Già fantasmi prima di morire di Francesca de Carolis remocontro.it, 9 settembre 2019 Essere donna e malata in carcere. Il racconto di Monica Scaglia, una testimonianza che è atto d’accusa fortissimo. Un viaggio nell’indecenza delle patrie galere, dove “vi volete mettere in testa che non siete malati come gli altri?”, e si diventa fantasmi. Fantasmi costretti - “È stata una nottata particolarmente afosa, le labbra mi bruciano più del solito, mi sono spalmata troppo aglio ieri sera. Non sono più disposta a farmi mordicchiare dagli scarafaggi. Io e la mia compagna di cella li abbiamo soprannominati chirurghi plastici. È la quarta volta questa estate che mi rifanno le labbra a canotto e occhi a dirigibile. Me li hanno rifatti così bene che Dominique quasi mi invidia per quelle labbra carnose che lei ha sempre desiderato”. Cronaca di un’ordinaria notte d’estate nella cella di un carcere. Finora sono solo uomini le persone che ho incontrato in carcere, maschi e “cattivissimi”. Sempre ne esco, dai nostri incontri, turbata quando non sconvolta (e come ci si può abituare all’idea delle condizioni in cui confiniamo le persone, un surplus di pena nella pena che nessuna colpa, a mio parere, può giustificare…), e neppure riesco a pensare quanto più feroce e più duro possa essere per una donna, per quanto “cattiva” ci si possa sforzare di immaginarla, abitare un universo così tremendo, e tutto costruito avendo come riferimento il mondo maschile. Yaiahira - Poi Sandra Berardi (presidente dell’associazione Yaiahira) mi ha fatto leggere la testimonianza di Monica. Monica Scaglia, una condanna a nove anni, cinque già scontati fra le carceri di Torino e Vercelli, ora da qualche mese ai domiciliari per gravi motivi di salute (Monica ha un tumore, quando è entrata in carcere aveva già subito una serie di operazioni). E pensandola e vedendola nel buio dell’indecenza di un carcere, lei e le altre, difficile scrollarsi di dosso il senso di tremendo disagio, il dolore, la paura… Testimonianza drammatica, rara e preziosa quella di Monica. È ora diventata un libro, edito da Sensibili alla Foglie: “Già fantasmi prima di morire”. Titolo che dice tutto. Perché essere persone malate in carcere significa essere già fantasmi in un contesto che di per sé produce malattia piuttosto che curarla. Significa entrare in una sorta di pre-morte. “… mi dice che devo mettermi in testa che noi detenuti non siamo persone normali, non possiamo avere lo stesso trattamento sanitario di una persona normale”, e il “chiarimento” viene da un medico. Certo ci sono eccezioni, ma evidentemente non tante da ribaltare il sistema, se un pioniere della medicina penitenziaria come Francesco Ceraudo titola il suo libro-testimonianza “Uomini come bestie”. (E questa volta vi risparmio la tiritera che sempre faccio sul significato, penoso, della libertà che sempre ci prendiamo di trattare come meglio, o peggio riteniamo, chi pensiamo sia inferiore a noi, ed in nostro potere, che siano uomini o altri animali). Il pudore di Monica - Con un pudore che solo le donne sanno avere, Monica non entra in particolari dettagli sulla sua persona malata, anche perché sa che non è necessario. Basta raccontare del tempo che passa dalla richiesta di una visita al momento dell’incontro con il medico, la modalità di certi colloqui, non essere ascoltati, o ascoltati con distrazione o sufficienza, rientrare dall’ospedale ammanettata a una barella… la paura che ti prende, malata grave, sapendo di non poter contare sull’aiuto che vorresti perché, appunto, non “si può avere lo stesso trattamento sanitario di una persona normale”. Ha proprio ragione Sandra Berardi quando, nella prefazione al libro, ci fa aprire gli occhi su un binomio al quale troppo poco si pensa: il carcere e il Sud. Sottolineando che Monica narra le sue peripezie per poter accedere a cure e controlli, esattamente come farebbe una donna del Sud al Sud: “Stesse code d’attesa, per essere visitata approssimativamente da improbabili medici, con l’aggravante di non potersi rivolgere altrove, di non potersi fidare dei reperti copia e incolla o, peggio ancora, falsificati per evitare che dovesse essere concessa la misura alternativa”. E “il carcere ovunque si trovi è Sud”. E se l’ammalato detenuto è colpevole prima di essere ammalato, lo Stato può tranquillamente mettere da parte il suo dovere, che pure la Costituzione detta, di garantire le cure dovute a ogni suo cittadino. Mentre si diventa fantasmi anche per la società tutta, che non ritiene di dover sapere cosa succede nelle patrie galere, dove ogni anno muoiono, in media, cento persone. Quando ho sentito Monica al telefono, mi ha sorpreso la sua voce bambina, cortese e trepidante, con un leggero arrotondare delle “r”. E fa ancor più fatica, e dolore, pensarla nel chiuso delle mura di un carcere, abbandonata a tanta, a dir poco, burocratica incuria. Giostra degli orrori - Ma resiste, Monica, sorretta dall’amore del figlio, per il quale anche dal carcere continua a scrivere fiabe. Igor, che ricambia con l’arcobaleno dei suoi disegni. Resiste e ce la fa anche a superare i pensieri bui e il mutismo nel quale, una volta a casa, si rinchiude. Perché il carcere il suo conto lo presenta sempre, e ben salato. Resiste ed è forte Monica, che non parla quasi nulla della sofferenza, del dolore anche fisico che sente. Perché, lo sappiamo, sono forti le donne, abituate da sempre a stare nel dolore, a partire dalla condanna biblica di quel “con dolore partorirai”… Racconta, invece, senza lamenti e con grande lucidità. Ne nasce un atto d’accusa fortissimo. Non deve essere stato facile regalarci queste pagine, che sono uno spicchio di quella oncologia penitenziaria che Domenico Bilotti, docente di diritto e storia delle religioni, definisce “giostra degli orrori”, mentre ci mette in guardia, Bilotti, dalla “leggerezza con cui abbiamo accettato che storie così non fossero meritevoli nemmeno del fare notizia. Frammenti di quotidiano in un tritacarne con le sbarre”. Non deve essere stato facile. Ma spera, Monica, che questo suo racconto aiuti ad aprire gli occhi, a salvare qualche vita. Perché è la vita di persone che, colpevolmente, viene messa in gioco. Ce ne importa davvero tanto poco? Giustizia, la riforma della discordia di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2019 Prescrizione, intercettazioni, carcere: le posizioni di Bonafede e Orlando sono agli antipodi. Dev’esserci un fato avverso nella storia da Guardasigilli di Alfonso Bonafede. Quand’era al governo con la Lega doveva fare i conti con Giulia Bongiorno, l’avvocato che tutti davano, prima che il Conte Uno nascesse, come sicura ministra della Giustizia. Invece non andò così, e lei non mancò minuto per tallonare, e ovviamente contestare, Bonafede in ogni suo passo. Per riassumere il loro rapporto con una parola non se ne può usare che una: Bongiorno giudicava Bonafede un “manettaro”. Punto, e titoli di coda. Nasce il Conte Due e Bonafede resta in via Arenula. E su di lui stavolta ecco non un aspirante alla poltrona, ma peggio, addirittura il suo predecessore nella stanza che fu di Togliatti, per giunta oggi potente vice segretario del Pd, se è vero com’è vero, che Andrea Orlando ha gestito in prima persona trattativa e poltrone. Tutto qui? Nemmeno per sogno. Perché, anche se Orlando lo smentisce e Bonafede fa già professione di dialogo, il rapporto tra i due non può che partire male. Sarebbe un miracolo se arrancasse. E non tanto per l’evidente differenza ideologica, proprio sulla giustizia, che tiene lontani Bonafede e Orlando, giustizialista il primo, garantista di sinistra il secondo. Ma per l’inevitabile ruggine prodottasi proprio per l’azione di governo di Bonafede rispetto a quella di Orlando. Non su bazzecole, ma su questioni fondamentali come prescrizione, intercettazioni, carcere. I due sono agli antipodi, anche se adesso, per non litigare di primo acchito, promettono di incontrarsi. Ma la storia conta. E pure a costo di pigliarsi la fama di jettatori, c’è da scommettere che sulla giustizia, tema tutto sommato apparentemente marginale nella trattativa sul governo, Bonafede e Orlando, M5S e Pd, sono destinati a scontrarsi duramente. Se il passato conta, non ci si può certo dimenticare degli infuocati interventi di Bonafede quando era all’opposizione contro le riforme di Orlando; né tantomeno all’opposto di quelli pacati ma gelidi di Orlando contro Bonafede Guardasigilli. Perché è un fatto che l’avvocato grillino, neppure messo piede in via Arenula 14 mesi fa, comincia a smontare pezzo per pezzo proprio le riforme di Orlando, quelle che da oppositore aveva giudicato timide, inopportune, inconcludenti. Primo colpo? Bloccare e modificare le norme sul carcere, costate a Orlando oltre un anno di lavoro con gli Stati generali e l’obiettivo, per dirla con una parola, di passare dalla “galera” alla “rieducazione”. Non basta. C’è di peggio, detto ovviamente inforcando gli occhiali dem. Bonafede ferma il treno della nuova legge sulle intercettazioni. Quella, duramente criticata dai giornalisti ma anche dai magistrati, che avrebbe di fatto chiuso per sempre la possibilità di vedere e leggere le conversazioni magari penalmente non rilevanti, ma storicamente rivelatrici e quindi significative. Tant’è. Tre rinvii consecutivi. Non basta ancora. Perché quasi a fare le pulci al lavoro di Orlando e alla sua riforma del processo penale, ecco che Bonafede fa la sua riforma e la battezza pure “spazza-corrotti”. Basta conoscere un po’ Orlando per intuire quanto un termine del genere gli possa andare di traverso. E che c’è dentro la “spazza-corrotti”? Un’altra bocciatura della politica di Orlando, perché se il dem di La Spezia ha previsto un blocco della prescrizione per 36 mesi dopo il primo grado, Bonafede fa una riforma ben più tranchant, prescrizione “morta” dopo il primo grado, proprio come i magistrati alla Davigo (ma non solo) hanno sempre chiesto. E adesso che succede? Facile, infondo, buttare alle ortiche i decreti sicurezza di Salvini, ma sulla giustizia? Difficile credere che Bonafede e Orlando, Guardasigilli in carica e ministro della Giustizia ombra, possano andare d’accordo. Giustizia, Orlando vuole un accordo con Bonafede sulla prescrizione juorno.it, 9 settembre 2019 Chi ben comincia è a metà dell’opera. Il governo M5s-Pd diciamo che non comincia esattamente col piede giusto. I ministri non sono ancora entrati nei loro ministeri e già si abbandonano a dichiarazioni e interviste che segnano differenze e annunciano conflitti. Prima Paola De Micheli, neo-titolare dem di Trasporti e infrastrutture, che ha subito esternato tutto il suo amore per il cemento, per il Tav, per la Gronda, per i Benetton concessionari autostradali, è Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ed ex Guardasigilli, a incendiare un tema ancor più cruciale per i Cinque Stelle: “La riforma della giustizia ora va ridiscussa da capo”. Almeno questo è il titolo del quotidiano La Stampa a un’intervista che, in verità, non ha quella frase tra i virgolettati. Infatti arriva subito la smentita: “Il titolo della mia intervista non corrisponde a quanto ho detto e viene riportato dal giornale”. Comunque sia, il vicesegretario del Pd chiede di ripensare la riforma appena varata dal suo successore, il ministro Cinque Stelle Alfonso Bonafede. “Esistono punti sui quali con il Movimento 5 stelle siamo d’accordo”, spiega Orlando. “Ce ne sono poi altri sui quali dobbiamo invece lavorare per trovare un’ intesa”. Orlando incontrerà Bonafede martedì e inizierà la discussione. I “negoziatori” Pd Graziano Delrio e Dario Stefano avevano espresso le loro perplessità sulla riforma della prescrizione già negli incontri per decidere le linee del programma comune M5s-Pd, tanto che il tema è rimasto fuori dagli accordi. C’ è però tornato il capogruppo Pd in commissione giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli, che al Foglio ha dichiarato che “il primo passo da compiere per il nuovo governo è rinviare l’ entrata in vigore della riforma della prescrizione”: una “bomba nucleare pronta a esplodere il 1 gennaio 2020 e a consegnare processi eterni ai cittadini”. Anche Gennaro Migliore, campione del “garantismo” targato Pd, ha chiesto al nuovo governo (sul Dubbio) “una revisione delle politiche della giustizia”, con l’abbandono del “populismo penale”. Per non lasciare spazio a dubbi, ha precisato: “Sono per arrivare a una distinzione sempre più marcata tra inquirenti e giudicanti”. E per affidare ai capi delle Procure il potere di stabilire “una selezione di priorità nell’esercizio dell’azione penale”. Sicurezza, il criminologo: “Cambiare registro, serve un programma nazionale” di Francesco Floris redattoresociale.it, 9 settembre 2019 L’esperto di sicurezza Roberto Cornelli sul cambio di passo che serve al Viminale di Luciana Lamorgese: “Basta con l’ossessione per i fatti di cronaca e le risposte emergenziali”. Tra le priorità: contrastare i suicidi degli agenti di polizia e fare una legge sulle polizie private. L’ultimo caso martedì 3 settembre a Roma. Un ispettore di polizia di 60 anni e che prestava servizio a bordo delle Volanti si è ucciso sparandosi un colpo al petto poco distante dalla caserma della Capitale dove lavorava. A febbraio di quest’anno il Ministero dell’Interno ha istituito un osservatorio permanente interforze per monitorare il fenomeno. “Solo nei primi cinque mesi dell’anno ci sono stati ventuno suicidi tra le forze di polizia”, ha denunciato Daniele Tissone, segretario generale del Silp Cgil in un’intervista al Secolo XIX. “Una delle cause dell’aumento dei morti è la sindrome di burnout, determinata anche dai turni pesanti e dall’impegno crescente degli agenti di fronte alle nuove esigenze della sicurezza” ha detto il sindacalista. “I poliziotti forse non se ne rendono nemmeno conto - dice il criminologo dell’Università di Milano Roberto Cornelli, studioso di sicurezza urbana e giustizia penale -, ma l’approccio culturale e normativo che negli ultimi 20 anni ha contrassegnato le politiche sulla sicurezza provoca in loro un grande carico di tensione. Non c’è più limite di intervento e sulle forze dell’ordine viene riversata ogni ansia di miglioramento della società. All’inizio si sentono quasi coccolati e valorizzati nella gestione di problemi così complessi come i fenomeni sociali, ma non sempre si hanno gli strumenti, anche formativi, per gestire queste situazioni. Bisogna cominciare a pensare che la polizia è un anello di una catena molto lunga per gestire i fenomeni sociali. Se invece è l’unica catena, si finisce in burn out, eccedendo su di sé o sugli altri”. Argomenti poco di moda, vero, lo ammette lo stesso Cornelli. Ma per il criminologo milanese è proprio da qui, da un cambio di paradigma culturale, che dovrebbe ripartire un nuovo corso al Ministero dell’Interno a guida Luciana Lamorgese, l’ex prefetto di Milano, chiamata a guidare il Viminale nel governo Conte-bis come figura “tecnica” e non politica in grado (forse) di disinnescare le polemiche quotidiane con l’uscente Matteo Salvini. “I sindacati fanno bene a segnalare i carichi di lavoro - afferma il docente universitario - ma devono ragionare sul fatto che da oltre 20 anni si procede solo in termini di strumenti eccezionali e straordinari. Come i Daspo, le zone rosse dove non possono mettere piede le persone magari solo perché denunciate, gli aumenti delle pene per reati a bassissimo tasso di identificazione dei responsabili. Tutto ciò non sta portando a un miglioramento del sistema nel creare forme di convivenza”. “Le stesse forze di polizia - spiega Cornelli - hanno sempre nuovi strumenti (si pensi alla polemica sul Taser, NdA) senza però capire come e quando utilizzarli. Qui serve un cambio di registro: basta con i pacchetti sicurezza e con gli aumenti di pena che non hanno alcuna presa ed efficacia”. “Serve invece - dice il criminologo - un programma nazionale di gestione della sicurezza in tutte le sue sfumature. Che deve partire dal cancellare l’ossessione per i casi di cronaca e le emergenze o finte emergenze. Portano solo ad azioni repressive e penali mentre invece non tengono conto di cosa si sta muovendo nella società”. Alcuni esempi? “Le tossicodipendenze - risponde - vanno affrontate sapendo sì che ci sono nuove droghe e sostanze in circolazione e quindi aggiornando normative e tabellari, ma non si va da nessuna parte senza rafforzare e rinnovare i servizi per le dipendenze, fornendo sostegno e con politiche di riduzione del danno”. O ancora: il caso asili. “Qualche insegnante picchiava i bambini? - riflette Roberto Cornelli - subito la risposta è emergenziale secondo un modo di pensare che vede “in un caso, tutti i casi”. E allora telecamere per risolvere il problema. Ancora una volta un’azione repressiva con la sorveglianza elettronica e con un investimento molto forte in tecnologie di sicurezza”. Un investimento forte che però “sta cambiando radicalmente la relazione educativa fra insegnante e alunno”. “Questo è un modello sbagliato, bisogna investire sulla formazione degli insegnanti, impedire l’eccessivo turn over del personale negli asili, che significa fare politiche sul mondo del lavoro invece che della sicurezza. Questi casi di cronaca fanno sempre molto scalpore ma per esempio nessuno riflette sul fatto che in Lombardia gli standard per aprire un asilo nido privato sono molto più bassi che non per un nido pubblico: sia in termini di turni lavorativi più pesanti ma anche sui metri quadri di verde che devono essere disponibili”. “Nelle professioni a contatto con le fragilità e con persone fragili, come anziani, pazienti psichiatrici, minori, disabili e se ci pensiamo bene anche la polizia nel suo quotidiano lavoro per le strade delle città, occorre un surplus formativo e una grande stabilità nella gestione dei rapporti di lavoro. Questo oggi non accade”. Il secondo capitolo che il criminologo di Milano sta affrontando nei suoi studi più recenti è quello delle polizie private e delle società di sorveglianza e sicurezza. “I dati non sono facili da reperire ma il rapporto fra poliziotti privati e pubblici sta galoppando negli ultimi 30 anni, sul modello degli Stati Uniti”. Una fotografia parziale dei numeri la offre il primo e unico rapporto sulla “Filiera della sicurezza in Italia”, realizzato nel 2018 dal Censis assieme a Federsicurezza. Si legge che “nel 2017 il settore della vigilanza privata propriamente detta contava su 1.594 imprese, in crescita dell’11,3 per cento dal 2011 e del 2,4 per cento nell’ultimo anno, per un totale di 64.443 dipendenti, aumentati del 16,7 per cento dal 2011 e del 3,2 per cento dal 2016, con una media di 40 operatori per ogni azienda”. Se si aggiungono le aziende per la sorveglianza non armata ecco che i dati disponibili mostrano l’andamento “esplosivo” del mercato negli ultimi anni: le imprese attive sono 1.424 contro le 215 del 2011, con una crescita del 562,3 per cento. Nello stesso periodo i dipendenti sono passati dai 3.478 ai 21.761 del 2017, aumentando del 525,7 per cento. Tutto ciò mentre i reati denunciati in Italia diminuivano (passando dai 2,7 milioni del 2008 ai 2,2 milioni del 2017, seppur non in maniera costante ogni anno) ma aumentavano le licenze per porto d’armi: 1,4 milioni nel 2017, con un più 20,5 per cento dal 2014. Soprattutto licenze per caccia e sportive che il rapporto di Federsicurezza e Censis mette in relazione “con i successi dei nostri tiratori nelle diverse competizioni internazionali”, pur scrivendo che è “difficile non mettere in relazione questo aumento della voglia di sparare anche con la diffusione della paura e con la tranquillità apparente che può derivare dal saper maneggiare un’arma da fuoco”. Se si aggiungono le licenze per difesa personale (18.452), le guardie giurate (56.062) e gli operatori di corpi di polizia e forze armate emerge come circa 1,9 milioni di italiani possiedono regolarmente almeno un’arma da fuoco. Quasi 4,5 milioni di persone, fra cui 700 mila minori, se si tiene conto del “fattore” famiglia. “Un conto è il porto d’armi sportivo - afferma Cornelli - un altro discorso è passare 8 ore al giorno in ambito lavorativo con un’arma addosso. Quante università, uffici pubblici, tribunali gestiscono la propria portineria con personale con arma? Quanti Comuni hanno stipulato contratti con società di vigilanza per la protezione notturna dei propri beni?”. Una situazione per cui, dice il docente, “occorre una legge per il governo pubblico della sicurezza e delle polizie private, standard serrati in termini di formazione, di titoli di studio, di capacità di agire nei contesti più difficili. Faccio un esempio: le guardie giurate sono nate per la sorveglianza fuori dagli sportelli bancari, questo era il principale obiettivo ed è un lavoro che ha determinate caratteristiche simili a quello delle polizie pubbliche. Ma se si inizia a utilizzare personale con pistola in contesti più complessi come un’università, una piazza commerciale, un aeroporto, allora è ovvio che quegli istituti di vigilanza devono avere obblighi di legge molto più stringenti in termini di relazione con i cittadini, perché stanno gestendo alla fine dei servizi pubblici. Tutto questo ha a che fare con la nostra sicurezza anche se non va di moda dirlo e serve un governo delle polizie private che significa in primo luogo dare più tutela ai lavoratori di quel settore privato e a cascata anche ai cittadini che vivono e attraversano contesti dove ci può essere personale armato”. “Oggi la legge fondamentale che ancora regola questi servizi è il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, quasi un secolo è passato”. Stesso discorso per le polizie locali e municipali “che sempre di più svolgono funzioni di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria invece annonaria, tributaria locale o cimiteriale, e nonostante non siano preposte a farlo. Mancano strumenti operativi e normativi oppure il rischio è di avere agenti di polizia locale che fanno cose non tenuti a fare, diventando anche un problema di identità del proprio ruolo. Mi rendo conto che non sono temi di grande appeal mediatico perché non legati al caso di cronaca immediato, ma si tratta di riforme di sistema che hanno a che fare proprio con la sicurezza dei cittadini”. Nando dalla Chiesa: “l’antimafia è donna” di Rossella Guadagnini adnkronos.it, 9 settembre 2019 “Sta succedendo qualcosa nell’universo femminile che può mettere in difficoltà la mafia, sia all’interno dell’organizzazione, che all’esterno”. Lo sottolinea all’Adnkronos Nando dalla Chiesa, docente universitario, che da oggi, lunedì 9 settembre, fino a venerdì 13, dirigerà la Summer School on Organized Crime del Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-politici dell’Università degli Studi di Milano, dedicata per questa IX edizione al tema “Mafia e donne”. “All’interno della mafia - prosegue il sociologo - i casi di abbandono silenzioso oppure di defezione morale sono ormai numerosi. Certo la maggioranza delle donne di mafia è fedele alla cultura e agli imperativi dell’organizzazione. Ma i casi di rigetto - vuoi su pressione dei figli, vuoi per le attività di reinserimento svolte in carcere, vuoi per scelta morale autonoma favorita dal rapporto con il mondo esterno- sono davvero interessanti, anche se talora si chiudono in modo drammatico”. Al di fuori di Cosa Nostra si registra, invece, “una crescita straordinaria della presenza femminile nei movimenti antimafia -spiega ancora dalla Chiesa. Io stesso resto stupito dall’incidenza delle studentesse nei progetti universitari, nei corsi, nelle tesi di laurea. A volte, in una facoltà che non è di genere come Scienze Politiche, rappresentano i tre quarti o i quattro quinti del totale dei partecipanti. È un fatto importante, di cui occorre capire le ragioni. Tanto che sono giunto alla conclusione che l’antimafia è donna”. L’appuntamento milanese - che riunisce comunità scientifica e società civile - offre un’occasione di confronto su temi che investono disuguaglianze di genere, costumi civili, processi educativi, diritto di famiglia e antropologia culturale. Nella nostra società esistono pari opportunità anche nel delinquere? C’è una specie di par condicio tra uomini e donne criminali? Come cambia il rapporto tra l’universo malavitoso, maschile e maschilista, e le donne? Vicende di cronaca, ricerche scientifiche, testimonianze, dicono che “se è vero che si aprono ‘carriere femminili’ anche dentro le organizzazioni mafiose, è altrettanto vero che il muro dell’omertà e della sudditanza femminile va lentamente sgretolandosi”, conclude dalla Chiesa. Così per cinque giorni, sociologi, magistrati, ex detenute, giornalisti, registi, uomini di chiesa ed esponenti politici, mescoleranno scienza sociale e arte, informazione e giustizia, fede e testimonianze di vita, per mettere a fuoco un fenomeno in grado di disorientare la mafia, di privarla di certezze secolari. Partecipano quest’anno - tra gli altri - Rosy Bindi, Margherita Cau, Alessandra Cerreti, Concita De Gregorio, Roberto Di Bella, Alessandra Dino, Alessandra Dolci, Don Luigi Ciotti, Norma Ferrara, Elio Franzini, Federico Cafiero de Raho, Sabrina Garofalo, Pietro Grasso, Salvo Palazzolo, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino. Il corso (per un numero massimo di 60 partecipanti) si terrà tutti i giorni dalle 9.30 alle 18, nella Facoltà di Scienze Politiche dell’ateneo di Milano; vicedirettrice è Ombretta Ingrascì. Le iscrizione sono possibili anche sul posto per le singole giornate, in base al programma. Carcere per i giornalisti. Fnsi: “Ci auguriamo che la Consulta tenga conto della Corte Ue” fnsi.it, 9 settembre 2019 È stato l’avvocato Giancarlo Visone a sollevare l’eccezione per il Sindacato unitario dei giornalisti della Campania, anche in relazione alla eventuale violazione della Convenzione europea dei diritti umani, in un processo per diffamazione nei confronti del direttore e di un collaboratore del “Roma”. Dopo 5 mesi è giunta alla Corte Costituzionale l’ordinanza del tribunale di Salerno sulla incostituzionalità della legge che prevede il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Ora spetterà al presidente Giorgio Lattanzi fissare l’udienza dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. È stato l’avvocato Giancarlo Visone a sollevare l’eccezione per il Sindacato unitario dei giornalisti della Campania, anche in relazione alla eventuale violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 10), in un processo per diffamazione nei confronti del direttore e di un collaboratore del quotidiano “Roma”. “Sono anni che chiediamo al legislatore di intervenire sul carcere per i giornalisti, un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico del nostro Paese. Su questo tema abbiamo già incassato a Napoli, il 18 giugno scorso, l’impegno del primo ministro Giuseppe Conte. Sono anni, tuttavia, che proposte di legge sul tema restano nei cassetti delle commissioni parlamentari. Ci auguriamo, per questo, che la Consulta intervenga tenendo conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha più volte dichiarato il carcere incompatibile con il diritto di cronaca”, affermano il segretario e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del Sugc, Claudio Silvestri. Caso Alpi-Hrovatin: un passaggio giudiziario fondamentale di Giulio Vasaturo articolo21.org, 9 settembre 2019 Il prossimo 20 settembre ci attende un passaggio fondamentale nel percorso di verità e giustizia sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È un passaggio stretto. V’è il rischio reale di trovare, di fronte a noi, un ultimo ed invalicabile muro contro il quale potrebbe arrestarsi, forse per sempre, il tormentato sentiero su cui ci ha instancabilmente guidato, sino al giugno 2018, Luciana Alpi. Come avvocato sento tutto il peso di questa vigilia. Al giudice per le indagini preliminari affideremo la nostra accorata e motivata istanza, affinché il duplice delitto della giornalista Rai e del suo operatore, avvenuto a Mogadiscio quel tragico 20 marzo 1994, non venga lasciato impunito. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana, insieme all’Ordine dei Giornalisti ed all’Usigrai, saranno al fianco di chi rappresenterà in aula la famiglia Alpi (gli avvocati Carlo Palermo e Giovanni D’Amati), per indicare con estremo rigore al GIP tutti i punti oscuri dell’inchiesta su cui è doveroso continuare ad indagare, anche a venticinque anni di distanza da quell’agguato. Lo dobbiamo a chi ha sofferto direttamente, nella più intima dimensione personale, il dramma che si è consumato quel giorno; all’intera comunità dei giornalisti italiani che è stata sconvolta da quella barbarie; ma anche a chi, nel corso degli anni, ha patito sulla propria pelle gli effetti “collaterali” di un depistaggio che si protrae sino ai giorni nostri. Penso ad Omar Hashi Hassan che ha trascorso oltre sedici anni in carcere, da innocente, quale “capro espiatorio” di un crimine orrendo che menti raffinatissime hanno voluto e saputo attribuirgli: il più grande e grave errore investigativo commesso nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio Alpi-Hrovatin ma non il solo. L’ultima richiesta di archiviazione avverso la quale tutte le parti offese (fra cui, per l’appunto, Odg, Fnsi ed Usigrai) hanno presentato ferma opposizione denota un’arrendevolezza che assume gli sconfortanti contorni della denegata giustizia. È per questo che ci accingiamo ad esporre al giudice, con la massima determinazione, le nostre solide ragioni, indicando con precisione le indagini che meritano di essere ancora espletate con riguardo alle fonti dei servizi segreti sin qui taciute, alle presenze ed alle attività del contingente italiano in Somalia, al coinvolgimento dei potentati locali nell’agguato, ai traffici illegali che fanno da sfondo costante a questa tragedia. La forza degli elementi di prova che sottoporremo al vaglio dell’Autorità giudiziaria, unitamente al calore dei tanti giornalisti che supportano concretamente questa “giusta causa”, rinsaldano la nostra speranza. Siamo fiduciosi che tutto ciò possa bastare, dopo i tanti ostacoli già fronteggiati in questi lustri, per superare anche questo difficile tornante. Perché la deputata e testimone di giustizia Piera Aiello ha denunciato Bonafede e Salvini di marco bova agi.it, 9 settembre 2019 La componente della commissione Antimafia ha chiesto il ritiro urgente di un decreto interministeriale che ha disposto la cancellazione della sua falsa identità. “Grave fuga di notizie”. “Il Servizio centrale di protezione è un sistema farlocco e così si mettono a rischio le vite dei testimoni di giustizia”. A parlare è la deputata Piera Aiello (M5S), componente della commissione parlamentare Antimafia e testimone di giustizia dal 1991, che in questi giorni ha presentato una denuncia per “una grave fuga di notizie” sulla sua famiglia, nei confronti del ministro Cinque Stelle della giustizia Alfonso Bonafede, dell’ex responsabile degli Interni Matteo Salvini, dell’ex sottosegretario agli Interni Luigi Gaetti e del direttore del Servizio centrale di protezione, Paolo Aceto. Tutto ruota attorno a un decreto interministeriale firmato lo scorso 3 maggio dai ministri dell’Interno e della Giustizia, in merito a una richiesta presentata da Piera Aiello, originaria di Partanna (Trapani), in cui chiedeva di abbandonare l’identità fittizia che le era stata cucita addosso all’inizio della sua collaborazione con il magistrato Paolo Borsellino (Aiello ha vissuto sotto protezione dal 1991 al 1997, quando è entrata in regime di testimone di giustizia). “Da quando ho iniziato questo percorso ho sempre avuto due identità, ovviamente una era dormiente, non versavo i contributi con entrambe, ma soltanto con una, e lo stesso per il sistema sanitario: adesso volevo tornare a chiamarmi soltanto Piera”, racconta la deputata che in questo momento è indagata dalla Procura di Sciacca per “falso in atto pubblico”, riferito a un presunto illecito commesso nella presentazione dei documenti presentati necessari per la candidatura alle elezioni del 4 marzo 2018. “L’apertura del fascicolo - dicono dalla Procura di Sciacca - è stato un atto dovuto” in seguito alla ricezione di un esposto presentato da Tiziana Pugliesi, candidata del centrodestra alle ultime politiche e prima dei non eletti nel medesimo collegio di Piera Aiello. I pm hanno chiesto l’archiviazione ma il procedimento, in seguito all’opposizione presentata dalla querelante, è stato rinviato a fine ottobre. Un grosso incidente burocratico che Aiello spiega così: “Il decreto interministeriale ha autorizzato la cancellazione delle false generalità ma ha disposto la modifica di tutti gli atti ufficiali che la contenevano, chiedendone la sostituzione con il mio vero nome”, racconta la deputata. “I miei familiari non sono mai stati coinvolti nella protezione - dice - quando mi sono sposata, l’ho fatto con le nuove generalità, proprio per non essere rintracciabile, e anche i miei figli sono registrati con i miei falsi dati anagrafici”. “Nel decreto c’è scritto che si poteva attuare soltanto dopo che mi fosse stato notificato - aggiunge - e invece lo hanno fatto prima, sia nel mio comune natale che nel luogo in cui sono residente con la falsa identità”. Così la documentazione sarebbe stata prima spedita al palazzo comunale di Partanna e poi acquisita dalla Prefettura di Trapani. Spieghiamo ancora meglio: Piera Aiello (vero nome) è stata in questi ultimi 28 anni di collaborazione con la giustizia su inchieste di mafia assolutamente irrintracciabile. Il suo nome era noto e presente negli atti giudiziari, ma il suo volto no (è uscita allo scoperto soltanto il 14 giugno del 2018, dopo l’elezione in Parlamento), come non lo era il suo domicilio, le generalità dei suoi parenti stretti, tutti registrati con la sua falsa identità. Piera e la sua famiglia non si sono chiamati Aiello, in questi 28 anni, sfuggendo alle possibili ritorsioni della malavita. Ora lei ha chiesto di vedere cancellata la sua falsa identità. Richiesta accettata. Peccato che il decreto interministeriale abbia appunto disposto la ‘reversibilità’ di tutti i suoi legami burocratici falsi, dunque anche quelle dei parenti, che ora rischiano di ritrovarsi con il cognome Aiello, divenendo riconoscibili e rintracciabili da chiunque. Per questo lei ha chiesto che il decreto venga ritirato. “La notifica nella località segreta, che riguardava date, luoghi e miei legali parentali, è stata affidata ai carabinieri mentre tutta la documentazione sui testimoni di giustizia è classificata come riservata e può essere trattata esclusivamente dal reparto dei Nop (Nuclei operativi di Protezione) e tutti i documenti sono secretati, in quelli che non lo sono è scritto esplicitamente”, aggiunge Piera Aiello. “La prassi vuole che qualsiasi documento venga trattato dalla “commissione centrale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione” finora presieduta dal sottosegretario Gaetti - continua - che lo avrebbe dovuto inviare al direttore del documentazione al servizio centrale di protezione: il problema è nato lì. Ritengo che i ministri abbiano compiuto una leggerezza. Così i servizi preposti mettono a rischio la mia sicurezza e quella dei miei familiari”. “Questo sistema farlocco del sistema di protezione centrale non è mai riuscito a definire del tutto le nuove generalità che chiaramente nascono da un falso, inventano una località a caso e creano un falso - denuncia Piera Aiello - ovviamente questo è un atto ritenuto necessario per garantire la tutela dei testimoni e dei collaboratori di giustizia però si innesca un meccanismo di falsità documentali”. Il decreto, in sostanza, avrebbe dovuto, secondo la deputata grillina, disporre semplicemente il decesso della vecchia identità. Assicurando quindi che figli e marito restassero legati alle false credenziali: loro orfani, lui vedovo. Già negli anni scorsi l’attuale deputata M5s aveva denunciato delle falle nel sistema di protezione e per questo erano finiti a processo due carabinieri che nel 2010 furono assolti dal Tribunale di Marsala. “Ho presentato una richiesta di accesso agli atti per vedere come è stata trattata la pratica - racconta - e nonostante non ho ancora avuto risposta ho già presentato al Tar. Io credo che si possa dichiarare deceduta la falsa identità, con tutto ciò che ne consegue - conclude - ho chiesto al Viminale di ritirare il decreto ma durante una riunione, tra le altre cose, è stato detto che mio marito si sarebbe potuto rivalere sullo Stato per la pensione di reversibilità. Ci siamo fatti una risata, si è detto disponibile a firmare una nota per attestare che avrebbe rinunciato a prescindere, ma il decreto sta ancora lì”. Il medico risponde penalmente se l’azione corretta avrebbe evitato il danno di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2019 A più di due anni dal debutto della legge Gelli-Bianco (24/2017) che ha riformato la responsabilità medica e ha introdotto nel Codice penale l’articolo 590-sexies come causa di non punibilità specifica per i danni dovuti a imperizia, la giurisprudenza ha delineato i casi e i motivi che fanno scattare la condanna di medici e operatori sanitari. I nodi più discussi sono l’analisi del rapporto di causa-effetto e l’applicazione della nuova esimente. Il nesso causale - Accertare l’esistenza di un legame tra l’atto medico e il danno procurato al paziente non è facile. Tanti i fattori esterni che potrebbero aver influito. Ecco perché la Cassazione (sentenza 11674/2019) precisa che la statistica non è parametro sufficiente a provarlo. Serve, piuttosto, un giudizio di “elevata probabilità logica” - chiamato controfattuale - fondato su due binari: un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche e uno induttivo che appuri se, nella vicenda, la condotta corretta avrebbe evitato la lesione. In altri termini, riscontrata l’alta probabilità che l’evento negativo derivi dalla mancanza del sanitario, si deve ipotizzare come avvenuta l’azione doverosa e capire se, in base a regole di esperienza o leggi scientifiche universali o statistiche, si sarebbe verificato ugualmente o più tardi o con minore intensità (Cassazione, sentenza 24922/2019). E per leggi scientifiche, scrive sempre la Cassazione (sentenza 26568/2019), si intendono quelle dotate di quattro requisiti: generalità, controllabilità, grado di conferma e accettazione da parte della comunità scientifica internazionale. Ma il giudice potrà ricorrere anche a regole non unanimemente riconosciute purché generalmente condivise. Se, poi, i periti discordino sull’esistenza del nesso, va accolta la soluzione che dia le informazioni più significative e attendibili, capaci di sorreggere l’impianto probatorio (Cassazione, sentenza 7667/2019). La responsabilità medica non può mai essere valutata a posteriori e senza esaminare le peculiarità del caso, quali le visite già effettuate dal malato o le sue pregresse condizioni di salute. Ci sono, invece, ipotesi molto delicate che esigono da parte del medico una valutazione particolarmente rigida e attenta del quadro clinico. Si pensi alla patologia tumorale la cui prognosi è strettamente legata alla tempestività della diagnosi. Circostanze in cui, a rischiare la condanna, può essere anche il professionista che - per aver male inquadrato i sintomi lamentati - non abbia eseguito tutti i controlli necessari per far luce ad ampio raggio sulle condizioni del malato così da poter individuare rimedi terapeutici idonei a rallentare la progressione del cancro e allungarne, anche se non di molto, il percorso di vita (Cassazione, sentenza 23252/2019). Nel caso di morte del bambino durante il parto, invece, il sanitario “colpevole” risponde di procurato aborto o di omicidio colposo a seconda che il decesso sia avvenuto prima o dopo la rottura del sacco amniotico, linea di confine oltre la quale il feto diviene una persona (Cassazione, sentenza 27539/2019). La non punibilità - La riforma ha previsto una causa di non punibilità su misura per i medici che commettono un errore per colpa non grave, seguendo le raccomandazioni accreditate. Ambito chiarito dalla Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 8770/2018, conforme la sentenza 8115/2019). Per i giudici, il medico risponde di lesioni o di omicidio colposi per eventi provocati per colpa anche lieve se dovuta a negligenza o imprudenza, o a imperizia, se mancano raccomandazioni o buone pratiche da seguire, o a imperizia nella scelta di raccomandazioni o buone pratiche non adeguate. Inoltre, il medico risponde per colpa grave dovuta a imperizia nell’eseguire le raccomandazioni delle linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio e delle difficoltà dell’atto medico. Attenzione: le linee guida valgono come norme cautelari solo se adeguate alla miglior cura del malato. Altrimenti, il medico deve discostarsene. Abuso d’ufficio: c’è reato con atto amministrativo illegittimo e vantaggio illecito di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2019 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 30 maggio 2019 n. 24186. Il reato di abuso d’ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta, che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell’evento, che deve essere costituito da un vantaggio patrimoniale non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi fare discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità della condotta. Lo ha stabilito la Suprema corte con la sentenza 24186/2019. In altri termini, il reato si configura se ricorrono sia un atto amministrativo illegittimo sia un risultato di vantaggio parimenti illegittimo. La giurisprudenza sul reato di abuso d’ufficio - La giurisprudenza è consolidata nel senso che il reato di abuso d’ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta, che deve essere connotata da una violazione di legge, che dell’evento di danno o di vantaggio, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità per il giudice di verificare se l’evento di danno o di vantaggio sia ingiusto in sé e non soltanto come riflesso della violazione di norme da parte del pubblico ufficiale: con la conseguenza che vanno espunti dall’area dell’illecito penale i comportamenti abusivi finalizzati a procurare un danno o un vantaggio conforme al diritto (tra le tante, sezione VI, 13 maggio 2014, Minardo e altro; nonché, recentemente, sezione VI, 5 luglio 2018, Orlando e altri, dove si è peraltro precisato non essere necessario, ai fini predetti, che l’ingiustizia del vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa e autonoma da quella che ha caratterizzato l’illegittimità della condotta, qualora - all’esito della predetta distinta valutazione - l’accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi contra ius). Responsabilità amministrativa degli enti, il rinvio a giudizio interrompe la prescrizione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 12 luglio 2019 n. 30634. In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’ente, in quanto atto di contestazione dell’illecito, interrompe, per il solo fatto della sua emissione e a prescindere dalla relativa notificazione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli articoli 59 e 22, commi 2 e 4, del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231. Lo ha detto la sezione IV penale della Cassazione con la sentenza 12 luglio 2019 n. 30634. La responsabilità amministrativa degli enti - In tema di responsabilità amministrativa degli enti, secondo quanto previsto dall’articolo 22 del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del fatto, con la precisazione che se l’interruzione del corso della prescrizione è avvenuta “mediante la contestazione dell’illecito amministrativo” (ossia con le modalità di cui all’articolo 59 dello stesso decreto n. 231), “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. Nell’ambito di questa disciplina, la Cassazione ha qui affrontata la questione se, per la produzione dell’effetto interruttivo “fino al passaggio in giudicato della sentenza”, sia sufficiente l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio ovvero se sia necessaria anche la rituale notificazione della stessa. La Cassazione risolve la questione in linea con la prevalente giurisprudenza (sezione II, 20 giugno 2018, C.; sezione V, 22 settembre 2015, D’Errico e altro; sezione II, 15 dicembre 2011, Cerasino e altri), ritenendo necessaria e sufficiente l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio, senza la necessità della notificazione. Infatti, si argomenta, anche nell’ipotesi di responsabilità da reato degli enti, l’interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l’interruzione della prescrizione nei confronti dell’imputato e coincidere con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione. In senso contrario, non può valere richiamare il disposto dell’articolo 11, comma 1, della legge delega n. 300 del 2000, la cui lettera r) prevede che “l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile”, giacché tale disposizione nulla ha a che fare con il momento della produzione degli effetti dell’atto interruttivo (ossia con la pretesa necessità della notificazione della richiesta di rinvio a giudizio), ma solo con il contenuto di quegli effetti, rispetto ai quali, diversamente da quanto previsto per la prescrizione del reato con l’articolo 160 del Cp, l’interruzione impedisce la decorrenza del termine prescrizionale fino a che il giudizio non sia terminato, secondo le regole proprie del processo civile: tale scelta legislativa di fare riferimento alla disposizione civilistica, anziché alle previsioni di cui all’articolo 160 del Cp, deriva dalla natura della pretesa punitiva che sanziona la violazione da parte dell’impresa di norme che implicano limiti di compatibilità dell’azione imprenditoriale con l’interesse generale, come espresso dall’articolo 41 della Costituzione, il quale non può declinare di fronte al vantaggio dell’attività d’impresa. La Corte, in tal modo, prende esplicitamente le distanze dall’orientamento minoritario che, al contrario, aveva sostenuto l’idoneità della richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica a interrompere il corso della prescrizione, in quanto atto di contestazione dell’illecito, solo se, oltre che emessa, fosse stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, dovendo trovare applicazione, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera r), della legge n. 300 del 2000, le norme del codice civile che regolano l’operatività dell’interruzione della prescrizione (sezione VI, 12 febbraio 2015, PM in proc. Buonamico e altri). Il reato di getto pericoloso di cose. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2019 Reati contravvenzionali - Art. 674 c.p. - Getto pericoloso di cose - Configurabilità - Natura. L’ipotesi contravvenzionale prevista dall’art. 674 cod. pen. configura un reato di pericolo finalizzato a prevenire esiti dannosi o pericolosi per le persone, conseguenti al getto o versamento di cose atte a offendere, imbrattare o comunque molestare, ovvero all’emissione di gas, vapori o fumi idonei a cagionare i medesimi effetti. Quest’ultima ipotesi assume rilevanza penale solo nei casi non consentiti dalla legge, in quanto il legislatore ha inteso contemperare opposti interessi consentendo così l’esercizio di attività socialmente utili nel rispetto dei limiti di legge, al superamento dei quali riacquista prevalenza l’esigenza di tutelare l’incolumità pubblica. (Fattispecie relativa a rottura di vasche interrate nel corso di interventi edilizi autorizzati che avrebbe determinato la fuoriuscita di sostanze inquinanti, che sparse sul terreno avrebbero provocato esalazioni nocive con documentate conseguenze sulle persone). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 27 agosto 2019 n. 36444. Contravvenzioni concernenti l’incolumità pubblica - Getto pericoloso di cose - Emissioni di gas, vapori o fumi - Assenza di valori limite - Criterio di legittimità. In tema di getto pericoloso di cose, l’evento di molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori, in mancanza di specifici valori-limite per le immissioni olfattive, che non rientrano nell’ambito della disciplina dell’inquinamento atmosferico, deve ritenersi realizzato al superamento del limite della normale tollerabilità. Tale limite funge pertanto da criterio di legittimità delle emissioni ai sensi della seconda parte dell’articolo 674 c.p. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 3 maggio 2019 n. 18592. Inquinamento atmosferico - Aria - Emissioni e disturbo olfattivo - Disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori - Assenza - Reato di cui all’art. 674 c.p. - Configurabilità - Criterio della “stretta tollerabilità” - Individuazione del parametro di legalità dell’emissione - Fattispecie: bruciatura del rivestimento in plastica di fili di rame - Art. 844 c.c. Si configura il reato di getto pericoloso di cose, anche nel caso di “molestie olfattive” promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera. L’evento del reato consiste nella molestia, che, nel caso sia provocata dalle emissioni di gas, fumi o vapori, prescinde dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità. Inoltre nel caso di emissioni idonee a creare molestie alle persone rappresentate da odori, se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti. Fattispecie: alimentazione di un falò, che bruciando il rivestimento in plastica di 15 Kg di rame produceva un fumo acre che si incanalava nella valle e raggiungeva le abitazioni fino a circa seicento metri di distanza, provocando emissioni di fumo atte ad offendere e molestare persone. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 27 settembre 2011 n. 34896. Contravvenzioni concernenti l’incolumità pubblica - Getto pericoloso di cose - Clausola “nei casi non consentiti dalla legge” - Riferibilità al getto o versamento pericoloso di cose - Esclusione - Limitazione alle sole emissioni di gas, vapori o fumo - Sussistenza. La clausola “nei casi non consentiti dalla legge”, contemplata nell’art. 674 cod. pen., non è riferibile alla condotta di getto o versamento pericoloso di cose di cui alla prima parte della norma citata, ma esclude il reato solo per le emissioni di gas, vapori o fumo che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative. (Fattispecie nella quale è stata esclusa l’applicabilità di tale clausola in un caso di diffusione di polveri nell’atmosfera provocate nel corso di un’attività produttiva, emissioni vietate dal D.M. 12 luglio 1990, impositivo di misure di cautela e prevenzione molto rigorose). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 aprile 2009 n. 16286. Contravvenzioni concernenti l’incolumità pubblica - Getto pericoloso di cose - Applicabilità della regola dell’equivalenza causale - Sussistenza - Configurabilità del reato sia in forma omissiva che omissiva impropria - Sussistenza. Il reato di getto o versamento pericoloso di cose è configurabile sia in forma omissiva che in forma commissiva mediante omissione (cosiddetto reato omissivo improprio) ogniqualvolta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che aveva l’obbligo giuridico di evitarlo. (Fattispecie relativa alla diffusione nell’atmosfera di polveri di “clinker”, una sostanza sabbiosa utilizzata per la produzione del cemento, prodotta durante le operazioni di scarico dalle navi in appositi silos e di successivo carico sugli automezzi impiegati per il trasporto, provocante fastidi fisici agli occupanti delle abitazioni limitrofe). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 aprile 2009 n. 16286. Napoli. Dossier sicurezza sul tavolo della ministra degli Interni di Ernesto Mazzetti Il Mattino, 9 settembre 2019 Sono appena quattro giorni che, fresca d’investitura presidenziale, la dottoressa Luciana Lamorgese, consigliera di Stato, ha preso possesso dell’ampio studio riservato al ministro degli Affari interni della Repubblica italiana. Al Viminale era già di casa. Il palazzo l’ha frequentato per anni con incarichi di rilevanza crescente, prima e dopo la nomina a prefetto. Le sono familiari uffici e personale. Non sarà così per altri ministri del governo Conte 2, quasi tutti spaesati in edifici a loro ignoti e gravati di mansioni tutte da approfondire. Nella stanza abbandonata dal senatore Salvini ci sono parecchi dossier che spero la signora Lamorgese possa presto ritrovare, rovistando tra scrivania, cassetti, armadi. Il non più ministro e vice premier visse giorni tumultuosi all’indomani delle dimissioni e conseguente crisi del governo Conte 1. Tra residui adempimenti ministeriali, polemiche politiche, trasferte per comizi in Regioni prossime al voto, adunate in lidi balneari, è probabile che abbia lasciato un po’ di disordine tra scartoffie d’ufficio. Ma alcune rivestono grande importanza per Napoli e la Campania. Sarà sollecita la neo ministra a dedicar loro l’attenzione che meritano? Da tecnica qual è, verificandone la completezza con telefonate alla dottoressa Carmela Pagano, prefetto di Napoli, e al dottor Raffaele Ruberto, prefetto di Caserta. Ancor meglio se con visite in loco. Nei quattordici mesi di governo gialloverde non sono mancate le venute a Napoli e dintorni di Salvini nel ruolo di ministro degli Interni. Nell’ottobre scorso visitò il rione Vasto dove da anni la popolazione locale lamenta l’impossibilità di vivere tra strade e palazzi che improvvide scelte amministrative hanno consentito divenissero concentrazioni di immigrati africani, molti dediti a illegalità e violenze. “Staneremo i clandestini casa per casa”, assicurò al parroco don Vincenzo Balzano tra applausi dei residenti affacciati ai balconi. Poi, presiedendo il Comitato per l’ordine pubblico, espresse fermi propositi, forse un po’ velleitari dato il pregresso: “Vogliamo sradicare, deportare, cancellare e isolare la camorra. E far sentire a ogni singolo camorrista lo schifo che è”. Contro le “stese” delle baby gang enunciò repressione ma anche prevenzione; scuole sicure, video sorveglianza, moniti sul pericolo delle droghe. Semmai togliendo patria potestà ai camorristi per impedir loro d’allevare futuri criminali. Altro tema scottante: le occupazioni abusive di alloggi popolari gestite da gang a danno di legittimi assegnatori. Secondo il Viminale a Napoli riguardano 80 immobili. Piaga sociale lasciata degenerare negli anni da autorità locali inclini a troppo tollerare. Nelle periferie e non solo. Parlò anche di questo Salvini che già il mese prima della visita napoletana aveva disposto un censimento città per città di tutti gli abitanti abusivi di case popolari, con l’ambizioso obiettivo di espellerli “manu militari”. Un esempio l’aveva dato il suo predecessore Minniti, liberando un palazzo romano da un centinaio di famiglie che illegalmente l’occupavano. Lui lo imitò coni famigerati Casamonica. Tornò a Napoli Salvini nel gennaio di quest’anno; visite di solidarietà a vittime del racket, al pizzaiolo Sorbillo, al tabaccaio ripetutamente rapinato. Quindi ad Afragola, al quartiere Salicelle. Vagheggiò d’un piano nazionale contro la camorra. Ancora, nel maggio scorso, altra visita con enunciazione di dati:137 nuovi agenti già arrivati in città, stanziamenti per contrastare lo spaccio di droga presso le scuole, per installare più videocamere di sorveglianza, primi sgomberi di occupanti abusivi di case popolari nell’area metropolitana. E la previsione, nel decreto sicurezza bis, di 800 assunzioni di personale da adibire a notificare le sentenze, visto che le carenze attuali lasciano che a Napoli migliaia di condannati restino in libertà. Ultima visita nelle nostre vicinanze, in pieno Ferragosto, per una convocazione del Comitato per l’ordine pubblico casertano: Castelvolturno, triste emblema di scempio del territorio, disoccupazione, immigrazione clandestina, camorra dei casalesi, mafie nigeriane. Una venuta a crisi di governo già in atto; con immancabile contorno di contestazioni di oppositori politici. Quelle contestazioni che, peraltro, sempre l’avevano accompagnato nelle visite napoletane, benché solitamente sovrastate da manifestazioni di consenso. Confido che la neo ministra Lamorgese trovi nell’ufficio appena occupato adeguati riscontri di tutte queste missioni del suo predecessore, degli adempimenti eventualmente avviati e degli impegni sospesi. Spero deliberi di conseguenza. Ai dossier esistenti suggerirei di aggiungerne un altro: misure per la sicurezza degli ospedali e del personale. Che in pochi mesi si siano dovute registrare 70 aggressione a medici e paramedici da parte di energumeni d’ambo i sessi mi pare fenomeno di degenerazione sociale. Completa il quadro dei mali napoletani che rischiano di trasformarsi in patologie croniche. Pescara. Grave situazione in carcere, il Garante dei detenuti accoglie l’invito della Uil centroabruzzonews.blogspot.com, 9 settembre 2019 “Non è passata inosservata la denuncia fatta dalla Uil sulla grave situazione venutasi a creare nel carcere di San Donato. Il sovraffollamento di detenuti soprattutto di estrazione psicotica, insieme allo stato di disagio da esso prodotto nella gestione complessiva del penitenziario soprattutto per ciò che attiene l’incompatibilità che essi hanno nell’insistere in un luogo con grave carenza di organico sia esso di Polizia penitenziaria che pedagogico-amministrativo e con una logistica che manca di tante peculiarità proprie di un ospedale psichiatrico giudiziario, saranno seguite ed attentamente valutate così come ha dimostrato sempre di saper fare dal Professor Cifaldi per poi essere rapportate agli organi competenti. Funziona molto bene la simbiosi instaurata tra garante e rappresentanza sindacale della Polizia penitenziaria dalla Uil tanto auspicata. È solo lavorando insieme (personalmente l’ho sempre sostenuto seppur in uno contesto di generale diffidenza), infatti, che si potranno ottenere significativi risultati voluti dalla Costituzione e dalle leggi in materia di diritti dei lavoratori. A Cifaldi va il mio personale ringraziamento. Ad egli vanno i miei più sinceri auguri di proficuo lavoro”. Il componente del Comitato di Gestione Nazionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria e della Segreteria confederale Abruzzo Mauro Nardella Lecco. 202 anni per la Polizia penitenziaria, riflessioni dal carcere lecconews.news, 9 settembre 2019 Lunedì 9 settembre la Casa circondariale di Lecco celebrerà il 202° anniversario di fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, nato nel lontano 1817 e dipendente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. Un compito delicato e complesso, quello degli agenti chiamati quotidianamente alla gestione delle persone sottoposte a provvedimenti di restrizione o limitazione della libertà personale, un ruolo importante che trova spazio anche nel fondamentale compito di rieducazione e riadattamento sociale dei detenuti attribuito al sistema carcerario. Un tema poco trattato e generalmente scarsamente approfondito, che quest’anno si è potuto approfondire anche attraverso l’installazione Extrema Ratio, un percorso esperienziale che ha ricreato nel cortile del municipio le condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri italiane, attraverso una cella di 8 mq realizzata nella falegnameria del carcere di Bollate per il progetto “Diamoci un’altra chance: quale giustizia?” Una riflessione dovuta, che prende le mosse anche da un dato allarmante, che non risparmia nemmeno Lecco, quello che rivela la condizione di sovraffollamento delle carceri. Questioni delicate e complesse che impegnano anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Lecco, Marco Bellotto, psicologo e psicoterapeuta, presentato ai detenuti della Casa Circondariale di Lecco in occasione di un momento di particolare importanza proprio rispetto ai temi della rieducazione carceraria: la presentazione della donazione di attrezzature da palestra per l’attività fisica effettuata da un privato ai detenuti della struttura. Quella donazione, supportando la possibilità di creare attività di recupero e condivisione e favorendo lo sviluppo della pratica dell’attività fisica in un contesto di detenzione, esprime un’attenzione nei confronti delle strutture di detenzione che deve rimanere alta, sempre. Siena. 17 detenuti di Ranza e Santo Spirito si immatricolano all’università sienanews.it, 9 settembre 2019 Oltre 25 immatricolati e iscritti tra i detenuti della Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, e del carcere di Santo Spirito di Siena. Da ancora molta soddisfazione il progetto didattico e di orientamento dell’Università di Siena in carcere. Le nuove immatricolazioni all’anno accademico 2019/2020 sono 17, distribuite tra le lauree di primo livello - 7 in Scienze politiche, 3 in Scienze del servizio sociale, 1 in Studi letterari e filosofici, 1 in Scienze della comunicazione - e le lauree magistrali, di cui 3 in Scienze internazionali, 1 in Scienze delle amministrazioni, 1 in Biologia. La presenza della didattica universitaria nelle due strutture è organizzata nel quadro del Polo universitario penitenziario, costituito da 10 anni su base regionale con il contributo della Regione Toscana e del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Toscana- Umbria. “L’impegno nel settore educativo, in collaborazione con la polizia penitenziaria, - spiega il professor Fabio Mugnaini, delegato del Rettore al Polo Universitario Penitenziario - è un indice di qualità della condizione di vita nelle due strutture e riesce a compensare le oggettive difficoltà delle due sedi: una ubicazione distante dai principali centri abitati e produttivi, per quanto riguarda Ranza, e una struttura antica che non è facilmente adattabile alle esigenze della rieducazione, per Santo Spirito”. “In entrambi i casi - prosegue Mugnaini - l’attivismo degli educatori ha reso possibile il successo dell’offerta universitaria, cui coopera dallo scorso anno anche l’Università per stranieri di Siena, in un clima di impegno al miglioramento nella risposta alla funzione rieducativa, funzione costituzionalmente fondativa del carcere”. Padova. “Pallalpiede”, si alza il sipario sulla stagione con Paolo Condò ospite d’onore Il Gazzettino, 9 settembre 2019 Giovedì alle 11, al centro San Gaetano di via Altinate, verranno presentate ufficialmente la nuova stagione della Polisportiva Pallalpiede e le nuove divise di gioco. All’evento parteciperà Paolo Condò, opinionista di Sky e per decenni prestigiosa firma della Gazzetta, che presenterà anche il suo ultimo libro, La storia del calcio in 50 ritratti. La Polisportiva Pallapiede, nata all’interno del carcere Due Palazzi, è l’unica squadra di calcio in tutta Italia formata da detenuti e regolarmente iscritta ad un campionato di calcio della Figc. Pallalpiede partecipa da quattro anni ai tornei della terza categoria padovana, pur se con la formula del fuori classifica, e da domenica 22 settembre inizierà la quinta stagione: quest’anno è stata inserita nel girone A. Un’esperienza nata dalla volontà della professoressa Lara Mottarlini, che lavora per il recupero e il reinserimento dei detenuti. “La prigione è un luogo di sofferenza, anche quando si tratta di una prigione moderna - spiega la professoressa Mottarlini - ma deve recuperare i detenuti, prepararli al reinserimento. La pratica sportiva è un fatto positivo, uno sport di squadra come il calcio lo è ancora di più, perché spinge alla cooperazione e alla accettazione degli altri”. Per entrare in squadra vi sono alcune regole molto precise, come la buona condotta in carcere, ma ancora più interessante è il codice etico imposto ai giocatori, che non devono mai protestare contro l’arbitro, che devono rispettare gli avversari e devono evitare il gioco violento. Anche per questo motivo, la squadra ha conquistato quattro coppe disciplina di seguito, mostrando di accettare le regole dello sport meglio di qualsiasi altra formazione. Lo staff tecnico non è cambiato rispetto all’anno scorso: l’allenatore sarà ancora Fernando Badon, affiancato dal vice Walter Ballarin. Migranti. La svolta è salvare i disperati di Christian Rocca La Stampa, 9 settembre 2019 La legittimazione civile e morale del nuovo governo Conte passa da una sola questione, allo stesso tempo costituzionale e umanitaria, riassumibile nell’hashtag #fateliscendere che da mesi popola i social network e le coscienze degli italiani. Se davvero il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte vuole segnare una discontinuità reale col precedente governo sovranista da lui presieduto dovrà finalmente dire, una volta per tutte e senza giri di parole, che in Italia i porti restano aperti. Che gli italiani salvano i naufraghi e, scampato il pericolo, immediatamente li ricoverano e li curano, con mille ringraziamenti alle organizzazioni non governative, fino all’altro ieri calunniate come “taxi del mare”, per aver svolto le tempestive operazioni di salvataggio dei disperati. Oggi Conte parlerà alle Camere di cose molto importanti e decisive per il nostro paese, a cominciare dalle ragioni della nuova maggioranza parlamentare e dalla legittimità della nuova formula politica Cinque Stelle-Pd. Dal premier ci si aspetta un riposizionamento dell’Italia sull’asse atlantico, dopo le infatuazioni russe e cinesi del precedente esecutivo, un atteggiamento collaborativo e non antagonista con Bruxelles e qualche indicazione sulla prossima legge di bilancio e sulle relative coperture finanziarie. Ma saranno solo parole al vento se Conte non annuncerà una svolta a 180 gradi sull’immigrazione, culturale ancora prima che politica, sulle misure di accoglienza e di integrazione, sulle modifiche al regolamento di Dublino, magari questa volta partecipando ai vertici europei, e sull’urgenza di salvare e far sbarcare i naufraghi. Le parole sono importanti, così come le azioni, per questo sarebbe serio che Conte scegliesse di affrontare senza indugi il decreto sicurezza bis, sposando le perplessità del Quirinale e gli aspetti di incostituzionalità rilevati da più parti, oltre che da una sentenza, oppure che prendesse spunto dalle parole pronunciate dall’attore Luca Marinelli al momento del ritiro della Coppa Volpi al Festival di Venezia, magari per dedicare la prossima azione di governo, al modo di Marinelli, “a tutte le persone splendide che sono in mare a salvare altri esseri umani che fuggono da situazioni inimmaginabili”, persone che vanno ringraziate anche per “averci evitato di fare una figura pessima con noi stessi e con il prossimo”. Le difficoltà politiche di questa svolta sono chiare e visibili: ripudiare le iniziative del governo precedente non è facile, non solo perché il Presidente del Consiglio è il medesimo, ma anche perché nei mesi scorsi i cinque stelle non sono stati semplicemente una forza politica al traino di Salvini, al contrario sono stati volenterosi complici di una stretta anti immigrati progettata dalla società di web marketing Casaleggio Associati sulla base del sentimento popolare colto nella rete. Anche le obiezioni politiche sono evidenti, a cominciare da quella per cui i governi non sono enti benefici, come le organizzazioni umanitarie, ma semmai strumenti esecutivi al servizio della comunità. I governi però non sono nemmeno organizzazioni disumane e non c’è bisogno di essere idealisti o sognatori per sostenere che salvare le donne e gli uomini in mare rientri perfettamente nei doveri di un governo di un paese civile. Il secondo governo Conte, dunque, per essere credibile deve mostrarsi profondamente diverso dal precedente, meno “Conte bis” e più “Conte nuovo”. Del resto, che cosa ci starebbero a fare il Partito Democratico e Liberi e Uguali in una maggioranza politica che non si distingue da quella nazional- populista sulla questione più appariscente e salviniana degli ultimi mesi? Migranti. Distribuzione dei profughi e centri d’accoglienza, così Roma tratta con la Ue di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 settembre 2019 Sì agli sbarchi se ci sarà accordo per la divisione dei profughi. L’apertura di Parigi. L’obiettivo è dichiarato: ottenere una distribuzione “preventiva” dei migranti che arriveranno in Italia. Accettare gli sbarchi delle navi delle Ong e dei mezzi militari impegnati nei soccorsi nel Mediterraneo, con la garanzia che almeno una parte degli stranieri potranno trovare subito ospitalità negli altri Stati dell’Ue. Per questo la strategia che il premier Giuseppe Conte sta mettendo a punto con i titolari del Viminale, Luciana Lamorgese, e della Farnesina, Luigi Di Maio, punta a superare il trattato di Dublino, ma soprattutto a prendere le distanze dalla gestione all’attacco di Bruxelles voluta da Matteo Salvini. E dunque la lettera inviata dal ministro degli Esteri francese Jean Yves Le Drian proprio a Di Maio “per avere relazioni più costruttive” è stata accolta come un via libera a quel negoziato già avviato che punta anche a una politica comune sui rimpatri. Un passo importante che in Italia si tradurrà in un nuovo approccio per la sistemazione dei profughi. Lamorgese è il prefetto che con il ministro Marco Minniti mise a punto il protocollo poi applicato a Milano per la cosiddetta “accoglienza diffusa”. Piccoli centri - individuati grazie alla collaborazione con sindaci, governatori e associazioni di volontariato - dove si rimane in attesa della decisione sulla richiesta di asilo. Una linea che - come avrebbe detto la ministra Lamorgese durante il primo confronto con Conte - “non rinnego perché si è dimostrata vincente”. Il nodo restano le risorse visto che non ci sono i soldi per il pagamento degli straordinari ai poliziotti. Le quote per la Ue - Il dialogo con le Ong, dopo lo scontro aspro con Salvini, passa da una regolamentazione alla quale il governo non sembra intenzionato a rinunciare. L’Italia non vuole essere l’unico centro di smistamento dei profughi e per questo il negoziato con la Ue prevede al primo punto regole chiare sulla distribuzione di chi sbarca sulle nostre coste. Si discute sulla necessità di procedere con la fissazione delle quote o comunque sulla disponibilità degli altri Stati ad accogliere i migranti quando sono ancora a bordo delle navi. E dunque non si esclude il ritorno a un progetto comune sul modello “Triton” che prevedeva una gestione condivisa del controllo delle frontiere marittime. In questo quadro si inserisce la revisione del decreto sicurezza che non avrà tempi brevissimi, ma dovrà comunque recepire le indicazioni del Quirinale rispetto alla necessità di rivedere le multe per chi viola i divieti di ingresso tenendo conto “dell’obbligo di prestare soccorso a chi si trova in difficoltà” previsto dalle convenzioni internazionali. Accoglienza e rimpatri - I grandi centri di accoglienza non sono “sostenibili” e così si pensa a una gestione di piccole strutture per i profughi, proprio come avviene a Milano, ma anche in città di altre Regioni. È quel “senso di squadra” che Lamorgese aveva sottolineato al momento di siglare l’accordo con il sindaco Beppe Sala. Una linea che naturalmente non potrà tralasciare, ed è questo uno dei temi in discussione con la Ue, la previsione di effettuare l’identificazione dei profughi già nei Paesi di origine e comunque di ottenere fondi e collaborazione per i rimpatri. Oltre alle trattative bilaterali dell’Italia per la riammissione negli Stati di partenza, l’obiettivo è la delega alla Commissione europea per un accordo più ampio che coinvolga le strutture internazionali come L’Oim e l’Unhcr, proprio per ribadire la necessità di una strategia condivisa che non faccia tornare il nostro Paese ad essere “l’unica porta d’Europa”. E dunque metta a disposizione i fondi, ma soprattutto i mezzi necessari. I soldi per la polizia - La necessità di reperire risorse del resto trova conferma nella lettera inviata il 5 settembre dal dipartimento di pubblica sicurezza al sindacato Silp Cgil che sollecitava il pagamento degli straordinari fatti nel 2018 e nel 2019. “Le prestazioni - si sottolinea - potranno essere messe in liquidazione in presenza delle accertata disponibilità finanziaria. Le ore di straordinario rese nel 2018 qualora non liquidate e non recuperate entro il 31 dicembre 2019, saranno comunque retribuite entro il 2020. Sono in corso le iniziative finalizzate al reperimento delle risorse aggiuntive”. Messaggio esplicito che fa dire al segretario Daniele Tissone: “Per 14 mesi abbiamo avuto un ministro dell’Interno che ha parlato di sicurezza ogni giorno sui social, ma non ha messo risorse sufficienti per le esigenze dei “suoi” poliziotti. Il nuovo governo non potrà fare miracoli, ma pretendiamo e auspichiamo un cambio di rotta”. Giorgio Gori: “Sull’immigrazione la gente chiede sicurezza. Il Pd non lo dimentichi” di Andrea Montanari La Repubblica, 9 settembre 2019 Le nuove politiche che devono superare la disumanità non devono perdere di vista le richieste di legalità dei cittadini. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo del Pd, sull’immigrazione scrive in un tweet: “C’è voglia di voltare pagina, ma gli italiani chiedono posizioni meno rigide quindi eviterei di passare da porti chiusi ad accogliamoli tutti”. Sembra la posizione dell’ex ministro Matteo Salvini. Ha cambiato idea? “Questo lo può dire solo chi vede questo tema in chiave binaria. O tutto bianco o tutto nero, ma non è così”. Allora, com’è? “Mi pare che ci sia il desiderio di uscire da una fase di gesti palesemente disumani che hanno comportato oltretutto la violazione del diritto internazionale. Dico solo: attenzione a non passare all’eccesso opposto”. Cioè? “Il sondaggio che dice che solo l’11 per cento degli italiani chiede posizioni meno rigide sull’immigrazione non dice che gli italiani sono diventati disumani o razzisti. Dice che queste persone vanno salvate, ma che questa politica va fatta insieme alla garanzia di legalità e sicurezza che in passato sono mancate. Un partito di governo deve saper dare una risposta”. Quindi? “In Italia ci sono più di mezzo milione di irregolari che vengono sfruttati con il lavoro nero. Non mi sembra un grande risultato”. Cosa intende dire? “Il problema del controllo dei confini deve essere affrontato a livello europeo. La missione Sofia è stata prorogata, ma senza le navi. Una scelta vergognosa. Ora che l’Italia è uscita dall’angolo nel quale l’aveva cacciata il passato governo deve riproporre il tema della modifica del trattato di Dublino. L’idea che di tutti i migranti si debba far carico l’Italia non esiste. Anche la sinistra deve ammettere che sulla gestione a terra abbiamo fallito”. Con chi ce l’ha? “Abbiamo governato dal 2013 al 2018 e il tema dell’accoglienza non ce lo siamo mai posto seriamente. Su ciò che accade dal giorno dopo alla decisione su chi ha diritto alla protezione e chi no non si è fatto nulla. E questo produce una condizione di necessario degrado che si scarica sui territori. Da qui nascono le paure dei cittadini su cui prospera la propaganda leghista”. Intende dire che non basta dire basta con l’odio? “Bisogna fare delle cose. Salvo la politica sui flussi di Minniti, sul fronte della gestione a terra abbiamo subito il fenomeno. Se ora tornassimo alla gestione di Alfano sarebbe un grandissimo regalo alla destra di Salvini”. Ora che al Viminale c’è Luciana Lamorgese, cosa si aspetta? “Un cambio di passo. Abbiamo già visto come da prefetto di Milano la ministra Lamorgese abbia avuto le capacità per affrontare un problema del genere. Sa perfettamente che non si tratta di fare dichiarazioni, ma di mettersi a lavorare per trovare una terza via”. Il decreto sicurezza bis è da cancellare? “Tenere conto dei rilievi del presidente Mattarella mi sembra il minimo. Servono profonde modifiche per togliere l’idea repressiva dei porti chiusi”. Droghe. Boom dell’eroina sintetica, le cosche calabresi sfidano i narcos messicani e cinesi di Giuseppe Legato La Stampa, 9 settembre 2019 Non solo coca: dal Canada all’Italia, le ‘ndrine vogliono controllare lo spaccio delle nuove sostanze. Le famiglie della Locride e della costa Tirrenica ottengono 18 milioni di euro da un chilo di polvere. “Ricordati che il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo diventerà”. Cosi un anziano boss della piana di Gioia Tauro spiegava a un giovane rampollo delle famiglie d’élite della costa Tirrenica lo spirito di conquista che anima la ‘ndrangheta. Di territori e di mercati, di servizi e di business: quindi di droghe. Un’occupazione progressiva della torta criminale internazionale che si è tradotta nel tempo nella colonizzazione di aree inesplorate, a volte impensabili, ma utili a rigenerare la forza dell’organizzazione e le ambizioni di espansione. Dopo aver conquistato l’Europa (Germania, Olanda e ora Est Europeo) la mafia più ricca e potente in Italia, con un fatturato di decine di miliardi di euro all’anno, cerca nuovi e più remunerativi spazi anche nel narcotraffico mondiale. Non abbandona la cocaina, business planetario ormai gestito in regime di semi-monopolio grazie a una sfilza di broker saldamente ancorati ai cartelli sudamericani, e punta dritta al traffico di droghe sintetiche che, per dirla coi numeri, sono un affare ancora più gigantesco (se possibile) della polvere bianca. La parola magica è “Fentanyl” ed è in grado di mutare scenari e geopolitica del crimine organizzato. Spiega Antonio Nicaso, docente universitario di crimine organizzato in Nord America e autore di numerosi saggi sulla ‘ndrangheta insieme al procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri: “Un chilo di polvere di Fentanyl costa 10.500 euro. Lavorato con le attrezzature e le sostanze del caso può generare un milione di pillole. Ognuna di queste viene rivenduta sul mercato a 20 dollari”. Va da sé che la nuova frontiera del business sia questa. E i segnali che “i calabresi” stiano mettendo le mani sulla nuova gallina dalle uova d’oro del narcotraffico è nelle pieghe di una recente operazione delle autorità canadesi che ha portato in carcere gli eredi del boss Paolo Violi, emigrato in Nord America settant’anni fa e ucciso in una sanguinosa faida con la potente enclave mafiosa dei Rizzuto. Uno di loro è stato condannato un anno fa. “Nelle more dell’indagine - racconta Nicaso - sono saltate fuori alcune conversazioni che hanno evidenziato un confronto tra famiglie calabresi sull’opportunità di entrare in questo mercato”. Ai dubbi espressi da alcuni vecchi, le giovani leve hanno risposto più o meno cosi: “Che te ne frega se muoiono tante persone? Anche nelle guerre si muore. Vuoi mettere il guadagno che facciamo col Fentanyl? Prima o poi troveremo un equilibrio dei dosaggi, intanto andiamo avanti”. I morti sono i giovani americani e canadesi travolti dalla nuova emergenza sociale che questo oppiaceo sintetico potentissimo, nato come antidolorifico farmaceutico ma ben presto finito nello sconfinato mondo del deep web, ha creato negli ultimi anni in Usa. Ventotto mila morti solo nel 2017. Fonte: i Cdc statunitensi, cioè i centri per la prevenzione e il controllo delle malattie. Il mese scorso il presidente Donald Trump ha detto all’agenzia Reuters che l’America sta “perdendo migliaia di persone a causa del Fentanyl”, puntando il dito contro il mercato cinese. Ma non è tutto cinese, o almeno non più, il mercato che si sta sviluppando attorno a questa sostanza: “Dopo quella fase datata 2010, anche i cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generacíon hanno cercato di entrare nel business e dal 2015 sono diventati produttori diretti - evidenzia Nicaso. Dal 2017 la ndrangheta commercializza Fentanyl e ha iniziato in Canada a opera dei Violi. Centinaia di relazioni internazionali sottolineano l’interessamento delle grandi mafie verso questo mercato. La ‘ndrangheta ha deciso di investire in maniera massiccia: si tratta delle famiglie della Locride e della costa Tirrenica”. Al netto di una forma di darwinismo criminale che l’ha sempre contraddistinta nelle capacità evolutive di intercettare nuove frontiere di business, è poi chiaro perché “i calabresi” spingano sulla nuova droga. “Al di là dei profitti, vi sono ragioni di opportunità - precisa Nicaso. La produzione delle droghe sintetiche non è soggetta a travagli incidentali di natura geopolitica, come è accaduto ad esempio per l’eroina in Afghanistan quando scoppiò la guerra oppure come si registra quando le Farc di turno siglano accordi coi governi sudamericani limitando la produzione di foglie di coca”. A questo concetto è collegato il vantaggio dell’indipendenza dal principio attivo che guida invece la produzione di cocaina ed eroina. E cioè il Fentanyl è una droga sintetica, potenzialmente producibile all’infinito, scollegata dal concetto di coltivazione della pianta base. Si realizzano le dosi in un seminterrato. Su Internet si trovano manuali “fai da te”. In Italia, al momento, si contano i primi morti, “ma in due o tre anni l’emergenza sarà pienamente compresa anche nel nostro paese”. Nel frattempo la ‘ndrangheta avrà già fatto affari d’oro. Magari anche con il tramadolo, meglio conosciuto come “la droga del combattente”, molto diffusa tra le truppe del Califfato in territori di Jihad. Negli ultimi tre anni solo nel porto di Gioia Tauro, scalo notoriamente “sfruttato” dalle ‘ndrine, sono state sequestrate circa 50 milioni di pastiglie. I carichi provenivano dall’India ed erano diretti in Libia: “Il sospetto è che venisse utilizzato come merce di scambio in Africa - puntualizza Nicaso. Non si capisce ancora di cosa, magari di servizi logistici per il traffico internazionale di droga”. Il dato medico è sconcertante. “Ciò che è in commercio negli Usa ed è all’origine della stragrande maggioranza delle overdose mortali da oppiacei sono i derivati del Fentanyl prodotti clandestinamente”. Il dottor Riccardo Gatti da oltre trent’anni si occupa di droga e dirige il dipartimento interaziendale Dipendenze della Asst Santi Paolo e Carlo di Milano. “Il boom di decessi è iniziato quando i trafficanti di droga hanno cominciato a miscelare eroina, cocaina e metanfetamine con questi oppiacei sintetici”, afferma. Chi usa questi preparati “ne ricava sensazioni piacevoli ma anche, rapidamente, tolleranza (cioè necessità di aumentare nel tempo la dose per ottenere il medesimo effetto) e dipendenza grave”. E, aggiunge Gatti, “data la “resa” diversa dei derivati del Fentanyl le preparazioni non hanno una “potenza” costante e il rischio di overdose è quindi molto alto”. Un grave problema è che i dati ufficiali sulle overdose letali non distinguono le morti causate da Fentanyl preparato in laboratori clandestini da quelle causate dal prodotto farmaceutico. In Italia l’eroina “di strada” è promossa a prezzi molto bassi, evidentemente si cercano nuovi clienti da fidelizzare, ma “circolano anche molte ricette contraffatte per i farmaci oppiacei”. Sarebbe questo il segno che “c’è un certo numero di dipendenti da farmaci che potrebbero essere agganciati dal mercato dello spaccio: se questo avvenisse e se anche da noi circolassero preparati contenenti Fentanyl, la situazione potrebbe diventare rapidamente molto critica e le morti per overdose da oppiacei potrebbero avere un rapido incremento”, avverte Gatti. Stati Uniti. Seattle ha scelto di non combattere la guerra alla droga ilpost.it, 9 settembre 2019 Alla repressione ha preferito il reinserimento, alla giustizia penale ha anteposto il sistema sanitario: sta funzionando, ma è una soluzione solo parziale. Nicholas Kristof, giornalista di lungo corso e opinionista del New York Times, ha raccontato come secondo lui la città di Seattle, nello stato di Washington, ha “capito come far finire la guerra alla droga”, intesa come l’approccio repressivo nei confronti dei consumatori di sostanze stupefacenti. Kristof ha scritto che “Seattle sta decriminalizzando l’uso delle droghe pesanti” e anziché sul carcere, e quindi sulla repressione, sta puntando più sull’assistenza medica e il reinserimento di chi è dipendente. Secondo Kristof è un “approccio pionieristico che dovrebbe essere preso a modello dal resto degli Stati Uniti”. L’approccio di cui si parla è pioneristico soprattutto per gli Stati Uniti, visto che è usato da decenni in molti paesi europei (come il Portogallo da quasi vent’anni): come ha detto la Global Commission on Drug Policy, “criminalizzare chi usa le droghe è inefficace e nocivo”. Ma è interessante che l’approccio inizi a essere adottato anche negli Stati Uniti, storicamente focalizzati sulla repressione più che sul recupero dei tossicodipendenti. Per aiutare chi legge a farsi un’idea della situazione, Kristof scrive che “negli Stati Uniti ogni 25 secondi viene arrestata una persona per possesso di droga” e che “oggi gli americani che muoiono ogni anno per overdose sono più di quelli morti nelle guerre in Vietnam, Afghanistan e Iraq”. Secondo alcune stime, quasi un americano su due ha un parente o un amico con un problema di dipendenze. Nel suo articolo Kristof fa in genere riferimento alle cosiddette droghe pesanti, come l’eroina o le metanfetamine, ma parla anche di sostanze per ora meno presenti in Italia, come il fentanyl, un oppioide cento volte più forte della morfina. Oltre alle droghe “tradizionali”, quindi Kristof fa riferimento anche a sostanze più recenti, in certi casi persino legali (in certe dosi e a certe condizioni). Per spiegare l’approccio di Seattle, Kristof ha scritto: “Sta attingendo meno al sistema della giustizia penale e più a quello della sanità pubblica”. Da qualche tempo chi a Seattle viene trovato in possesso di un piccolo quantitativo di droga, quello che si presume sia per il consumo personale e non per lo spaccio, non viene incriminato ma viene assistito tramite una serie di consulenze e servizi sociali. A prescindere dal tipo di droga. Kristof ammette che è “un modello che sta avendo sempre più consensi dagli esperti di sanità statunitensi e mondiali”, ma aggiunge che “continua a scioccare molti americani”. Kristof scrive che essendo molti americani abituati a sentir parlare di “guerra alle droghe” (il primo a parlarne fu, quasi mezzo secolo fa, l’allora presidente Richard Nixon), scelte come quelle di Seattle sono viste come una sorta di parziale “ritirata”. Il principale responsabile della nuova politica sulle droghe di Seattle è Dan Satterberg, procuratore distrettuale della contea di King, di cui Seattle fa parte. Satterberg ricopre l’incarico dal 2007 e ha raccontato al New York Times di aver avuto una sorella minore morta per una malattia causata da alcune sue precedenti dipendenze da alcol e droghe. Nel 2011 Satterberg fu tra i promotori del programma Lead, acronimo di Law Enforcement Assisted Diversion: prevedeva che anziché arrestare chi compiva certe attività (come il consumo di droga ma anche la prostituzione), i poliziotti provassero, specie se in presenza di atteggiamenti non violenti e almeno in parte concilianti, a fornire assistenza e indirizzare le persone verso i servizi sociali. Kristof ha parlato di un “grande successo quasi immediato”, per Lead: nel farlo, ha citato uno studio indipendente che nel 2017 mostrò come le persone assistite tramite Lead avessero il 58 per cento di possibilità in meno di farsi arrestare rispetto a quelle non assistite dal programma. Chi passava da Lead aveva anche possibilità notevolmente più alte di trovare e tenere una casa e un lavoro. Per funzionare, Lead ha bisogno di fondi: si parla di almeno 350 dollari al mese per ogni persona assistita: “costa meno del carcere, dei processi e dei costi associati alla presenza di un senzatetto”. Kristof lo descrive come un progetto che, guardando le cose nel loro complesso, “si ripaga da sé”, perché una persona dipendente da droghe alla lunga ha costi maggiori per la collettività di quelli che si devono sostenere per farla uscire da quella dipendenza. Poco meno di un anno fa, nel settembre 2018, Satterberg proseguì per la sua linea e annunciò che la contea di cui era procuratore distrettuale non avrebbe incriminato chi fosse stato trovato in possesso di meno di un grammo di ogni tipo di sostanza. È una decisione rilevante perché nel caso di certe sostanze, come l’eroina, un grammo è più di quanto si assume in genere in una singola dose (in estrema sintesi: in Italia la legge parla di microgrammi di principio attivo, negli Stati Uniti varia molto da stato a stato). Significa quindi che, vedendo funzionare il programma, Satterberg decise di allargare ancora un po’ le maglie di chi poteva usufruirne, evitando un processo e l’eventualità del carcere. Sebbene il progetto stia funzionando (e ci siano piani per decine di progetti simili in altre città statunitensi), continua a esserci chi non lo vede di buon occhio. Tra i critici di cui parla il New York Times, qualcuno se la prende contro l’eccessiva decriminalizzazione di droghe pesanti come l’eroina, qualcun altro pensa che così facendo si tolga autorità alle forze dell’ordine. C’è poi chi sostiene, scrive Kristof, che “anche solo la minaccia del carcere possa essere utile per forzare le persone a partecipare e programmi di cura e reinserimento”. Kristof ricorda però che, nonostante le critiche, “è difficile trovare una politica che abbia fallito in modo più definitivo della “guerra alle droghe”, che “è costata migliaia di miliardi di dollari e ha rovinato decine di milioni di vite” senza però risolvere il problema e anzi, forse, accentuandolo. Ma lo stesso Kristof ammette che le azioni intraprese da Seattle sono solo una parte della possibile soluzione, perché la città “ha fatto un ottimo lavoro nel fermare la guerra alle droghe, ma ancora non è stata capace di finanziare la guerra alle dipendenze”, che secondo lui è quella che andrebbe combattuta. La città deve investire ancora di più nel sistema sanitario, per assicurare a chiunque abbia una dipendenza da una sostanza stupefacente di poter avere la necessaria consulenza e il necessario supporto, sul piano fisico ma anche psicologico. Giulia, dalla Sicilia al Messico per lottare contro il femminicidio di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2019 Lavora con la più grande università dell’America latina e collabora con l’Unodc, l’Agenzia Onu contro droga e crimine. Coyoacan, il grande e bel quartiere, oltre mezzo milione di abitanti, di Città del Messico. All’Istituto italiano di cultura quaranta persone discutono di criminalità e violenza. Sono studiosi, ex funzionari di polizia, magistrati, scrittori e giornalisti. Li ha messi a convegno un docente di diritti umani dell’università di Sor Juana. Il dibattito ferve. I tragici numeri messicani, le cose da fare, i confronti con l’Italia, lo Stato e la fiducia nelle istituzioni. Finché la discussione cade, come è inevitabile, sulla violenza che colpisce le donne. Un esperto spiega con inflessibile neutralità che tecnicamente il femminicidio è un omicidio che colpisce una appartenente al genere femminile. Ma a quel punto due mani si levano in fondo alla sala, nell’angolo a destra dei relatori. Bisogna sporgersi per capire di chi siano, perché le titolari sono in seconda fila. “Non è una forma di omicidio, è un delitto particolare, è un crimine di genere. Il suo significato sta nel colpire le donne proprio in quanto donne”. È il cuore della questione, un principio fondamentale che il movimento di autodifesa femminile afferma con forza. Lo scrive anche sui muri della città infinita. Se si allunga un po’ il collo si vede meglio. A parlare è una donna molto giovane, dai lunghi capelli bruni. È un’italiana, si chiama Giulia Marchese. Resto sempre affascinato da questo fenomeno dei giovani italiani che guidano la rivolta contro le mafie di ogni tipo in qualsiasi paese del mondo mi capiti di andare. La ragazza sembra fra l’altro solida di studi e di ricerche. Sostiene bene il confronto, spalleggiata da un’altra donna italiana che spiega di avere collaborato con una nostra deputata, Anna Serafini, al testo di una proposta di legge contro la violenza verso le donne. Quando tutto è finito, Giulia si racconta. Lavora con la Unam, la Universidad nacional autònoma de México, il più grande ateneo dell’America latina, circa 350mila studenti. E ha avuto di recente una consulenza dall’Unodc, l’agenzia delle Nazioni unite contro la droga e il crimine. È venuta qua da Milano, ma è siciliana, come suggerisce lo speciale taglio degli occhi chiari. Una storia particolare. Nonni di origini modeste, uno contadino nel catanese l’altro bigliettaio sugli autobus a Palermo. “La mia è una famiglia povera in tutti e due i rami. Appena uno dei genitori ha avviato una attività soddisfacente sono arrivate addosso le arpie. Così cene siamo andati a Milano, a vivere liberamente”. A lei ragazza però non è bastata Milano. Dopo la libertà dai ricatti siciliani, ha cercato infatti la libertà anche dalla famiglia. Università via da casa, classicamente. Laurea in Sviluppo locale e globale a Bologna. Poi il dottorato di ricerca, in una rapidissima sequenza di successi accademici. Dalla Germania, università di Francoforte, fino a Città del Messico. Danno il capogiro questi movimenti da globalizzazione integrale, che per i giovani talenti non è affatto problema ma vento imperdibile. Oggi Giulia è impegnata in una ricerca in cui fonde le sue due grandi originarie passioni: la geografia umana e gli studi di genere. Cerca di costruire mappe rivelatrici; di geolocalizzare - come si dice - la violenza che si abbatte contro le donne in Messico. Ed è tornata dalle vacanze italiane apposta per tenere nella sua università un convegno sul femminicidio, il crimine che ci risospinge nei buchi neri dell’antropologia. Due giorni interi, 22 e 23 agosto. Lo ha promosso con Patricia Martha Castaneda Salgado e un’altra italiana, Emanuela Borzacchiello, dell’università Complutense di Madrid. Reflexiones actuales sobre feminicidio. Una mano aperta al centro nell’atto di fermare qualcosa, davanti al volto semicoperto di una donna. Sette sessioni, una delle quali intitolata “Nemmeno un passo indietro”. E una che spiega quell’intervento dal fondo della sala: “Come nominare la violenza? Proposta per un nuovo vocabolario”. La cultura, il linguaggio. Le donne messicane provano a cambiare il vocabolario perché il mondo capisca meglio il dramma che si è abbattuto su di loro nel già grande mattatoio nazionale. E che a combattere con loro ci sia questa italiana di 27 anni mi ispira un sottile sentimento di orgoglio. “Se qui in Messico mi sembra di essere un po’ in Sicilia? Certo. Anzi, a essere sincera, io sono venuta qui a cercare la Sicilia, a darmi un nuovo punto di vista sulla mia storia. A provare a capirla fino in fondo”. Così gli insondabili misteri della coscienza e dell’anima portano a ingaggiare le battaglie più ardue. Afghanistan. Quei negoziati difficili. Necessario creare un argine anti-Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 settembre 2019 Oggi i talebani operano in oltre il 60 per cento del Paese, i loro attacchi sono quotidiani. Ci si può fidare degli eredi del mullah Omar? Ha una lunga storia di fraintendimenti, false partenze e violenze rancorose l’iter dei negoziati tra americani e talebani che per l’ennesima volta ha subito una battuta d’arresto nelle ultime ore. Punto più chiaro delle intese, raggiunte a Doha (e ora messe in dubbio) dopo quasi un anno di colloqui tra l’inviato speciale americano, Zalmay Khalilzad, e la delegazione talebana guidata da Abdul Ghani Baradar, è che almeno 5.400 soldati americani avrebbero dovuto lasciare 5 basi in Afghanistan a breve. Altre migliaia, oltre a circa 6.000 alleati Nato (tra cui 700 italiani), avrebbero però dovuto restare nel Paese per accompagnare il nodo molto più controverso dei tentativi di dialogo tra la delegazione di 15 membri organizzata lo scorso luglio dal presidente afghano Ashraf Ghani e i talebani. La difficoltà maggiore resta però nel fatto che i talebani continuano a considerare gli esponenti del governo di Kabul come “marionette” di Washington e per ora non è noto come le due parti possano trovare un accordo di coesistenza pacifica. Si era pensato ad un cessate il fuoco e all’eventualità di negoziati “inter-afghani” in Norvegia il mese prossimo. Sino ad ora alcuni deputati del parlamento afghano (tra loro anche due donne) hanno tenuto due incontri informali a Mosca con i rappresentanti talebani, senza sortire alcun risultato. Elemento centrale nella determinazione Usa di continuare comunque la trattativa era stato già nel dicembre 2018 l’impegno talebano a evitare che “forze straniere” potessero insediarsi nel Paese e creare nuove basi d’azione per il terrorismo internazionale. Ovviamente gli americani cercano garanzie affinché non si ripeta una situazione simile a quella alla fine degli anni Novanta, quando il Mullah Omar accolse Osama Bin Laden e le forze militanti di Al Qaeda. Fu dalle loro basi nascoste tra Jalalabad e le montagne di Tora Bora che si pianificarono gli attentati dell’11 settembre 2001. Negli ultimi tempi il rischio è che alla minaccia di Al Qaeda possano aggiungersi i reduci di Isis in fuga da Siria e Iraq e attivi in Afghanistan, pericolosi concorrenti per gli stessi talebani. Al cuore della contesa stanno problematiche profonde, che coinvolgono visioni, mentalità e culture politiche assolutamente opposte sul futuro dell’Afghanistan, ma soprattutto risultano esacerbate dal braccio di ferro tra i Paesi limitrofi. I talebani non hanno in verità mai abbandonato l’ideologia politico-religiosa dello Stato islamico integralista, radicata nell’etnia pashtun e legata alle potenze sunnite che fanno capo a Pakistan e Arabia Saudita. Già nei primi mesi del 2002, subito dopo l’invasione a guida americana, avevano proposto un cessate il fuoco generale in cambio dell’amnistia da parte di Washington. Ma a quel tempo la loro disfatta sembrava totale e gli americani erano impegnati nella caccia senza quartiere contro Bin Laden e il Mullah Omar. Per alcuni anni, dopo la crescita della presenza Nato-Isaf a oltre 131.000 uomini e lo sviluppo della società civile assieme al processo democratico, sembrarono battuti. Fu solo verso il 2006 che la guerriglia talebana, sostenuta dai gruppi islamici nelle Zone Tribali pakistane, riprese a farsi sentire. Da allora la situazione è mutata radicalmente. Oggi i talebani operano in oltre il 60 per cento del Paese, i loro attacchi sono quotidiani. Tanto da mettere a rischio le elezioni presidenziali, già rinviate due volte, e ora previste per il 28 settembre.