinanziamento della Guardia costiera libica e lo stop dei finanziamenti alla Tunisia per la cooperazione allo sviluppo, deciso dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Questo fondo di cui parla Di Maio dovrebbe aggirarsi attorno ai 6,5 milioni di euro, se non vado errata. Non mi pare sia una grande minaccia. La Tunisia ha i suoi problemi ma anche il suo orgoglio. Sulla Libia, che dire, in pochissimi ci abbiamo provato fino all’ultimo a chiedere che approvando tutte le altre missioni, nel decreto missioni fosse stralciata e discussa a parte la missione in Libia, perché io ritengo che comunque sia stata concepita anni fa, il mondo cambia e la Libia pure, e, a mio avviso, il nostro rapporto con la Libia necessitava di un reset, un ripensamento complessivo. Nessuno ha fatto una piega, Pd compreso, hanno approvato tutto come una lettera alla posta. Al Senato siamo rimasti in 14 a chiedere un ripensamento, ma non c’è stato verso. In Libia, dopo le dimissioni di Salamè, da mesi non c’è più un inviato delle Nazioni Unite. A parte la nostra preoccupazione ossessiva dei migranti, per il resto non vedo neanche una parvenza di volontà di ripensare e definire un disegno che prefiguri un rapporto strategico con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Si naviga a vista, e si naviga male. Tanto male, mi riferisco al rifinanziamento della cosiddetta Guardia costiera libica, da suscitare la rivolta e l’indignazione delle Ong e delle associazioni umanitarie, che hanno rimarcato come, su questi temi, non esista alcuna discontinuità tra il Conte I e il Conte II. È una forzatura? Assolutamente no. Basta vedere le leggi: quelle erano e quelle sono. L’impianto resta lo stesso. Conte I, Conte II: stesse leggi, stesso comportamento. Una moderazione di linguaggio, questa sì, da parte della ministra Lamorgese, e di questo gliene va dato merito. Ora la ministra dell’Interno è al lavoro per cambiare i “decreti Salvini” ma tutto il resto è rinviato ad ottobre. E questa estate si salvi chi può, come può, se può. Di certo non c’è stato alcun cambio di direzione.