La girandola dei trasferimenti per i detenuti “problematici” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2019 Il carcere perugino di Capanne, dove ci sono state delle proteste, ne ospita molti. Il Garante regionale Stefano Anastasìa: “situazione aggravata dalla circolare del Dap che prevede la possibilità di spostarli per motivi di sicurezza”. Dopo le dure proteste avvenute al carcere perugino di Capanne a causa della diffusione della falsa notizia che il suicidio del detenuto straniero sarebbe stato scaturito da un pestaggio (mai avvenuto), le celle della sezione protagonista della vicenda sono state temporaneamente chiuse, permettendo solo due ora d’aria e i detenuti facinorosi sono stati trasferiti. Una decisione inevitabile da parte della direttrice per poter calmare gli animi e gestire l’oggettiva problematica che affligge il carcere, soprattutto riguardo i detenuti in media sicurezza. Un problema che però si sta diffondendo anche in altre carceri. Il garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa, raggiunto da Il Dubbio, spiega che le criticità sono dovute dal fatto che il carcere di Capanne è diventato un contenitore di diversi detenuti che provengono da altre carceri e trasferiti perché problematici. “Il carcere di Capanne è diventato un vero e proprio luogo di disperazione - spiega Anastasìa - degli sfollamenti della Toscana”. E vi mandano i detenuti più problematici, come quelli raggiunti da provvedimenti disciplinari o con problemi di salute mentale. Va da sé immaginare che la rivolta è quindi una tragedia annunciata. “Con questi continui trasferimenti - sottolinea sempre il garante regionale - progressivamente il carcere diventa un contenitore di persone problematiche e non è attrezzato per gestirle”. Il provvedimento della chiusura delle celle sarà appunto temporaneo, con la prospettiva di dividere la casa circondariale tra quello che tornerà ad essere aperto e a sorveglianza dinamica e una parte in cui terranno le persone più problematiche. Tra l’altro, su questo punto, potrebbe arrivare una circolare del Dap che proporrebbe le differenziazioni delle sezioni di media sicurezza. Ma, come detto, il carcere è diventato un contenitore di persone difficili da gestire, aggravato da due fattori. “Uno da un mancato adeguamento del sistema penitenziario e dei servizi sanitari alla chiusura degli ospedali psichiatrici - spiega il garante Anastasìa - l’altro fattore è stata la scorsa circolare del Dap che è diventato un altro motivo di girandola dei detenuti per gli istituti”. La circolare in questione, ricordiamo, ha disposto la possibilità di traferire i detenuti per motivi di sicurezza. Ma cosa ha provocato? Sempre secondo il garante della regione Lazio e Umbria, “il detenuto che compie violenza è giusto che venga punito, ma se tali eventi debbano essere sempre causa di trasferimenti, vuol dire rimandare il problema ad altri”. Una situazione che riguarda quasi esclusivamente i detenuti che sono in media sicurezza, spesso quelli più disperati che non avendo nessuna speranza, utilizzano metodi di protesta per farsi sentire. Un problema che riguarda principalmente i detenuti stranieri che, in mancanza di mediatori culturali e altre figure importanti per rapportarsi con loro, si sentono lasciati soli. Resta comunque il dato oggettivo della difficoltà di gestione a causa dei problemi elencati. La sorveglianza dinamica, in realtà, funziona soprattutto quando ci sono opere trattamentali, in maniera tale che i detenuti possano avere la possibilità di poter far qualcosa, oltre che sostare nei corridoi. La direzione del carcere di Capanne, ad esempio, nonostante la carenza oggettiva di attività trattamenti, ha comunque riattivato dei corsi di formazione professionali. Ma non bastano e ci vuole appunto un patto, con l’aiuto del Dap e la regione, affinché si incrementino le attività. Un problema che è però generale e riguardano la maggior parte delle patrie galere. Giustizia penale, ritardi sempre più gravosi: va abolita l’obbligatorietà dell’azione penale di Massimo Krogh Il Mattino, 6 settembre 2019 Ho letto sul Mattino un interessante commento di Carlo Nordio (“Programma così generico che sembra un oroscopo”), ove, nell’analisi dei gravi problemi che affliggono il Paese in tema di giustizia, si osserva, circa il processo penale, che per abbreviarne la durata occorrerebbe una radicale depenalizzazione o quantomeno l’introduzione della discrezionalità dell’azione penale in luogo della sua obbligatorietà. Condivido pienamente, ritenendo entrambe le cose necessarie per tentare di dare una immagine reale del processo penale, oggetto di molte riforme, purtroppo sempre peggiorative del suo funzionamento. Vi sono stati, in passato, provvedimenti di depenalizzazione, uno molto ampio del 1959, rimasti peraltro senza effetti reali perché contrastati dall’introduzione di nuove figure di reato, nell’uso del diritto penale quale strumento supplente delle carenze, disfunzioni e inefficienze amministrative, in un clima di giustizialismo che saliva da gente spaventata. A proposito di nuove figure di reato, introdotte nel tempo più recente, vanno ricordati il traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), vale a dire lo sfruttamento o il vanto di relazioni con un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio per ottenere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita, e il depistaggio (art. 375 c.p.), ostacolo o sviamento delle indagini nel processo penale da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio. Entrambe queste nuove figure di reato appaiono superflue e solo veicolo di possibili lentezze e confusioni. Sia il traffico di influenze, ove è punibile anche il soggetto pubblico concorrente, che il depistaggio avrebbero potuto trovare la sanzione già in altre ipotesi di reati esistenti (corruzione, abuso di ufficio con aggravamento di pena ...). A me sembra che bisognerebbe frenare l’intervento della giustizia. Una società sottoposta al governo del giudice rivela una insufficienza culturale collettiva deprimente, e per altro verso esprime una sottomissione incompatibile con una corretta visione della democrazia, ove i poteri dello Stato devono incontrarsi in un giusto equilibrio ed essere immuni da possibili reciproche interferenze. Sulla richiesta di giustizia bisogna intervenire, non dimenticando che in democrazia la funzione della giustizia e soprattutto del diritto penale è residuale; la vitalità delle regole ed il controllo sul loro rispetto è compito della pubblica amministrazione, insomma della cosa pubblica in generale. Il controllo di legalità da parte della magistratura è insostituibile, ma il potere giudiziario deve mantenersi nei suoi confini evitando di divenire strapotere. In Italia, qualche rischio c’è per la persistente unità di carriera giudici/Pm che in qualche modo comprime il contraddittorio turbando l’equilibrio dei poteri statuali. Nello stesso ambito interno del percorso giudiziario può notarsi una certa prevalenza del potere d’accusa che ha reso dominante la fase delle indagini su quella giudicante; difatti è la prima, anche in sede mediatica, a farsi vedere nei suoi effetti, rispetto alla seconda che svanisce nel buio dei tempi. Non può sfuggire che la sovrabbondanza dei processi, che costringe la giustizia ad uno stallo intollerabile, è in buona parte dovuta all’obbligatorietà dell’azione penale, il cui esercizio è affidato ad un pubblico ministero non separato ma in carriera unica con il giudice, con gli effetti che derivano da una contiguità poco compatibile con il concetto di parità delle parti. L’esercizio dell’azione penale non è obbligatorio nell’area della Common Law, alla quale, con la scelta dell’88 del rito processuale accusatorio, l’Italia ha aderito. Peraltro, il nostro Paese, contraddittoriamente, mantiene un caposaldo del rito inquisitorio, quale è l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, pur avendo scelto il rito processuale accusatorio. Non è la sola contraddizione che ci contraddistingue, d’altra parte la durata dei processi è sotto gli occhi. Dialogo e integralismo, così Bonafede vuole vincere il secondo tempo della sfida di Errico Novi Il Dubbio, 6 settembre 2019 Dal Csm alla prescrizione, la partita del guardasigilli. Non intende recedere dall’approccio “general preventivo” in campo penale: ma con il metodo del confronto aperto, il ministro punta a ottenere dal pd il via libera alle riforme lasciate in sospeso. Dialogo e integralismo: il Pd dovrà fare in fretta a modularsi sulla cifra di Bonafede. Che mantiene il dicastero forse più importante dopo quelli economici. La Giustizia è un tema sempre cruciale, ma lo è a maggior ragione in una fase di trasformazione, soprattutto dei rapporti fra politica e magistratura. E la dialettica fra i dem e il guardasigilli del Movimento si consumerà su due fronti: la riforma del processo e del Csm, con l’annesso totem della prescrizione, e un arcipelago di dossier in cui pure si giocano gli equilibri fra garantismo e approccio “general- preventivo”: il carcere innanzitutto, le intercettazioni, alcune misure della “spazza corrotti” in odore di censura costituzionale. Presto Andrea Orlando, da dirigente senza vincoli di governo, potrebbe trovarsi a condurre la partita con il suo successore. Giocherà di sicuro un ruolo. Così come un peso finirà per ricadere, è inevitabile, sul sottosegretario pd che avvicenderà il leghista Jacopo Morrone. Anche i parlamentari del partito di Zingaretti più competenti in materia di giustizia saranno coinvolti nella schermaglia. Tutti comunque dovranno fare i conti con un ministro che, come ricordato all’inizio, ha due tratti distintivi: la capacità di ascolto e l’intransigenza, l’integralismo appunto, nel tenere alcune posizioni. Un’aporìa che è la sua arma. Perché a Bonafede non si può negare un’autentica apertura al dialogo e alla mediazione. Riconosciuta innanzitutto dall’avvocatura, con cui ha intrattenuto - e manterrà - un confronto aperto nonostante la radicale distanza su nodi cruciali come la prescrizione. Lo si è visto nella relazione intensa e schietta avuta finora dal guardasigilli con il Consiglio nazionale forense, con l’Ocf (che, come l’istituzione dell’avvocatura, gli ha rivolto un messaggio di assoluta stima, riportato nell’edizione di oggi, nda) ma anche con le componenti associative, dall’Unione Camere penali alle Camere civili. Chiedere loro per informazioni: sia Gian Domenico Caiazza, leader dei penalisti, che il civilista Antonio de Notaristefani vi diranno quanto restino problematici se non inconcepibili alcuni provvedimenti (varati e abbozzati, dalla “spazza corrotti” alle preclusioni istruttorie ipotizzate dinanzi al giudice monocratico); eppure entrambi i vertici dell’associazionismo forense vi confermeranno che Bonafede è interlocutore leale, capace di raccogliere le sollecitazioni sulle riforme, pur senza mai aprire la cittadella invalicabile dell’approccio general preventivo sulla corruzione. È qui l’”insidia” per gli interlocutori di Bonafede, appunto: contestarne la disponibilità dialettica è impossibile, e diventa così più imbarazzante aggredirlo sulle materie politicamente divisive. Se ne accorgerà il Pd nel provare ad aprire la partita sulla prescrizione. Come già ricordato dal Dubbio, in un vertice di 6 giorni fa gli ambasciatori pd Del Rio e Stefano si sono arresi all’impossibilità di accennare, nel programma, al tema dell’estinzione dei reati. Se ne riparlerà a breve, certo. Ma l’esito rischia di essere quello - sgradito all’avvocatura ma certo non entusiasmante neppure per il Pd - di un estenuante braccio di ferro che porti al ripristino della prescrizione solo per chi, in primo grado, è assolto. Sulla riattivazione dell’istituto anche per chi è condannato dal Tribunale, i cinquestelle sono pronti a immolarsi come se fosse la madre di tutte le battaglie. Si troveranno adattamenti e mediazioni, positive, sulle riforme dei processi e sul sorteggio al Csm, con più fatica sulle intercettazioni e sul carcere. Ma il dialogo, appunto, non sarà precluso. E non lo sarà affatto su un’idea di riequilibrio nella giurisdizione che a Bonafede è cara quanto l’integralismo nelle pene per i reati contro la Pa: si tratta proprio del ruolo che spetta all’avvocatura. Il guardasigilli è il primo sostenitore del ddl sull’avvocato in Costituzione, incardinato al Senato (a firma del neo ministro Patuanelli e del capogruppo leghista Romeo) e sicuramente condiviso dai democratici, Orlando innanzitutto. Il quale aveva informato il successore di essere pronto a dare una mano, sulla riforma, assai prima dell’agosto che ha sconvolto l’Italia. Figurarsi ora. Il ruolo costituzionale del difensore sublima anche la possibilità di riaffermare la centralità dei diritti, come antidoto all’integralismo penale del Movimento. E proprio la paziente ricucitura del sistema attorno ai diritti è la sfida che, sulla giustizia, e non solo con Bonafede, a una seria sinistra di governo tocca ora intraprendere. “Così la prescrizione non va”, ci dice il capogruppo Pd in commissione Giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 settembre 2019 “Il primo passo da compiere per il nuovo governo è rinviare l’entrata in vigore della riforma della prescrizione, perché non possiamo lavorare con questa spada di Damocle sulla testa. Dopodiché occorre affrontare in maniera organica la riforma del processo penale e, in seguito a questa discussione, auspichiamo che anche il tema della prescrizione possa essere rivisto in modo diverso da come è stato valutato e concepito dal governo precedente”. Intervistato dal Foglio, Alfredo Bazoli, capogruppo del Partito democratico in Commissione Giustizia alla Camera, chiarisce la linea dei dem attorno alla riforma della prescrizione approvata da M5s e Lega, la “bomba nucleare” pronta a esplodere il 1 gennaio 2020 e a consegnare processi eterni ai cittadini. Bazoli, che negli ultimi giorni ha partecipato al tavolo di discussione interno al Pd volto a definire le questioni più rilevanti in tema di giustizia, ammette che sul futuro della prescrizione “ancora non c’è nessun accordo specifico tra Pd e M5s”, come del resto emerge dallo scarno rigo e mezzo dedicato alla giustizia contenuto nella bozza del programma di governo rosso-giallo fatta circolare martedì dai pentastellati, in cui la prescrizione non viene neppure menzionata. “Nelle riunioni degli ultimi giorni - specifica però Bazoli - abbiamo messo in evidenza la questione della prescrizione, manifestando tutta la nostra contrarietà sulla riforma, sia per il modo con cui è stata realizzata che per il merito. Non abbiamo quindi cambiato opinione. La questione però è stata soltanto accennata, perché il tempo a disposizione è stato veramente poco”. “Il tema della prescrizione - aggiunge il deputato Pd - era già stato affrontato in maniera più che adeguata con la riforma da noi proposta e votata nella precedente legislatura, che prevede la sospensione di 18 mesi dei termini di prescrizione in caso di condanna, che possono essere riassorbiti nel caso di assoluzione successiva. Non condividiamo questa ulteriore riforma che è stata approvata, anzi pensiamo sia stato un grave errore, però è inutile andare subito allo scontro frontale. Cominciamo col rinviare l’entrata in vigore della riforma. In seguito sarebbe utile arrivare a una proposta di riforma complessiva del processo penale che renda non più necessario l’intervento sulla prescrizione”. Il 1 gennaio 2020, però, non entrerà in vigore soltanto la norma voluta dai pentaleghisti che sospende la prescrizione dopo una sentenza di primo grado (sia essa di condanna che di assoluzione), ma anche la riforma sulla intercettazioni varata nel 2017 dal Guardasigilli Andrea Orlando, che cerca di mettere un freno al circo mediatico-giudiziario. Un altro fronte molto delicato per il governo rosso- giallo, tanto più se si considera che, per volontà del nuovo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’entrata in vigore della nuova disciplina è stata rinviata ben tre volte (in ultimo con il decreto sicurezza di giugno). “Anche su questo non c’è stato ancora un confronto sul merito - specifica Bazoli - Noi siamo dell’idea che quella riforma, seppur con alcuni difetti, faccia fare degli importanti passi in avanti, soprattutto per quanto riguarda la tutela della riservatezza. Anche su questo valuteremo insieme a loro. Se i Cinque stelle hanno proposte migliorative ben vengano, ma rinviare la riforma senza mai farla entrare in vigore non credo sia la soluzione”. Ma ci sono speranze concrete di dialogo con un movimento che auspica “più intercettazioni per tutti”? “Mi rendo conto che quello della giustizia sia un terreno complicato - replica Bazoli - perché i Cinque stelle hanno una visione molto giustizialista e noi, seppur con tante anime al nostro interno, ci siamo solidamente attestati su una posizione più garantista e più attenta ai diritti e alle garanzie dei cittadini. Credo però che l’asse del nuovo governo sarà molto diverso da quello precedente, che aveva reso la giustizia un terreno per la propaganda politica. Se così sarà, penso che si potranno affrontare anche questioni che oggi ci vedono su posizioni differenti”. Bazoli conferma anche la disponibilità del Pd a riformare il Consiglio superiore della magistratura, travolto dallo scandalo delle nomine, per “evitare le degenerazioni correntizie e per far sì che le scelte nel Csm siano assunte seguendo il merito e non il bilancino delle correnti”, anche se resta la distanza sulla proposta di elezione tramite sorteggio avanzata dai grillini, ritenuta non efficace e “non esattamente in linea con i dettami della Costituzione”. Sulla riforma della giustizia, Bazoli spiega al Foglio che sono soprattutto due i punti messi nero su bianco nella proposta di confronto con i Cinque stelle redatta la scorsa settimana dal Pd. Innanzitutto “il rafforzamento della terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero”. Un intervento che, comunque, non passerebbe attraverso la separazione delle carriere, ma con “il rafforzamento o l’introduzione di nuove finestre di controllo giurisdizionale sull’attività dei pubblici ministeri”. Secondo punto: l’introduzione di procedure di definizione, da parte dei procuratori, dei criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale. Una forma di temperamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale, da varare senza intervenire sulla Costituzione e in grado di “far emergere dall’opacità le modalità di selezione delle notizie di reato da parte delle singole procure, garantendo maggiore trasparenza”. Anche su questo, però, resta la domanda: i grillini saranno d’accordo? La riforma della giustizia, sempre annunciata, mai realizzata di Gianni Macheda Italia Oggi, 6 settembre 2019 Olivero Diliberto, ministro della giustizia tra il 1998 e il 2000, disse un giorno: “Avrei dovuto usare più coraggio per risolvere le lungaggini dei processi civili. Le resistenze erano forti. L’ambiente giudiziario, destra o sinistra, è molto conservatore”. Piero Fassino, che occupò quella poltrona dal 26 aprile 2000 all’11 giugno 2001, ci mise il carico, affermando che servirebbero “leggi più chiare, processi più brevi, sentenze e pene più effi caci, una giustizia amica”. Un problema evidentemente molto sentito anche dall’altra parte politica se Roberto Castelli guardasigilli tra il 2001 e il 2006, giurò che “abbreviare il tempo dei processi e, conseguentemente diminuire il debito pubblico giudiziario, è stato ed è obiettivo sempre perseguito dal governo”. Forse non perseguito con la giusta determinazione. Clemente Mastella, a Via Arenula tra il 2006 e il 2008, confessò che “C’è, prima di tutto, la scarsa capacità di esaurire in tempi rapidi i procedimenti, che nella sensibilità collettiva e delle forze politiche costituisce un problema da soddisfare in via prioritaria”. Ingarbugliato, da perfetto Dc. Ma la parolina “prioritaria” stava lì, quasi a ispirare Angelino Alfano, ministro della giustizia dal 2008 al 2011. Che infatti lanciò “Un piano di digitalizzazione per ridurre i tempi del processo e dell’erogazione dei servizi accessori”. Ma niente, questi tempi non si riducevano. Eppure Paola Severino, a capo del dicastero dal 2011 al 2013, ci si era impegnata a fondo e scommise su “Processi civili più brevi col fi ltro. Dureranno poco più di 2 anni”. Due anni? Forte. Peccato che qualche mese dopo la guardasigilli Annamaria Cancellieri ricordasse a tutti che “La priorità è ridurre i tempi dei processi”. Punto e a capo. Dunque? Andrea Orlando, ministro della giustizia tra il 2014 e il 2018, un’idea la ebbe: “Disincentivare le cause temerarie, così da garantire processi più rapidi”. Facile a dirsi. E allora Alfonso Bonafede, ministro nel primo governo Conte, pensò di affi darsi alla preghiera: “Vogliamo solo ridurre i tempi dei processi”, tipo “aiutateci, per favore”. Tranquillo, sei ancora a cavallo. C’è il Conte 2 che nelle famose quattro paginette programmatiche afferma risolutamente: “Occorre rendere più effi ciente il sistema della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi”. Più di vent’anni sono passati tra Diliberto e Bonafede bis e il problema resta sempre quello: ridurre i tempi dei processi. Ma questi tempi non si riducono. Le cause continueranno a durare dieci anni e la gente a farsi venire gli infarti appresso a giudici e avvocati. Unica consolazione: sapremo sempre in anticipo cosa metterà il nuovo guardasigilli tra le priorità delle cose da fare. Il nuovo Governo abbandoni la strada del diritto penale simbolico camerepenali.it, 6 settembre 2019 L’Unione delle Camere Penali Italiane auspica che il nuovo Governo sappia far prevalere, nelle necessarie riforme della Giustizia penale, il rispetto dei principi fondamentali del diritto penale liberale e del giusto processo scolpiti nella nostra Costituzione. Esprimiamo dunque l’invito ad abbandonare la strada, perniciosa e funesta, del diritto penale simbolico, dell’idea iperbolica della sanzione penale data in pasto ad una opinione pubblica impaurita con cinismo e sprezzo della verità, del “marcire in carcere” come rozza e sgrammaticata versione del principio di certezza della pena, della sovversione del principio di presunzione di innocenza, della scellerata narrazione del processo penale come una fastidiosa congerie di cavilli posti a difesa di colpevoli che vogliono farla franca. Rivolgiamo in particolare questi auspici - insieme alle più sincere congratulazioni - al Ministro di Giustizia confermato in carica, Avv. Alfonso Bonafede, perché crediamo nel dialogo, nella forza delle grandi idee che da sempre coltiviamo e difendiamo con passione, nella fecondità del confronto duro e leale, anche quando le differenze e le distanze appaiono - e spesso sono - incolmabili. Lo dimostra la buona sintesi raggiunta insieme al tavolo per la riforma dei tempi del processo penale voluto dal Ministro, che deve però finalmente tradursi compiutamente in un nuovo testo di legge delega, senza più le mutilazioni inferte da veti ideologici che ne hanno del tutto pregiudicato senso, razionalità ed efficacia. È necessaria la riforma dell’Ordinamento giudiziario per realizzare la terzietà del giudice e la effettiva autonomia della Magistratura con nuove regole di elezione e di funzionamento degli organi di Governo, rifuggendo da soluzioni improvvisate e costituzionalmente insostenibili. Ma soprattutto, occorre impedire l’entrata in vigore di quella riforma della prescrizione che introdurrebbe nel nostro Paese, a partire dal gennaio 2020, la nuova, drammatica figura sociale dell’imputato a vita. Oltre 150 giuristi italiani firmarono il nostro appello che denunciava quell’inconcepibile oltraggio al principio costituzionale della ragionevole durata del processo: i penalisti italiani sapranno tenere vivo quel monito con tutta la forza e l’impegno necessari. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane Quei figli tolti alla ‘ndrangheta in affido per avere un futuro di Giuseppe Legato La Stampa, 6 settembre 2019 Sessanta minori allontanati in 7 anni. I giudici: il progetto funziona meglio con le ragazze. Reggio Calabria, anno 2016. Udienza a porte chiuse. In aula compare una giovane madre accusata di mafia. Anni fa ha sposato un boss della ‘ndrangheta al “41bis” nel supercarcere di Spoleto. La sua deposizione è “sofferta e insieme drammatica”, si legge in calce agli atti del procedimento. “La donna - scrive il giudice estensore - auspica un provvedimento di allontanamento dei figli dalla realtà delinquenziale di cui ella aveva fatto parte al fine di scongiurare il pericolo per i medesimi di finire in carcere oppure ammazzati”. Aggiunge: “Non pensate di affidarli al contesto familiare di mio marito. Non vi sono persone idonee”. Precisa: “In Calabria e in Italia non c’è nessun parente di cui possa fidarmi”. Poche ore dopo, i figli sono in Veneto. Lei, a distanza di alcuni mesi, li ha raggiunti. E non sono più tornati. È questo uno dei sessanta casi di minorenni “strappati”, negli ultimi sette anni, alla potentissima mafia calabrese dalla giustizia minorile di Reggio Calabria. Dal 2012 è nato qui un rivoluzionario orientamento giurisprudenziale che muove da questo assunto: indottrinare un figlio alla sub-cultura mafiosa equivale a maltrattamenti in famiglia. Oppure da questo: “I comportamenti tenuti da un padre affiliato all’associazione criminale sono in tutta evidenza incompatibili con la funzione educativa che orienta i suoi poteri/doveri”. Per i giudici, il logico corollario “è la decadenza dalla responsabilità genitoriale”. Una sessantina di bambini sono stati allontanati dalla culla della ‘ndrangheta, a volte con le loro mamme. “Provvedimenti adottati con coscienza e coraggio - spiega il Pg di Reggio, Bernardo Petralia. Che mirano a salvare giovani da un futuro nero spesso già scritto, ma anche a scardinare “il cosiddetto forziere etico della ‘ndrangheta ossia quell’insieme di malintesi valori che si tramandano dai genitori ai figli che costituiscono la forza e al tempo stesso l’immanenza dell’associazione criminale”, dice Petralia. Il motore, manco a dirlo, spesso sono le stesse madri che invocano aiuto per poi dissociarsi dal mondo nero delle ‘ndrine e ricominciare una vita lontano. Alcune, a Natale, scrivono lettere al presidente del tribunale dei Minori. Una di queste recita: “Ogni volta che guardo negli occhi il mio bambino, e leggo la sua gioia nel trovarsi in questa città dove tutto lo rende felice, il mio pensiero corre da lei. Per questo non finirò mai di ringraziarvi. Il ragazzino si fa apprezzare dalle maestre e i suoi voti sono alti e spero che un domani anche Lei possa essere orgoglioso di lui”. Alcuni dei giovani allontanati negli anni frequentano corsi di formazione di lingue in Inghilterra, altri si sono iscritti all’Università. Cercano un impiego e magari ci riusciranno anche grazie ai partner di questo progetto: la presidenza del Consiglio dei Ministri, Libera, il Miur, Unicef. Che credono al metodo dei magistrati reggini e mettono soldi ed energie per dare gambe a un’idea e a una rete che funzioni davvero e non rimanga uno spot antimafia. Compiuti i 18 anni i giovani “strappati” ai boss possono scegliere: se tornare a casa e se delinquere ancora. O meno. Perché i provvedimenti - va detto - sono sempre temporanei e hanno diverse sfumature nella fase di esecuzione. Ma evidentemente funzionano, visto che “il tasso di recidiva è bassissimo”, spiega il presidente del tribunale dei Minori, Roberto Di Bella, “la mente” del nuovo corso sui figli della mafia. “Le maggiori soddisfazioni ce le stanno dando le ragazze. Non vogliono tornare, hanno scelto di restare nelle famiglie affidatarie perché hanno scoperto il profumo della libertà. Dai soprusi, dai controlli ossessivi, dai divieti. Oggi possono scegliere di studiare, possono fidanzarsi con chi amano. In una parola: possono vivere”. Come un giovane della Locride che era un bambino quando è stato portato via. Gli investigatori lo avevano filmato alla guida di un’auto su cui il padre aveva appena caricato un mitragliatore. Oggi vive in Sardegna. Non è tornato a casa nemmeno lui. Pochi giorni fa un padre-boss di Reggio, uscito dal carcere dopo 23 anni ininterrotti di detenzione, ha chiesto di parlare con Di Bella. “La ringrazio per aver salvato i miei figli. Ma ora mi dissocio io dalla ‘ndrangheta. Voglio tornare da loro”. Giuseppina Latella: “Giovani prigionieri del crimine. Sono le madri a chiederci aiuto” di Giuseppe Legato La Stampa, 6 settembre 2019 La magistrata: provvedimenti sempre revocabili. La scintilla, molto probabilmente è scattata, anni fa, mentre ricopriva un altro incarico: Corte d’Assise di Reggio Calabria. “Ci ritrovavamo a giudicare per reati gravissimi prima i nonni, poi i figli e infine comparivano in aula i nipoti”. Forse è lì che Giuseppina Latella, ha scelto il Tribunale dei Minori con funzioni direttive. Prima a Messina, poi - e tutt’ora - a Reggio Calabria. Perché la base della ‘ndrangheta è familiare per eccellenza. E il concetto di discendenza criminale è più inevitabile che in altre mafie. È lei il procuratore che riceve le segnalazioni su “situazioni familiari difficili”. Che valuta e decide se avviare un ricorso per la “limitazione della responsabilità genitoriale” dei figli dei boss. Una cosa la dice subito: “Qualcuno ha parlato di deportazioni: niente di più scorretto. I provvedimenti sono modulati, prevedono una serie di attività di sostegno alla genitorialità. Non è giusto parlare di allontanamenti sine die, ma di percorsi veri e propri”. Cosa fate allora prima di arrivare ad allontanare un minorenne dalla famiglia? “Cerchiamo di capire se c’è un elemento all’interno del nucleo di parenti che è idoneo a tutelarlo. Anche un genitore magari. E solo se in entrambi i casi non riscontriamo garanzie procediamo a un affidamento etero-familiare”. Come funziona poi la fase di esecuzione dell’allontanamento? “Si lavora anche sui genitori. C’è uno psicologo che avvia dei colloqui per far loro comprendere la finalità del provvedimento che non è certo un ulteriore punizione al netto delle sentenze di condanna. I provvedimenti sono temporanei, sempre revocabili. Certo, deve cambiare il presupposto”. Da quale base muove un provvedimento di questa portata? “Il nostro codice prevedeva già una serie di norme a tutela dei minori in casi di maltrattamento. Che non è solo rintracciabile nelle lesioni ma anche nell’insegnare a violare la legge, nel far passare il concetto cheloStatoènemico,chelosonoanche i carabinieri”. Molte donne si stanno rivolgendo al tribunale per chiedere di andare via dai contesti mafiosi insieme ai figli. Perché è la donna il motore di questo nuova speranza? “Le donne, nei contesti mafiosi, hanno sofferto tantissimo: perilutti, per gliomicidi dei loro fratelli, perchévivonomatrimoni a metà: hanno i mariti in carcere per anni. Alcune di esse hanno vissuto il carcere in primapersona”. Come individuate i casi su cui intervenire? “Come procura minorile non possiamoavvalerci delle intercettazioni. Ma abbiamo sottoscritto un protocollo con la Dda di Reggio, che favorisca uno scambio costante di informazioni”. Né collaboratori, né testimoni di giustizia. Come si fa a proteggere i figli “strappati” alla ‘ndrangheta? “Non esiste un sistema di protezione come per i casi che ha citato. I ragazzi non hanno possibilità di cambiare cognome. Al momento diciamo che ci si appoggia su una solida base di volontariato, Libera in testa. Certo aiuterebbe un inquadramento normativo del legislatore”. Indagato per Carola e Lucano torna a Riace, così la magistratura “smonta” Salvini di Valentina Errante Il Messaggero, 6 settembre 2019 Adesso Mimmo Lucano può tornare a Riace, non è più pericoloso, anche se la procura non ha cambiato idea. La decisione del Tribunale di Locri, arrivata a poche ore dal giuramento dei ministri del nuovo governo, è forse il primo atto che segna la fine della breve era salviniana. Gli stessi giudici, poco meno di un mese fa, avevano negato all’ex sindaco, simbolo dell’accoglienza e sotto processo, tra l’altro, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il permesso di tornare nel piccolo comune nonostante la Cassazione si fosse espressa in senso opposto. Così se un pezzo di magistratura non sembra avere avvertito quel vento che per 14 mesi ha soffiato sul Paese, tanto che il Tribunale dei ministri di Catania aveva chiesto al Senato di potere procedere nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Salvini per sequestro di persona per il caso “Diciotti”, a Locri, invece, la stessa istanza dei legali di Lucano ha avuto esito differente nel giro di pochi giorni. E viene meno anche il garbo istituzionale: è di ieri la notizia che l’oramai ex ministro dell’Interno è indagato per avere diffamato Carola Rakete. Il fascicolo è stato aperto a luglio, dopo la presentazione di una querela da parte della capitana della Mare Jonio. Ai pm la Rakete chiedeva anche il sequestro degli account social del ministro sui quali era stata coperta di insulti. Gli atti, adesso, sono al vaglio della procura di Milano. L’inchiesta contro ignoti sull’episodio della moto d’acqua della polizia, utilizzata dal figlio dell’oramai ex ministro dell’Interno per fare un giro tra le onde a Milano Marittima, è stata avviata dai pm di Ravenna quando Salvini era ancora in carica, così come il procedimento disciplinare a carico degli agenti che avevano allietato la vacanza di Salvini jr e minacciato insultati. Nonostante il parere negativo della procura, l’ordinanza del Riesame che dal 16 ottobre ha impedito di tornare a casa è stato revocata ieri intorno alle 14. E così, accompagnato da uno dei suoi avvocati, Andrea Dacqua, l’ex sindaco è arrivato a Riace per incontrare l’anziano padre gravemente ammalato. Finito ai domiciliari il 2 ottobre per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e irregolarità nella gestione della differenziata. I116 ottobre gli arresti erano stati convertiti in divieto di dimora dal Riesame. Invano la Cassazione aveva poi ordinando ai giudici di rivedere la propria decisione alla luce di una serie di indicazioni. Nonostante le indagini a carico di Lucano fossero chiuse, il Tribunale di Reggio ha infatti confermato la misura, ritenendo Lucano “politicamente pericoloso” e in grado di influire sull’amministrazione. Una decisione impugnata dagli avvocati che sono tornati a chiedere un nuovo pronunciamento agli ermellini. Ed è stato questo il motivo per cui il presidente del collegio di Locri, che dovrà giudicare Lucano e altri altre 25 persone, aveva respinto la nuova istanza di scarcerazione presentata dai legali alla vigilia della prima udienza. Adesso, però, ha cambiato idea. Accolto il ricorso del figlio di Santapaola: curato al 41bis in maniera non sufficiente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2019 Rinvio della Cassazione per il riesame al Tribunale di Sorveglianza. È sulla sedia a rotelle, viene curato al 41bis del carcere di Viterbo in maniera non sufficiente nonostante le gravi condizioni cliniche. Ha chiesto il rinvio della pena per potersi curare, ma il tribunale di sorveglianza, nonostante concordi con la mancanza di cure adeguate, dice che può rimanere al 41bis. I legali hanno fatto ricorso in Cassazione che, con la sentenza numero 36975 del 3 settembre scorso, l’ha ritenuto fondato e chiesto di riesaminare il caso. Parliamo del 50enne Vincenzo Santapaola, figlio primogenito di Nitto, l’ottantenne padrino di Catania, il quale è stato condannato in via definitiva a 18 anni con sentenza della Corte di Appello di Catania del 2016 per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Il tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato l’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per gravi condizioni di salute avanzata da Santapaola. I magistrati richiamavano la relazione redatta in data 5.12.2018 dal dirigente sanitario della Casa circondariale di Viterbo in cui si dava atto delle patologie di cui soffriva il boss: “Esiti di fratture multiple a livello delle branche ischiopubiche e dell’ala iliaca dx trattate con mezzi di sintesi metallici; esiti di corna post traumatico della durata di circa tre mesi; residua vescica neurologica per coinvolgimento dei nn sacrali; incontinenza anale; danno del nervo sciatico e peroneale dx con deficit sensitivo sia prossimale che distale. Nel 2012 una caduta esitava in rottura di una delle placche di sintesi a livello della sinfisi pubica”. Ma anche dell’esito di un consulto interdisciplinare intervenuto nel settembre 2017 presso il reparto detenuti dell’Aou Le Molinette di Torino, il quale aveva concluso per la non necessaria rimozione dei mezzi di sintesi; per il trattamento esclusivamente farmacologico del dolore cronico pelvico perineale; per l’assenza di indicazioni chirurgiche; per la conferma dell’attuale trattamento della disfunzione viscerale vescicosfinterica, con possibile giovamento di un tentativo di introduzione della Tai con appositi dispositivi; per la opportunità di un trattamento fisioterapico di tipo estensivo, ovvero di mantenimento, che non necessitava di ricovero ospedaliero; del carattere immutato del quadro clinico delineato a Torino e della circostanza che Santapaola, nei primi mesi del 2018, aveva eseguito a Viterbo un ciclo di sedute di Fkt con beneficio parziale; inoltre, che il condannato, al momento, godeva di un’autonomia parziale e si spostava mediante l’ausilio di una sedia a rotelle. Ciò premesso, il tribunale di Sorveglianza osservava che le descritte condizioni cliniche del condannato, pur essendo gravi, dovevano considerarsi cronicizzate, non mettevano a repentaglio la vita e potevano ricevere i necessari trattamenti sanitari in regime detentivo, né apparivano in contrasto con il principio di umanità della pena, tenuto conto della variegata serie di interventi sanitari assicurati negli anni dall’Amministrazione penitenziaria. Nel concludere per il rigetto dell’istanza, il Tribunale capitolino rilevava, tuttavia, che presso la Casa circondariale viterbese, nell’ultimo anno, era stato eseguito un solo ciclo di fisioterapia, ritenuto, peraltro, non ottimale dal dirigente sanitario, e che, quindi, occorreva segnalarsi al competente ufficio del Dap la necessità di trasferimento del detenuto “in struttura prossima a presidio sanitario” che assicurasse “l’elaborazione di un progetto personalizzato di fisioterapia” con previsione del “periodico ricorso alle tecniche sopraindicate”. I legali hanno fatto ricorso e la Cassazione l’ha accolta con rinvio, sottolineando soprattutto che il provvedimento ha limitato il suo esame “ad un profilo esclusivamente astratto, ha ritenuto soltanto doveroso inviare al Dap una segnalazione circa le condizioni di salute del detenuto, invitando l’Amministrazione ad una sistemazione più congrua; tuttavia, non ha svolto istruttoria in tal senso e non ha richiesto al competente Dipartimento informazioni circa la reale possibilità di svolgere una particolare terapia pur in costanza di detenzione carceraria”. Concesso l’asilo a malato di schizofrenia. “In Gambia rischia di essere ucciso” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 settembre 2019 Il Tribunale rovescia il no del Viminale: lì i malati mentali sono perseguitati. È la malattia mentale ad accendere a volte scoppi di violenza in un cittadino gambiano, a farlo aggirare in stato confusionale lungo i binari della metropolitana di Milano, a farlo “sentire incaricato da Dio” di bruciare gli oggetti dentro una borsa di una stanza nel centro di accoglienza: evento dopo il quale la Prefettura gli aveva revocato le misure di sostegno, e il Ministero dell’Interno (“Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale”) gli aveva negato asilo. Ma ora questo diniego viene ribaltato con decisione inedita dal Tribunale di Milano, la cui “Sezione specializzata in materia di immigrazione” riconosce al 31enne proveniente dal Gambia non la “protezione sussidiaria” o almeno quella “umanitaria”, come chiedeva il ricorso dell’avvocato Simona Paci, ma appunto la più ampia “protezione internazionale” proprio a motivo del rischio di essere perseguitato in patria a causa della propria schizofrenia: e cioè del fatto che, ove l’Italia lo rimandasse in Gambia, lì sarebbe esposto ai trattamenti discriminatori con i quali la legge e i costumi sociali in Gambia maltrattano i malati mentali come “non-persone” equiparate alla stregoneria. Il caso - Il giovane - che si descrive di etnia “peul” (pastori nomadi nell’Africa occidentale), lingua “mandinka” e religione musulmana - non sa dire se sia nato con certezza in Gambia, oppure in Guinea Conackry di cui erano originari i genitori, oppure in Sierra Leone dove era nato il padre che non ha mai conosciuto, mentre la madre l’ha subito ceduto da piccolo a una famiglia adottiva violenta. Di certo c’è che solo il prezioso lavoro del Servizio ambulatoriale di Etnopsichiatria dell’ospedale Niguarda (che ne diagnostica un disturbo schizoaffettivo e ne raccomanda il collocamento in una struttura di accoglienza per avviare un lavoro multiterapeutico) riesce ogni tanto a stabilizzarlo, sebbene tra un ricovero e l’altro interrotti da sue temporanee irreperibilità. Si può rimandarlo in Gambia? Per i tre giudici (la presidente di sezione Laura Tragni, il relatore Olindo Canali e la giudice Martina Flamini) non si può, perché equivarrebbe a consegnarlo al “rischio di atti persecutori come definiti dall’art. 7 del Dlgs. 251/2007”. Infatti, anche se “non è possibile determinare se la patologia si fosse già manifestata prima della partenza dal Paese d’origine”, la legge “richiede sia valutato il rischio futuro in caso di rimpatrio”. Rischio qui indubbio perché, argomenta il Tribunale, “nonostante gli inviti ricevuti dall’Organizzazione mondiale della Sanità, il Gambia non ha ancora provveduto a modificare il “Suspect Lunatic Act”, una legge sulla salute mentale risalente al 1917 e dai contenuti fortemente discriminatori nei confronti dei malati mentali”. I quali, “su una popolazione di oltre un milione”, sono “circa 120.000, elevato numero causato almeno in parte anche dal clima di terrore determinato nelle dinamiche sociali e financo familiari dalla lunga dittatura dell’ex presidente Jammeh”. Inoltre “le ricerche svolte dal giudice relatore hanno consentito di rilevare che frequentemente le persone con malattie mentali subiscono gravi violazioni dei diritti umani: possono essere incatenate, lapidate, picchiate e incarcerate senza motivo, subire abusi fisici e sessuali, essere private di diritti civili e politici (incluso il diritto di voto)”. Questa “generale percezione negativa della malattia” - risposta comunicata dall’ambasciata a Dakar nel confinante Senegal - fa sì che “la società associ (in virtù di credenze culturali) la malattia mentale alla stregoneria” e “percepisca i malati mentali come appartenenti ad un gruppo sociale distinto da quello della restante popolazione, come “meno esseri umani” degli altri”. Processo telematico, no alle comunicazioni delle parti private sulla Pec della cancelleria di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 5 settembre 2019 n. 37126. Illegittima, perché irrituale e non prevista dalla legge, la richiesta di rinvio dell’udienza inviata alla cancelleria del giudice penale tramite posta elettronica certificata. La Corte di cassazione ha respinto il ricorso dell’imputato che lamentava la mancata presa in considerazione, da parte della Corte di appello, della propria richiesta di rinvio dell’udienza. La Cassazione con la sentenza n. 37126depositata ieri ha ribadito che - a differenza del processo civile - tale forma di trasmissione di atti e certificati per le parti private non è consentita in sede penale. Dando per scontato che - a seguito delle novità introdotte dal Legislatore - tanto nel processo civile quanto in quello penale le comunicazioni e le notificazioni per via telematica devono esssere effettuate utilizzando la posta elettronica certificata, ciò non esclude le diversità dei due riti in materia di mezzi di notificazione spendibili al fine di adempiere agli obblighi imposti dalla procedura. Il caso - Il ricorrente sottolineava di aver ottenuto conferma di ricezione della propria richiesta da parte della cancelleria e che ciò dà la certezza della conoscenza della propria richiesta da parte del giudice. Ma tale circostanza dell’avvenuto invio “con successo” sulla Pec della cancelleria non può sanare l’irritualità della trasmissione e quindi far sorgere l’obbligo del giudice a valutare l’istanza dell’imputato. In tal caso - secondo un orientamento più flessibile - la parte avrebbe dovuto attivarsi per segnalare l’avvenuta comunicazione e accertarsi che il giudice ne avesse avuto conoscenza, altrimenti nessun rilievo di illegittimità può farsi nei confronti della sentenza che non ha considerato la richiesta. Motivo della richiesta di rinvio era stato il legittimo impedimento del difensore di fiducia a essere presente e la sua impossibilità a farsi sostituire vista la ristrettezza dei tempi del processo in atto. Sardegna. Aumentano i detenuti nelle carceri sarde, a Massama posti esauriti di Elia Sanna L’Unione Sarda, 6 settembre 2019 I numeri forniti da Maria Grazia Caligaris, che lancia anche un appello alla Regione. Sono in aumento i detenuti nelle carceri sarde. A Massama sono anche esauriti i posti disponibili. La situazione di criticità degli istituti penitenziari della Sardegna è stata denunciata da Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr (Socialismo diritti riforme) che ha lanciato un appello anche alla Regione. Secondo i dati forniti dall’associazione negli ultimi 4 mesi i detenuti sono in costante aumento, con un incremento ad agosto che è stato del 6,19%. Erano infatti 2.148 mentre attualmente sono 2.281. Nello stesso periodo è cresciuto anche il numero dei cittadini stranieri dietro le sbarre. Erano 653 e sono diventati 704 (+7,81%), sulla base dei dati diffusi dal ministero di Grazia e giustizia nel mese di agosto. Numeri che documentano, ancora una volta, come la Sardegna venga utilizzata per alleggerire altre strutture penitenziarie della Penisola facendo venire meno il principio della regionalizzazione della pena. “Occorre ricordare che i detenuti sardi sono 1.086 - osserva Maria Grazia Caligaris - un numero ben diverso da quello attuale dentro le carceri isolane. C’è poi un aspetto molto significativo relativamente alla concentrazione dei ristretti. Soffrono in particolare le Case Circondariali di Cagliari-Uta con 578 presenze (142 stranieri, 25 donne) per 561 posti e Sassari-Bancali con 473 presenze (178 stranieri, 16 donne). Si tratta di 1.051 persone, molte con gravi problematiche psichiche, concentrate in due Istituti dove peraltro il numero degli operatori penitenziari (agenti, educatori e perfino amministrativi) è insufficiente per garantire interventi riabilitativi e di reinserimento sociale. La maggior parte delle persone provenienti dalla Penisola - conclude la presidente di Sdr - sono nelle Case di reclusione di Oristano-Massama, ormai satura con 265 presenze per 265 post. Tempio Pausania 148 per 168 e Badu e Carros 276 per 377 (ma ancora con una sezione chiusa per lavori). Le altre strutture sono più ‘leggerè: Is Arenas 91 detenuti (73 stranieri) per 176 posti; Isili 96 (53 stranieri) per 130 e Mamone Onanì 178 (139) per 386 posti. Infine Alghero 144 (62) per 156 posti”. “Alla carenza di personale non può non aggiungersi quella dei Direttori. Sono ancora 5 per dieci Istituti. Quasi tutti con doppi e tripli incarichi che sono ulteriormente aumentati durante l’estate. Per poter usufruire di qualche giorno di ferie ciascun collega ha dovuto sacrificarsi per garantire l’indispensabile. La situazione delle carceri - conclude Caligaris - non sembra però essere all’attenzione dei Parlamentari sardi. Auspichiamo ancora una volta un serio intervento del Presidente della Giunta affinché l’Isola non sia più considerata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un luogo di smistamento”. Napoli. Carcere di Poggioreale, in piazza le famiglie dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2019 Sabato 7 settembre alle 17 nei pressi del carcere. Un’estate tragica per i reclusi e gli agenti penitenziari che vivono nel carcere di Poggioreale, a Napoli. Sovraffollamento, mala sanità, tragiche condizioni igieniche e umane. Il cosiddetto mostro di cemento è la sintesi di tutti questi problemi che affliggono le patrie galere. Per questo motivo le associazioni delle famiglie dei detenuti hanno indetto una protesta il prossimo 7 settembre. “Non resteremo con le mani in mano ad aspettare che qualcuno si decida a risolvere i problemi dei detenuti che stanno scontando giustamente la loro pena - ha spiegato Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex Detenuti Organizzati Napoletani - per questo abbiamo indetto per sabato 7 settembre alle 17 una manifestazione a piazza Nazionale. Invitiamo i familiari delle persone detenute in questo inferno a scendere in piazza e a manifestare il loro disappunto. Solo così si potranno ottenere risultati a breve e medio termine. Ad ogni modo - ha continuato Ioia - la manifestazione di sabato è solo un primo passo. Nelle prossime settimane chiameremo a raccolta ancora una volta i familiari dei detenuti, che sono poi i veri garanti dei loro diritti, per manifestazioni all’esterno delle carceri della Campania”. I familiari dei detenuti ne chiedono in pratica la chiusura. “Questo carcere è una polveriera pronta a esplodere - ha affermato sempre l’attivista Ioia - e questa estate è stata infernale da tutti i punti di vista. Abbiamo assistito a una fuga, a episodi di risse tra detenuti, rivolte e aggressioni ai danni delle guardie carcerarie. Non si può andare avanti in questo modo in una struttura dove entra di tutto, dalla droga ai telefonini portati dentro da alcuni familiari. C’è bisogno di una profonda riforma del sistema carcerario italiano - ha concluso il presidente dell’associazione Ex Don- ma quello che chiediamo a gran voce è la chiusura definitiva di questo inferno e la trasformazione degli spazi in un museo”. Il carcere di Poggioreale, d’altronde, è salito agli onori della cronaca per diversi fatti, dalla rocambolesca evasione da parte di un detenuto (poi ripreso) alle proteste dure da parte dei detenuti, ma anche per le morti: undici decessi in 18 mesi. Ma c’è anche il dossier dell’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà, dove si fa rifermento ai decessi per suicidio e presunti episodi di maltrattamento. Alcuni ambienti visitati dalla delegazione del Garante sono stati definiti “del tutto inaccettabili”, con celle con cinque, sei, dieci e anche quattordici detenuti. C’è l’esempio del padiglione Milano, dove alcune celle hanno letti a castello anche a tre piani, dove in alcuni casi le brande impediscono l’apertura delle finestre. Un report, quello del Garante, che ha fatto infuriare Maria Luisa Palma, la direttrice del carcere. “Che il carcere napoletano di Poggioreale soffra di condizioni “preoccupanti”, per sovraffollamento e strutture in generale inadeguate e, in alcuni casi, decisamente fatiscenti, non è una novità; ma che se ne evidenzino puntigliosamente tutte le carenze e le deficienze strutturali senza dare atto di tutto quello che si sta facendo ha lasciato l’amaro in bocca”, ha scritto in una nota pubblicata sul giornale on line del ministero della giustizia. “Poggioreale ha problemi, è un errore negare la realtà dei fatti”, ha replicato il Garante Mauro Palma, sottolineando il fatto che una comunicazione dal carcere di Poggioreale invece di arrivare in via istituzionale, è stata diffusa dalla direttrice attraverso altre vie. Voghera (Pv). La direttrice Mussio: “Il carcere sappia stimolare” di Luca Imperatore gnewsonline.it, 6 settembre 2019 “È molto importante rendere l’istituto penitenziario un luogo adeguato e stimolante perché solo così si traduce in concreto il rispetto della dignità delle persone detenute”. Con queste parole la direttrice della casa circondariale di Voghera, Stefania Mussio, descrive il modello rieducativo che sta applicando. Da poco alla guida del carcere “Nuovo Complesso”, Mussio ha trovato in Michela Morello (comandante del reparto di Polizia Penitenziaria), Fortunata Di Tullio e Adele Ianneo (educatrici) l’adeguato supporto al suo progetto. L’obiettivo è avvicinare la comunità vogherese al carcere e instaurare una collaborazione tra istituto, associazioni di volontariato e gli enti territoriali. Due esempi recenti: il “Ferragosto solidale”, evento durante cui i detenuti hanno rinunciato al pasto per donarlo ai bisognosi attraverso la Caritas Diocesana; l’esposizione del presepe artigianale realizzato da alcun ospiti della Casa Circondariale nella sala comunale durante il mese di dicembre. Le esclusive creazioni realizzate nei molti laboratori artigianali all’interno dell’istituto (dolciario, sartoria, falegnameria ecc..) vengono esposte e diffuse nelle manifestazioni organizzate sul territorio. Il carcere vogherese è stato presente all’ultima edizione della Fiera dell’Ascensione e, lo scorso luglio, presso la Basilica del Santuario di Nostra Signora della Guardia a Tortona. “Attraverso il coinvolgimento dei detenuti vogliamo incoraggiare la responsabilizzazione individuale perché in un clima costantemente formativo deve esserci sempre l’impulso a migliorare tecniche, competenze e risultati” afferma Mussio. “Ad oggi possono lavorare all’esterno - aggiunge la direttrice - circa dieci persone e parte della loro giornata lavorativa è dedicata al volontario proprio per mettere le energie professionali a disposizione della società”. Il prossimo appuntamento solidale che vedrà coinvolti i detenuti e tutto il personale dell’istituto penitenziario si svolgerà a Tortona a fine novembre quando, nel teatro da 400 posti del centro anziani, si svolgerà un concerto di musica jazz. In questa occasione saranno venduti biscotti e altri prodotti artigianali prodotti dai detenuti del reparto di alta sicurezza. L’ingresso sarò a offerta libera e il ricavato verrà devoluto per finanziare le attività della Casa Circondariale e per aiutare un istituto che accoglie bambini disabili. All’interno dell’istituto si sta realizzando finalmente una palestra e, grazie alle donazioni della collettività, sono stati acquistati nuovi attrezzi sportivi. “L’intento è incentivare la pratica dello sport come strumento di autodisciplina in un clima di sano agonismo e rispetto delle regole”. Altro importate settore dove confluiscono energie è la riqualificazione della scuola (per la licenza media e media superiore). Da poco è stata ritinteggiata, creata un’aula magna e migliorato l’arredo delle aule che ospitano i detenuti studenti. Gli agenti di Polizia Penitenziaria saranno protagonisti il 13 settembre nel Museo storico di Voghera (qui è conservata la A112 del Generale Alberto Dalla Chiesa distrutta dall’attentato del 3 settembre 1982) dove si svolgerà la Festa del Corpo. “Sarà - conclude Mussio - l’occasione giusta per ringraziarli del prezioso lavoro che svolgono nell’istituto”. Perugia. Rivolte al carcere di Capanne. Le cause secondo chi vi svolge volontariato di Valentina Russo lavoce.it, 6 settembre 2019 Nell’aprile scorso il Garante dei detenuti Stefano Anastasia, in una relazione alla Terza commissione consiliare della Regione Umbria, aveva già evidenziato le principali criticità delle carceri umbre: la crescita della popolazione penitenziaria abbinata alla scarsità delle risorse pubbliche disponibili; condizioni di vita e di salute dei detenuti contrassegnate dalla difficoltà di accedere alle visite specialistiche e agli esami diagnostici; la mancanza lamentata dai detenuti di attività di reinserimento e di un adeguato sostegno alle iniziative culturali. È in questo clima che si sono venuti a creare, nei giorni scorsi, due gravi episodi di rivolta all’interno della casa circondariale di Capanne a Perugia. “Il problema è che i detenuti non hanno molte possibilità di lavorare. Se non lavorano, non hanno quei 50/100 euro al mese per pagarsi delle piccole cose che vogliono comperarsi: un caffè, una pasta in più, le sigarette, i vestiti. Non essendo autonomi economicamente si sentono sempre nel bisogno. In più va aggiunto il sovraffollamento, la reclusione, il caldo. Quindi, in queste condizioni, basta poco per provocare il caos”. Questo il commento sulla vicenda di suor Carla Casadei, che da anni presta il suo servizio in carcere con con l’Associazione perugina di volontariato. Nei mesi invernali suor Carla si reca nella sezione femminile per un laboratorio di cucito insieme ad un’altra volontaria che è modellista. “Andiamo per due ore alla settimana e facciamo fare alle detenute dei piccoli lavoretti”. Durante tutto l’anno poi si reca nella sezione maschile per i colloqui personali. “Le attività lavorative - continua Casadei - vengono concesse solo ad alcuni tipi di detenuti, nel fine pena o per pene lunghe. Però non sono organizzate in maniera continuativa, ma per turni. Ecco quindi che per 2 mesi svolgono la mansione di scopini, portavitto (coloro che portano il cibo nelle celle), bibliotecari, cuochi. Però su circa 300 detenuti, a lavorare saranno una ventina e per un tempo limitato. Bisognerebbe poi coinvolgere più aziende esterne. Dentro il carcere di Perugia c’è una piccola attività aziendale che viene dall’esterno, la Plurima, che fa fascicolazione di documenti, ma sono coinvolti solo 3 detenuti”. È dello stesso parere padre Francesco Bonucci, cappellano del carcere di Capanne, intervistato da Umbriaoggi.news. “Penso che queste persone hanno bisogno di essere più impegnate durante la giornata perché passano la maggior parte del tempo senza far nulla e questa è la cosa più urgente. Dopo tanto tempo senza avere niente da fare anche la persona più normale impazzisce” ha dichiarato Bonucci. Cosa ne pensano invece politici ed istituzioni? “La soluzione è costruire nuovi carceri e non certo far uscire i delinquenti, sia chiaro” ha detto Emanuele Prisco (continua a leggere sull’edizione digitale de La Voce). Rovigo. Primo step per l’avvio al lavoro dei detenuti rovigooggi.it, 6 settembre 2019 Assistedil, ente di formazione Bilaterale ha tenuto il mese scorso un corso sicurezza base, nella nuova casa circondariale di Rovigo, rivolto ai detenuti. “Assistedil propone proposte formative - che vengono tradotte in “unità di competenza” e che trovano risposta attraverso la progettazione e lo sviluppo di interventi formativi di specifico riferimento settoriale nell’ambito del comparto edilizio e delle costruzioni. - afferma il presidente dell’Ente Franco Girardello. Progettare processi di formazione efficaci per i nostri utenti non significa consegnare un semplice pacchetto di indicazioni nozionistiche, al contrario ogni percorso è il risultato di un piano formativo organico che tende a strutturare, solidificare e rafforzare in maniera completa la crescita professionale che rientra nel progetto più ampio di Assistedil riguardo alla formazione continua. Dopo questa prima positiva esperienza, in accordo con la Direzione della Casa circondariale, proporremo anche attività professionalizzanti, in modo da permettere ai detenuti, una volta usciti, di reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro, anche attraverso i Servizi al Lavoro (Work Experience, Assegno per il lavoro ecc) per i quali il nostro Ente è accreditato presso la Regione del Veneto”. “L’offerta formativa propone 2 principali macro aree: formazione in materia di salute, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro: Formazione obbligatoria prevista dai disposti normativi per lavorare in sicurezza che nel 2018 ha visto la realizzazione di 84 corsi per un totale di 5.373 ore erogate, con il coinvolgimento di 928 utenti- interviene il vice presidente Assistedil Gino Gregnanin - corsi professionalizzanti: Competenze integrate e metodologia innovativa per raggiungere obiettivi professionali e personali con 7.342 ore di formazione erogate per 162 utenti”. “La Direzione della Casa Circondariale di Rovigo, - ha dichiarato il Claudio Mazzeo Responsabile Area Trattamentale Cc Rovigo - nell’esprimere apprezzamento per l’attività espletata, che ha consentito l’acquisizione di un attestato di formazione, primo step per eventuali avvii di ammissione al lavoro sia all’interno dell’Istituto che all’esterno, conferma la bontà dell’iniziativa e auspica che la stessa non sia fine a se stessa ma rappresenti l’avvio di un percorso formativo professionale a carattere continuativo e permanente. Come riferito dalla Responsabile dell’Area Trattamentale di questo Istituto, i 15 ristretti che hanno ottenuto il relativo attestato hanno partecipato con impegno ed interesse al corso, senza il verificarsi di alcuna criticità”. Al termine del percorso, che ha fornito ai partecipanti una formazione adeguata in merito ai principali dettami previsti dal d.lgs. 81/08 e s.m.i., ovvero le nozioni in materia di igiene, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che dovranno poi essere utilizzate come veri e propri strumenti operativi, con il superamento delle verifiche, i partecipanti hanno ottenuto l’attestato previsto dalla normativa per l’accesso ai luoghi di lavoro. Reggio Emilia. I detenuti protestano: lunga trattativa per ripristinare l’ordine reggionline.com, 6 settembre 2019 Alle 20 gli ospiti di una intera sezione si sono rifiutati di rientrare nelle celle. Necessario l’arrivo di rinforzi. Da tempo i sindacati della polizia penitenziaria lamentano gravi carenze di organico. Una protesta pacifica, ma che ha costretto la polizia penitenziaria ad attivare rinforzi e il suo comandante ad una lunga trattativa con i detenuti. È accaduto tutto ieri all’interno del carcere di Reggio, dove gli ospiti di una intera sezione si sono rifiutati di rientrare nelle celle alle 20, orario di chiusura serale. Al termine di una estenuante trattativa, il comandante è riuscito a ripristinare l’ordine. A denunciare l’accaduto è il vicesegretario regionale del sindacato Osapp Giuseppe Saracino. Da tempo i sindacati della polizia penitenziaria lamentano gravi carenze di organico all’interno della casa circondariale cittadina. Busto Arsizio. Carcere, colloqui su Skype di Angela Grassi La Prealpina, 6 settembre 2019 L’istituto bustese è tra i primi a varare questa opportunità per i detenuti e le loro famiglie. In via Per Cassano, dove 430 detenuti sono tenuti sotto controllo da poco meno di 170 agenti di polizia penitenziaria, la tecnologia offre un prezioso supporto. L’istituto diretto da Orazio Sorrentini ha attivato la possibilità di svolgere i colloqui tramite Skype: videochiamate sostituiranno le trasferte di parenti lontani, un aiuto importante per chi è straniero e per chi, italianissimo, ha genitori anziani e malati. Dopo una breve sperimentazione al carcere di Bollate, la casa circondariale di Busto Arsizio è tra le prime in Lombardia a dar concretezza alla circolare del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, che parifica le videochiamate alla visita diretta in istituto (al punto che il monte ore non cambia, restano in tutto sei ore al mese). “Abbiamo dato il via alla procedura - chiarisce il comandante Rossella Panaro - Siamo ai primi passi, c’è da attendere qualche giorno. Le sedi lombarde dovranno partire insieme. A Bollate la precedente esperienza era stata bloccata per problemi relativi alla sicurezza delle linee, ora il sistema Skype for business è stato collaudato dal Dipartimento. Siamo attivi, dobbiamo attendere le richieste dei detenuti”. Le regole sono chiare. “Per noi agenti - spiega il comandante - è un vantaggio: in precedenza chi otteneva un video colloquio veniva mandato in permesso di necessità a Casa Onesimo e poi alla Casa di Francesco a Gallarate. Ora il pc è stato fornito dal Dipartimento”. Un bell’aiuto per gli stranieri?n”Non solo, anche gli italiani hanno parenti anziani che non si possono muovere. Tutto viene controllato dalla polizia penitenziaria da una postazione remota: un controllo visivo non auditivo, occorre evitare che si introducano nel dialogo persone non autorizzate preventivamente, ci sono procedure chiare di riconoscimento visto che qualcuno potrebbe camuffarsi”. La circolare risale al 29 gennaio, fa riferimento alla disciplina già prevista per i normali colloqui. Fra i detenuti sta girando un volantino chiarificatore: “I vostri parenti dovranno scaricare Skype for business su pc o smartphone e registrarsi gratuitamente. Devono avere un contratto telefonico, fisso o mobile, che garantisca l’accesso a internet”. Per i meno esperti non mancherà il supporto degli operatori, “è un vostro diritto - si precisa - che il nostro istituto attiva ben prima di tanti altri”. Non serve la cosiddetta “domandina”. Basta rivolgersi all’assistente nella propria sezione, allegando i dati e la foto del destinatario della chiamata, uno stato di famiglia o l’autocertificazione che attesti il grado di parentela. L’estate è volata, riuscendo a organizzare qualche attività nonostante gli educatori arrivino ancora “in missione” e non siano stabili. I detenuti non sono mai scesi sotto quota 400, mentre gli agenti restano in sottonumero. Trieste. “A mano libera 2019”: quando l’arte entra nelle carceri triesteallnews.it, 6 settembre 2019 L’arte come riflessione sul tema della “pena” e la creazione di una finestra aperta verso il mondo esterno, sull’esperienza e sulle speranze delle persone detenute. Questi gli obiettivi del bando nato un anno fa e rivolto alle sedici carceri del Triveneto nel cui ambito sarà inaugurata, venerdì 6 settembre, alle ore 18.30, nella sala espositiva A. Fittke di Piazza Piccola 3, l’esposizione degli elaborati del concorso artistico per persone detenute “A mano libera”, a cura del Progetto Area Giovani del Comune di Trieste e organizzata dal gruppo di ragazzi scout appartenenti al “Clan arcobaleno” del gruppo Agesci TS 2 nord-est. All’inaugurazione saranno presenti coloro i quali hanno anche collaborato al progetto: lo scrittore Pino Roveredo, la Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Elisabetta Burla, il giornalista Gianpaolo Sarti, l’assistente sociale Annalisa Castellano, la responsabile di strutture socio-educative Silvia Chiodo, la docente di storia dell’arte Lucia D’Agnolo, l’assistente sociale Fausta Favotti, l’artista ed esperta d’arte Manuela Sedmach, il coordinatore della cooperativa Hanna House Lorenzo Tortora e l’assistente sociale Paola Turelli. L’esposizione rimarrà aperta anche sabato 7 e domenica 8 dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle ore 16.30 alle ore 18.30. Cammina, cammina, cammina. Ecco l’alternativa al carcere di Luigi Manconi e Federica Graziani La Repubblica, 6 settembre 2019 Il documentario “Boez-Andiamo via” su Raitre. Cinque uomini e una donna, tutti condannati, in pellegrinaggio per 900 chilometri da Roma a Santa Maria di Leuca. “Col passar del tempo, l’uomo, animale abitudinario, assume la forma del carcere anche nel mondo dei sogni”, diceva Altiero Spinelli, padre dell’unione europea, a lungo detenuto durante il fascismo. E in effetti, quali sono le sedi della cultura e della politica che coltivano l’abitudine a pensare a luoghi della pena diversi dal carcere? In Italia, sembra inesorabile, il castigo che merita chi ha commesso un reato è la prigione. Con la sua vita di corpi ristretti, di muri, sbarre e porte blindate, di richieste - le più elementari, una telefonata a casa, l’acquisto di un farmaco, un maglione in più - che si trasformano in “domandine”, aspettano risposta, nell’attesa spesso si smarriscono e allora si ricomincia. E, ancora, la vita in carcere è fatta di solitudine, di ore d’aria in cortili di cemento, di terapie e trattamenti, di famiglie costrette a spostarsi di istituto in istituto per incontrare chi sta dentro, di violenze e paura, di giorni pallidi, in cui oggi sarà uguale a domani. Ma questo importa poco, le prigioni sono inaccessibili, della vita che vi si svolge si sa poco o niente e in ogni caso rinchiudere gli individui che potrebbero costituire un pericolo per la comunità pare essere inevitabile ai fini della sicurezza. Eppure qualcuno contraddice la frase di Spinelli e dimostra che immaginare qualcosa di diverso dalla cella chiusa è possibile. Cinque uomini e una donna, tutti condannati per diversi reati, escono dalla loro detenzione e si mettono in cammino. Dal Colosseo di Roma percorrono a piedi 900 chilometri, fino ad arrivare all’estremità della penisola, a Santa Maria di Leuca. Non si tratta di una riuscita evasione di gruppo, ma di un progetto di sperimentazione del cammino come pena alternativa al carcere, frutto della collaborazione fra la Rai e il ministero della Giustizia. Per sessanta giorni, scarponi ai piedi e zaino in spalla, i sei condannati, accompagnati da una guida escursionistica, da un’educatrice di comunità e da una troupe televisiva, percorrono la via Francigena, strada antica, che per secoli i pellegrini hanno attraversato per arrivare in Terrasanta. E il loro viaggio è raccontato da un documentario in dieci puntate, Boez - Andiamo via, in onda ogni sera dallo scorso lunedì alle 20.20 su Rai 3 fino al 13 settembre, escluso in fine settimana. Sembra assurdo. Cosa c’è di più distante dall’immobilità delle mura carcerarie del movimento continuo della strada? Cosa di più lontano dalla segretezza delle celle degli incontri quotidiani del pellegrino, dettati dal bisogno di ospitalità? Per compiere il salto richiesto e riunire due figure così antitetiche come quelle del carcerato e del camminatore non c’è niente di meglio della concretezza dei dati. Il camminare come dispositivo di esecuzione della pena in luogo del carcere ha una storia già antica in altri paesi europei e, come dimostra l’intero sistema delle misure alternative, funziona. In Italia, l’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni detentive illustra che delle oltre 44 mila misure in esecuzione nel primo semestre dello scorso anno, soltanto il 3,4 per cento è stato revocato. E di queste solo lo 0,5 per la commissione di nuovi reati. Il carcere, al contrario, non funziona, è anacronistico, non rende più sicure le nostre comunità, indebolisce le possibilità di inclusione ed è spesso criminogeno. Molto meglio, per così dire, tentare nuove strade. La “via della coca” nella trama mondiale del narcotraffico di Cristina Piccino Il Manifesto, 6 settembre 2019 Venezia 76. Presentata fuori concorso “ZeroZeroZero”, la serie tv di Stefano Sollima tratta dal libro di Roberto Saviano. ZeroZeroZero aveva all’origine una scommessa: tradurre in formato serie tv il libro di Saviano (Feltrinelli) sull’impero del narcotraffico, dai cartelli sudamericani al resto del mondo, Italia in prima linea, attraverso gli accordi ferrei tra ‘ndranghete e mafie varie. Una rete in cui tutti sono coinvolti, politici, imprenditori, poliziotti: “La coca la sta usando chi è seduto accanto a te ora in treno e l’ha presa per svegliarti stamattina … Fa uso di coca chi ti è più vicino …” ineluttabile come il fato delle tragedie greche, soldi e potere, binomio primigenio del mondo. Eccoci dunque nell’Aspromonte di capre e rifugi raffinatissimi quel binomio di sangue arcaico e nuove tecnologie del crimine già in Anime nere di Munzi. Nel Messico di miliardi e miseria, dei poveracci che tagliano la coca e rischiano la vita, del lusso strafottente delle ville dei narcotrafficanti, quelli in “alto”, tra le cene di affari armate come un bunker, l’esercito che combatte i cartelli con gli stessi metodi, avidi di denaro, corrotto e corruttibili, senza scrupoli, e il resto del mondo, “pulito” e raffinato complice nell’iperspazio della finanza. Ma Stefano Sollima che firma la regia di ZeroZeroZero - otto puntate su Sky Atlantic nel 2020 - di cui al Lido, dove è arrivato anche Saviano, sono stati proposti i primi due episodi, The Shipment e Tampico Skies, è un regista che il “genere” sa usarlo al meglio per decostruirlo con deotur (Soldado) e dall’interno (Gomorra) mantenendo il controllo di stile anche in una produzione globale come questa: set diviso tra America, Europa, Africa su cui si sono alternati Andrea Risebourough (Birdman), Gabriel Byrne, Dane DeHaan, Giuseppe De Domenico, Francesco Colella tra gli altri, e che oltre Sollima ha poi incluso altri due registi “di genere” come Pablo Trapero (con Il clan Leone d’oro alla regia nel 2015) e Janus Metz (Borg McEnroe). La sua “via della coca” è punteggiata da i riferimenti riconoscibili di un immaginario “popolare” che la regia muove, spiazza, rende mobili, nervosi, funzionali, col gusto di usare ogni codice possibile. Seguendo una storyline - con Sollima hanno lavorato Leonardo Fasoli e Mauricio Katz - di vicende private, scontri familiari, lotte padri-figli, eredità inattese nella trama mondiale del narcotraffico lavora sul fraseggio del ritmo, va avanti e indietro nel tempo., frammenta i punti di vista dispiegando un “prologo”perfetto al viaggio del container di coca in cui le diverse parti coinvolte è un campo di forza nel gioco “reale” del nostro mondo. Dissemina piste, mischia i generi, accumula possibilità e ambizioni: una sfida seriale. Francia. “Brutale e razzista” : il rapporto che inchioda la polizia di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 settembre 2019 Human Rights Watch accusa Parigi di violare i diritti dei minori immigrati. Respingimenti illegali, mancanza di alloggi adeguati, procedure illegali per il riconoscimento della minore età, scarsa possibilità di accedere a istruzione e strutture sanitarie. L’ultimo rapporto dell’organizzazione umanitaria Human Right Watch si è concentrato sulla situazione dei migranti minori non accompagnati al confine tra Italia e Francia. Le violazioni dei diritti dei giovani immigrati, che spesso tentano il passaggio del confine su sentieri ghiacciati e senza equipaggiamento adeguato, sono numerose. Non a caso il rapporto prende in esame ciò che succede nelle regione delle Alte Alpi e si basa su diverse testimonianze (almeno una sessantina) di ragazzi tra i 15 e i 18 anni. Sotto accusa le autorità francesi, colpevoli di compiere procedure contrarie al diritto internazionale sulla protezione dell’infanzia. Bènèdicte Jeannerod di HRW spiega come “durante il colloquio di valutazione i ragazzi vengono spesso accusati di mentire e ogni loro racconto viene strumentalizzato per non riconoscere arbitrariamente la loro minore età”. Un’ “abitudine” già denunciata da ong come Oxfam. In un altro rapporto infatti si raccontava della polizia che “ferma i bambini stranieri soli e li obbliga a salire su treni diretti in Italia dopo averne alterato i documenti per farli apparire più grandi o facendo sembrare che vogliano tornare”. Oxfam parlava chiaramente della registrazione dei minori come maggiorenni, di detenzione senza cibo o coperte e senza un tutore legale. Fecero scalpore anche le testimonianze sui furti delle Sim telefoniche e il taglio delle scarpe per impedire la prosecuzione del viaggio verso la Francia. Ma le accuse riguardano anche il comportamento degli agenti nei confronti dei volontari che aiutano i migranti a passare il confine o che soccorrono chi è in difficoltà. Nonostante il riconoscimento del “principio di fratellanza” da parte della Corte costituzionale francese dopo il caso di Cedric Herrou (il contadino della Val Roya più volte sanzionato penalmente per la sua opera di solidarietà), nulla sembra essere cambiato. Il rapporto di Human Rights Watch attribuisce alla polizia francese atti “intimidatori” per “impedire le attività umanitarie”. La ong ha spiegato cosa succede: “i loro veicoli vengono perquisiti, subiscono controlli di identità non giustificati oppure finiscono in tribunale”. Le conseguenze per i “solidali” possono essere pesanti. Chi aiuta i migranti a entrare in Francia rischia fino a 5 anni di prigione e 30mila euro di multa. Libia. Salamé (Onu): “Migranti e rifugiati continuano a essere detenuti” specialelibia.it, 6 settembre 2019 L’Inviato del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salamé, durante il suo briefing al Consiglio di Sicurezza del 4 settembre ha detto che “ a seguito della mia richiesta di chiusura graduale e progressiva di tutti i centri di detenzione che ospitano migranti e rifugiati, il 1 ° agosto il Ministro degli Interni ha ordinato la chiusura di tre di questi centri. Le Nazioni Unite hanno presentato un piano di emergenza al Governo di Accordo Nazionale sulle opzioni alternative alla detenzione. Questo piano include il rilascio in contesti urbani con assistenza, assistenza sanitaria necessaria, accesso al mercato del lavoro e identificazione di soluzioni durature al di fuori della Libia. Questi centri devono essere chiusi attraverso un processo graduale e deliberato in cui alle agenzie delle Nazioni Unite competenti vengono forniti i mezzi necessari per assistere questa popolazione vulnerabile”. Salamè ha poi aggiunto che “nonostante questi appelli e le dichiarazioni del Governo di aver chiuso il centro di detenzione di Tajoura - che è stato il sito dell’attacco mortale a luglio - i migranti continuano ad essere inviati lì. Migranti e rifugiati continuano a essere detenuti in composti controllati da gruppi armati che li mettono in grave pericolo. Quasi 500 di coloro che sono fuggiti dall’attacco di luglio al centro di detenzione di Tajoura sono entrati spontaneamente nella struttura di raccolta e partenza gestita dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale. Con oltre 1.000 rifugiati, le infrastrutture della struttura di raccolta e di partenza sono troppo strette e la situazione umanitaria nella struttura si sta rapidamente deteriorando”. Centinaia di migranti e richiedenti asilo sono stati intercettati dalla guardia costiera libica nelle ultime settimane. “Alcuni vengono ora liberati e altri vengono consegnati ai centri di detenzione, sappiamo almeno 3 casi. L’Unsmil ha continuato a ricevere segnalazioni di detenzione arbitraria a tempo indeterminato di migranti e rifugiati, estorsioni e percosse, traffico e condizioni disumane di detenzione, tra cui grave sovraffollamento e carenza di cibo e acqua. Sono necessari finanziamenti urgenti per il piano di risposta umanitaria 2019 per consentirci di continuare a rispondere alle esigenze dei più vulnerabili in Libia, compresi i migranti”. Ha sottolineato il capo della Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia. Brasile. Se l’Amazzonia brucia è anche colpa nostra di Massimiliano Jattoni Dall’Asén Corriere della Sera, 6 settembre 2019 Se il fuoco sta divorando l’Amazzonia, un po’ di colpa l’abbiamo tutti. Chi scrive questo pezzo, chi lo sta leggendo, i nostri amici e parenti. Nessuno escluso. Tutti abbiamo gettato una goccia di benzina sulle fiamme che stanno soffocando il polmone verde del nostro pianeta. E ciò che lega il disastro ambientale che si sta consumando in Sud America a tutti noi è il nostro smartphone. O meglio, il sottile filamento d’oro che al suo interno ci permette di telefonare in ogni angolo del mondo e di surfare sul web. Per salvare l’Amazzonia, prima che boicottare la carne bovina brasiliana, come rappresaglia agli incendi appiccati dagli allevatori affamati di spazi per le loro mandrie, dovremmo insomma gettare i nostri telefonini. Gli oltre 120 milioni di apparecchi che si trovano solo nelle case degli italiani sono infatti piccole miniere di rame, ferro, argento e, appunto, oro. E “non c’è modo di far uscire l’oro delle miniere dell’Amazzoni senza distruggere la foresta”, come ha dichiarato al sito BuzzFeed News Miles Silman, co-fondatore del Centro de Innovación Científica Amazónica della Wake Forest University. “Più acri si tagliano, più oro si ottiene”, ha spiegato. “E il rapporto è direttamente proporzionale”. La fame di oro non riguarda, dunque, solo il mondo dei gioielli, che è la categoria che più ne fa richiesta. Ma anche la tecnologia. E in maniera sempre più massiccia. Piccole correnti elettriche attraversano costantemente i nostri iPhone o i computer portatili, e a portare quella corrente è appunto l’oro, ottimo conduttore di elettricità, resistente alla corrosione. Secondo uno studio del 2015 di E-waste Lab di Remedia in collaborazione con il Politecnico di Milano, un comune cellulare contiene, tra i vari metalli, 250 milligrammi di argento e 24 di oro. Per BuzzFeed News, invece, un iPhone 6 contiene solo 0,014 grammi di oro. Poca cosa, ma se sommiamo le pagliuzze d’oro che compongono i conduttori elettrici del miliardo e mezzo di smartphone venduti in tutto il mondo solo nel corso del 2018, raggiungiamo una cifra da capogiro: non meno di 335 tonnellate d’oro. E la domanda del metallo giallo per la tecnologia è destinata a crescere. Così, la foresta pluviale amazzonica si sta trasformando nella California della corsa all’oro del 1850. E se le miniere ufficiali non riescono a stare dietro alle richieste dell’industria, in Amazzonia sta fiorendo un’economia legata all’estrazione mineraria illegale. Secondo uno studio del Centro de Innovación Científica Amazónica del 2018, l’estrazione artigianale di oro condotta da minatori indipendenti (che spesso vuole dire senza permesso estrattivo) ha sradicato quasi 250mila acri di foresta nella sola regione di Madre de Dios in Perù, dove Miles Silman concentra il suo lavoro. Un altro studio, condotto nel 2015 da ricercatori dell’Università di Puerto Rico, calcola in circa 415mila gli acri di foresta tropicale persi in tutto il Sud America a causa dell’estrazione dell’oro. In Brasile, infine, un’area lunga circa 100 metri e larga 75, l’equivalente di un campio da calcio, scompare ogni minuto, come ha dimostrato la BBC pubblicando i dati ottenuti dal monitoraggio satellitare. Per correre ai ripari, i controlli sulla filiera dell’oro sono stati intensificati. Negli Stati Uniti sono già diverse le società che commerciavano nel metallo giallo chiuse perché scoperte ad acquistare da miniere fuorilegge. Google e Apple hanno fatto sapere a BuzzFeed News di aver affidato a società esterne il controllo per garantire che le fonderie dove si riforniscono siano conformi ai regolamenti. “Se una raffineria non è in grado o non vuole soddisfare i nostri standard”, ha spiegato il portavoce di Apple, “viene rimossa dalla nostra catena di fornitori. Dal 2015 abbiamo smesso di lavorare con 60 raffinatori d’oro proprio per questo motivo”. Ma l’oro “sporco” non finisce solo nell’elettronica. Un rapporto del 2015 di Ojo Publico riferisce che le aziende legate alla London Bullion Market Association, un’organizzazione internazionale che rappresenta il mercato dell’oro e ne determina il prezzo, hanno acquistato metalli preziosi da campi minerari illegali in Perù, Bolivia e Brasile. Secondo Fairtrade Gold, una delle prime organizzazioni al mondo che certificano la provenienza dei metalli preziosi da mercati etici, stima che dal 15% al 20% dell’oro che troviamo in gioielleria e nell’elettronica ha origine da estrazioni in miniere di piccole dimensioni e, dunque, spesso poco o nulla controllate. Va detto che le miniere hanno un impatto sulla foresta inferiore all’industria della soia o all’allevamento del bestiame, che nella loro espansione abbattono molti più acri. Ma questo solo in apparenza. Secondo Miles Silman, le emissioni di carbonio delle miniere hanno un’impronta ambientale da tre a otto volte più grande di quanto lo abbiano gli acri persi a causa delle attività estrattive. Oltre a sradicare alberi e altre piante, i minatori scavano tra i 2 e i 4 metri di profondità nel terreno, dove il suolo è ricco di carbonio. L’estrazione dell’oro impoverisce così i terreni e libera elementi che uccidono i nutrienti necessari alle piante della foresta pluviale. Ma non finisce qui. Oltre al problema della devastazione ambientale, il mercurio, usato come amalgama per separare l’oro dagli elementi di scarto, contamina l’approvvigionamento idrico e alimentare della regione. Secondo il National Institutes of Health degli Stati Uniti, l’estrazione artigianale su piccola scala dell’oro è la principale causa del mercurio rilasciato nell’ambiente. I ricercatori hanno trovato alti livelli di mercurio nelle persone che vivono lungo il confine tra Brasile e Venezuela, nella zona di Madre de Dios in Perù e in Suriname, che ora sono a rischio di sviluppare gravi patologie al sistema nervoso, digestivo e immunitario. Nonostante i pericoli, è improbabile che l’estrazione dell’oro nella regione amazzonica rallenti. Come sappiamo, il presidente brasiliano Bolsonaro ha limitato le leggi di tutela ambientali del paese e sta lavorando per aprire maggiormente l’Amazzonia all’estrazione mineraria. La nostra generazione potrebbe dunque assistere al più grande disastro ecologico della storia. E sarebbe irrecuperabile. Russia-Ucraina. Scambio di detenuti vicino, Kiev libera sospettato abbattimento volo MH17 La Repubblica, 6 settembre 2019 Sempre più imminente lo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina che dovrebbe rilanciare i cosiddetti accordi di Minsk per porre fine al conflitto nel Donbass costato la vita a circa 13 mila persone. Il presidente Vladimir Putin ha detto che le negoziazioni sono alla “fase finale” parlando dal Forum economico orientale di Vladivostok nel giorno in cui Kiev ha liberato su cauzione Volodimir Tsemakh, ex responsabile della “difesa anti-aerea” delle forze separatiste filorusse nell’Est Ucraina. Arrestato lo scorso giugno, l’uomo è sospettato di essere coinvolto nell’abbattimento del volo MH17 nei cieli dell’Ucraina orientale nel 2014 su cui indaga il Joint Investigative Team a guida olandese - la maggior parte delle 298 vittime era originaria dei Paesi Bassi. “Se farà parte dello scambio allora è difficile dire che riusciremo a interpellarlo quando sarà in Russia”, ha commentato all’Ap Brechtje van de Moosdijk, portavoce degli inquirenti olandesi, invitando Kiev a non trasferire il detenuto. Anche l’associazione olandese delle vittime è preoccupata che Tsemakh possa “sparire”, mentre mercoledì 40 deputati europei avevano inviato una lettera aperta al presidente ucraino Volodimir Zelenskij chiedendogli di scongiurare il rilascio. Kiev, che ha già rilasciato il giornalista russo Kirill Vyshinsky, spera nel rilascio di decine di prigionieri ucraini. Tra loro, il regista Oleg Sentsov che nei giorni scorsi è stato trasferito da un carcere negli Urali a Mosca e i 24 marinai arrestati dopo lo scontro navale nello stretto di Kerch un anno fa. Secondo Putin, è difficile decidere quali prigionieri parteciperanno, ma l’imminente scambio “sarà su larga scala e sarà un passo avanti verso la normalizzazione dei rapporti”.