Mauro Palma: “Carceri e diritti, situazione allarmante. Ora un po’ di equilibrio” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 settembre 2019 Per il Garante dei detenuti, Viminale e ministero di Giustizia hanno una chance. Da non perdere. “Attualmente ci sono 60.785 detenuti in meno di 47 mila posti letto. Ma non è solo un problema di sovraffollamento. Oltre 16 mila reclusi devono scontare ancora meno di due anni di carcere. Il confronto al vertice tra culture diverse - dal populismo penale al garantismo - che pure esistono nel Paese, può riaprire un dibattito necessario sull’esecuzione penale”. Mauro Palma dal punto di vista del Garante delle persone private della libertà cosa pensa della nomina di Luciana Lamorgese, ex prefetto di Milano e ex capo gabinetto di Angelino Alfano al Viminale, a nuovo ministro dell’Interno? Un prefetto d’esperienza come lei è una buona occasione per sviluppare una politica che risponda insieme a due esigenze apparentemente contrapposte: quella della sicurezza e quella della risposta umanitaria. C’è bisogno di far crescere culturalmente il Paese, abbandonare la logica del rifiuto nei confronti di persone che arrivano per cercare un inserimento. Lamorgese è sicuramente una persona che può rappresentare questo punto di equilibrio. Io ero scettico sulla possibilità di mettere al Viminale una personalità molto schierata contro le politiche adottate finora dal ministro Salvini, tanto più in un governo che nasce nelle aule parlamentari e non da una sconfitta elettorale, perché avrebbe potuto suscitare un rigurgito sociale negativo. È necessario piuttosto ricostruire un tessuto di dialogo, sviluppare una cultura più serena rispetto a situazioni oggettivamente difficili. Non basta negare la fondatezza della percezione, diffusa nella società, di essere aggrediti dai migranti. Bisogna trovare il modo di far capire che la contingenza può essere vissuta in maniera più armonica. Da quel poco che ho potuto vedere - ho conosciuto la prefetta Lamorgese nel 2016 quando è stato attivato l’ufficio del Garante - lei è una persona che dà molta fiducia ai corpi intermedi, agli svincoli di mediazione, alle autorità di garanzia. Quindi sono molto fiducioso. Alla Giustizia è stato confermato il ministro Alfonso Bonafede. Una buona notizia? Se devo fare un bilancio di ciò che c’è stato finora dal punto di vista dell’esecuzione delle sentenze e del carcere, devo dire che siamo tornati ad una situazione che definire molto allarmante è poco. In questo istante, 60.785 persone sono detenute nelle carceri italiane che contano 50.462 posti letto, di cui però 3.700 non sono utilizzabili per lavori vari. C’è dunque un problema di sovraffollamento, ma non solo. Mentre nei mesi scorsi c’era stato un rallentamento, ora il numero di detenuti è tornato a crescere. E non c’è un aumento dei reati, lo abbiamo detto tante volte, né un aumento degli ingressi in carcere. Aumentano invece le “non uscite”. Perché, cosa è cambiato? È cambiato che oggi parlare di misure alternative è come pronunciare una parolaccia. Più in generale possiamo dire che c’è un problema di osmosi tra il dentro e il fuori del carcere. Da un lato, le celle sono spesso il punto di arrivo di fallimenti di politiche territoriali, si riempiono di “prodotti” della marginalità sociale. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’esecuzione penale, non si dà fiducia a ciò che c’è fuori dal carcere, al territorio. È significativo il fatto che ci siano più di 30 mila reclusi che devono scontare meno di tre anni di carcere. In questo momento 8700 detenuti hanno un residuo di pena di meno di un anno e altri 8 mila devono scontare meno di due anni. Non sarebbe possibile pensare un modo diverso di far tornare liberi questi carcerati? In condizioni di sicurezza, ovviamente, non affidandoli genericamente a servizi sociali o simili. Il ruolo del ministro, in tutto questo? Sono questioni che si risolvono nell’ambito di un progetto culturale. Che manca. E di cui il ministro è anche un costruttore. Il ministro Bonafede - che, devo riconoscere, si è emancipato dagli slogan usati all’inizio, e ha dimostrato un’evoluzione nel linguaggio e nella riflessione sui temi del carcere, in questi 14 mesi - si è di certo impegnato. E ha anche compiuto alcuni passi avanti, per quanto riguarda la detenzione in carcere. Quello che tuttora manca invece è un’idea progettuale sull’esecuzione penale. Si è andata perdendo, e va recuperata. Va rivista e ripensata l’idea stessa della rieducazione e del reinserimento, non c’è solo la funzione di contenimento. In questo senso, credo che quanto elaborato dagli Stati generali del 2016 sia ancora materiale buono per riaprire una discussione. Con il Pd nel governo crede che cambierà qualcosa? Bah, in ogni partito ci sono interlocutori più aperti o meno aperti all’inclusione. Non a caso neppure il precedente governo Pd emanò i decreti attuativi della riforma voluta dal ministro Orlando. Sicuramente però ora mi aspetto che sparisca il linguaggio di odio che era diventato quasi istituzionale: “Marcire in galera”, i “lavori forzati a vita”, ecc. Il linguaggio è un costruttore di categorie, va cambiato. Lo può fare il ministro Bonafede? Credo di sì, io trovo positiva la continuità al ministero di Giustizia. Anche se sono necessari altri contrappesi - che finora non ci sono stati - affinché si possa riaprire la riflessione su “cosa deve essere il carcere”. La convivenza di “sensibilità” diverse all’interno del governo, dal populismo penale fino al garantismo, può produrre qualche risultato positivo? In generale, siccome sono culture esistenti nel Paese, quanto più si costruiscono luoghi dove si possono confrontare, meglio è. C’è speranza, dunque? (E non solo nel senso del nuovo ministro). Io sono chiamato a doverla avere. Nel senso che c’è sempre speranza di affermare nel concreto i diritti. E quando non ci si riesce, c’è sempre una responsabilità perché ciò non avviene. Anche nostra, anche mia. Carceri: da Nord a Sud, è emergenza di Valter Vecellio lintro.it, 5 settembre 2019 Il governo Movimento 5 Stelle-Partito Democratico e ‘supplementi’, elabora una road map per i prossimi mesi e anni. Per quel che riguarda la Giustizia, occorre arrivare al Punto 12: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura”. “Occorre”. Il “come” e il “quando”, il “chi”, si vedrà. Ad ogni modo riduzione dei tempi del processo; nuovo sistema elettorale per quel che riguarda il CSM, perché dopo il caso di Luca Palamara (al centro di uno scandalo che ha scosso i vertici della magistratura italiana), nessuno si azzarda più a difendere l’attuale. Lodevoli propositi, si vedrà come, e se, saranno attuati. Non un cenno all’allungamento della prescrizione. E neppure un cenno alla situazione all’interno delle carceri, che rappresenta l’epifenomeno della crisi più generale della Giustizia. La quotidiana cronaca però documenta che si tratta di questione non eludibile. Continuare, come sostanzialmente si fa, diventa un qualcosa che attiene alla connivenza, alla complicità. Casi che sono tutt’altro che isolati. Lombardia: diciotto carceri. Una capienza regolamentare di 6.199 detenuti. L’ultimo censimento ufficiale ne ha contati 8.472 (1.306 già condannati ma non in via definitiva; 1.098 ancora in attesa del primo grado di giudizio). Quasi la metà (3.651) sono stranieri. La Lombardia è la regione con il maggior numero di detenuti; seguono: la Campania (7.606); Lazio (6.483); Sicilia (6.396). “Si lavora in una polveriera”, dice il Donato Capece, Segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). La prova è nei numeri snocciolati: nei primi sei mesi dell’anno, 5.205 atti di autolesionismo; 683 tentati suicidi, 4.389 colluttazioni, 569 ferimenti, 2 tentati omicidi. I decessi per cause naturali sono stati 49 e i suicidi 22. Al tempo stesso, problemi ormai strutturali di personale. “Gli agenti della polizia penitenziaria sono costretti anche a dieci ore di servizio continuato, con un sovraccarico di stress estremamente pericoloso. Il fatto è che ormai il carcere è diventato un contenitore in cui rinchiudere tutti e lo Stato sembra aver dimenticato il rispetto verso la polizia penitenziaria”. Bologna. Nicola d’Amore, Segretario di uno dei sindacati della polizia penitenziaria, il Sinappe, denuncia: “Ormai facciamo anche gli psicologi. Per fare il nostro lavoro ormai devi essere anche psicologo, avvocato e consulente. Non è giusto sia così, ma abbiamo dovuto imparare nostro malgrado”. Anche d’Amore parla di “situazione complessa…siamo chiamati a un lavoro da supplente, senza essere adeguatamente preparati”. A Bologna sono rinchiusi oltre 850 detenuti (invece dei regolamentari 500). È soprattutto la carenza di educatori che diventa drammatica. I pochi attualmente in servizio non riescono a svolgere il ruolo al quale sono chiamati. A volte passano mesi senza che il detenuto riesca ad avere un incontro con il proprio professionista di riferimento. Anche a Ferrara situazione al limite del collasso, definita “Complicata e condizioni inaccettabili di sovraffollamento. In un carcere che dovrebbe contenere 254 detenuti, ve ne sono 350. Inevitabile che celle concepite per una sola persona ne ospitino due, con i facilmente immaginabili disagi e con violazioni costanti delle più elementari regole che dovrebbero garantire perlomeno un minimo d’intimità personale”. Pescara: definire allarmante la situazione del carcere di quella città è dir poco. Per la drammatica situazione venutasi a creare, secondo Giuseppe Ferretti della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Pescara, non è un azzardo affermare che si è già andati oltre il punto di non ritorno: “Turni massacranti e personale allo stremo fanno da contraltare ad un numero di detenuti mai raggiunto nel carcere pescarese e che fanno dello stesso una polveriera pronta a deflagrare. Molti sono i detenuti con notevoli problemi psichiatrici. Tanti altri con problemi esistenziali. Davvero troppi per non aspettarsi da un momento all’altro, se non si prenderanno urgenti provvedimenti, il verificarsi di casi di particolare gravità. Gli eventi critici che accadono all’interno dello storico penitenziario pescarese sono tra l’altro pressoché quotidiani e pochissimi sono gli agenti pronti a contrastarli”. Un drammatico grido d’allarme viene da Carlo Mele, Garante provinciale dei diritti dei detenuti di Avellino: “L’aspetto sanitario continua ad essere il nervo scoperto del carcere di Bellizzi. Mancano i farmaci e già questo, di per sé, è un aspetto inquietante”. Nel complesso, è l’assenza di certezza di un presidio sanitario completo dietro le sbarre, a preoccupare maggiormente. Mancano i farmaci, gli infermieri e psichiatri. Lombardia, Bologna, Pescara, Avellino… ovunque è emergenza ‘ordinaria’ e quotidiana. Questione strutturale e che si stratifica, anno dopo anno. Il pensiero che non è solo un pensiero, il sospetto, che è qualcosa di più di un sospetto, è che tutto sommato non la si voglia risolvere: si preferisca che questa bomba ad orologeria faccia comodo. Giudici e detenuti, l’incontro di due mondi di Liana Milella La Repubblica, 5 settembre 2019 Oggi la presentazione del docu-film “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri”. Le facce sono il film. Le più belle sono quelle delle donne. Come Lucia, la transgender di Napoli che nel carcere di Sollicciano dice alla giudice Silvana Sciarra: “Che senso ha la vita fuori senza nessuno? Questa è la mia casa... ogni tanto vado in crisi... mi trucco e mi passa”. O la detenuta di Lecce che chiede alla giudice Daria de Pretis: “Cosa porta via di questa giornata visto che noi le abbiamo potuto dare solo la nostra vita complicata?”. E lei: “Porto via le vostre facce di donne che come me hanno...” ma la voce si rompe, una lacrima scivola giù, e non resta che un abbraccio. Sì, due mondi lontani, s’incontrano e si turbano vicendevolmente durante Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri, docu-film di Fabio Cavalli (prodotto da Rai Cinema e Clipper media) proiettato oggi alle 17 come “evento speciale”. Il presidente della Biennale Baratta spiegherà perché il film si è guadagnato questo spazio, prima volta nella storia della Consulta e della Mostra. Con lui la vice presidente della Corte Marta Cartabia e i giudici Francesco Viganò e Luca Antonini. “Nella Costituzione è scritto che siamo tutti uguali... ma non è vero” dice a Giuliano Amato un ragazzo nel carcere di Nisida. “La Costituzione è per i più deboli, per chi non ha potere, è uno scudo per loro” afferma a Rebibbia Giorgio Lattanzi, il presidente della Corte. Nasce su questa scommessa il docu-film di Cavalli, il regista teatrale che ha lavorato con i fratelli Taviani a Cesare deve morire, Orso d’oro a Berlino nel 2012. La Consulta esce dal palazzo, parte dagli ultimi, da chi è recluso e spesso viene rimosso dalle coscienze. Nel film sette carceri e sette giudici. A maggio 2018 la richiesta a Cavalli di una diretta streaming a Rebibbia per far sì che a quel primo incontro possano partecipare anche i detenuti di altre prigioni. Cavalli coglie al volo l’occasione e propone alla Corte di seguirla nel viaggio per farne un docu-film. Un pugno nello stomaco. Ne esci profondamente turbato. Ti senti colpevole. Per darne un’immagine, ecco quella del piccolo campo da gioco del carcere di Marassi. La telecamera lo inquadra dall’alto, si sposta verso il grande stadio di Genova. Nel primo i detenuti guardano la partita dei compagni dai corridoi su piani sovrapposti; nell’altro i tifosi sono uomini liberi. Un carcere dentro la città. Come San Vittore al centro di Milano, dove Cartabia dice: “Voi siete parte di questa comunità che è la Repubblica italiana”. Esclusione e inclusione. Come testimoniano madre e figlia a Lecce. Dice la prima: “Ho visto dalla finestra della cella mia figlia scendere dalla macchina dei carabinieri e ho provato un dolore che mi porterò dentro per tutta la vita”. E la figlia: “Ho conosciuto il carcere da piccola, sia io che le mie sorelle, ho un compagno detenuto... abbiamo fatto questa vita... mio padre è stato dentro per 17 anni, quando è uscito l’ho visto due volte, poi mai più...”. E cela con la mano una lacrima. Il male Bonafede di Sergio Soave Il Foglio, 5 settembre 2019 Niente sui temi garantisti. Il rischio di un governo che nasce “contro” Salvini. La conferma del ministro della Giustizia, e l’assenza di richieste garantiste, sono un cedimento del Pd. La conferma di Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia non è mai stata messa in discussione nel corso delle trattative per la costituzione del secondo governo di Giuseppe Conte. L’atteggiamento iper giustizialista dell’ammiratore di Pierrcamillo Davigo non ha trovato resistenze nel Pd, che non si è neppure impegnato a definire un programma per la Giustizia meno generico di quello contenuto all’articolo 12 della bozza concordata: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura”. Il primo argomento, quello dei tempi della giustizia, è propedeutico all’entrata in vigore della norma capestro che abolisce la prescrizione dopo il primo grado, che entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo solo congiuntamente a questa riforma, il secondo è conseguenza del terremoto che ha costretto alle dimissioni alcuni membri togati del Csm accusati di aver concordato con soggetti esterni le nomine nelle procure e nei tribunali. Si tratta dunque del minimo indispensabile, come se la giustizia in Italia funzionasse benissimo e lo farà ancora meglio una volta che, con l’abolizione della prescrizione, la dittatura delle procure sarà ancor meno contenibile. Naturalmente nemmeno una parola sulla limitazione delle intercettazioni e ancora meno sulla situazione carceraria indegna di un paese civile. (Soave segue a pagina quattro) Forse anche a questo si può far risalire la rinuncia a entrare nel governo dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando, che aveva costruito una riforma carceraria evoluta, che poi i Cinque stelle avevano cassato definendola sprezzantemente, insieme ai leghisti, “svuotacarceri”. Anche la decisione finale dei Radicali, impegnati in tutte le battaglie garantiste, di non partecipare alla nuova maggioranza ha la stessa radice, oltre probabilmente agli strascichi della campagna dei Cinque stelle per far chiudere Radio Radicale (altro tema sul quale non si sa se ci sia o no un’intesa tra M5s e Partito democratico). Al di là di qualche resistenza individuale, il cedimento del Pd all’ondata giustizialista dei Cinque stelle, della quale Bonafede è il principale propugnatore, è completo e strutturale. Eppure la difesa degli “indagati” che secondo i Cinque stelle avrebbero l’obbligo di abbandonare qualsiasi carica prima persino di un rinvio a giudizio, era stato uno dei punti di frizione più aspri tra i due partiti. Ora Luigi Di Maio può annunciare trionfante che nel governo non ci sarà nessun inquisito, con l’aria di voler sottolineare una specie di vittoria nei confronti del Pd, vittoria che non c’è stata perché la partita non è stata giocata, per abbandono di campo degli “avversari”. Il fatto da valutare attentamente è che il giustizialismo diventerà un asse condiviso della politica del governo rossogiallo, non solo perché era un prezzo da pagare al M5s, ma perché una coalizione che nasce “contro” un avversario, in questo caso Matteo Salvini, che gode di un vasto consenso elettorale, non può escludere di avvalersi, prima o poi, della demonizzazione giudiziaria per toglierlo di mezzo, come già si fece con Silvio Berlusconi. In fondo ci sono altri episodi simili a quello della Diciotti, c’è l’intrico delle conversazioni moscovite, c’è la questione confusa del finanziamento della Lega, tutti argomenti sui quali qualche procura può aprire fascicoli, e non si sa mai come può andare a finire: questa volta Salvini non potrebbe contare su una maggioranza parlamentare che respinga le richieste degli inquirenti. Si tratta solo di congetture o di insinuazioni malevole; ma è invece indubbio che il tema della giustizia è stato tacitamente dato in appalto ai Cinque stelle, non solo per la conferma del ministro in carica, ma per l’assenza di proposte o di richieste di correzione anche minima della linea finora seguita (con la complicità della Lega che ora rischia di pagarne le conseguenze). Un governo che si prefigge di migliorare le condizioni degli italiani dovrebbe lavorare intensamente per riequilibrare il sistema giudiziario, per garantire un effettivo diritto alla difesa, per evitare incursioni delle procure in campi che non competono loro, per evitare che gli investitori siano scoraggiati per le lungaggini e le storture del sistema giudiziario che rendono sostanzialmente inesigibili i crediti. Ma non sarà questo governo a occuparsene e forse nemmeno quello successivo, come accade ormai da un quarto di secolo. Migliore: “Da Bonafede mi aspetto una Giustizia diversa e un confronto senza limiti” di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2019 Intervista a Gennaro Migliore, Partito Democratico. “Mi chiama a cinque minuti dall’annuncio della lista dei ministri. Ci sono solo due conferme: Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede. E come il presidente del Consiglio ha garantito discontinuità, mi aspetto che discontinuità vi sia anche nell’azione del ministro della Giustizia”. Gennaro Migliore parte da qui. Come dire: buongiorno. Il punto è che il deputato dem a via Arenula ha trascorso oltre due anni e mezzo. Da sottosegretario. Ha visto il fiorire e il germogliare di tanti provvedimenti sulla giustizia nella scorsa legislatura. Anche di quelli di cui s’era occupato con maggiore personale cura, come la riforma penitenziaria. Alcuni di quei germogli li ha poi visti falciati dalla scure del governo gialloverde. E non c’è da meravigliarsi se ora chiede di cambiare passo nell’ambito forse più delicato per la neonata maggioranza. Onorevole, il carcere è una ferita che sanguina, e sanguina per limiti attribuibili non solo all’esecutivo uscente... Vorrei partire da alcuni aspetti generali. Primo: mi coglie in un momento di particolare soddisfazione. Se siamo arrivati alla presentazione di una lista di ministri è per l’iniziativa assunta da Renzi e di cui altri, come il sottoscritto nel suo piccolo, hanno contribuito. La missione era forse non impossibile ma certo molto difficile: invece siamo riusciti a sconfiggere Salvini e la sua ambizione di ottenere pieni poteri. Secondo aspetto, che ribadisco: la conferma dei soli Conte e Bonafede è sintomatica, dal punto di vista del Movimento 5 Stelle, e spero che il guardasigilli, come il premier, sappia assicurare una sana discontinuità a questa seconda fase del suo dicastero. Altrimenti la giustizia sarà un terreno di scontro fra Pd e M5S? Non parlo di scontro politico. Bonafede ora è il ministro del mio governo. Spero semplicemente che all’annunciato passo indietro sulle enormità anticostituzionali di Salvini corrisponda una revisione delle politiche sulla giustizia. Faccia esempi... Va abbandonato il populismo penale, che nella fase gialloverde ha toccato il suo picco massimo con la legittima difesa. Ma serve anche un confronto in Parlamento per trovare soluzioni adatte a risolverli, i problemi della giustizia, anziché aggravarli. Questo in generale. Ma sul carcere, in particolare, si riconsidera tutto? E la prima risposta che va data, io credo. Va recuperata una politica carceraria che ora mi pare del tutto abbandonata. È stata la prima vittima del governo gialloverde. E gli effetti sono sotto gli occhi di qualsiasi persona di buonsenso: rivolte, deficit di tutela per gli agenti, nessun decongestionamento ma, al contrario, un incremento delle presenze negli istituti. Credo che il tema debba essere trattato con concretezza, sulla base della Costituzione e dell’efficienza del sistema. E la prescrizione? Lo considero il secondo tema in ordine d’importanza. Va verificato quali sono i termini in cui intervenire. Serve un tagliando in tempi brevi, visto che poi a gennaio la nuova norma entra in vigore. Noi abbiamo espresso forti perplessità sull’abolizione dell’istituto dopo la sentenza di primo grado, innanzitutto riguardo al funzionamento del processo, che anziché accorciarsi si allungherebbe. E poi c’è un nodo di fondo: bisogna distinguere tra diverse condizioni processuali. Si riferisce all’esito del primo grado di giudizio? Premesso che dal punto di vista personale considero la prescrizione un istituto di garanzia per l’imputato a cui non si dovrebbe rinunciare, credo sia evidente a tutti che non si può mettere sullo stesso piano l’abolizione della prescrizione per chi in primo grado è assolto con il caso di chi è condannato. È un’enormità che va affrontata: come si fa a sostenere che chi è stato assolto può restare esposto al rischio di essere sotto processo a tempo indeterminato? Lei dice che il populismo penale va superato: obiettivo sacrosanto, ma da dove si inizia? Il cuore della questione è il giustizialismo mediatico, che mi pare abbia fatto male all’autorevolezza della stessa giurisdizione. Vuol dire anche che andrebbe limitata la diffusione delle intercettazioni: cercherete di non dismettere la riforma Orlando? Vorrei ricordare che quel testo, la cui efficacia è stata congelata fino all’inizio del 2020, non faceva altro che generalizzare le buone pratiche adottate da procuratori come Pignatone a Roma, Spataro a Torino, Colangelo a Napoli. In particolare si danno linee guida sulla circolazione del materiale non rilevante dal punto di vista penale. Ora, noi non possiamo immaginare che il nuovo governo nasca a partire da una sfiducia nei confronti della Costituzione, e cioè dall’idea per cui si debba parlare di presunti colpevoli anziché di presunti innocenti. Quindi cercherete di preservare la norma per cui, negli atti di pm e gip, vanno richiamati solo i brani essenziali delle intercettazioni? Ci sono due approcci molto distanti: è chiaro che io, Partito democratico, non pretendo di avere ragione al 100 per 100, ma neppure il mio interlocutore dovrebbe pensare di averla. Va superata la logica del contratto gialloverde per cui si manda giù una legge indigesta in cambio di un provvedimento che risulta indigesto alla controparte. Serve il metodo del confronto, in Parlamento e tra le forze politiche. La riforma del Csm è già nelle bozze del programma... È uno snodo importante al pari del carcere e della prescrizione: il sistema per eleggere i consiglieri togati va rivisto, ma non con un sorteggio incostituzionale. Credo anche sia opportuno che i capi delle Procure possano stabilire una selezione di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Lasciare che tale selezione resti del tutto discrezionale espone a distorsioni. C’è già la legge costituzionale sulla separazione delle carriere, promossa dall’Ucpi, che affida a una legge del Parlamento l’indicazione delle priorità... Sono per arrivare a una distinzione sempre più marcata tra inquirenti e giudicanti: la discussione attorno a quella proposta, dunque, non mi spaventa. Ma sono estremamente contrario all’indicazione delle priorità da parte del Parlamento: è una cosa deleteria, lo dimostrano i casi della Polonia e dell’Ungheria, dove alla fine decide chi governa. L’indipendenza e l’autonomia della magistratura vanno preservate. Così come credo nella necessità di assicurare maggiori risorse alla giustizia non solo per incrementare il numero di magistrati e di assistenti giudiziari, ma anche per assicurare al processo civile, innanzitutto, una definitiva svolta tecnologica. Le intese si troveranno. Le troverete anche sull’avvocato in Costituzione, riforma già incardinata al Senato? Ero d’accordo già da sottosegretario alla Giustizia. Oltre che sul rango costituzionale del difensore, si dovrebbe ragionare anche su aperture come quella della piena partecipazione degli avvocati ai Consigli giudiziari, pur con tutte le cautele relative all’esercizio concreto della giurisdizione. Ma certo, la centralità del diritto di difesa va agganciata anche al riconoscimento nella Carta del ruolo dell’avvocato. Donato Bilancia fa ricorso contro il rifiuto ai permessi premio di Carlo Bellotto Il Secolo XIX, 5 settembre 2019 “Il magistrato che ha rigettato la richiesta di permesso al detenuto Donato Bilancia ha basato ogni sua considerazione sulla relazione di sintesi risalente a 15 mesi prima delle sue decisioni e non tenendo in considerazione altri aspetti, tra questi le considerazioni e le valutazioni molto positive espresse dal cappellano del carcere Due Palazzi di Padova, dov’è recluso”. Queste le motivazioni alla base del reclamo al tribunale di Sorveglianza di Venezia contro la sentenza del magistrato Tecla Cesaro del Tribunale di Sorveglianza di Padova che ha negato il permesso al serial killer di poter incontrare un bambino disabile che lui sta aiutando anche economicamente. Vengono citati nel ricorso i miglioramenti registrati dal detenuto, il suo percorso di crescita, di maturazione e di contestuale revisione critica del suo passato. Viene inoltre contestato che un percorso terapeutico che dovrebbe essere garantito a detenuti reclusi per reati gravi non è mai stato garantito a Bilancia. Che ha deciso di avviare, in modo autonomo e a sue spese, questo percorso, rivolgendosi a professionisti tra i più accreditati. Il tutto è stato soggetto ad autorizzazioni che hanno ritardato i tempi di avvio. Inoltre nel ricorso viene contestata la presunta pericolosità sociale che si manifesterebbe durante la visita del detenuto, sotto scorta, all’istituto dov’è ricoverato il bambino disabile: una valutazione definita dal legale di Bilancia “illogica e contraddittoria” vista la presenza della scorta. Si chiede al tribunale al tribunale di Sorveglianza di Venezia di concedere la visita di Bilancia all’Opsa di Sarmeola, dove vive il piccolo al quale lui versa 190 euro al mese detratti dalla sua pensione per garantirgli la frequenza a scuola, o in via subordinata di essere autorizzato a contattare il difensore dei congiunti (il marito e la figlia) di una donna che lui uccise. Ora si attende la decisione del tribunale veneziano che si riunirà collegialmente. Il detenuto al 41-bis con problemi psichici può accedere alla detenzione domiciliare in deroga di Veronica Manca quotidianogiuridico.it, 5 settembre 2019 Cassazione penale, sezione I, sentenza 5 luglio 2019, n. 29488. Con un’importante sentenza, la Prima Sezione della Cassazione ha affrontato il tema dell’ammissibilità per i detenuti di cui al 41-bis O.P. della detenzione domiciliare, in “deroga”, ai sensi dell’art. 47-ter, co. 1-ter O.P. per infermità di natura psichica, in ragione della sentenza della Corte costituzionale, n. 99, del 20 febbraio 2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, co. 1-ter O.P., nella parte in cui non si prevede che - nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta - il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare, anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo articolo (Cassazione penale, sezione I, sentenza 5 luglio 2019, n. 29488). Straniero in carcere, nessun contatto con la moglie italiana: sì all’espulsione di Attilio Ievolella dirittoegiustizia.it, 5 settembre 2019 Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 37033/19; depositata il 4 settembre. L’uomo, detenuto e senza permesso di soggiorno, ha contestato l’espulsione, richiamando il matrimonio contratto con una donna italiana. Questo elemento non è però ritenuto sufficiente dai Giudici, soprattutto perché viene data per certa la rottura definitiva della convivenza tra i due coniugi. Decisivo il fatto che la moglie non abbia mai avuto contatti col marito durante il suo periodo di detenzione. Napoli: non si può dimenticare Poggioreale di Paolo Mancuso La Repubblica, 5 settembre 2019 Dimenticare Poggioreale. Si può? Dopo una manciata di giorni dall’evasione del 25 agosto del polacco omicida Lisowski, e dopo che erano emerse le complessità, le difficoltà, le carenze, i drammi del carcere di Poggioreale, cosa resta nella memoria dei napoletani? Poco o nulla, se non la protesta dei cittadini del quartiere per i problemi di igiene e sicurezza che la presenza di quel mastodontico istituto comporta. Il carcere di Poggioreale è un “carcere in città”, come altri: Milano ha il San Vittore, Roma il Regina Coeli, Palermo l’Ucciardone, e di tutti si parla speso di dismissione, salvo a verificarne un attimo dopo la radicale impraticabilità. Poggioreale, come gli altri, è un carcere che parla alla città e che ne riceve comunicazioni: non mi riferisco certo a quelle illegali dai tetti, ma a quell’intreccio di relazioni interne, di sistema circolatorio che, sottotraccia, percorre e coinvolge molti livelli: quelli ovviamente del personale che vi lavora (insufficiente cronicamente, e quindi tra mille sacrifici), e quelli dei detenuti e dei loro familiari, ma anche quelli del fondamentale mondo del volontariato. Se chiedete ad un detenuto di scegliere tra le secolari mura di Poggioreale, con un sovraffollamento fino a 2.400 detenuti rispetto ai 1600 consentiti, con ricorrenti problemi di approvvigionamento idrico, muri fatiscenti e altre mille problemi, o la più moderna struttura di Secondigliano, con “soli” 700 detenuti, la risposta sarà sempre: Poggioreale. Eppure. Eppure da quelle mura trasuda giorno dopo giorno una sequenza di drammi, unica per complessità nel nostro Paese: ancora nella celle, di tanto in tanto, si ritrovano nei muri le armi, anche automatiche, che negli anni ‘80 utilizzavano i cutoliani ed i loro nemici per spararsi tra un padiglione e l’altro; si ricordano sequestri, sventramenti, impalamenti, veri e propri eccidi nei terremoti del novembre ‘80 e del febbraio ‘81, poi il ritorno dell’ordine e della disciplina, imposti con durezza dal personale penitenziario e facilitati da una normativa un po’ ricattatoria. Ma restano enormi contraddizioni. Come conciliare con la vita di una “Casa Circondariale”, destinata ad ospitare detenuti “giudicabili”, e quindi da ritenersi non colpevoli fino alla sentenza definitiva, con i circa 800 definitivi, che, sempre secondo la Costituzione, meritano percorsi di rieducazione e reinserimento? Mica si potrà “rieducare” un “non colpevole”? Oppure rinunciare a quei percorsi che la legge prevede per i definitivi? E come mescolare invece quei percorsi con le centinaia di detenuti di Alta Sicurezza (i sospetti camorristi) che meriterebbero grande vigilanza, visto che da lì si organizzano alleanze e scontri, traffici di ogni genere, gestioni economiche ed affari, agguati e vendette? E che - secondo notizie interne - sempre da lì si comunica facilmente con l’esterno con un imprecisato ma sicuramente molto alto numero di telefoni cellulari? Si può allora dimenticare Poggioreale? Si può, anzi si deve: altrimenti si è costretti a misurarsi con la tragica, dolente umanità che vi è ristretta e quella delle famiglie, private spesso del loro unico sostegno (illegale o criminale che fosse), sospese tra la necessità di sopravvivenza e quella della solidarietà con il congiunto. O con le difficoltà di quelli che, a vari livelli, dell’amministrazione di quel carcere portano la responsabilità, con l’obiettivo della “riduzione del danno” (e un’evasione di poche ore, la prima a memoria d’uomo, per quanto di un pericoloso omicida, non è un gran danno, quanto invece deve essere il termometro delle difficoltà in cui si trova la struttura). O con gli educatori, i contabili, i tecnici, gli psicologi che moltiplicano le proprie forze per far fronte alle situazioni disumane che spesso si trovano davanti. O con il volontariato, cattolico o laico che sia (il più generoso e preparato di questo Paese, posso dirlo con cognizione di causa) senza il quale quella polveriera esploderebbe dopo un minuto. E soprattutto con la Polizia penitenziaria (sono agenti di Polizia: per favore non chiamateli agenti di custodia o peggio, guardie carcerarie, secondini e via insultando: ne va della loro dignità): si trovano, in fortissimo deficit di organico, a dover garantire sicurezza ed assicurare trattamento, a curare i fogli matricolari, e prodigarsi nel pronto soccorso, a tutelare i più deboli dai violenti e sopraffattori, e comunicare con chi parla tutte le lingue del mondo, a salvaguardare la vita dei detenuti più odiosi ed a prevenire proteste e sommosse. Si tratta della professionalità più complessa e allo stesso tempo misconosciuta che io abbia incontrato in questo Paese, che meriterebbe ben altra attenzione dalle sue istituzioni e dal suo popolo. E ha dato 8 morti, 8 eroi uccisi dalla camorra fra il 1981 ed il 1986, compreso il v direttore Giuseppe Salvia. Al loro ingresso, insieme alla divisa, viene consegnata una penna, unica arma interna per mantenere ordine ed insegnare legalità. Dimenticare Poggioreale, allora? Certo si può. E avviene. Ma non si dovrebbe. No, non si dovrebbe proprio. Perugia. Lettera al Sindaco per gli avvenimenti presso la Casa circondariale di Capanne di ??Associazione Perugia Città in Comune umbrialeft.it, 5 settembre 2019 L’ Associazione Perugia Città in Comune ha inviato la seguente lettera aperta al Sindaco in merito ai recenti fatti avvenuti presso la Casa Circondariale di Capanne. Premesso che i gravi fatti che hanno coinvolto i detenuti nella casa circondariale di Capanne hanno messo in luce la condizione di estremo disagio per chi è detenuto e per chi ci lavora, Atteso che l’aggressione agli agenti, il suicidio di un carcerato e la rivolta dimostrano che nel carcere di Capanne la situazione è insostenibile, come purtroppo ormai è nella maggior parte delle carceri italiane. Atteso che il sistema penitenziario nazionale ha il più alto tasso di sovraffollamento: 119,8%, a fronte di 50.496 posti disponibili, ma solo sulla carta perché il dato non tiene conto delle sezioni chiuse, e alla fine di giugno 2019 era di 60.522 detenuti, il carcere di Capanne non fa eccezione e il suo sovraffollamento è da addebitare a molti motivi. Inoltre, si evidenzia un peggioramento della situazione generale, dovuto alla mancanza di momenti di socialità, occasioni di dialogo e di crescita culturale, di rapporti con i familiari e con l’esterno: non è difficile immaginare come tutto questo renda ancora più incandescente la situazione! Atteso che a fronte di tale complessità la soluzione non può essere quella di punire in modo esemplare, come qualche rappresentante parlamentare ha dichiarato, chi si è macchiato dei gravi fatti di ribellione e dare mera solidarietà a chi è costretto a lavorare in condizioni di estremo pericolo, Chiediamo al Sindaco, che è l’autorità che deve garantire sicurezza e qualità della vita per chi vive e lavora nel territorio della città, di attivare un tavolo fra tutte le istituzioni e i servizi. Ricordiamo che è responsabilità del Sindaco garantire servizi per persone con problemi psichiatrici, che invece ora vengono semplicemente rinchiuse nel carcere, o individuare strutture alternative alla detenzione e che dovrebbe essere un suo impegno quello di collaborare con i dirigenti del carcere e le imprese private per definire rapporti di lavoro all’esterno. Riteniamo che il Sindaco debba chiedere un incontro urgente con i ministri interessati: Ministro di Grazia e Giustizia, della Sanità, dei Servizi Sociali e del Lavoro, al fine di ottenere le risorse necessarie per un intervento globale a sostegno della struttura carceraria della città. Perugia. Alla Casa circondariale di Capanne le celle ritornano chiuse umbria24.it, 5 settembre 2019 Sono stati trasferiti i più facinorosi, sono state chiuse le celle ed eliminato il metodo della detenzione dinamica, la guardia è nuovamente dentro la sezione, per l’ora d’aria avvengono i controlli e sono in arrivo 10 unità al carcere di Perugia. Queste le novità che sono state comunicate dal Sappe, sindaao di polizia penitenziaria, dopo il sopralluogo avvenuto a seguito dei noti fatti di violenza all’interno della casa circondariale di Perugia, che hanno visto una guardia penitenziaria sequestrata e minacciata con la lametta, la rivolta dei detenuti e un carcerato suicida. Mercoledì mattina, una delegazione del sindacato di polizia penitenziaria, ha fatto visita al carcere perugino, capitanata dal segretario generale Donato Capece che, all’uscita ha tenuto una conferenza stampa per illustrare la situazione attuale, raccontare quella passata e informare sugli scenari futuri. Prima però di comprendere cosa cambia, vanno fatte due premesse. La prima è di cronaca, e riguarda l’episodio cardine del poliziotto sequestrato, il suo coraggio di buttare la chiave sotto la minaccia di una lametta, rischiando la propria vita ma mettendo così nelle condizioni i colleghi di intervenire ed evitando che i detenuti potessero aprire le celle. È considerato episodio simbolo della condizione carceraria precedente. La seconda è invece il modello Perugia. Che per anni è stato raccontato e considerato come vanto, per quella che sembrava essere un’oasi felice, per la caratteristica di avere dato ampio margine ai modelli innovativi di detenzione: con sezioni aperte, che significa guardia penitenziaria non presente, celle aperte e detenuti liberi nei corridoi e per l’ulteriore tratto distintivo di avere avviato numerose attività lavorative indirizzate al reintegro del detenuto nella società una volta scontata la pena. “Modello sbagliato” - Contrariamente a quanto da tanti anni sottolineato dalla direzione, le guardie penitenziarie, non credono al modello di detenzione dinamica, ovvero delle celle aperte. E ritengono che gli episodi siano ascrivibili sia al sovraffollamento che a questo nuovo metodo, erroneamente paragonato a quello europeo - hanno spiegato - ma che nulla ha a che vedere con quello. Semplicemente “perché - ha detto Capece - nel modello europeo la guardia penitenziaria ha in dotazione strumenti tecnologici tipo il taser per garantire sicurezza ed è presente all’interno della sezione. Invece noi italiani - ha aggiunto - abbiamo pensato di sostituire il poliziotto con la tecnologia, finendo per tenere il poliziotto fuori dalla sezione e senza dotarlo di tecnologia”. Con la conseguenza - è stato ancora spiegato - che all’interno delle sezioni, dove si arriva fino a 80 detenuti, di etnia diversa, finisce per “comandare, nel vero senso della parola”, il più criminale. I pattugliamenti saltuari e improvvisi non sono sufficienti - è stato ancora spiegato - a contenere i fenomeni di violenza e di autolesionismo, poiché i detenuti hanno troppo tempo per organizzarsi. È stato quindi ripristinata la vigilanza fissa. Il poliziotto, a Perugia, è di nuovo all’interno della sezione. Le celle sono chiuse e, ogni detenuto, rimane nella propria cella. Quando bisogna trasferirsi per l’ora d’aria vengono eseguiti i controlli e trasferiti i detenuti all’esterno. Quando si rientra vengono eseguiti di nuovo i controlli. L’organico - spiega ancora il Sappe - deve essere di 40 unità per garantire la copertura dei 4 quadranti orari per 6 ore di turno. Ma anche per questo aspetto ci sono problemi. Tenuto contro che le 8 ore, ovvero due di straordinario - hanno raccontato i rappresentanti del Sappe - qui sono l’ordinario. E lo straordinario al poliziotto, viene pagato 10 euro lorde. Ma i pagamenti non sono puntuali. E capita - ancora il sindacato - che, tante volte, i poliziotti hanno pagano i trasferimenti dei detenuti di tasca propria, con i soldi del proprio stipendio, che dovrebbe andare alle proprie famiglie. “Colpa dell’accorpamento” - Se 19 detenuti considerati tra i più facinorosi sono stati trasferiti, una problematica sussiste anche sui tempi di trasferimento e su altre questioni logistiche come ‘il repartino’ che richiedono lungaggini amministrative. “Tutta colpa dell’accorpamento”, dice il sindacato umbro. Accorpamento delle carceri umbre a quelle Toscane, con l’amministrazione in Toscana. Per cui ogni decisione da prendere deve fare un giro lunghissimo e non prevede i filo diretto, come in passato in cui un trasferimento veniva deciso ed eseguito nel tempo di una notte. Altra questione denunciata alle cronache è il carcere di Spoleto. Un tempo una unicità carceraria per l’alto livello di equilibrio raggiunto tra massimo regime detentivo e competenza del personale. Un valore - denuncia il personale - oggi annacquato. “C’era lì - è stato detto - la più alta presenza di 41 bis che c’è in Italia, in rapporto alla popolazione carceraria, gestita egregiamente da personale formato e specializzato da tempo su quel tipo di detenzione. Poi è stato mischiato di tutto, sia per quanto riguarda la popolazione penitenziaria che il personale e ora non è più come prima”. Ritornando agli episodi di violenza a Perugia, una delle proposte del Sappe, è quella di trasferire, più agilmente, detenuti violenti nelle carceri sarde, dove ci sarebbero - a detta del sindacato - circa 800 posti liberi”. In conferenza stampa, nell’annunciare l’arrivo di altre 10 unità, il sindacato ha denunciato che quello già giunto a Perugia sarebbe inadeguato alle esigenze di questo carcere. “Abbiamo chiesto - hanno detto - personale maschile e invece ci hanno mandato 8 donne. Gli uomini servivano per tirare fuori dalle sezioni il personale più anziano con anche 30 anni di servizio e fare entrare le nuove leve. Ma nelle sezioni maschili non possono entrare le donne e quindi siamo costretti a tenere in prima linea ancora il personale anziano”. Infine la questione dislocamenti. Se ogni volta che trasferisci un detenuto - spiega il sindacato - il posto che si libera viene occupato da un altro detenuto, operazione che serve ad abbassare la pressione all’interno delle sezioni, non avviene lo stesso con il personale. Infatti - conclude il sindacato - abbiamo troppo personale suppostamente in organico, che invece è dislocato altrove. “O viene rimpiazzato, o deve essere richiamato al lavoro in sezione”. Torino. Pochi medici, avvocati e psicologi: perché esplode la rivolta nel Cpr Corriere della Sera, 5 settembre 2019 Basta analizzare i dati degli ultimi 18 mesi, per capire quanto il Cpr di corso Brunelleschi sia diventato un posto semi-abbandonato dallo Stato. Con l’applicazione delle ultime finanziarie, che hanno tagliato nettamente le risorse destinate ai Cpr, ma soprattutto, dopo la morte (naturale) di un detenuto avvenuta lo scorso luglio, il Centro di permanenza e rimpatrio di corso Brunelleschi è un luogo dove le rivolte sono all’ordine del giorno, i tentativi di suicidio e le proteste quotidiane. La violenza è pronta ad esplodere come sabato scorso, quando un immigrato ha chiesto un farmaco e, dopo aver ricevuto una risposta negativa, si è arrampicato a sei metri di altezza. È caduto, è nata una guerriglia tra detenuti e forze dell’ordine, finita con due feriti. In pratica, racconta chi lo frequenta, è “quasi peggio di un carcere”. Il problema non è soltanto la carenza di organico tra le fila delle forze dell’ordine, ma l’assenza di “personale civile”, all’interno del Centro, che possa lavorare a fianco dei detenuti e prevenire situazioni di rischio e violenza. Medici, psicologi, traduttori, mediatori culturali, impiegati. Sono figure pressoché sparite. Basta analizzare i dati degli ultimi 18 mesi, per capire quanto il Cpr di corso Brunelleschi sia diventato un posto semi-abbandonato dallo Stato. Nell’ultimo verbale della Commissione solidarietà dell’Ordine dei medici, stilato a fine luglio, c’è un tabella che mostra dati impietosi. Per 158 “ospiti” (o “detenuti”), le ore di presenza del medico sono passate da 144 a 42 alla settimana. Quelle dello psicologo - figura molto rilevante in un contesto del genere - sono state dimezzate: da 54 a 24. L’assistente sociale, fino a un anno e mezzo fa presente 36 ore (che erano comunque poche), oggi c’è 24 ore e basta. In sette giorni però. Il mediatore culturale, altra professionalità importantissima in una sorta di prigione dove sono tutti immigrati, una volta era presente 108 ore alla settimana: oggi 48. Le risorse sono state tagliate con la scure addirittura per l’economo, che ora fa 12 ore a settimana e non più 36. E gli avvocati, che sono necessari perché al Cpr sono quasi tutti accusati di aver commesso reati, possono lavorare al Cpr soltanto 12 ore a settimana, a fronte delle 72 di prima: se già era una beffa due anni fa, figuriamoci oggi. Dodici ore non bastano nemmeno per leggere le carte di un caso solo. Non solo. Grazie alle manovre dell’ultimo governo, l’insegnamento della nostra lingua, che prima poteva contare su un insegnante che lavorava 36 ore, oggi non è più previsto. Così come non c’è più - ma questo da anni - la Croce rossa. Il centro è gestito dalla cooperativa Gepsa, che però, avrebbe poco personale. Nel documento stilato dai medici, si denuncia un altro aspetto: in tale contesto il diritto alla salute non sarebbe garantito. Si parla di “gravi situazioni di omissione di soccorso” e si sollecita “l’Ordine dei Medici a mettere in moto tutti i possibili interventi”. Le condizioni ambientali e sociali di vita degli ospiti esporrebbero “a fattori di rischio non controllati”, come le “fonti di contagio”. Inoltre, “traumi e eventi morbosi acuti sono affrontati con competenze e strumenti inadeguati”. Ci sarebbe un abuso di sedativi. All’ultima riunione ha partecipato anche Alda Re, di “lasciateCIEntrare”, che ha spiegato: “Il cosiddetto ospedale non è in realtà un ambulatorio, ma una struttura di pochi metri quadrati dove l’aria, ossia il luogo dove i pazienti possono andare a fare due passi, è una gabbia di un metro e mezzo”. “Le carenze ci sono a tutti livelli - denuncia Re - piove dentro, il cibo è immangiabile, il riscaldamento non funziona, le stanze sono senza finestre: il Cpr è peggio della prigione, perché non è un luogo normato”. Cremona: La proposta dei detenuti: attivare servizio di posta veloce “Zeromail” cremonaoggi.it, 5 settembre 2019 I detenuti del carcere di Cremona chiedono che sia attivato il servizio di posta veloce “Zeromail”. Nella lettera ricevuta da Sergio Ravelli, presidente dei Radicali di Cremona e membro del consiglio generale del partito radicale, si sottolinea che Zeromail è già attivo in Lombardia nelle carceri di San Vittore e di Bollate. “Un analogo servizio”, fa sapere Ravelli, “opera anche in altre regioni, per esempio a Torino, Frosinone e nel carcere romano di Rebibbia”. “Nel carcere di Cremona - fanno presente i detenuti - il 70% dei prigionieri è straniero che aspetta 3-4 settimane per le lettere dei propri parenti, a volte di più. Anche i cittadini italiani devono aspettare 1-2 settimane, a volte di più. Zeromail consente di ricevere lettere in 1-2 giorni”. Secondo i detenuti di Cremona, “l’installazione di Zeromail svolge una funzione di riabilitazione, aiuterà a evitare scioperi della fame e rivolte in prigione, poiché i prigionieri stabiliranno un contatto con la loro famiglia”. Come noto, i detenuti italiani non hanno accesso alla Rete e quindi devono affidarsi ancora a carta e penna. Con un problema però: tra la trafila in carcere e le poste, la missiva arriva a destinazione dopo 10-15 giorni. E la risposta, di un parente, della moglie, dei figli o di un amico arriva almeno dopo altrettanti. È per questo che sta riscuotendo un grande successo “Zeromail”, il servizio di invio e ricezione delle mail per i detenuti. Per fare un esempio, nel carcere di Bollate, il servizio è gestito dalla cooperativa sociale Zerografica. Il meccanismo è semplice: il detenuto scrive il suo messaggio su un foglio, ogni giorno uno dei detenuti della cooperativa passa nelle celle a ritirare le lettere, che vengono scansionate e inviate entro il giorno dopo. La risposta del destinatario segue il processo inverso: viene stampata, chiusa in busta e consegnata al detenuto. Per gli stranieri è veramente la soluzione di un problema che sembrava insormontabile: se per un italiano i tempi per far arrivare una lettera è in media di dieci giorni, per loro potevano passare anche mesi. Il servizio è in abbonamento: quello base costa 12 euro per 30 mail. Il risparmio è notevole per il detenuto, visto che la lettera classica costa da 1,10 a 2,60 euro. L’attivazione del servizio di posta veloce nel carcere di Cremona sarebbe oltremodo importante considerato il numero considerevole di detenuti stranieri. Nel corso della recente visita alla struttura carceraria di via Cà del Ferro, effettuata dal segretario di Radicali Cremona Gino Ruggeri e dall’avvocato della locale Camera Penale Laura Negri, è stata infatti riscontrata la presenza di ben 307 non italiani su un totale di 463 detenuti. Mostra del Cinema. Robbins, il teatro e le risate in carcere di Angela Calvini Avvenire, 5 settembre 2019 Il documentario “45 seconds of laughter” è girato con un gruppo di detenuti in una prigione della California: protagonisti una trentina di uomini condannati a pene tra gli otto anni e l’ergastolo. Arlecchino ha il volto impiastricciato di bianco e gli occhi svegli di un ragazzo latinos, Colombina una grande fascia rosa in testa e la stazza di un ragazzone afroamericano, Pantalone è claudicante e ha le rughe di chi nella vita ne ha viste troppe. Nella vita fuori dalle sbarre questi uomini erano nemici, membri di violente gang rivali. Adesso che stanno scontando pene lunghissime, esprimono le loro emozioni recitando insieme la commedia dell’arte e ridono di cuore. Ecco spiegato il titolo 45 seconds of laughter, “45 secondi di risate”, il toccante e appassionante documentario firmato, diretto e interpretato dall’attore e regista Tim Robbins passato ieri Fuori Concorso alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia e girato con un gruppo di detenuti nella Prigione di Stato di Calipatria in California. Il titolo si riferisce a una tecnica usata dagli attori, ridere appunto, che serve a caricarsi di emozioni positive ed endorfine. Protagonisti una trentina di uomini condannati a pene fra gli 8 anni e l’ergastolo, coinvolti in uno dei workshop teatrali dell’Actor’s Gang, la compagnia teatrale fondata nel 1982 da Tim Robbins che ha girato i palcoscenici di tutto il mondo. “La nostra è una compagnia senza scopo di lucro, che ha lo scopo di portare la cultura a portata di tutti, volevamo fare un teatro diverso” ha spiegato ieri al Lido Tim Robbins, uno degli attori più politicamente impegnati di Hollywood e protagonista di film indimenticabili come Mystic River di Clint Eastwood che gli valse l’Oscar, nonché regista di uno dei più bei film contro la pena di morte, Dead Man Walking. Ma è nel teatro, spiega Robbins sfoderando carisma e passione, che trova la libertà che non gli danno gli studios. Come quella di creare una serie di progetti sociali a partire dall’Actors’ Gang Prison Project nato nel 2006, che coinvolge gli attori della compagnia di Robbins ed anche ex detenuti divenuti istruttori, e che oggi ha 15 laboratori in 13 prigioni di stato della California. In più, l’Actors’ Gang sta svolgendo a Los Angeles un programma di reinserimento nella società per i detenuti che escono dal carcere e un programma per i giovani in collaborazione col dipartimento per la Giustizia. “Io di carcere qualcosa ne so, dato che quando da ragazzo vivevo a New York un paio dei miei amici sono finiti in galera. Inoltre i miei genitori mi hanno cresciuto nella consapevolezza sociale - aggiunge Robbins -. Mentre giravo Le ali della libertà nel ruolo del carcerato e poi Dead Man Walking (da lui trasformata in una pièce teatrale che ha girato sinora 170 università) ho visto dall’interno la natura brutale delle prigioni statunitensi. Negli Stati Uniti abbiamo abbandonato ogni idea di riabilitazione, e invece usiamo nelle nostre prigioni un sistema punitivo che richiede disumanizzazione dell’incarcerato. Il sistema carcerario statunitense sarà oggetto del mio prossimo documentario”. Lo stesso progetto dell’Actor’s Gang nelle prigioni, all’inizio è stato fortemente osteggiato, mentre oggi, forte dei risultati positivi, sta aiutando molti uomini a gestire le proprie emozioni e le proprie vite. “Molti programmi e film mostrano i detenuti come spaventosi, pericolosi animali amorali, un pericolo per la società. Ma la maggior parte di quelli che ho incontrato non sono così - aggiunge il regista -. Noi chiediamo che partecipino ai nostri programmi riabilitativi i detenuti più difficili e che ogni classe sia mescolata per origine etnica, con la partecipazione dei rivali di diverse gang. E abbiamo scoperto qualcosa di sorprendente e profondamente umano nelle nostre classi, un’esperienza che ci ha cambiato e che andava raccontata”. Ed ecco, quindi, che il documentario, girato in 8 mesi di corso, ci aiuta a conoscere i protagonisti, uomini diffidenti, che si nascondo dietro alla maschera della rabbia per mostrarsi più forti, finché dopo una serie di esercizi attoriali, respirazione, interazione di sguardi e coordinazione dei movimenti, le barriere si vanificano e i cuori si aprono, le emozioni diventano improvvisazione e, infine, si indossa davvero la maschera, ma quella di Arlecchino o Pulcinella. Perché proprio la Commedia dell’Arte? “Attraverso quei caratteri l’uomo oppresso dal carcere trova libertà espressiva. La Commedia dell’Arte di fatto è una storia universale che presenta tutte le dinamiche sociali, è una sfida al potere che vuole contrastare l’amore, ci sono i ricchi e i poveri e i servi che spesso la fanno in barba ai loro padroni”. L’Italia ha un ruolo importante: “Siamo venuti a recitare a Spoleto e anche a Milano dove ho incontrato Dario Fo che è stato grande fonte di ispirazione”. Il momento più tenero del documentario è quando i detenuti-attori, non senza timidezze e paure, portando in scena la loro commedia per i parenti che non vedono da molto tempo. Le lacrime delle madri, gli abbracci alle fidanzate e le risate con i figli dicono più di molte parole. “Le madri soprattutto vedono cambiati questi uomini prima pieni di rabbia in uomini nuovi - conclude Robbins - e ritrovano i bambini che hanno conosciuto. Questo per me vale tutto”. Appello contro le “cattive pratiche” dal Tso all’impiego del Taser di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2019 Le richieste del Coordinamento nazionale della Conferenza Salute Mentale. Contrastare le cattive pratiche che violano i diritti delle persone in cura, con particolare riferimento alla contenzione e alle modalità inappropriate nell’esecuzione dei Tso, i trattamenti sanitari obbligatori. Affrontare con chiarezza e determinazione le sofferenze determinate dalla crisi economica e da una comunicazione politica volta alla ricerca del capro espiatorio nelle fasce più deboli dell’umanità: migranti, sofferenti psichici, detenuti. Queste e altro ancora sono le richieste avanzate al nuovo governo Conte all’insediamento da parte del Coordinamento nazionale della Conferenza Salute Mentale. “La lunga crisi economica - scrive il coordinamento nazionale - che purtroppo non accenna a esaurirsi, sta producendo effetti negativi sulla salute della popolazione che si aggiungono a quelli - più noti - connessi all’invecchiamento della popolazione e alle difficoltà che il welfare ha dovuto affrontare in questi anni, nel sociale così come nel sanitario (dalla riduzione dei finanziamenti alla condizione del personale). Una politica che vuole realmente puntare ad una svolta deve tener conto che l’aumento delle povertà, dell’incertezza economica, della disoccupazione, della precarietà, della solitudine (soprattutto fra gli anziani) incidono sulla salute delle persone, e non solo di quelle tradizionalmente più fragili, aumentando i casi di disturbi mentali, disagio psichico, depressione, decadimento silenzioso e rischio di esclusione sociale”. Vengono richiamati soprattutto i principi contenuti nella Dichiarazione di Helsinki dell’Oms “Non c’è salute senza salute mentale”, nella Convenzione Onu del 2006 “le persone con disabilità hanno diritto ad un livello di vita adeguato per sé e per le proprie famiglie” e l’articolo 32 della nostra Costituzione: “la tutela della Salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Viene ricordato che a partire dalla Legge 180/78, l’Italia è considerata dall’Oms il Paese che dispone della legislazione più rispettosa dei diritti delle persone con disturbi mentali; che anche oggi, seppure ostacolata, solo parzialmente attuata e persino tradita, la legge 180 - insieme alla legge 833 - sia un potente motore di trasformazione delle istituzioni e di affermazione dei diritti civili e sociali dei soggetti più fragili; che la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, conquistata nel solco della legge 180, necessita però di essere sviluppata e correttamente applicata per superare ogni logica manicomiale, come prevede la legge 81/ 2014 con misure alternative alla detenzione, considerando le Rems una extrema ratio. Il coordinamento nazionale della Conferenza Salute Mentale ha avanzato specifiche proposte. A partire dalla previsione di specifiche misure per il contrasto delle “cattive pratiche”, che violano i diritti delle persone in cura, con particolare riferimento alla contenzione - a partire da un preciso monitoraggio e dalla formazione degli operatori - e alle modalità inappropriate nell’esecuzione dei Tso, anche prevedendo il divieto dell’impiego del Taser. Così come la necessità di ricostruire l’Organismo di monitoraggio sul processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), composto dalle istituzioni e dalle associazioni che in questi anni si sono impegnate nel processo, anche per garantire il rispetto del diritto all’assistenza e alla tutela della salute per le persone autori di reato (in coerenza con quanto sancito dalla recente sentenza delle Corte Costituzionale 99/2019, ovvero quella equipara la salute fisica delle persone ristrette a quella mentale) e promuovere protocolli tra i servizi di salute mentale e il sistema giudiziario (come indicato dal Csm nella risoluzione del 9/ 2018) onde favorire pratiche condivise nella presa in carico delle persone con disturbo mentale autori di reati. E per fare questo ed altro, ci vogliono soldi. Per questo il coordinamento nazionale si auspica che nella prossima legge di Bilancio vengano stanziati finanziamenti adeguati per il servizio sanitario nazionale e una dotazione per la Salute Mentale almeno pari al 5% del fabbisogno sanitario nazionale, da raggiungere con un piano triennale di riallocazione della spesa. Migranti. Non basta ridimensionare il decreto sicurezza-bis di Donatella Di Cesare Il Manifesto, 5 settembre 2019 Occorre ripensare il tema della migrazione, evitando tentazioni sovraniste, che hanno purtroppo serpeggiato anche a sinistra, per alleanze oltre le frontiere. L’immigrazione è un tema che il nuovo governo giallo-rosso non potrà mettere da parte, né tanto meno ridurre a questioni amministrative, come la modifica del trattato di Dublino o la distribuzione delle persone nei paesi europei. Il tema è eminentemente politico. Non è un caso che abbia contribuito ad aprire un’incrinatura nell’ultimo governo. Ma è anche una ferita aperta nella sinistra. Proprio per questo va del tutto ripensato. Il fenomeno è epocale, perché è legato strettamente alla globalizzazione, al venir meno della sovranità dello Stato-nazione, alla povertà e alla fame nei sobborghi planetari, alla fuga dei capitali, alle catastrofi ecologiche, ai numerosi conflitti che alimentano l’intermittente guerra civile globale. Sbaglia chi pretende di ridimensionarlo o di compararlo a quello di altri periodi storici. Non si può, dunque, affrontare questo tema in una prospettiva nazionale (che presto diventa nazionalistica), com’è avvenuto in Italia, dove hanno prevalso gli slogan e dove un’inquietante linguaggio discriminatorio ha fatto breccia ovunque. Non è difficile ormai imbattersi in politici che, oltre a parlare di “clandestini”, rimproverano a Salvini di non aver provveduto al numero di “rimpatri” che aveva promesso. Come se questo fosse il risultato auspicato! Si deve dire che, nel contesto europeo, l’Italia rappresenta un caso a sé, perché in pochissimo tempo, tra la metà degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, da paese di emigrazione è diventato paese di immigrazione. Non c’erano allora leggi che considerassero la presenza di stranieri sul territorio. La politica ha preferito abdicare. Così, per anni e per decenni, fino ad oggi, ha prevalso il “diritto di polizia”. Non solo nella legislazione, ma anche nell’atteggiamento verso gli immigrati. Ogni straniero era un “clandestino”, un sospetto da tenere sotto sorveglianza, da affidare alla disciplina delle forze dell’ordine. Questo è il filo che collega l’immagine degli albanesi ammassati come bestie nello Stadio Vittoria di Bari, nel 1991, a quella dei bambini trasbordati in piena notte dalla Mare Jonio. In uno stato d’emergenza permanente, misure eccezionali sono diventate ordinarie. L’arbitrio poliziesco ha regnato sovrano in una escalation che l’ipocrisia ha tentato, non senza successo, di coprire. La protezione umanitaria è diventata pretesto per la detenzione amministrativa. Dalla prima legge Martelli del 1990, passando per la Turco-Napolitano, alla Bossi-Fini del 2002, si è voluto far credere che fosse normale “internare” gli immigrati solo perché immigrati, che fosse ovvio privarli di ogni diritto, in una zoologizzazione razzistica crescente, che fosse infine scontata la cosiddetta “guerra contro l’immigrazione”. Tutto quello che è avvenuto in seguito, anche negli ultimi anni, prima con l’esternalizzazione dei campi in Libia, avallata dal governo di centro-sinistra, poi con i due decreti emessi da Salvini, si spiega a partire da questo impianto poliziesco. Il tema dell’immigrazione è stato legato sempre più a quello della sicurezza, un salto nell’incongruenza che l’opinione pubblica ha compiuto senza scrupoli grazie a un’oculata e continua amministrazione di fobie dell’esterno e dell’estraneo. Tanto più che gli italiani si vedono volentieri come vittime e faticano a riconoscersi come carnefici, sia nel passato sia nel presente - dal fascismo al patto con la Libia. In assenza di ogni seria politica dell’accoglienza, che in Italia semplicemente non c’è, il tema dei migranti è stato relegato all’impegno etico o affidato alla carità religiosa. Di qui l’accusa di “buonismo”. Ma l’accoglienza è un tema politico e come tale deve essere all’ordine del giorno. Si apre così un grave problema anche per la sinistra che per un verso ha creduto di doversi dibattere tra umanità e sicurezza, per l’altro ha assecondato l’argomento utilitaristico (fateli entrare perché ci servono). Queste letture sono subalterne alla xenofobia di Stato e allo sciovinismo neoliberista. Non si vuole vedere il dispositivo economico dell’immigrazione che in tutti questi anni ha funzionato attraendo e respingendo insieme: aprendo le porte alla forza-lavoro che serviva, chiudendole per neutralizzare e sfruttare meglio i “flussi”. Così sul corpo dei migranti si sono sommate discriminazione di “razza” e di “classe”. Poco si è fatto per l’alleanza tra lavoratori e migranti. Non basta ridimensionare il decreto sicurezza bis. Occorre ripensare il tema della migrazione in tutta la sua complessità, evitando tentazioni sovraniste, che hanno purtroppo serpeggiato anche a sinistra, e alzando lo sguardo allo scenario globale per stringere alleanze oltre le frontiere. Svizzera. Braccialetto elettronico “swiss made” alla conquista del mondo di Armando Mombelli swissinfo.ch, 5 settembre 2019 Meno costosa e più appropriata dal profilo umano e sociale, la sorveglianza elettronica si sta diffondendo in molti paesi per le pene di breve durata. Nel giro di pochi anni l’impresa svizzera Geosatis è riuscita a diventare uno dei principali fornitori mondiali di braccialetti elettronici. “Oggi ci si rende sempre più conto che la detenzione non rappresenta la soluzione migliore per gli autori di infrazioni leggere. In prigione rischiano di subire influssi negativi da parte di detenuti che hanno commesso reati gravi. E si ritrovano completamente tagliati fuori dal mondo: quando ritornano in libertà sono spesso persi, non hanno più un lavoro e, a volte, neppure un domicilio”, rileva François Vigier, responsabile della comunicazione di GeosatisLink esterno. “L’obbiettivo della sorveglianza elettronica è di proporre un’alternativa all’imprigionamento, in modo da evitare una desocializzazione delle persone a basso rischio”, aggiunge Vigier. “Si tratta di permettere loro di vivere a casa con la loro famiglia, di avere un lavoro e di contribuire positivamente alla società. Tutto ciò riduce anche i rischi di recidiva rispetto a coloro che vengono isolati nelle prigioni”. Una conclusione alla quale sono ormai giunti numerosi paesi. Introdotta per la prima volta negli Stati uniti negli anni 80, la sorveglianza elettronica viene oggigiorno attuata o sperimentata da una quarantina di paesi, tra cui la Svizzera. A livello mondiale vi sono oltre 350’000 portatori di “braccialetti elettronici” - in realtà si portano alla caviglia - di cui circa la metà nel Nordamerica. Prigioni sovraffollate Oltre a favorire il mantenimento delle persone condannate nella loro rete sociale, la sorveglianza elettronica è considerata uno strumento utile per alleviare il problema del sovraffollamento delle carceri, che riguarda oltre la metà dei paesi di tutto il mondo. Il tasso di occupazione delle prigioni supera il 400% della capienza regolamentare nelle Filippine e ad Haiti, il 300% in Bolivia, Guatemala, Uganda e Zambia, e il 200% in una ventina d’altri paesi. In Svizzera, con un tasso di occupazione del 94%, la situazione appare globalmente sotto controllo. Dato che l’esecuzione delle pene detentive è di competenza dei Cantoni, si registrano però grandi differenze tra una prigione e l’altra, con tassi che superano in alcuni casi il 150%. Una problematica che non era sfuggita già una decina di anni fa a José Demetrio. Chiamato a visitare per ragioni di lavoro una prigione di Ginevra, regolarmente sovraffollata, lo specialista di applicazioni di sicurezza si era reso conto che molti detenuti non dovevano necessariamente scontare la loro pena dietro le sbarre. I braccialetti elettronici in circolazione presentavano però ancora importanti lacune dal profilo tecnologico. In particolare, erano facilmente manipolabili e impiegavano una tecnologia di radio frequenza, che consente solo di registrare la presenza della persona sorvegliata in un luogo preciso - generalmente al posto di lavoro e a casa. Nel 2011 José Demetrio ha quindi fondato la start-up Geosatis, quale spin-off del Politecnico federale di Losanna, con l’obbiettivo di mettere a punto un sistema di sorveglianza più sicuro ed efficace. Il risultato è un braccialetto estremamente sofisticato dal profilo tecnologico, dotato tra l’altro di due carte SIM e in grado di localizzare il suo portatore attraverso un ricevitore Gnss (Global Navigation Satellite System), oltre che con la radio frequenza. “Con la tecnologia satellitare possiamo seguire ogni spostamento della persona tra la casa e il lavoro. Possiamo sapere a che velocità si muove, se sta deviando il suo percorso rispetto al tragitto abituale, se si sta allontanando da un determinato perimetro”, spiega François Vigier. Costruito in plastica e titano, il braccialetto elettronico è a prova di manipolazioni, sottolinea il responsabile della comunicazione di Geosatis. “Se si cerca di tirare, forzare o tagliare il braccialetto, dei sensori interni inviano immediatamente un allarme al software, che lo trasmette alla stazione di polizia o alla centrale di sorveglianza”. Un’allarme scatta anche quando il livello di carica della batteria scende al di sotto di una determinata percentuale. Questo impianto high-tech non è frutto solo delle competenze all’avanguardia dell’Epfl, ma anche della tradizione orologiera svizzera. José Demetrio ha insediato la sua impresa nel comune di Le Noirmont, nel Canton Giura, per beneficiare della grande esperienza dell’industria orologiera nel settore della meccanica di precisione e della microtecnologia. Una scelta azzeccata, dato che il congegno di Geosatis è riuscito in pochissimi anni ad affermarsi sul mercato internazionale, perfino su quello americano, dove si trovano i principali concorrenti. Già usato in una ventina di paesi dei cinque continenti, il braccialetto giurassiano non ha ancora conquistato la Svizzera, dove la sorveglianza elettronica sta arrivando in tempi lunghi. Nel 1999 il governo aveva autorizzato alcuni Cantoni a sperimentare questa forma alternativa di esecuzione delle pene di breve durata. Nonostante i riscontri positivi dei primi test, all’inizio degli anni 2000 governo e parlamento hanno preferito puntare su una modifica del Codice penale che consentiva di trasformare le pene detentive di breve durata in sanzioni pecuniarie o in lavori di pubblica utilità. Sorveglianza elettronica anche per stalker - Alla fine del 2018, il parlamento svizzero ha adottato delle modifiche del diritto civile e penale per migliorare la protezione delle vittime di violenza domestica e stalkingLink esterno. La nuova base legale consente, a partire dal 2022, di ordinare la sorveglianza elettronica tramite un braccialetto geolocalizzato per gli autori di simili reati. Entrata in vigore nel 2007, la riforma ha però mostrato rapidamente i suoi limiti: troppe persone condannate a queste pene alternative si sottraevano facilmente ai loro obblighi. Nel 2015 le Camere federali hanno fatto parzialmente marcia indietro con una nuova revisione del diritto penale, in vigore dal 2018, che ha iscritto nella legge il ricorso alla sorveglianza elettronica in alternativa alle pene detentive fino a 1 anno o per la fase finale di espiazione di pene detentive di lunga durata. Questa possibilità può essere concessa, su richiesta del condannato, solo se sono soddisfatti precisi criteri. In particolare, se non vi è da attendersi che il condannato si dia alla fuga o commetta nuovi reati, se il condannato dispone di un alloggio e svolge un lavoro o una formazione, se acconsentono le persone che vivono con lui. Agli occhi del legislatore, lo scopo punitivo della sorveglianza elettronica è raggiunto in quanto viene limitata in maniera rilevante la libertà di movimento e il tempo libero della persona condannata, costretta a rispettare orari e luoghi fissati dal piano di esecuzione. La sorveglianza elettronica rappresenta pure la forma di esecuzione delle pene con i costi più bassi. Costi che potrebbero venir ulteriormente contenuti con la scelta dello stesso braccialetto per tutti i Cantoni e la creazione di un’unica centrale operativa per tutto il paese, in grado di assicurare una sorveglianza 24 ore su 24. Ma finora i Cantoni non sono ancora riusciti a trovare un accordo: alcuni puntano sul sistema proposto da Geosatis, altri su quello di un’impresa americana, basata in Israele. E altri ancora esitano. Così, la sorveglianza elettronica rimane ancora in fase di sperimentazione e viene utilizzata ogni anno per poche centinaia di condannati - circa 400 nel 2018. In mancanza di un’intesa, i Cantoni hanno deciso di lanciare prossimamente un bando di concorso pubblico, in modo da poter adottare una soluzione comune entro il 2023. E mentre il braccialetto elettronico avanza a piccoli passi in Svizzera, a livello internazionale si muove piuttosto a passi da gigante. Dalla sua nascita, Geosatis ha praticamente raddoppiato il suo fatturato e il suo personale ogni 1-2 anni, creando oltre un’ottantina di posti di lavoro. “All’inizio avevamo ordinazioni per alcune decine di braccialetti all’anno, poi per centinaia ed ora siamo ormai giunti a diverse migliaia”, si rallegra François Vigier. Egitto. I genitori di Giulio Regeni a Di Maio: “ritiri l’ambasciatore” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 settembre 2019 L’appello dopo la nomina alla Farnesina: “Vogliamo le conseguenze annunciate”. La prima questione che Luigi Di Maio si ritrova sull’agenda di neo-ministro degli Esteri è il caso Regeni. Non perché ci siano appuntamenti fissati o scadenze imminenti; anzi, non c’è nulla alle viste, e proprio questo è il problema. Sono perciò i genitori del ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso al Cairo all’inizio del 2016 a chiedere al leader grillino che entra alla Farnesina di reagire subito a silenzi, coperture e omertà egiziane sulla drammatica fine del loro ragazzo: “Ora che ha il potere e la responsabilità di porre in essere quelle conseguenze minacciate nei confronti del governo egiziano, confidiamo che il ministro vorrà come prima cosa richiamare il nostro ambasciatore e pretendere la verità fino ad oggi nascosta e negata”, dicono Paola e Claudio Regeni subito dopo aver appreso la notizia della nomina del leader grillino. È un appello che suona anche come una messa in mora di Di Maio, che da vicepremier si era esposto affrontando il caso direttamente con il presidente egiziano Al Sisi, e con successive dichiarazioni che però non hanno avuto seguito. A novembre annunciò conseguenze se dal Cairo non fossero arrivate risposte concrete entro il 2018: “Tutto ne risentirà”. Le risposte non ci sono state, ma non è successo niente. A gennaio, nel terzo anniversario della scomparsa, i Regeni hanno reclamato a gran voce “le conseguenze”, con l’avvocato Alessandra Ballerini, e oggi tornano su quella richiesta. Ricordando ciò che Di Maio proclamò a febbraio 2016, nelle vesti di deputato dell’opposizione: “Il governo dovrebbe minacciare ed eventualmente avviare ritorsioni economiche verso l’Egitto. Giulio era ed è uno dei nostri orgogli nel mondo. Il governo deve andare fino in fondo, lo faccia una volta tanto”. Ora tocca a lui. Hong Kong. Vince il movimento, cancellata la legge sull’estradizione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 settembre 2019 Alla fine hanno vinto, almeno per ora, i manifestanti che da mesi hanno messo in piedi le proteste contro la cosiddetta legge sull’estradizione. Ad Hong Kong il movimento ha visto esaudire una delle richieste portate avanti fin dal giugno scorso. La governatrice Carrie Lam infatti ha ceduto e ha annunciato che il provvedimento, attualmente congelato, sarà ritirato del tutto. La proposta di legge prevedeva l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale scatenando da subito una violenta reazione che ha percorso le strade della città stato. Ben presto il movimento, composto soprattutto da giovani, ha esteso le sue istanze per una maggiore democrazia e autonomia dall’ingombrante sovranità cinese. Il discorso è stato diffuso dalla televisione ed è apparso come il tentativo di mettere fine alle proteste che non hanno mai dato segno di affievolirsi. La governatrice ha anche fatto cenno ad un’inchiesta sulla condotta della polizia durante le proteste che era una delle richieste chiave degli attivisti. L’annnucio di Carrie Lam è arrivato quasi in concomitanza con il clamore suscitato dalla pubblicazione di un audio nel quale avrebbe ammesso che, nonostante avesse intenzione di dimettersi, non le sarebbe stato possibile. L’ammissione della dipendenza dalla Cina che non può non essere messa in relazione con il ritiro. La sua preoccupazione è probabilmente quella di vedersi scaricate addosso responsabilità che risiedono a Pechino, una sensazione emersa dalle sue stesse parole: “Attualmente, fermare la violenza è la massima priorità, mantenere la legge e ricostruire le regole della società. Il governo affronterà severamente la violenza e l’azione illegale” ha concluso la governatrice che ha aggiunto. Le reazioni del movimento di protesta alle parole della Lam sono state abbastanza tiepide e sospettose. Uno degli oppositori anti cinesi Wu Chi- Wai ha subito definito il proclama come falso. Mentre uno dei leader studenteschi, Joshua Wong, ha detto che il ritiro del disegno di legge è “tardivo”. È intervenuta anche Amnesty esprimendo le sue preoccupazioni perché, nmalgrado gli annunci, rimane imprescindibile un’indagine indipendente sulle violenze della polizia. Israele. Eletti e discriminati: i parlamentari palestinesi nella Knesset di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 settembre 2019 Nell’imminenza delle elezioni israeliane del 17 settembre, Amnesty International ha pubblicato un rapporto sulle norme e i regolamenti che discriminano i parlamentari palestinesi e che rendono difficile rappresentare e difendere i diritti della minoranza palestinese residente in Israele, il 20 per cento della popolazione del paese. Nonostante siano eletti democraticamente come tutti gli altri membri della Knesset, i parlamentari palestinesi subiscono la retorica aggressiva dei ministri del governo e le loro proposte di legge vengono giudicate irricevibili sulla base di decisioni o interpretazioni regolamentari pretestuose. Il rapporto di Amnesty International contiene numerosi esempi di leggi, regolamenti e prassi che facilitano la discriminazione nei confronti dei parlamentari palestinesi. Un emendamento legislativo approvato nel 2016 consente l’espulsione, con voto a maggioranza, di un parlamentare che esprime opinioni che quella maggioranza ritiene incitino al razzismo o manifestino sostegno alla lotta armata o al terrorismo. Di recente due parlamentari palestinesi non hanno potuto viaggiare all’estero a causa di un emendamento al Codice etico della Knesset, approvato nel 2018, che vieta di prendere parte a eventi organizzati all’estero se sono finanziati da “soggetti che chiedono il boicottaggio di Israele”. Nel febbraio di quest’anno l’Unione Interparlamentare (di cui fa parte anche la Knesset) ha emesso il giudizio conclusivo su una vicenda che si protraeva da tre anni. All’inizio del 2016 il Comitato etico della Knesset aveva sospeso dai lavori tre parlamentari palestinesi del partito Balad per aver osservato un minuto di silenzio nel corso di un incontro con le famiglie di ragazzi palestinesi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane dopo aver aggredito o cercato di aggredire civili israeliani. Per il Comitato etico della Knesset i tre parlamentari avevano espresso sostegno alla violenza, ma l’Unione interparlamentare ha stabilito che il provvedimento emesso nei loro confronti era stato “ingiustificato”. Dal 2011, almeno quattro proposte di legge (qui un esempio) riguardanti i diritti dei palestinesi sono state giudicate inammissibili prima ancora che venissero calendarizzate nei lavori di qualche commissione parlamentare. A questo si aggiunge il linguaggio aggressivo e discriminatorio dei rappresentanti del governo, che spesso in questi anni hanno definito i parlamentari palestinesi che criticano le politiche israeliane alla stregua di “traditori” che devono essere “messi fuorilegge” o “processati per tradimento”. La discriminazione nei confronti dei rappresentanti istituzionali dei palestinesi è un aspetto di quella più ampia che - dopo l’adozione della legge del 2018 che definisce Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico - colpisce la popolazione palestinese. In un contesto del genere, se non altro, sarebbe fondamentale che i parlamentari palestinesi potessero svolgere in pieno la loro funzione di rappresentanza. Afghanistan. Trump esita e i talebani non si fermano di Franco Venturini Corriere della Sera, 5 settembre 2019 L’annuncio ufficiale della fine di una guerra durata diciotto anni slitta di giorno in giorno. Trump esita, modifica, rinvia, e così l’annuncio ufficiale della fine di una guerra durata diciotto anni slitta di giorno in giorno. Mentre i Talebani afghani, convinti che uccidere sia la forma migliore di esercitare pressioni diplomatiche, moltiplicano gli attentati per dimostrare agli Usa che anche loro hanno fretta. La ricerca di uno storico accordo tra americani e talebani dura da molti mesi, ma soltanto nelle ultime settimane è entrata nel vivo. Il primo a muovere è stato proprio Trump, che ai suoi più stretti collaboratori a metà agosto ha indicato un traguardo preciso: voglio che i nostri 14.000 soldati siano fuori dall’Afghanistan in tempo per le elezioni presidenziali di novembre 2020. Seguono voci apertamente critiche dei militari e del Congresso, e Trump cambia: nei prossimi 135 giorni verranno via 5.400 uomini da cinque basi. Poi vedremo come completare il ritiro alla luce delle circostanze. A condizione, cioè, che i talebani abbiano rotto ogni rapporto con i terroristi qaedisti, e che abbiano avviato il dialogo inter-afghano con il governo di Kabul. I Talebani storcono il naso, dovete andare via tutti e presto. Il negoziatore americano Khalilzad fa orecchi da mercante e sottoscrive un testo di accordo mentre i Talebani attaccano Kunduz e fanno strage nel centro della capitale. Il testo viene mostrato ieri al presidente Ashraf Ghani, che naturalmente non è contento di essere stato tenuto fuori dalla porta e chiede “chiarimenti”. Arriveranno? E cosa deciderà di fare Trump, che rischia di avere tutti contro? L’ambasciatore Khalilzad, noto per la sua tenacia, fa sapere di accingersi ad informare gli alleati della Nato. Era ora. Anche i nostri 800 uomini vorrebbero sapere quando fare i bagagli, soprattutto adesso che a Roma c’è un governo.