Per Di Maio c’è anche il dossier degli italiani detenuti all’estero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2019 Sono 2.113, dei quali 1.611 nella Ue. Più della metà sono in cella in attesa di giudizio. Tanti sono i dossier di cui dovrà occuparsi il neo ministro degli esteri Luigi Di Maio, ma uno riguarda anche la situazione dei detenuti italiani all’estero. Secondo gli ultimi dai messi a disposizione dalla Farnesina e relativi a luglio scorso, sono ben 2.113 gli italiani reclusi nelle carceri del mondo. Solo nei paesi dell’Unione europea sono 1611 dei quali solo 8 sono in attesa di estradizione. Mentre 120 sono quelli reclusi nei paesi extra dei quali solo 3 sono in attesa di estradizione. Per quanto riguarda le Americhe, sono ben 250 e spicca il Perù con 40 detenuti italiani, preceduto dall’Argentina con 36 e 40 in Brasile. Ma ci sono reclusi italiani anche nei paesi del Medio Oriente e africani, tra i quali spicca il Marocco con 11 e 9 negli Emirati arabi. Statisticamente le violazioni in materia di stupefacenti sono le cause principali della detenzione degli italiani all’estero. Le attività degli uffici diplomatici e consolari all’estero, coordinate dalla Farnesina, consistono nel prestare assistenza ai connazionali detenuti e, all’occorrenza, nel mantenere i contatti con le famiglie che spesso si trovano in Italia. Ma non risulta facile, visto il non raro ostruzionismo di alcune nazioni straniere, compreso le lentezze di alcuni consolati e ambasciate italiane. Dal dossier del Viminale emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 e da diversi Accordi bilaterali nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e in molti casi le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi una idea dettagliata del processo. L’ultimo caso, emblematico, riguarda Lara, 30enne, italiana e alla fine del 2015 si trasferisce alle Canarie, nell’isola Lanzarote, con il sogno di una vita diversa. E quella vita diversa arriva, ma non sicuramente come immaginava lei. Una sera del 2016 esce da un locale col fidanzato e tornando a casa in auto provocano un incidente stradale in cui muoiono due pedoni. Lara si assume la responsabilità che l’ha portata in un vortice dalla quale vorrebbe e deve uscire. Da tre anni è bloccata nell’isola spagnola per quella vicenda giudiziaria che la vede accusata di omicidio colposo. A denunciare il caso è “Prigionieri del Silenzio” la Onlus, impegnata per la tutela dei diritti dei connazionali detenuti all’estero e il sostegno alle loro famiglie, che si sta occupando della vicenda e si sta battendo per farla tornare in Italia. Sì, perché Lara sta male, non mangia più e ha urgente bisogno di cure. Tante sono le storie di diversi italiani all’estero. Un esempio che racchiude tutta la difficoltà degli italiani che si ritrovano coinvolti in situazioni giudiziarie dove lo stato di diritto è problematico, riguarda quello avvenuto in India. Parliamo di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare qualche anno fa in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Quando poi venne chiesto un secondo esame autoptico, non fu possibile eseguirlo perché l’obitorio era infestato dai topi e così il corpo di Montis venne cremato. I due vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico Ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani erano stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: temperature che arrivano a 50 gradi e costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Orlando, vicesegretario Pd: “La riforma della giustizia ora va ridiscussa da capo” di Francesca Schianchi La Stampa, 7 settembre 2019 “Governo rinnovato, era importante in questo momento. Col M5S vedo tutte le difficoltà, ma in politica si sceglie tra le alternative disponibili”. “Abbiamo un governo profondamente rinnovato rispetto alle compagini precedenti, con un’età media giovane, ma non improvvisato”. All’indomani del giuramento, il vicesegretario del Pd Andrea Orlando si sente con Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia che gli è succeduto in via Arenula: la settimana prossima si vedranno per qualche considerazione a quattr’occhi. Ora commenta con soddisfazione la squadra che lui, protagonista delle trattative, ha contribuito a far nascere. Lei però ha deciso di restarne fuori, perché? “Non sono un teorico del rinnovamento a prescindere. Era importante aprire una pagina nuova. Sarebbe stato sbagliato un collage di governi precedenti”. Lei invece resta al partito… “Non possiamo affidare tutte le speranze di riuscita solo al governo, come in passato. Il ruolo del partito è determinante: abbiamo bisogno di trasmettere quest’esperienza anche a livello locale ricostruendo un’organizzazione”. Dopo anni di insulti non è una scelta facile da spiegare… “Non ho mai partecipato alla battaglia degli insulti pur avendone ricevuti molti. Ho sempre pensato che nei 5S ci siano spinte interne compatibili con il Pd e altre di segno opposto: bisogna fare prevalere le prime”. Il governo ha impugnato una legge sull’immigrazione: primo segnale di discontinuità? “Dovremo dare segnali su questo tema ma non rinunciamo al controllo dei flussi né ignoriamo che l’integrazione, se non funziona, può portare a problemi di convivenza. Una prima discontinuità è che non c’è più un ministro dell’Interno che usa i migranti come uno spot quotidiano”. Rimetterete mano ai decreti sicurezza? “Il punto di partenza imprescindibile è accogliere i rilievi del capo dello Stato. E poi fare una valutazione complessiva che vada oltre “porti aperti-porti chiusi” e passi dal rapporto con l’Europa e le modalità di integrazione”. Pensate di poterlo fare con chi ha votato i dl sicurezza? “Abbiamo fatto il governo proprio perché non volevamo che quel tipo di politica continuasse. Meglio una strada impervia di una semplice che avrebbe portato alla vittoria di un centrodestra su posizioni pericolose”. Quindi ha ragione Salvini: avete fatto un governo per paura di lui… “La preoccupazione per la deriva autoritaria del Paese è importante, ma non sarebbe stata sufficiente. Il punto è che abbiamo individuato possibili convergenze, dalla lotta alle disuguaglianze al riavvicinamento dell’Italia all’Europa alla centralità dell’ambiente. La settimana prossima chiederò di calendarizzare una legge sul consumo del suolo”. Sulla giustizia? Bonafede ha messo a punto una riforma che ha creato tensioni con la Lega, se la proponesse a voi, l’accettereste? “Non si può pensare che un nuovo governo prenda per buono un testo che è stato costruito da due forze politiche che non ci coinvolsero minimamente, e di cui una era la Lega. È ragionevole che si ricominci la discussione”. Bonafede ha bloccato la sua norma sulle intercettazioni definendola un “bavaglio all’informazione”... “Enfasi propagandistica, nel mio testo non c’era nessuna sanzione per i giornalisti. Su due o tre cose siamo già d’accordo e possiamo cominciare a lavorarci subito, intanto possiamo discutere per trovare un’intesa su quello che ci vede più distanti”. Quali sono queste due o tre cose? “Il tema civile, l’emanazione del decreto che riguarda il fallimentare, il potenziamento delle infrastrutture nel settore giustizia”. Insisto: chiederà a Bonafede di non bloccare più il suo testo sulle intercettazioni? “Il precedente governo ci ha insegnato che i nodi non si sciolgono con ultimatum sui giornali, ma sedendo a un tavolo e discutendo”. Da gennaio andrà in vigore anche il blocco della prescrizione. Siete d’accordo? “Credo che la drastica cancellazione della prescrizione sia un errore, ma dentro un percorso processuale si possono trovare equilibri compensando con altre garanzie. Ma, ripeto, è sbagliato pensare a una discussione senza prima sedersi a un tavolo”. Questo governo arriverà a fine legislatura? Siamo dentro a un’esperienza inedita, con mille incognite. Durerà se sapremo dare riforme al Paese. Vedo le condizioni perché questo avvenga”. Renzi è stato il primo ad aprire, ma è sospettato anche di essere quello che deciderà quando staccare la spina... “Lo escludo. Ho idee molto diverse da Renzi, ma gli riconosco troppa intelligenza politica per rivendicare la nascita del governo per farlo cadere poco tempo dopo”. Stato-mafia, le verità attese da Berlusconi e Di Pietro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2019 Nelle prossime settimane entrerà nel vivo il processo d’appello sulla presunta trattativa Stato-mafia. A luglio la Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, ha deciso per la rinnovazione dibattimentale. E sono numerose le prove ammesse in accordo delle parti, comprese nuove testimonianze tutte finalizzate a completare il quadro. In estrema sintesi, tali prove serviranno per far luce su alcune lacune oggettive e in alcuni casi saranno decisive. Il calendario è già stato scandito nei suoi tempi. La data che inevitabilmente sarà sotto le lenti d’ingrandimento è quella del 3 ottobre. A testimoniare saranno due big che hanno il tratto comune di aver dato l’avvio alla seconda Repubblica: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro. Due testimonianze che potrebbero incrinare le motivazioni della sentenza di primo grado. Le minacce al Cav - Perché la testimonianza di Berlusconi è una prova decisiva? Secondo le motivazioni della condanna di primo grado, a partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica nazionale Silvio Berlusconi nella veste di presidente del Consiglio, il ruolo di cinghia di trasmissione delle minacce mafiose avrebbe cambiato interprete e sarebbe stato assolto non più dagli ex ros Giuseppe De Donno e Mario Mori, per i quali, quindi, il reato si ritiene consumato nel 1993, bensì da Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia siciliana trapiantato in Lombardia, avrebbe alimentato la trattativa. È infatti provato che anche in quel periodo uno dei principali ispiratori di Forza Italia e lo stalliere mafioso si siano incontrati, ma i contenuti estorsivi di quegli incontri sono ricostruiti in sentenza senza prove dirette e senza alcun riscontro della controparte, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Ci si ferma a un ragionamento che assomiglierebbe più a una mera congettura che a un’effettiva prova. Quindi Berlusconi sarà ascoltato per riferire quanto a sua conoscenza in ordine alle eventuali minacce di matrice mafiosa pervenute al governo, da lui presieduto fino al 22 dicembre 1994. Di Pietro e Borsellino - E la testimonianza di Antonio Di Pietro? Come sappiamo, secondo l’accusa, la presunta trattativa Stato-mafia sarebbe stata il motivo dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, che portò alla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Ma c’è un’altra ipotesi, formulata dalla sentenza della Corte d’assise di Catania n. 24/2006, del 22 aprile di 13 anni fa, poi confermata in Cassazione, che indica come movente della strage il famoso dossier “mafia e appalti”. Di Pietro è ammesso come teste proprio per i contatti e dialoghi che ebbe con Borsellino prima e dopo la strage di Capaci e su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruttela politico-amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché, dato oggettivo, nel dossier “mafia e appalti” comparivano imprese del Nord che erano anche coinvolte nell’inchiesta “Mani pulite”, che l’ex magistrato Di Pietro stava conducendo. Note date a Falcone - In merito alla questione “mafia e appalti”, la Corte d’appello ha ammesso anche diverse prove documentali. A partire dalle annotazioni 96, 97 e 98 - a firma di De Donno - compilate per i magistrati Falcone e Guido Lo Forte relative alle indagini su quel filone. Parliamo di informative che precedettero il dossier generale depositato dai carabinieri del Ros il 20 febbraio 1991, su esplicita richiesta di Falcone, che all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia. A proposito dell’importanza che dette Falcone al dossier, altra prova documentale ammessa è il suo intervento al convegno di studi al Castello Utveggio di Palermo del marzo 1991: la Corte d’appello l’ha ammesso come elemento atto a dimostrare l’importanza attribuita da Falcone alle indagini su “mafia e appalti”. Sì, perché proprio durante quel convegno, reperibile nell’archivio di Radio Radicale, Falcone fa esplicito riferimento all’indagine che era ancora in corso, evidenziandone la primaria importanza. Così come sono stati ammessi i verbali delle audizioni al Csm di fine luglio 1992 degli allora sostituti procuratori Antonella Consiglio e Luigi Patronaggio. Sono state accolte in accordo delle parti in quanto rappresentative del clima all’interno dell’ufficio inquirente di Palermo dopo le strage di Capaci e via D’Amelio, e delle tensioni generate dal primo esito delle indagini su “mafia e appalti”. Testimoniano la presenza di Borsellino alla riunione del 14 luglio 1992, avvenuto cinque giorni prima della strage, ove emergerebbe che il magistrato avrebbe fatto un solo rilievo e che lo stesso fosse proprio relativo alle indagini scaturite dal dossier. Le varianti di Brusca - Intanto, il rinnovo dibattimentale del processo d’appello si aprirà il 12 settembre con l’escussione dei pentiti Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca. Quest’ultimo verrà sentito soprattutto in merito alle nuove circostanze emerse dalle dichiarazioni, che egli ha reso all’udienza del processo di primo grado con particolare riferimento al ruolo attribuito a Calogero Mannino nel cosiddetto “aggiustamento” del processo Basile. “Mannino - disse Brusca - era stato cercato da Riina per aiutarlo ad aggiustare qualche processo o qualche altro favore. Tra gli anni 80 e 90 aveva cercato un contatto con lui tramite un tale notaio Ferraro, di Castelvetrano. L’interesse in particolare riguardava il processo Basile”. Ma va precisato che su questo punto, l’ex ministro dc era già stato assolto dall’accusa di concorso esterno. E nelle motivazioni della sua assoluzione in primo grado - poi confermata in appello - in merito all’accusa di essere stato il promotore della presunta trattativa, la giudice ricorda che l’oggetto di prova della sua estraneità era “il tentativo di aggiustamento del processo Basile”. Ricordiamo che il “caso Basile” riguarda la storia della morte di un coraggioso capitano che già allora era alla caccia dei Corleonesi: storia simbolo dei processi di mafia “aggiustati”. Ma è sull’attendibilità di Brusca che viene concentrata l’attenzione. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. In particolare contro Giovanni Brusca “nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali”. Mauro, ucciso da un carabiniere durante un Tso non autorizzato. Nistri incontra i familiari Corriere della Sera, 7 settembre 2019 Il 32enne di Carmignano Sant’Urbano, in provincia di Padova, venne ucciso da un maresciallo dell’Arma mentre cercava scappare per sottrarsi a un Tso. Ieri il comandante generale dei carabinieri ha incontrato la madre e la sorella. “È stato un incontro carico di umanità, che poi era quello che avremmo voluto da parte dell’Arma sin dal primo momento. Il generale ha parlato da padre ed è stato molto solidale con il dramma e il dolore della nostra famiglia”. Si dicono confortate la madre e la sorella di Mauro Guerra, il 32enne di Carmignano Sant’Urbano, in provincia di Padova, ucciso dal maresciallo dei carabinieri Marco Pegoraro il 29 luglio del 2015, mentre cercava scappare e difendersi per sottrarsi a un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Ieri hanno incontrato a Roma il comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri. “Non sono arrivate scuse, non ci aspettavamo arrivassero, il generale ha ascoltato la nostra vicenda con partecipazione”, hanno detto Elena Guerra e Giusy Businaro al termine dell’incontro. All’appuntamento era presente anche Valentina Calderone, dell’associazione “A buon diritto”, e uno degli avvocati della famiglia Alberto Berardi. Come per Cucchi - Un atteggiamento da parte del generale Nistri che ricorda quello tenuto per il caso di Stefano Cucchi. L’Arma mostra vicinanza al dolore di una famiglia, anche se a termine del processo di primo grado, nel dicembre scorso, il maresciallo Pegoraro è stato assolto perché il fatto non costituisce reato. Una sentenza che la madre del 32enne ha contestato con forza e sulla quale chiede che la giustizia possa fare un passo indietro. “È stato un processo farsa, era tutto già scritto - protestò allora la madre - questo è il secondo proiettile sparato a mio figlio Mauro, l’hanno ucciso una seconda volta. È dal primo giorno di udienza che me ne sono resa conto: era tutto già scritto, è stata solo una farsa”. La lettera appello - Due mesi fa la madre di Mauro aveva scritto anche una lunga lettera-appello indirizzata proprio al comandante generale dell’Arma. “Mio figlio - scriveva - è stato picchiato e brutalmente ammazzato solo per essersi difeso da un carabiniere che lo voleva, senza ragione, privare della sua libertà. Ha difeso solo la sua vita Mauro quel maledetto giorno, non mettendo comunque in pericolo la vita di nessun altro. Mauro non aveva commesso nessun reato, sig. Generale, non aveva fatto del male a nessuno quel maledetto 29 luglio, quando si è visto accerchiato e braccato da 10 uomini in divisa comandati da Pegoraro, che per oltre 3 ore e con oltre 40 gradi di calore, lo hanno tenuto sequestrato presso la sua dimora, imponendogli un ricovero per il quale non c’era nessuna disposizione giuridica e senza nessuna situazione di pericolo che potesse legittimare tale intervento” Un omaccione - Mauro era un omaccione massiccio e muscoloso che dopo la laurea aveva cominciato ad avere qualche problema di tenuta psichica. “Ma non aveva mai fatto male a nessuno” tengono a precisare i familiari. Qualche giorno prima di essere ucciso era andato nella caserma dei carabinieri perché voleva organizzare una manifestazione contro gli islamici. Vista l’insistenza i carabinieri avevano pensato che fosse disturbato e gli avevano detto che forse sarebbe stato meglio farsi visitare da un medico. Il netto rifiuto di Mauro aveva fatto scattare la reazione da parte dei carabinieri culminata, dopo una drammatica giornata, con l’uccisione del 32enne. Il maresciallo Marco Pegoraro voleva infatti a tutti i costi che Mauro accettasse di salire in ambulanza per andare a farsi visitare. Ma lui si era energicamente opposto. In fuga scalzo - Ad un certo punto era pure fuggito di casa, scalzo e in mutande, per i campi. Secondo la ricostruzione della difesa della famiglia venne inseguito e, dopo che un carabiniere lo aveva immobilizzato a terra, il maresciallo Pegoraro aveva comunque sparato da una distanza di un metro e mezzo, colpendolo a morte al fianco. “Fu un vero e proprio assedio a una persona senza alcuna colpa - affermano i familiari - il tutto in modo ingiustificato, visto che nessuno aveva autorizzato il Tso”. I giudici però hanno ritenuto più convincente le argomentazioni dei legali del maresciallo Pegoraro, secondo i quali il carabiniere avrebbe agito per legittima difesa e sparò temendo che Mauro potesse uccidere il collega a terra. Calabria. “Le famiglie calabresi prendano in affido i figli della ‘ndrangheta” di Danilo Loria strettoweb.com, 7 settembre 2019 La proposta di Agape, Libera e Forum associazioni familiari. “La storia del ragazzino di 8 anni di Gioia Tauro iniziato al mondo del narcotraffico ripropone la necessità di interventi più incisivi delle istituzioni e della comunità nelle sue varie componenti per dare una prospettiva diversa di vita a migliaia di minori che vivono la stessa condizione di rischio. Serve una risposta chiara da parte del Parlamento che sulla scia del progetto Liberi di scegliere avviato dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, deve emanare una legge che dia una cornice legislativa e uniformi questa metodologia d’intervento in tutto il territorio nazionale. Cosi come è stato richiesto dal Csm che dopo avere validato queste procedure della magistratura minorile reggina, ha chiesto espressamente alle forze politiche una legge che garantisse anche risorse professionali e economiche a questo programma. Una legge che non si limiti a rendere più facile la decadenza o la limitazione delle responsabilità genitoriale ma che favorisca progetti personalizzati sul minore e sulla famiglia dove l’allontanamento dal nucleo familiare d’origine sia l’estrema ratio, così come sta facendo il Tribunale per i minorenni di Reggio. Una normativa che investa risorse consistente soprattutto nella prevenzione, assicurando risorse stabili per garantire personale educativo e di servizio sociale, finanziamenti per il diritto allo studio e per la formazione professionale, propedeutici per l’inserimento nel mondo del lavoro”. È quanto scrive in una nota Don Ennio Stamile, Libera Calabria, Claudio Venditti, Forum regionale associazioni familiari, Mario Nasone, Centro Comunitario Agape. “In particolare per i minori più piccoli, come nel caso di Gioia Tauro, andrebbero possibilmente evitate soluzioni di allontanamento in regioni del nord, così come è successo per altri casi analoghi, e favoriti percorsi educativi c/o famiglie calabresi o centri di accoglienza qualificati per evitare esperienze di sradicamento e la rottura completa dei legami con la famiglia d’origine o con quella parte della rete parentale che può ancora essere un riferimento affettivo positivo. Per questo servono reti di famiglie opportunamente formate che diano la loro disponibilità ai Tribunali per i minorenni per ospitare in via temporanea dei minori, assieme a questo, per gli adolescenti, case famiglia e gruppi appartamento, che scelgano di assumersi questa responsabilità educativa. Anche sui genitori di questi minori, laddove possibile, vanno tentati azioni di responsabilizzazione e di recupero da inserire nei progetti personalizzati sui minori. Su questo versante si è già iniziato con gli incontri promossi dal centro Agape e da Libera nelle carceri di Reggio, Locri e Vibo un dialogo su questo tema difficile. È stato molto significativo l’incontro al carcere di Reggio dei detenuti dell’alta sicurezza con il presidente Di Bella e con gli attori della fiction Liberi di Scegliere. Uno di loro, che era stato destinatario di un provvedimento di allontanamento del figlio minore, ha rivolto al presidente Di Bella questa domanda: voi pensate veramente che un genitore voglia il male dei suoi figli? Il Presidente senza scomporsi ha replicato: certamente in linea generale è così, ma voi ditemi se un padre dà in mano al figlio di 12 anni un kalashnikov, secondo voi vuole il bene o il male del figlio? Una risposta che ha fatto scendere una coltre di silenzio tra le mura della sala della casa circondariale che ospitava l’incontro. Anche questo è un lavoro difficile ma importante che va fatto e reso sistematico soprattutto nell’interesse dei minori, per rendere meno lacerante l’esperienza dell’allontanamento e che comunque li lascia liberi con la maggiore età di fare le loro scelte”, conclude. Napoli. L’appello di Achille, detenuto a Poggioreale con un tumore ai polmoni di Antonio Folle Il Mattino, 7 settembre 2019 “Lasciatelo curare a casa”. Nuovo presunto caso di malasanità nel carcere di Poggioreale. A tenere banco è la storia di Achille Esposito, in carcere da dicembre 2018 per rapina e con ancora tre anni da scontare. L’uomo, stando ai primi esami approfonditi effettuati dopo una lunghissima serie di richieste andate a vuoto, è affetto da tumore ai polmoni a uno stadio avanzato e si trova attualmente ricoverato all’ospedale Cardarelli dove, secondo i regolamenti carcerari, è piantonato giorno e notte. La vicenda di Esposito comincia poche settimane dopo il suo ingresso in quello che detenuti ed ex detenuti definiscono “il mostro”. Fin da subito, infatti, l’uomo è alle prese con una tosse sempre più evidente e sempre più debilitante. Nell’infermeria di Poggioreale, come hanno denunciato la famiglia e lo stesso detenuto con una lettera fatta pervenire a Pietro Ioia, presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti, il malessere sarebbe stato sottovalutato ed Esposito sarebbe stato sottoposto a una semplice cura a base di cortisonici e antibiotici. I medici ritenevano che la malattia non fosse altro che una “banale” bronchite, diagnosi che le radiografie successive avrebbero smentito categoricamente. Dopo alcuni mesi di costante aggravamento - l’uomo è arrivato a perdere i sensi e a fratturarsi un sopracciglio a causa di un violento attacco di tosse - Esposito, anche dietro le insistenze del suo legale, è stato trasferito al Cardarelli, dove è stato sottoposto ad una Tac che ha evidenziato diverse masse scure all’interno dei polmoni. Dagli stessi malandati polmoni i sanitari del Cardarelli hanno drenato un versamento pleurico di circa 1,5 litri. Una quantità enorme anche per un soggetto decisamente corpulento. Inizialmente a Francesca Paola, la compagna dell’uomo, è stato accordato il permesso solo per una visita settimanale. Solo dopo le insistenze della donna i giudici hanno concesso alla donna di visitarlo tutti i giorni, firmando il permesso per il ricovero a tempo indeterminato dell’uomo in attesa di avere un quadro più chiaro della situazione. Permesso che non basta alla famiglia Esposito. “Finalmente dopo tanto tempo si sono decisi a farmelo vedere tutti i giorni - spiega Francesca Paola Basile - ma quello che chiedo è che ad Achille siano concessi gli arresti domiciliari e che ci sia permesso di prenderci cura di lui. Abbiamo aspettato tanto per questa Tac e ora è emerso che Achille ha un tumore ai polmoni mentre i medici di Poggioreale pensavano fosse semplicemente una bronchite. Lui ora è spaventato - prosegue la donna - e ha chiesto di essere curato e di non tornare in cella. Credo che questa richiesta debba essere accolta, se non altro per una questione di umanità”. L’avvocato Giacomo Pace, legale di Esposito, ha sottolineato che nei prossimi giorni sarà avanzata richiesta di incompatibilità del regime carcerario con le attuali condizioni di salute dell’uomo: “Sono fermamente convinto che non ci siano le condizioni per la detenzione - afferma il legale - e per questo chiederò i domiciliari per il mio cliente. Non bisognerebbe mai dimenticare che lo Stato ha il dovere di punire e far scontare la propria pena a chi commette un errore, ma che allo stesso tempo si parla di esseri umani a cui non si possono negare i diritti più elementari. I giudici si stanno muovendo in tal senso e la cosa mi fa piacere - continua - ma le storie di questo tipo dietro le sbarre sono veramente tante”. Anche Pietro Ioia, storico presidente dell’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, ha ribadito la necessità di riformare il sistema penitenziario e, soprattutto, ha sottolineato l’obbligo, da parte delle amministrazioni carcerarie, di offrire le migliori cure possibili ai detenuti. “Purtroppo ci troviamo di fronte ad un altro caso di malasanità che viene dal carcere più affollato e crudele d’Europa - l’accusa di Ioia - ci sono ritardi quando i detenuti devono fare visite specialistiche e spesso non ci sono nemmeno le ambulanze o le guardie penitenziare per il piantonamento. Questa disorganizzazione non può ricadere sui detenuti che stanno giustamente scontando le loro pene. Chiediamo - l’appello di Ioia - che almeno per i casi di conclamata gravità sia aperto un canale preferenziale per accelerare l’iter necessario ad ottenere visite specialistiche fuori dalle mura del carcere”. Avellino. Detenuti al lavoro negli uffici comunali di San Martino ilcaudino.it, 7 settembre 2019 L’amministrazione comunale guidata da Pasquale Pisano si prepara ad accogliere condannati alla pena detentiva che potranno svolgere attività in favore della collettività. È quanto stabilito, con voto unanime ed alla presenza di tutti i componenti, nella giunta comunale del 4 settembre scorso nella quale è stato approvato lo schema di convenzione tra il Comune di San Martino ed l’Ufficio di Esecuzione Penale esterna del Tribunale di Avellino. Nella delibera pubblicata oggi all’albo pretorio dell’ente si chiarisce che sarà il primo cittadino a sottoscrivere la convenzione nei prossimi giorni. La scelta trova fondamento, secondo quanto scritto nella delibera, nella Carta Costituzionale che all’articolo 27 prevede lo scopo rieducativo della pena. Inoltre, sempre in base a quanto descritto in delibera, le finalità sono “di promuovere azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale, promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività e favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito ad un progetto ripartivo”. Nessun corrispettivo è previsto in favore dei detenuti che presteranno la loro attività. Ma sicuramente la possibilità di operare all’interno delle istituzione potrebbe rappresentare un compenso morale di grande valore. Nuoro. Minorenni in comunità di recupero terrorizzavano i coetanei La Repubblica, 7 settembre 2019 Sono accusati di aver terrorizzato una comunità di recupero per minori della provincia di Nuoro dove erano ospiti. Quattro minorenni sono arrestati dalla Polizia di Stato perché ritenuti responsabili di sequestro di persona, estorsione, violenza sessuale, stalking, maltrattamenti, lesioni e danneggiamento ai danni di altri minori ospiti. Due dei giovanissimi sono stati sottoposti alla misura cautelare in carcere, gli altri due in comunità. Tra le vittime dei bulli un ragazzo autistico e una ragazza costretta a subire atti sessuali. Le indagini sono state avviate nel gennaio scorso dalla Squadra Mobile di Nuoro, coordinata dalla procuratrice della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Sassari Luisella Grazia Fenu, e hanno consentito di documentare come i giovani, con i loro comportamenti violenti e aggressivi, avevano creato all’interno della Comunità un clima di paura e di grave tensione, tale da indurre le vittime a cambiare le proprie abitudini. Una vera e propria baby gang, come ce ne sono sempre di più. Vittime degli abusi erano anche gli educatori della comunità, che venivano fatti oggetto di aggressioni verbali e fisiche e minacce di morte. Le violenze dei quattro minorenni ai danni del ragazzo autistico, secondo gli investigatori, erano numerose e continuate con calci, pugni e schiaffi e spesso gli venivano messe le mani al collo come per strangolarlo e procurandogli lesioni. E proprio dopo che il ragazzo era stato portato al Pronto soccorso dopo l’ennesima aggressione sono scattate le indagini della Polizia. Qualche volta il ragazzo è stato costretto a consegnare loro denaro, 10 o 20 euro, che procurava chiedendo l’elemosina in strada su loro richiesta. In un’altra circostanza i quattro bulli hanno sfondato a calci la porta della stanza del ragazzo, scaricando il contenuto di un estintore all’interno e imbrattando tutti gli arredi e gli effetti personali della vittima, che spesso veniva svegliato di notte con dei gavettoni d’acqua. Tre dei quattro minori arrestati, sono indagati anche per il reato di sequestro di persona ai danni del giovane autistico, in quanto, in una occasione era stato rinchiuso nella propria stanza e sottoposto a sevizie. Due sono accusati di violenza sessuale aggravata ai danni di una minorenne ospite della struttura, che agli inizi di agosto dopo avere ricevuto messaggi vocali e insulti sul suo profilo Instagram, è stata costretta a subire atti sessuali, interrotti dal provvidenziale intervento di un operatore della struttura. Mantova. In carcere con Malvaldi e la carica di tre musicisti di Matteo Sbarbada La Gazzetta di Mantova, 7 settembre 2019 “Il carcere può essere una palestra per chi sta fuori, un modo per esercitare il pensiero civile. Chi è in carcere ha già ricevuto una condanna, non ha bisogno di essere condannato nuovamente”. In tempi di muri alzati contro ogni tipo di diversità, Marco Malvaldi, accompagnato dai musicisti Paolo Bonfanti, Stefano Resca e Pietro Leveratto, ha portato suoni e parole nella casa circondariale di via Poma. Un incontro toccante e divertente, con una platea equamente divisa tra spettatori del festival e detenuti. Tutto nasce da “Vento in scatola”, libro scritto da Malvaldi con Glay Ghammouri, detenuto nel carcere di Pisa. L’incontro nella casa circondariale della città toscana durante un corso di scrittura. “Entrando in carcere mi sono liberato da una marea di pregiudizi - ha raccontato Malvaldi - Pregiudizi che mi sono accorto di avere solo dopo essere entrato. Credo sia fondamentale trattare ogni persona in base ai diritti, senza farsi condizionare da quanto ha commesso”. Spazio alle parole ma la protagonista vera è stata la musica. Il via con “Take this hammer”, brano registrato per la prima volta in un carcere. Il viaggio musicale prosegue tra jazz e blues, toccando mostri sacri come Johnny Cash e BB King e chiudendosi con il genovese di “A dumenega”, capolavoro di Fabrizio De Andrè. “In carcere la vista peggiora - ha spiegato Malvaldi - Per questo si sviluppa maggiormente l’udito. Di fatto diventa il senso più importante, quello più utile per raccogliere informazioni. Per questo abbiamo pensato ad un evento legato alla musica”. Molti i confronti tra il mondo di fuori e quello di dentro. “Tutti noi ci lamentiamo sempre del poco tempo a disposizione, qui dentro è l’esatto contrario. Il tanto tempo consente ai detenuti di svolgere lavori con cura, precisione maniacale e grande attenzione, ottenendo risultati ottimi. Un aspetto, quello del lavoro, davvero fondamentale per chi si trova in carcere”. - Matteo Sbarbada “Nonostante tutto sono vivo”, la vera storia di Luigi De Lillo di Barbara Ghiselli La Gazzetta di Lucca, 7 settembre 2019 “Nonostante tutto sono vivo” è il titolo del libro che narra la storia vera di Luigi De Lillo, Maresciallo Capo nelle prigioni italiane nel periodo degli Anni di piombo. Una storia drammatica e commovente che non può non far riflettere il lettore che si accosta a queste pagine. Il libro, realizzato con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Lucca è stato pubblicato dalle Grapevine Editions e una delle particolarità di questa biografia è che presenta nello stesso volume la pagina con la versione italiana con accanto la traduzione in inglese a cura di Norma Jean Bishop; la storia del maresciallo De Lillo è stata raccolta dalla scrittrice Anna Gabriella Bianchi e per questo motivo è stata scritta in terza persona. È quasi impossibile non lasciarsi coinvolgere sin dalle prime pagine del libro dove sono descritti i compiti che doveva svolgere il maresciallo quando era ancora un bambino: si alzava all’alba per trainare il carretto di legno al mercato ortofrutticolo e aspettava il padre per acquistare i prodotti che poi sarebbero stati caricati e venduti nel negozio di loro proprietà. Dopo aver fatto colazione, correva a scuola e il resto della giornata lo passava in un negozio di barbiere dove imparava il mestiere; nonostante questo non smetteva mai di essere allegro e non gli pesava fare una vita di sacrifici. Tutto questo accadeva a Santa Maria Capua Vetere, un centro agricolo tra Capua e Caserta, dove il maresciallo nacque il 28 luglio 1945. All’età di diciotto anni fece domanda di arruolamento nel Corpo degli Agenti di Custodia (oggi Polizia Penitenziaria) e da quel momento entrò in contatto con le diverse sfaccettature del sistema carcerario. Sono molti gli episodi descritti nel libro e ognuno di essi meriterebbe un’attenta riflessione per comprendere meglio la difficoltà di chi lavora nelle carceri comunque il più grande cambiamento fu quando, ormai diventato maresciallo capo, fu trasferito nel 1978 alla prigione “Le Nuove” di Torino. Fu proprio in quel carcere che gli venne affidato il compito di responsabile del reparto speciale preparato per i brigatisti e quel momento segnò per sempre la sua vita. Proprio per aver ricevuto quell’incarico, la sua vita si è trasformò in un inferno: da quel momento in poi iniziò a ricevere telefonate anonime e minacce di morte che crearono non poche paure e preoccupazioni anche in sua moglie, madre dei tre loro figli. Riuscì poi a essere trasferito alla prigione di San Giorgio a Lucca ma le minacce di morte lo seguirono anche lì. Nonostante siano passati molti anni e il maresciallo si trovi ora in pensione, è impossibile per lui scordare quei momenti che hanno segnato drammaticamente la sua vita. Un libro dunque che è la testimonianza emozionante concisa e ricca di esperienze di chi si è trovato a lavorare in carcere negli anni di Piombo. Il volume è arricchito con immagini e didascalie di persone che in un modo o nell’altro hanno fatto parte di quel periodo storico. Al termine della narrazione e a completamento della sua biografia, è stato ritenuto opportuno accennare ad alcuni aspetti del regime di vita dei detenuti e del servizio del personale di custodia con alcune integrazioni che possono far comprendere meglio al lettore la vita in carcere. Ma per quale motivo il maresciallo Luigi De Lillo ha deciso di raccontare la sua storia oltre che per dare una testimonianza di quanto fosse difficile lavorare nelle carceri in quel particolare periodo? È lui stesso a spiegarlo nel libro: “ Voglio consigliare ai giovani di non commettere azioni che costituiscano reato perché finire in carcere è come finire all’inferno. Una volta che dietro di te senti lo scatto del chiavaccio, non sei più padrone della tua vita e non c’è nulla che possa ripagare la perdita, anche di un solo istante di libertà”. È possibile trovare il libro presso l’ufficio di Grapevine Editions nel Centro Storico (Via dell’Angelo Custode 3A) o vicino alla stazione di Lucca, a Caffè Letterario (Viale Regina Margherita 113) “Eversione” e “violenza”: Troppo facile accusare solo Salvini di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 7 settembre 2019 Che cosa intendiamo per “eversione” e “violenza” quando adoperiamo questi due termini a proposito di molte situazioni politiche nuove che stanno sorgendo in Europa, le stesse che qui da noi a molti sono sembrate trovare espressione in alcune decisioni dell’ormai ex ministro degli Interni Salvini? Io credo che in una democrazia i due termini di cui sopra vadano adoperati solo quando una parte usa la violenza per condizionare e manipolare la vita politica in tutti i modi immaginabili, per impedire libere elezioni, per chiudere la bocca agli oppositori e così via: questa è l’eversione e la violenza che le è funzionale, come il fascismo ci ha insegnato fin troppo bene. Ma avendo detto queste cose in tv, Adriano Sofri mi sgrida accusandomi di colpevole distrazione. Infatti si può e si deve parlare di eversione, egli scrive (Il Foglio, 4 settembre), anche quando la violenza fisica è impiegata “contro i migranti tenuti in ostaggio, sofferenti, umiliati e offesi nelle imbarcazioni dei soccorritori”; come per l’appunto ha fatto Salvini, forte del fatto di poter impiegare una violenza per cui: “non occorrevano le squadre quando si poteva impiegare allo scopo i corpi militari e le forze dell’ordine dello Stato”. Bene, con questi criteri Salvini è certamente un eversore criptofascista. Ma allora allo stesso modo, però, lo sono i governanti spagnoli di destra e di sinistra che a Ceuta e Melilla da anni sparano contro gli africani che vogliono superare il confine, lo sono i governanti di Malta che praticano anche loro la politica dei “porti chiusi”, lo è Macron che a Calais rastrella gli immigrati per non fargli attraversare la Manica e a Ventimiglia gli impedisce con la forza di entrare in Francia, e lo è anche la signora Merkel, che quando occorre li rispedisce in Italia. Tutti eversori e tutti fascisti, caro Sofri? O questo invece non è violenza? Sempre più automobilisti al volante sotto l’effetto di droghe di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 7 settembre 2019 Una notte insieme agli agenti della Polizia Stradale alle prese con i controlli ai guidatori della movida: aumentano gli automobilisti scoperti al volante sotto influenza di droghe. Hanno il piede più “pesante” (+36,7%), allacciano meno le cinture di sicurezza (+7,3%), usano meno le cuffie o il vivavoce mentre parlano con i loro smartphone (+17,2%). Inoltre, sono sempre di più quelli scoperti al volante dopo aver assunto droghe (+4%). È il quadro preoccupante che emerge dai dati delle multe comminate ai guidatori italiani dalla Polizia stradale, nei primi sette mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2018. Gli automobilisti, in tutto, hanno già perso 1.659.060 punti dalla patente (+31,5%) e in 23.323 hanno avuto il permesso di guida ritirato. Senza considerare che ne sono stati arrestati 437 e per altri 5.373 è scattata la denuncia penale. Le cause degli incidenti stradali - “Sono i risultati di operazioni mirate che conduciamo da tempo - spiega Santo Puccia, primo dirigente della Stradale - perché la distrazione e l’eccesso di velocità sono le prime tre cause di incidenti mortali in Italia: per l’ultimo rapporto Aci/Istat, nel 2018, sono stati stesi sulle nostre strade 3.325 lenzuoli bianchi (-1,5% sul 2017) e 242.621 persone sono rimaste ferite (-1,7%)”. Malgrado gli sforzi della polizia che, dall’inizio dell’anno, ha impiegato 256.393 pattuglie per i controlli (-0,2% rispetto al 2018), la situazione è allarmante. “L’andamento del numero delle vittime in incidenti stradali negli ultimi anni - dice - è stato altalenate: nel 2017 erano aumentati, nel 2018 sono diminuiti e da gennaio a oggi, dai dati raccolti insieme ai carabinieri, salgono nuovamente da 802 a 861 (+7,4%)”. Il dossier esclusivo - Nel dossier, elaborato dalla Stradale per il Corriere, spiccano delle percentuali: i multati per guida in stato di ebbrezza sono calati (-4,3%) mentre quelli sotto influenza di droga sono aumentati (+4%). “Il motivo è chiaro: i controlli con gli etilometri sono iniziati 17 anni fa e chi si mette al volante sa che la probabilità di essere fermato è alta - analizza - mentre quelli sulle sostanze stupefacenti sono cominciati, in modo massiccio, dal 2015. Attenzione, però, spesso eseguiamo test combinati. Quest’anno, abbiamo controllato con precursori ed etilometri 678.418 conducenti, di cui 8.999 sono stati sanzionati per l’alcol e 733 per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”. I controlli contro “le stragi del sabato sera” - Nel week end, le pattuglie della stradale svolgono servizi mirati. “Sono quelli contro le cosiddette “stragi del sabato sera” in cui da inizio anno abbiamo fermato 56.982 guidatori e 3.070 sono poi risultati sopra i limiti di alcol o sotto l’effetto di stupefacenti”. I test antidroga richiedono una proceduta rigorosa. “Non basta dimostrare che chi guida abbia assunto droghe prima di mettersi al volante ma va dimostrato che guidava in stato di alterazione - argomenta - e questo lo deve certificare un medico”. Questo allunga di molto i tempi, perché serve l’accompagnamento in una struttura sanitaria ma, da quattro anni, la Polizia ha un’”arma” in più che sta risultando efficace. “Ora possiamo eseguire dei test di screening sulla saliva, direttamente in strada, grazie alla presenza di nostri medici e di personale sanitario - conclude Puccia. Poi, in caso di positività a droghe, vengono prelevati altri campioni salivari che sono inviati e analizzati, per la controprova, dal nostro laboratorio del centro ricerche di tossicologia forense di Roma. Entro dieci giorni, in cui al guidatore viene sospesa la patente, arriva la risposta. Se il risultato è confermato, un campione viene conservato in archivio mentre noi procediamo con le sanzioni”. Il Codice della strada è severo: si rischia sino a un anno di arresto, seimila euro di multa e due anni di sospensione della patente. Immigrazione, si riapre il dialogo con l’Europa di Errico Novi Il Dubbio, 7 settembre 2019 La Commissione: “Il Trattato di Dublino deve essere riesaminato”. Il segnale di novità sui migranti offerto dal Conte 2, che ha impugnato la legge approvata dalla Regione Friuli in materia per via di alcune norme “discriminatorie”, trova un’inattesa corrispondenza: dalla Commissione europea, infatti, arriva l’apertura alla modifica del Trattato di Dublino invocata da Di Maio: “Il sistema di asilo dell’Unione va riesaminato in tutti i suoi aspetti”, dice la portavoce Bertaud. I simboli sono simboli. Vivono di vita propria. Così diventa irrilevante quel “dettaglio” sul caso Friuli: la legge regionale del governatore Fedriga era finita sotto la lente dell’avvocatura dello Stato assai prima che si avvertissero le avvisaglie del sisma politico d’agosto. Non solo: la prima riunione del Conte 2, tenuta giovedì, è coincisa solo casualmente con l’ultima data utile, al neo ministro Francesco Boccia, per sollecitare la Regione a guida Lega ad “apportare alcune necessarie modifiche” al testo per evitare di affidarlo alla Corte costituzionale. Dettagli, appunto: non proprio marginali ma già travolti dall’onda mediatica. E così l’impugnazione decisa dal Consiglio dei ministri dell’altro ieri sulle norme approvate a Trieste in materia di immigrazione già segnano la rottura tra vecchio e nuovo, tra primo e secondo governo Conte. Non solo. Innanzitutto perché alla svolta interna corrisponde un’apertura inattesa, proprio sui migranti, da Bruxelles, con la Commissione Ue che auspica una “revisione del Trattato di Dublino in tutti i suoi aspetti”. E poi perché quella cesura tra passato e nuovo corso è notata persino da chi non è incline a colorare i fatti con toni accesi, come l’Osservatore romano. Dal quotidiano della Santa Sede arriva nell’edizione di ieri il seguente rilievo: “Il primo Consiglio dei ministri riunito da Conte ha lanciato alcuni segnali di novità”. Riferimento all’impugnazione della legge friulana, che “discrimina i migranti”. Cambiano le cose a Roma, e lo notano tutti. Ma già cambiano pure a Bruxelles. Interpellata sull’appello di Luigi Di Maio per un superamento del sistema di Dublino, la portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud risponde: “Il sistema di asilo dell’Unione deve essere riesaminato in tutti i suoi aspetti, c’è sul tavolo una riforma che deve essere ancora adottata”. Una posizione non del tutto nuova. Ma dirlo ora, a un giorno dall’insediamento del governo Conte 2, poche ore dopo quell’invocazione del ministro Di Maio, dà il senso di una fase nuova anche nei rapporti fra Ue e Italia. Assimilabile a quella sulla flessibilità nei bilanci. La Bertaud è accompagnata dal parere di un italiano che a Bruxelles ha fatto proprio il presidente della Commissione, Romano Prodi: “Sui migranti bisogna arrivare alla fine di Dublino, sono abbastanza ottimista sul fatto che usciremo dalla follia”, dice dal Forum di Cernobbio. La situazione è chiara. Arrivano rassicuranti risposte a una riflessione della neo ministra alle Infrastrutture Paola De Micheli, la dem subentrata a Toninelli: “Senza una nuova politica europea che aiuti un Paese come l’Italia, il rischio che si corre è di essere infilati sul piano comunicativo dall’attuale minoranza”. Neppure il tempo di dirlo che quell’aiuto è già arrivato. Presto per dire che la svolta sui migranti, a Roma come nelle cancellerie, è cosa fatta? Può darsi. Ma intanto il caso Friuli è già sui binari che porteranno la Corte costituzionale a pronunciarsi sulla legittimità di alcune norme della “legge Fedriga”. Sulla più discriminatoria, a cui allude lo stesso Osservatore romano, ossia quella che subordina al requisito della residenza in regione da almeno 5 anni le agevolazioni alle imprese che assumono disoccupati. È presto, molto presto, per scrutare nell’orizzonte la futura possibile pronuncia della Consulta. Si possono però citare almeno un paio di recentissimi precedenti. Che sembrano disinnescare in partenza le invettive rivolte ieri al nuovo esecutivo da due grandi sconfitti del nuovo corso. Matteo Salvini, innanzitutto. Il quale in un tweet così liquida la scelta del ministro agli Affari regionali Boccia, ideatore del siluro alla legge friulana: “La Regione aveva deliberato una legge a tutela dei lavoratori italiani. Impugnata dal nuovo governo. Non è un danno a Salvini, ma ai cittadini”. Il governatore Massimiliano Fedriga, inevitabilmente furibondo con Boccia (“quelle del Pd sono menzogne, la Regione Friuli non aveva preso assolutamente l’impegno di ritirare le norme contestate, come ha dichiarato il ministro”), fa eco al suo leader e rilancia: “Noi diciamo una cosa basilare e cioè che i soldi del Friuli devono servire ai disoccupati della regione e non all’Afghanistan e al Pakistan”. Eh. Però è quel “devono” che rischia di non trovare d’accordo il giudice delle leggi. Nel maggio del 2018, infatti, la Corte costituzionale dichiarò (sentenza 107) illegittima un’altra legge regionale, quella che in Veneto imponeva il requisito della residenza in Regione da almeno 15 anni (o l’attività lavorativa svolta per identico arco temporale) agli extracomunitari che avessero voluto iscrivere i loro figli agli asili nido. Previsione che “contrasta con il principio di uguaglianza”, secondo la Consulta, “non essendovi alcuna “ragionevole correlazione” tra la residenza prolungata in Veneto e le situazioni di bisogno o di disagio”. Come a dire: il sostegno, anche per affidare a qualcuno i figli e potersi recare al lavoro, va dato a tutti i bisognosi, a prescindere dal fatto che siano stranieri. Non è finita qui. Perché con una pronuncia emessa due mesi dopo, la 166 del 20 luglio 2018, la Corte costituzionale definì “sproporzionata ed eccessiva” la permanenza in regione da almeno 5 anni prevista dal decreto Sviluppo del 2008 come requisito per concedere anche agli extracomunitari il cosiddetto “bonus affitti”, ossia il contributo per il canone di locazione offerto agli indigenti. Cinque anni: proprio il requisito per le agevolazioni dirette ai disoccupati imposto da Fedriga. Non una prova certa. Ma un indizio che anche dinanzi alla Corte costituzionale le ragioni del Conte 2 possano essere più ascoltate di quelle dell’ex vicepremier Salvini. Migranti. Così la Corte costituzionale può affondare le politiche di Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 settembre 2019 Sono già due le ordinanze che contestano la legittimità del decreto sicurezza uno. Il programma di governo è vago e i giudici delle leggi possono arrivare prima della nuova maggioranza. “Una normativa organica che affronti il tema dell’immigrazione” e modifiche ai decreti sicurezza “alla luce delle recenti osservazioni formulate dal presidente della Repubblica”. Il punto del programma M5S-Pd-Leu sul tema dell’immigrazione è noto ed è sufficientemente vago; ieri la ministra delle infrastrutture e dei trasporti De Micheli - alla quale il decreto sicurezza bis ha conservato il “concerto” con il Viminale sullo stop alle navi Ong - ha fatto sapere di averne già parlato con la ministra dell’interno Lamorgese, aggiungendo che “quando si salvano le persone non si commette un reato”. Se il governo presenterà un disegno di legge “organico” - alla camera, prima della crisi, era in corso di esame la proposta di legge popolare per la cancellazione, dopo 17 anni, del reato di immigrazione clandestina introdotto dalla Bossi-Fini - i tempi di discussione si allungano. E nuovi casi di soccorso in mare e profughi da far sbarcare si ripeteranno. Anzi sono già in corso (Alan Kurdi, articolo accanto) malgrado i leghisti delirino di “navi Ong sparite dai radar da quando ha preso forma il governo giallo-rosso” (Calderoli). Viceversa una legge, magari un altro decreto, solo per accogliere le osservazioni critiche esposte da Mattarella quando ha promulgato il secondo decreto sicurezza, sarebbe assai limitata. I due profili segnalati dal presidente della Repubblica sono 1) l’enormità delle sanzioni sempre previste per le navi che violano il divieto di ingresso nelle acque territoriali - confisca e fino a un milione di multa -, che “non appare ragionevole” perché non distingue tra pericoli reali o immaginari per la sicurezza e 2) l’abolizione della “particolare tenuità del fatto” per tutti i casi di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale che “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte”. Il primo aspetto critico, peraltro, è stato introdotto nel decreto sicurezza da un emendamento dei deputati 5 Stelle, che lo hanno rivendicato con orgoglio, prima di sottoscrivere l’impegno a tornare indietro “alla luce” delle critiche di Mattarella. Se il governo ritarderà - l’altro ministro che ha voce in capitolo sull’applicazione dei decreti sicurezza è Di Maio - non è impossibile che ancora una volta arrivino prima i giudici. Lo hanno già fatto sette tribunali civili (Bologna, Firenze, Genova, Prato, Lecce, Cagliari, Parma) interpretando il primo decreto sicurezza in maniera “costituzionalmente orientata”, e riconoscendo quindi ai richiedenti asilo il diritto a iscriversi all’anagrafe dei comuni. Ma una giudice di Ancona e una di Milano all’inizio di agosto hanno fatto di più, rimettendo la questione della costituzionalità del primo decreto alla Corte costituzionale. L’ordinanza di Ancona fa leva sulla discriminazione di cui è vittima il richiedente asilo che non può iscriversi all’anagrafe rispetto a tutti gli altri che, come lui, soggiornano regolarmente sul territorio nazionale. E fa leva sulla irragionevolezza del decreto, che consente al richiedente asilo di lavorare ma gli impedisce, non potendo avere residenza, di firmare un contratto di lavoro. L’ordinanza di Milano va oltre, perché contesta la violazione anche dell’articolo 10 della Costituzione, che stabilisce che l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale e che la condizione dello straniero è regolata dai trattati internazionali. Proprio l’articolo 10 era stato richiamato da Mattarella quando promulgò, senza altre osservazioni, il primo decreto sicurezza. Non solo, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Milano ha motivato l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale anche con la violazione dei principi di necessità e urgenza e del requisito della omogeneità del decreto, vizi individuati a partire dal mancato riconoscimento del diritto all’iscrizione anagrafica ma estesi a cascata a tutto il provvedimento. Se queste osservazioni dovessero convincere i giudici delle leggi, la Corte costituzionale avrà, dunque, lo strumento per abbattere il primo pilastro delle politiche di Salvini. Magari anche prima che riesca a farlo la nuova maggioranza. Migranti. Tempi lunghi per riscrivere il decreto di Valentina Errante Il Messaggero, 7 settembre 2019 Non accadrà il tempi stretti. Le modifiche al decreto sicurezza bis, sollecitate lo scorso agosto dal presidente Sergio Mattarella con una lettera ai presidenti delle camere, non arriveranno immediatamente. Una scelta politica. L’obiettivo è chiaro: evitare altri strappi, percorrere la via della “sommersione” su un tema come l’immigrazione, che per quattordici mesi di fila ha tenuto banco ed è stato il perno della politica di Matteo Salvini, e cambiare rotta con discrezione, lentamente, disinnescando così anche i possibili attacchi dell’ex titolare del Viminale. Pronto a muovere guerra. I cambiamenti ci saranno, ma non sarà comunque una sterzata. I porti non saranno aperti, anche se i divieti di ingresso per le navi piene di profughi, motivati con il pericolo di infiltrazioni terroristiche, non arriveranno più. È certo dunque che la revisione al decreto sicurezza bis non sarà all’ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri. E neppure di quello successivo. Le modifiche dovrebbero arrivare in autunno inoltrato, forse anche dopo. La questione comunque sarà gestita senza personalismi e proclami, sempre di concerto con il presidente Conte. Proprio ieri la nuova ministra, Luciana Lamorgese, scelta per il suo profilo di tecnico e di grande esperto in materia di sicurezza, ha avuto un lungo incontro con il presidente del Consiglio. Non va diversamente in materia di sicurezza, l’inversione di rotta riguarda anche il piano della comunicazione. La volontà di riaprire il dialogo con l’Europa, dopo la frattura dei mesi scorsi, è al centro del programma del nuovo governo che, sul tema dell’immigrazione, continua comunque a puntare alle modifiche del Trattato di Dublino, l’accordo che prevede la presa in carico dei migranti da parte del paese di prima accoglienza. La scelta della diplomazia sulla questione migranti riguarda anche la nuova linea da assumere a Bruxelles. Con la speranza di disinnescare l’ordigno e ottenere migliori risultati del passato. Il braccio di ferro tra l’Europa e Salvini, andato in scena nei mesi scorsi, potrebbe paradossalmente aiutare adesso il nuovo governo. Questo esecutivo, più moderato, aspira dunque a incassare qualche risultato: evitare che, in futuro, l’emergenza degli arrivi porti ancora a politiche di chiusura, alla fine, è di interesse comune. Lo scorso 8 agosto il Capo dello Stato aveva sollevato “rilevanti perplessità” sulle sanzioni a carico delle navi che violino il divieto di ingresso in acque italiane: multe fino a un milione di euro e confisca. Invocando “la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti”, il Colle aveva ricordato anche che il divieto doveva rispettare “gli obblighi internazionali”. Ma non c’è solo il decreto sicurezza bis. Mattarella, infatti, era intervenuto anche sul primo decreto sicurezza che, nell’ottobre 2018, ha limitato i permessi di soggiorno per motivi umanitari. In quel caso le precise indicazioni del presidente, che invocava gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, il riferimento etra in particolare quelli dell’articolo 10 della Costituzione, secondo il quale “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. All’epoca quelle indicazioni erano cadute nel vuoto. Ma il testo unico per l’immigrazione, che il Pd vorrebbe in tempi stretti, e per il quale invece si dovrà attendere, terrà certamente conto anche di questi rilievi. Di certo cambieranno le politiche sull’accoglienza e l’integrazione, per evitare scontri sul territorio e situazioni critiche nelle aree di maggiore densità. Turchia. Erdogan pronto a riversare masse di profughi sull’Europa di Marta Ottaviani La Stampa, 7 settembre 2019 La metamorfosi turca sul capitolo migranti continua ed è sempre più vicina a trasformarsi in una virata a 180 gradi. Il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, due giorni fa, ha detto chiaramente che se non si troverà una soluzione rapida sulla questione siriana, la Turchia potrebbe decidere di aprire le frontiere, di mare e di terra e costringere l’Unione Europea ad assorbire un flusso migratorio senza precedenti, composto soprattutto da rifugiati che vengono dalla Siria, con buona pace dell’accordo sottoscritto nel 2016 e che Ankara sembra sempre più propensa ad affondare, causa sopraggiunti emergenze sul territorio nazionale, soprattutto per quanto riguarda l’economia e la sicurezza. Il vicepresidente, Fuat Oktay, ieri, ha avvisato che la Turchia fa sul serio e non si tratta di un bluff. Dieci anni di immigrazione Quasi dieci anni di migrazione di massa hanno lasciato un segno indelebile sui territori della Mezzaluna. Piano piano, sta iniziando a intaccarsi la leadership di Erdogan, un tempo visto come garante e salvatore della popolazione siriana che scappava dalla guerra civile e oggi, complice anche la crisi economica che attanaglia il Paese, considerato più generoso con i migranti che con il suo stesso popolo. Un cambiamento drastico di percezione, sul quale ha cercato di fare leva soprattutto il neoeletto sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, che ha puntato parte della sua vincente campagna elettorale proprio sulle condizioni in cui versavano i rifugiati a Istanbul. Ankara ha cercato di fronteggiare l’emergenza prima a livello locale, implementando meccanismi di rimpatrio con agevolazioni, che a molti attivisti dei diritti umani sono sembrati rimpatri forzati, e applicando il criterio della “tolleranza zero” a Istanbul dove migliaia di siriani non registrati sono stati trasferiti a forza in località più periferiche, dove l’impatto dell’emergenza è minore, ma lo sono anche le possibilità di trovare un impiego e una sistemazione definitiva. Erdogan ha capito perfettamente che la questione migranti rappresenta un assist alla popolarità crescente di Imamoglu. Per questo ha deciso di metterlo in difficoltà. Canan Kaftancioglu, uno degli elementi di punta del Chp, la maggiore voce dell’opposizione, ieri è stata condannata a nove anni e otto mesi di prigione per aver offeso Erdogan e lo Stato turco su Twitter, sei anni fa. Turchia. Insultò Erdogan: esponente opposizione condannata a oltre 9 anni di Marco Ansaldo La Repubblica, 7 settembre 2019 La querela era stata inizialmente presentata dal quotidiano filogovernativo Sabah, che ha chiesto la condanna della dirigente Chp allegando una serie di tweet di Canan Kaftancioglu, a partire dal 2014. La responsabile del principale partito di opposizione turco per la provincia di Istanbul, Canan Kaftancioglu della formazione socialdemocratica Chp e braccio destro del sindaco Ekrem Imamoglu eletto a giugno strappando Istanbul al partito Akp al governo dopo 25 anni, è stata condannata a 9 anni e 8 mesi di carcere per diversi capi d’accusa, fra cui “propaganda terrorista” e “insulti al capo dello Stato” Recep Tayyip Erdogan. In particolare Kaftancioglu è stata condannata a 2 anni e 4 mesi per “diffamazione” nei confronti del presidente della Repubblica, un anno e sei mesi per aver diffamato la pubblica amministrazione, un anno e 6 mesi per “propaganda a favore di organizzazione terroristica”, 2 anni e 8 mesi per aver “istigato all’odio e istigato conflitto sociale” e un anno e 8 mesi aver “umiliato apertamente la nazione”. La querela era stata inizialmente presentata dal quotidiano filogovernativo Sabah, che ha chiesto la condanna della dirigente Chp allegando una serie di tweet della Kaftancioglu, a partire dal 2014. Il procedimento, aperto lo scorso 15 gennaio in seguito a diversi post e condivisioni sulle piattaforme social in cui la dirigente Chp criticava apertamente il governo e la stampa filo governativa, ha visto costituirsi parte lesa anche il presidente, Recep Tayyip Erdogan lo scorso 25 gennaio. Brasile. Bolsonaro sta regalando l’Amazzonia all’agro-business di Angela Nocioni Il Dubbio, 7 settembre 2019 L’Amazzonia va a fuoco. Non da oggi, da anni. Ma oggi va a fuoco molto più spesso e molto più rapidamente di prima. Stanno andando in fumo porzioni di foresta molto maggiori a quelle di qualche anno fa sia in senso assoluto, come estensione, sia in percentuale rispetto alla quantità rimasta di bosco tropicale, spaventosamente ridottosi. Non solo in Brasile, anche in Bolivia. Ma il 65% della foresta amazzonica è in territorio brasiliano. L’emergenza brasiliana è reale, lo dimostrano i dati dei principali istituti internazionali specializzati. È vero che gli incendi si moltiplicano nella stagione secca iniziata a giugno - temperature più alte, minor umidità - e che soltanto i bilanci fatti a fine anno hanno senso. Ma è vero anche che se la deforestazione del giugno 2019 risulta essere dell’ 88% maggiore di quella dell’anno scorso (secondo i dati dei principali istituti di ricerca brasiliani) e se quella di luglio addirittura del 212%, sarebbe poco sensato aspettare dicembre per preoccuparsi. Vediamo di capirci qualcosa. Di solito gli incendi in Amazzonia iniziano a moltiplicarsi verso settembre e calano alla fine di novembre. Da cosa sono prodotti? Non dalla stagione secca. I poveri biologi brasiliani si stanno sgolando nel tentativo di spiegare al mondo che l’Amazzonia va a fuoco “durante la stagione secca, ma non a causa della stagione secca”. Va a fuoco perché c’è una richiesta alta di terreni da coltivare e di pascoli da creare. Va a fuoco perché chi rappresenta gli interessi giganteschi dell’agro-business - già coccolati da tutti i governi, inclusi quelli di sinistra di Lula da Silva e di Dilma Rousseff - ha in questo momento le mani completamente libere. Il governo di ultradestra di Jair Bolsonaro, differentemente dai precedenti, non tratta mediando con la lobby dell’agro-business, cercando segretamente di non inimicarsela. Le ha dato luce verde a fare dell’Amazzonia ciò che vuole. Non si tratta più di una potentissimo gruppo di pressione che riesce a condizionare le politiche di deforestazione perché nessun governo ha intenzione di mettersela completamente contro. Ma di una lobby che è essa stessa potere di governo. Per di più il linguaggio smisuratamente aggressivo di Jair Bolsonaro e le sue dichiarazioni riassumibili in una sorta di “chi se ne frega dell’Amazzonia” tolgono ogni freno agli innumerevoli soggetti interessati ad accaparrarsi nuove porzioni di foresta da trasformare in savana per poi poterla utilizzare. Un elemento fondamentale è il tempo. Questo universo, nemmeno troppo sommerso, di persone interessate a far ardere quanta più Amazzonia possibile, ha molta fretta. Sanno che questo momento propizio ai loro interessi non durerà in eterno e quindi bisogna bruciare quanto più bosco possibile prima possibile. Si sentono totalmente spalleggiati e hanno fretta. Cos’ha fatto concretamente Bolsonaro? Ha iniziato via social, al solito, con il contrapporre la difesa del patrimonio amazzonico alla possibilità di ripresa dell’economia brasiliana. Per capire come il messaggio funzioni è fondamentale tener presente che la stragrande maggioranza dei brasiliani si informa esclusivamente via social network, senza contradditorio e senza eterogeneità di fonti. Fatto drammatico che spiega moltissimo del Brasile attuale, non solo della questione amazzonica. Bolsonaro bombarda con dichiarazioni del tipo: “Solo i vegani, gente che mangia solo vegetali, sono preoccupati della Amazzonia” oppure “Quando finiranno le materie prime di cosa vivremo? Diventeremo tutti vegani? Cosa mangeremo, vivremo della difesa dell’ambiente che dà da mangiare solo alle Ong? Sono le Ong le responsabili, sono loro ad aver creato ad arte questa finta emergenza”. Non è riuscito a fondere come avrebbe voluto il ministero dell’agricoltura con quello dell’ambiente, ma ha paralizzato il ministero dell’ambiente. Ha nominato ministra dell’Agricoltura Tereza Cristina Dias, il capo della lobby dell’agro-business in Parlamento. Ha vietato che vengano individuate aree a rischio per impedire che siano poi dichiarate aree di protezione ambientale. Lo stesso ha fatto con le porzioni di terra indigena, impedendo di dichiararne di nuove e cercando di smantellare una ad una quelle già esistenti. Non si capisce cosa voglia fare del Fondo Amazzonia, un fondo finanziato soprattutto dalla Norvegia, del quale vorrebbe mantenere i soldi dirigendoli a tutti altri scopi. Negli ultimi dieci anni La Norvegia, la Germania e l’azienda di petrolio Petrobras (con il suo efficiente dipartimento di comunicazione per evitare le accuse di anti-ecologismo) hanno dato 650 milioni di euro a un centinaio di progetti proposti e gestiti da istituti brasiliani. Nemmeno uno di questi progetti è stato approvato dal governo Bolsonaro. Per completare l’opera il Planalto fa circolare voci sempre più insistenti sull’infondatezza delle cifre ufficiali sulla deforestazione (verificabili da qualsiasi foto via satellite: dove cinque anni fa c’era il verde la foresta ora c’è il colore giallo ocra della terra arsa) elaborate dagli istituti brasiliani e ha spalancato le porte all’approvazione di nuovi pesticidi di vario genere, inclusi alcuni contenenti sostanze proibite in Europa. Questo potrebbe creargli problemi teoricamente sul lungo periodo perché il recente accordo di libero commercio tra l’Unione europea e il Mercosur (l’area di libero scambio del Cono sur costituita da Brasile, Argentina ed Uruguay) include delle norme a protezione dell’ambiente. Per esempio chiede che i prodotti importati in Europa dal Sud America non arrivino da zone deforestate di recente. Ma non è detto che il lungo periodo interessi a Bolsonaro più dell’immediato e, soprattutto, non è possibile fidarsi ciecamente della dichiarata provenienza di tutti i prodotti esportati. Nella propaganda interna, l’unica che conta per il governo, Bolsonaro rilancia ai leader europei le accuse: “Ho sorvolato l’Europa due volte e non ho visto un chilometro quadrato di bosco, si preoccupino dei boschi di casa loro invece di criticare il Brasile”. Zimbabwe. Mugabe, l’eroe che si trasformò in tiranno di Marco Boccitto Il Manifesto, 7 settembre 2019 Se ne va a 95 anni l’ex leader dello Zimbabwe, figura complessa e controversa delle lotte di liberazione africane. Da leggenda mondiale del panafricanismo a simbolo di oppressione. Dopo 37 anni di potere assoluto, era stato costretto a dimettersi dal suo vice nel 2017. Eroe per alcuni, despota per altri, un eroe divenuto despota per i più. “Un’icona della liberazione” ha tagliato corto Emmanuel Mnangagwa, il suo successore alla guida dello Zimbabwe, nel dare ieri la notizia: Robert Mugabe, 95 anni, è morto in un ospedale di Singapore. Nel tweet in questione c’è la classica “immensa tristezza” e lo stesso affetto omertoso usato da Mnangagwa in occasione del benservito che nel 2017 lui stesso, da ex vice - dopo essere stato rimosso, dacché era diventato l’ultimo ostacolo alle brame di successione della moglie di Mugabe, Grace - aveva dato all’anziano leader, da 37 anni al potere. Ma questi sono solo gli ultimi fotogrammi di una lunga storia. Mugabe poteva credibilmente essere ricordato per l’epopea del ragazzino assetato di istruzione che osa l’inaudito in un paese in cui la segregazione razziale difficilmente si distrae; il giovane insegnante che si ritrova in Ghana proprio mentre si manifesta la vertigine pan-africanista di Kwame Nkrumah; il nazionalista nero della prima ora, incarcerato dal regime razzista di Ian Smith che approfitta dei dieci anni trascorsi in cella senza un’accusa precisa per prendersi due lauree; lo stratega che organizza la guerriglia e non dà tregua all’avversario finché non arriva il momento - nel 1980 - di mettere le gambe sotto al tavolo dei negoziati, per trasformare la Rhodesia in Zimbabwe. Dopo la vittoria Mugabe ebbe anche il buon gusto di non impedire l’ingresso nel nuovo parlamento a Ian Smith, che pure nel 1966 gli aveva negato il permesso di lasciare il carcere per il funerale della figlia di 3 anni. Ma qui finiscono i possibili motivi d’ispirazione per un altro leader che come lui aveva frequentato l’università sudafricana di Fort Hare, Nelson Mandela. E iniziano quelli per cui Mugabe, una delle grandi illusioni del marxismo pan-africano, verrà più probabilmente ricordato: ad esempio il format nord-coreano adottato per il suo regime, che non si ferma allo stra-culto della personalità e all’addestramento dei suoi pretoriani a Pyongyang; le sorti sanguinose della frattura all’interno del Zimbabwe African National Union, a cui aggiungerà la particella Patriotic Front (Zanu-PF) e il massacro delle popolazioni Ndebele nel Matabeleland (“fu un momento di follia”, disse in occasione dei funerali di Joshua Nkomo nel 1999); la dissociazione in base a cui all’Onu Mugabe difendeva con passione le ragioni dei paesi oggetto di aggressioni di stampo imperialista mentre in patria adottava metodologie brutali per togliere ossigeno al dissenso; il disastro economico a cui ha abbandonato il paese, che costringerà molti a cercare fortuna oltre il fiume Limpopo, in un Sudafrica economicamente rampante ma che - altro passaggio illusorio nella storia della regione - si è rivelato assai meno ospitale del previsto. Persona non grata a molti, Robert Mugabe è stata una discreta spina conficcata nel fianco di Londra, con i suoi discorsi ad alzo zero che culminarono con l’uscita dal Commonwealth, quando però ne era già stato sospeso. Ma, paradossalmente, diversi aspetti della sua personalità trasudano autentica britishness: i modi ostentati da gentleman, l’eloquio non privo di raffinatezze nella lingua dell’ex dominatore, l’amore quasi filosofico per il cricket, il versante più sobrio del suo guardaroba. Sempre più populista e meno popolare, fece molto rumore con la stura data alla requisizione dei latifondi ancora controllati dai bianchi, misura presa in modo tardivo e allo stesso tempo precipitoso, giusto per dare una mancia ai suoi fedelissimi, che si rivelò del tutto improduttiva per la popolazione castigata dalla crisi. Più che la fascinazione per Mao, comune ad altri leader africani, in Mugabe c’è l’adesione entusiasta alla logica degli investimenti cinesi, gli stessi che molti anni dopo spingeranno al decisivo passo avanti il suo vice. Quando nel 2012 girarono voci sulla sua morte, lui disse che sì, era morto e resuscitato molte volte, a differenza di Gesù che lo aveva fatto una volta sola. Di vite ne ha avute almeno due, ma per effetto della profonda metamorfosi che da un certo punto in poi ha corroso la sua promessa di giustizia. Il combattente per la libertà che si è preso sulle spalle le aspirazioni di un intero popolo diventerà presto un tiranno megalomane, ostaggio di un entourage corrotto e di una passione compulsiva per il potere assoluto. Tra le infamie minori ma non meno significative che gli sono state attribuite, c’è anche il disappunto manifestato per l’invito rivolto a Bob Marley, nell’aprile 1980, per suonare alla festa dell’Indipendenza. Le malelingue sostengono che avrebbe preferito Cliff Richard, melenso cantante pop inglese. Ma è lecito supporre che non gli sarebbe dispiaciuto un pianista classico, perché non sopportava che venissero sostituiti i vecchi luoghi comuni tribalisti con altri, a base di treccine e marijuana. E pazienza se grazie a Marley (cfr. Zimbabwe, dall’album Survival del 1980) la sua lotta di liberazione aveva appena impattato con un immaginario tanto più vasto, che andava ben oltre i confini dell’odiato impero britannico. Una certa intolleranza forse era dovuta al fatto che anche grazie alle idee diffuse da Marley c’erano stati già sotto il regime di Ian Smith tentativi “musicali” di anticipare i tempi, con una sorta di Woodstock locale che non venne capita da nessuno, se non come pericolosa distrazione. Esuberante e profondamente conservatore, come potrebbe esserlo oggi un Boris Johnson, Mugabe non ha mai perso occasione d esibire le sue riflessioni omofobiche, a proposito di diritti schiacciati. Tra vecchi leader delle indipendenze africane gli sopravvive il solo Kenneth Kaunda, ex presidente dello Zambia e suo coetaneo.