Sovraffollamento, ad agosto superato il muro dei diecimila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2019 Per il Comitato europeo per la prevenzione della tortura la costruzione di nuove carceri non è la strada giusta, servono politiche “che limitano la detenzione”. Un sovraffollamento record da diversi anni mai raggiunto. Al 31 agosto 2019, secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane sono 60.741 rispetto ad una capienza regolamentare di 50.469. Cioè vuol dire che risultano 10.272 detenuti in più. Per comprendere l’allarmante tasso in crescita, basti pensare che il picco precedente più alto di quest’anno si è registrato al 31 marzo, con 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Un altro paragone da fare è quello con i numeri al 31 agosto del 2018: erano 8.513 i detenuti in più. Ma i numeri dell’estate di quest’anno risulterebbero addirittura maggiori se dovessimo sottrarre dalla capienza regolamentare i 3.704 posti non disponibili perché inagibili, oppure in via di ristrutturazione. Dato estrapolato dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, grazie all’analisi delle schede di ogni singolo istituto aggiornato dal ministero. Un dato che ci riporta alla vera dimensione del problema e quindi dell’effettiva emergenza sovraffollamento e che non solo si è affievolita, ma dagli ultimi dati si evince che il trend è in continua crescita. Una emergenza riconosciuta dall’attuale ministro Bonafede che però ha fatto varare la ricetta condivisa da tutto il governo: il nuovo piano carceri con la costruzione di nuovi penitenziari e riconversione di caserme dismesse. Dopo aver bocciato i decreti della riforma penitenziaria originaria che prevedevano l’implementazione delle pene alternative, ha fatto stanziare 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, finalizzati al piano carceri. Ma, come ha rivelato Michele Miravalle di Antigone, se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. La storia dei piani carcere ha, però, dimostrato come la soluzione si sia rilevata fallimentare. Dai vecchi dati del Dap, ad esempio, si registra che nel 1974 c’erano 28.286 detenuti. Eppure, sono numeri ridicoli a fronte di 60.741 detenuti di oggi, nonostante - dati Istat alla mano - i reati sono diminuiti rispetto a quegli anni. In tutto questo, gli istituti penitenziari sono aumentati di diverse unità rispetto agli anni 70. Dal 1990 al 2012 assistiamo a un considerevole aumento del trend fase di alta carcerizzazione - che raddoppia la presenza dei detenuti in carcere, raggiungendo quasi 65 mila detenuti. Numeri altissimi che fecero scattare la condanna dalla Corte europea di Strasburgo per trattamento inumano e degradante. Parliamo della sentenza pilota Torreggiani che ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Ma non fu l’unica: ci fu un precedente. Parliamo della sentenza Sulejmanovic del 2009, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. A seguito di questa sentenza il nostro Paese ha iniziato ad interrogarsi sulle azioni da implementare per affrontare il problema del sovraffollamento. Come? Con la costruzione di nuovi Istituti penitenziari. Più ne hanno costruiti, più il sovraffollamento tendeva ad aumentare. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. La verità, rilevata dall’ultima relazione dell’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà, è che gli ingressi nel carcere sono diminuiti, ma non si esce nonostante ci siano migliaia di persone che hanno commesso dei reati per i quali il carcere dovrebbe essere una estrema ratio. Il personale dell’Amministrazione penitenziaria in udienza dal Papa di Marco Calvarese agensir.it, 4 settembre 2019 “Il prossimo 14 settembre Papa Francesco ha concesso una speciale udienza al personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, per incoraggiare e sostenere il nostro particolare servizio, accanto a coloro che sono in prigione. È un dono grande per tutti noi l’attenzione della Chiesa, che si fa compagna di viaggio verso una grande famiglia sofferente, che vive la solitudine tra le mura delle carceri”. Lo sottolinea don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. “Papa Francesco più volte, come Pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita, è entrato nelle carceri, in luoghi di sofferenza, di emarginazione e di povertà, per parlare della libertà dei figli di Dio, per incoraggiare al cambiamento e, soprattutto, per lanciare un grido di aiuto, con la speranza di porre l’attenzione nelle istituzioni, nella società civile e verso tutte le comunità cristiane, affinché questi luoghi di dolore siano per tutti una grande sfida di solidarietà e di civiltà”, aggiunge don Grimaldi. A conclusione dell’udienza, Papa Francesco benedirà la Croce della Misericordia, realizzata dai detenuti di Paliano, che successivamente, per coloro che ne faranno richiesta, sarà inviata nelle carceri italiane. “Una ‘Croce messaggio’ - osserva l’ispettore generale -, dove le immagini dipinte richiamano la nostra attenzione su alcuni episodi biblici, la liberazione di Pietro e di Paolo dalle prigioni, il buon ladrone, e i protettori, San Basilide (patrono della Polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei cappellani delle carceri); sul fondo della Croce immagini di bambini con le loro madri in carcere. Questa raffigurazione vuole rappresentare il desiderio che le tante madri con i loro piccoli possano scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena, in modo che, ai loro piccoli, loro malgrado, non venga tolta la speranza. Ai piedi di Cristo ci sono inoltre raffigurati detenuti, Polizia penitenziaria, amici e amiche volontari e cappellani”. Don Grimaldi ringrazia il Signore per “la grande risposta degli operatori penitenziari: in circa 12mila parteciperemo a questo grande evento ecclesiale. Altre volte abbiamo fatto questa esperienza a piccoli gruppi, diverse carceri separatamente sono state ricevute dal Papa, mentre nella giornata del 14 settembre sarà tutto un popolo che si farà pellegrino alla tomba degli Apostoli, per rinnovare l’impegno come ‘tessitori di giustizia e messaggeri di pacè”. L’incontro risvegli ancora di più nostro impegno in difesa della dignità dei detenuti “Sarà certamente un raduno di comunione, per vivere ancora di più il nostro senso di appartenenza alla grande famiglia che lavora per fasciare le ferite di molti uomini e donne privati della loro libertà personale. Sarà soprattutto una giornata per ascoltare, dalla viva voce del Successore di Pietro, parole di speranza e di sostegno per il nostro servizio non facile”. Così don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, descrive l’appuntamento del 14 settembre, quando Papa Francesco riceverà in una speciale udienza il personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità. “La criticità delle nostre strutture, a causa del sovraffollamento e della carenza di personale, creano grande difficoltà nello svolgere con serenità il delicato compito a cui sono chiamati tutti gli operatori penitenziari - evidenzia l’ispettore generale. È importante che la società civile, la politica e la Chiesa tutta si confrontino e si interroghino davanti a questa porzione di popolo emarginata e scartata”. E aggiunge: “Il mondo della Chiesa che entra nelle carceri è certamente formato da un popolo che offre a tutti la Misericordia di Dio. “L’uomo non è mai il suo errore” così dichiarava don Oreste Benzi, profeta del nostro tempo, rivolgendosi a una società chiusa e indifferente. Von il loro prezioso servizio tanti operatori e figure professionali, cappellani, volontari, religiosi e religiose rendono più umani questi luoghi di povertà”. Di qui l’auspicio: “Questa grande convocazione possa risvegliare più forti nel nostro cuore entusiasmo e passione per impegnarci ancora di più, affinché la dignità di coloro che hanno sbagliato sia sempre difesa e rispettata”. “Gesù Uomo Dio, che ha saputo indicare a tutti gli uomini la strada difficile della Misericordia, possa custodire nel nostro cuore la bellezza di servire l’uomo e di sanare le sue ferite e, come Lui Buon Pastore, ci dia sempre la forza e il coraggio di andare a cercare chi era perduto”, conclude don Grimaldi. “Seguici”: 42 ragazzi per un impegno nella giustizia di comunità gnewsonline.it, 4 settembre 2019 Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova - Uff. III offre a 42 giovani la possibilità di partecipare al progetto “Seguici: per un impegno responsabile nella giustizia di comunità”, rientrato tra i progetti finanziati dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio civile universale che, nei prossimi giorni, pubblicherà il bando di selezione dei 39.181 operatori volontari che potranno svolgere l’esperienza del servizio civile nel 2020. I volontari selezionati matureranno un’esperienza di servizio civile nell’area penale esterna del Ministero della Giustizia; il servizio sarà svolto sia presso la Direzione generale che presso gli 11 uffici inter-distrettuali di esecuzione penale esterna adulti. In particolare, i volontari del servizio civile saranno coinvolti in attività per il potenziamento della messa alla prova e il consolidamento delle collaborazioni esistenti tra gli uffici territoriali, la magistratura e le agenzie presenti nella comunità. Quest’anno, per la prima volta, la candidatura dei giovani sarà possibile esclusivamente in modalità on-line grazie a una specifica piattaforma, raggiungibile da Pc fisso, tablet o smart-phone, cui si potrà accedere attraverso Spid, il “Sistema Pubblico d’Identità Digitale”. Quindi, i giovani tra i 18 e i 28 anni, potranno cominciare a richiedere lo Spid con un livello di sicurezza 2; sul sito dell’Agid - Agenzia per l’Italia digitale sono disponibili tutte le informazioni necessarie, anche con faq e tutorial. Riforma dei processi. Dal programma M5S-Pd primo ok al ddl Bonafede di Errico Novi Il Dubbio, 4 settembre 2019 Nel programma condiviso Pd-M5s c’è dunque il sì alla riforma Bonafede. Non un via libera testuale e incondizionato, ma un ok di massima, evidente nella stesura del dodicesimo punto delle “Linee di indirizzo programmatico per la formazione del nuovo governo”, allegate ieri dai pentastellati alla pagina web del voto sul Conte bis: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura”. È chiaro che si tratta, come da nota nel frontespizio, di una “Bozza di lavoro che riassume le linee programmatiche che il Presidente del Consiglio incaricato sta integrando e definendo”. Va bene, va benissimo. Ma quelle parole, quelle al punto 12, sono inequivoche. Evocano per grandi linee il ddl preparato dal guardasigilli uscente, e in via di riconferma. Con l’inserto della giustizia tributaria, competenza da condividere con altri dicasteri. La seconda implicita certezza è che resta fuori dagli accordi, per ora, il tema prescrizione. Non perché si abbia paura di affrontarlo. Anzi. Quattro giorni fa alcuni dei big dei due partiti hanno discusso, in un vertice con Giuseppe Conte e i neo-alleati, anche di giustizia e, in particolare, della norma sulla prescrizione dei reati. A quella riunione i rappresentanti del Pd, da Graziano Del Rio a Dario Stefano, hanno espresso tutte le preoccupazioni per l’eliminazione dell’istituto dopo la sentenza di primo grado. Ma si è concluso, insieme, che al momento è impossibile trovare una soluzione. Ecco perché il tema non è neppure fugacemente evocato nel programma. Vuol dire che la mina è disinnescata? Tutt’altro. Alcune voci interne al partito di Nicola Zingaretti indicano nella giustizia “un inevitabile terreno di scontro”. E la prescrizione rischia di diventare a breve la battaglia cruciale. Pochi giorni fa l’Unione Camere penali ha ribadito “il proprio impegno strenuo” finché “quell’abominio non verrà cancellato”. E il pressing degli avvocari spingerà i dem a riaprire il dossier a breve, ben prima che, il prossimo 1° gennaio, lo stop alla prescrizione dopo il primo grado entri in vigore. Ma c’è da dire che, come fa notare un’altra fonte del Pd, un parlamentare di lungo corso, “noi non siamo la Lega, non poniamo ultimatum: non è questo il modo per risolvere i problemi”. Vuol dire che, per esempio, non si penserebbe mai di pretendere, come condizione per non rompere sulla prescrizione dei reati, una approvazione lampo della riforma del processo penale, come chiesto invece dalla Lega. Un’altra fonte dem, che pure preferisce non essere citata, assicura che su gran parte dei contenuti del ddl Bonafede, almeno sulla parte relativa al processo penale, la convergenza è possibile. Ecco: a differenza del Carroccio, il Pd condivide diverse misure inserite nella legge delega del guardasigilli. A cominciare dalle sanzioni per pm e giudici lenti. Punto sul quale non si arriverà al parossismo leghista, secondo cui sarebbero stati insufficienti i 9 anni, e persino i 6 anni della legge Pinto, previsti prima di far scattare conseguenze disciplinari per il magistrato tardivo. Lo stesso primo limite, inserito dal ministro della Giustizia nella bozza iniziale, potrebbe andar bene. Andranno bene anche gli interventi ipotizzati sui riti alternativi, a cominciare dal superamento dei vincoli per il ricorso all’abbreviato condizionato. Ma soprattutto, il Pd sarà favorevole a una modifica al Codice in apparenza marginale, e invece ritenuta preziosissima sia da istituzione e associazioni forensi che dall’Anm: l’estensione del patteggiamento, sia rispetto al limite di pena previsto per i reati a cui applicarlo (10 anni) sia riguardo allo sconto concesso all’indagato che patteggia (fino al dimezzamento della pena). Salvini e Bongiorno avevano chiesto di sopprimere quell’intervento. Il Pd invece darà piena disponibilità a inserirlo nella riforma un simile, importante dettaglio. Sono motivi che spiegano l’implicito via libera di massima alla riforma Bonafede, richiamato da quel “punto 12” del programma. Che, come visto, sdogana anche la parte del ddl relativa al Csm, la sola a non avere forma di legge delega. Lo stesso guardasigilli ha assicurato più volte di voler lasciare al Parlamento ampio margine di confronto sull’argomento. Tra M5S e Pd, ci sono distanze non incolmabili. Nello schema di ddl preparato a suo tempo, per Orlando, dalla commissione Scotti, si scartava sia il ritorno a 30 consiglieri (dagli attuali 26) sia l’ipotesi del sorteggio per eleggere i togati. Ma ci sono punti di contatto sulla “specializzazione” dei componenti da destinare alla sezione disciplinare e sul restringimento dei collegi per il voto dei magistrati. Nel Pd c’è chi, di fronte al “sorteggio temperato”, non è troppo contrario. Lo stesso Orlando - che resterà fuori dall’esecutivo, come ha annunciato ieri, ma manterrà un’influenza notevole sulla giustizia - potrebbe non trovarlo così indigesto. Il processo penale e l’ordinamento giudiziario sono e resteranno un tema bollente. Eppure le distanze cominciano a essere meno profonde di quanto si potesse pensare. Tempi dei processi e Csm. Mediazione (im)possibile di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 settembre 2019 Sul piatto la riforma Bonafede bloccata dalla Lega e gli altri nodi di due opposte visioni del penale. È indicato da Forza Italia come uno dei punti più generici del programma giallorosso, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti. Se il testo della riforma della giustizia, approvata in Consiglio dei ministri “salvo intese” a fine luglio, è stato infatti terreno di scontro duro tra la Lega e il M5S, si può stare certi che lo sarà anche - e forse ancora di più - con il Pd. Fiore all’occhiello del ministro uscente Alfonso Bonafede - attualmente l’unico candidato Guardasigilli possibile del governo nascente, perché difeso con le unghie e con i denti sia da Conte che da Di Maio - la riforma si è arenata sullo scoglio del processo penale. In particolare sui tempi per arrivare a sentenza, rispetto ai quali il governo uscente ha deciso di porre un tetto (6 anni, è stato l’accordo raggiunto, mentre il M5S ne aveva previsti 9) che i magistrati non devono superare, pena sanzioni disciplinari. Un tetto che dovrebbe calibrare l’impatto dell’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, norma introdotta dallo “Spazzacorrotti” che entrerà in vigore a gennaio 2020 ma solo in via subordinata ad una riforma complessiva del sistema giustizia. Ecco perciò che i due punti della bozza di programma che “il presidente del Consiglio sta integrando e definendo”, diramata in rete per mostrare l’avanzamento dei lavori del costituendosi governo giallorosso, non potevano che essere poco più che un titolo: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura”, è scritto al punto numero 12. Mentre il successivo è un omaggio al giustizialismo pentastellato: “Occorre potenziare l’azione di contrasto delle mafie e combattere l’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene per i grandi evasori e rendendo quanto più possibile trasparenti le transazioni commerciali”. Di prescrizione naturalmente non si parla neppure, né tanto meno di intercettazioni o di regolamentazione delle carriere dei magistrati, se non menzionando la riforma del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura dentro il quale Bonafede non vuole assolutamente più vedere politici. E d’altra parte sono questi alcuni dei nodi che prevedibilmente verranno al pettine quando sarà il momento di mettere a confronto la visione grillina con quella dei democratici sul pianeta giustizia. Per misurarne la distanza (che però è suscettibile di variazione) basti ricordare il colpo di spugna con il quale l’attuale inquilino di via Arenula ha con entusiasmo cancellato due anni di lavoro e molte energie investite dallo Stato per dare corpo alla riforma dell’ordinamento penitenziario lungamente attesa e auspicata da tutto il mondo carcerario. Una riforma messa a punto da uno stuolo di esperti riuniti dall’allora ministro Andrea Orlando in tavoli tematici durante gli Stati generali dell’esecuzione penale, ma che il M5S ha sempre liquidato come “svuota-carceri” e “salva-ladri”. Cosa ne verrà fuori dall’incontro/scontro di queste due Weltanschauung - ammesso che ancora resistano, all’interno dei due partiti - è tutto da vedere. Numero 27: non bloccare la prescrizione di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 settembre 2019 La svolta rossogialla sulla giustizia passa dalla discontinuità con una legge horror. E la prescrizione? La domanda è sorta spontanea di fronte alla bozza del programma di governo col Pd fatta circolare ieri dal M5s in occasione del voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau. Nel testo, infatti, è assente qualsiasi riferimento al tema della prescrizione. Come noto, sulla questione la distanza tra grillini e dem è notevole, con i primi strenui e fieri difensori della riforma approvata con la Lega che sospende la prescrizione dopo una sentenza di primo grado (e che scatterà dal primo gennaio 2020), e con i secondi comprensibilmente preoccupati che l’abolizione di fatto di questo istituto possa essere, oltreché inutile, visto che il 70 per cento dei procedimenti finisce in prescrizione durante le indagini preliminari (cioè prima del processo), anche fatale per una giustizia italiana già lenta e inefficiente. Così, per nascondere l’imbarazzo per un mancato accordo sul da farsi, gli strateghi casaleggiani hanno pensato di nascondere il problema sotto il tappeto. Tra i 26 punti che compongono le “linee di indirizzo programmatico” del nuovo governo sottoposte agli iscritti pentastellati, solo uno è dedicato alla giustizia: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura”. L’ennesima enunciazione generica, che però in questo caso sembra palesare la volontà dei grillini di non ritoccare (o abolire) la precedente modifica della prescrizione e di approvare semplicemente la riforma del processo penale, di quello civile e del Csm che era stata definita dal Guardasigilli Bonafede, e su cui poi si era consumata l’ennesima frattura con la Lega. Il testo fatto votare dal M5s ai propri iscritti, insomma, sembra contenere un messaggio molto chiaro al Pd, soprattutto se si considera che, in caso di nascita del governo rossogiallo, Bonafede dovrebbe con molta probabilità essere confermato al ministero della Giustizia: la riforma della prescrizione non si tocca. Resta da capire se i dem accetteranno di sottoporre i cittadini a processi a vita e contrari a qualsiasi principio basilare dello stato di diritto. Servirebbe un punto numero 27: non bloccare la prescrizione. Conte-bis. Sulla mafia un silenzio, sinora assordante di Vito Lo Monaco articolo21.org, 4 settembre 2019 Conte si è presentato, dopo l’incarico ricevuto dal Presidente Mattarella per formare un governo con la nuova maggioranza giallo-rossa con una palese contraddizione: un nuovo programma innovativo e di riforma e la riconferma dell’operato del governo giallo-verde. Non sono sfuggite, e sono apprezzabili, le enunciazioni di temi e riforme ampie che dovrebbero portare ad affrontare e superare storici problemi per un nuovo modello di sviluppo, più equilibrato; perseguire un convinto europeismo e atlantismo, e un rispetto sostanziale e non solo formale della Costituzione. Un silenzio, sinora assordante, invece su un tema fondamentale per la democrazia italiana, quello della prevenzione della corruzione e del sistema politico-mafioso. Non bastano i successi repressivi delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario italiano per cancellare la mafia e la corruzione, ad essa connessa, dalla vita sociale, economica, politica del nostro Paese. Il governo giallo-verde si è contraddistinto per roboanti dichiarazioni antimafia ad ogni successo delle forze di repressione, ma non ha prodotto nulla in termini di sostegno concreto alle forze dell’ordine, non ha mancato occasione per attaccare l’indipendenza della magistratura, strumentalizzando anche lo scandalo “Palamara” o la giusta azione giudiziaria sul salvataggio dei migranti e il sequestro delle navi delle Ong. Come tutte le forze sovraniste del mondo ha generato paura e odio, li ha alimentati per rivendicare ordine e sicurezza, creando di far dimenticare o nascondere le ombre di collegamento col sistema corruttivo politico-mafioso di uomini vicini alla Lega. La questione dell’assenza del tema politico della lotta concreta alle mafie, sinora, riguarda anche le proposte programmatiche sia dei 5Stelle che del Pd. Le mafie sono state sconfitte nella loro esistenza storica, ma non sono affatto scomparse dal sistema Italia, essendo state capaci di adeguarsi al suo mutamento nel XXI secolo. Di fronte a ciò è lecito sollevare un allarme soprattutto conoscendo l’estensione della rete corruttiva-politico-mafiosa in tutto il Paese? È un problema di democrazia la scarsa vigilanza amministrativa e politica in tanti comuni del Sud, del Centro e del Nord come segnalano gli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose? Si possono lasciare soli le forze dell’ordine, le prefetture, gli apparati giudiziari di fronte a questo pericolo senza fornire loro, non il solito twitter di compiacimento, ma una seria e concreta azione preventiva che presuppone, in primis, nessuna tolleranza e contatto con la rete di relazione politico-mafiosa? Ne va della democrazia del futuro che vedrà sempre la presenza di una destra, liberale, conservatrice o reazionaria e di una sinistra, che per esser tale, deve lavorare per difendere i più deboli della società, la giustizia sociale e le libertà politiche e civili, comprese quella dalle mafie. Saprà Conte superare anche queste contraddizioni? Negato il primo permesso premio a Donato Bilancia di Luca Ingegneri Il Gazzettino, 4 settembre 2019 Sta affrontando con risultati apprezzabili il lungo percorso di rieducazione ma non ha ancora raggiunto una condizione psicologica tale da poterne escludere la pericolosità sociale. É con questa motivazione che il magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza di Padova Tecla Cesaro ha negato il primo permesso premio a Donato Bilancia, il serial killer che, in appena sei mesi, tra il 1997 e il 1998 aveva insanguinato Liguria e Piemonte consumando diciassette omicidi e accumulando condanne per complessivi 13 ergastoli e 28 anni di reclusione. Sessantotto anni compiuti a luglio, Bilancia è in carcere dal 6 maggio 1998 ma da circa otto anni ha potuto lasciare il regime di isolamento per poter essere inserito nei circuiti detentivi comuni all’interno della Casa di reclusione di strada Due Palazzi. Solidarietà, lavoro e studio hanno caratterizzato il suo lento percorso riabilitativo, scandito finalmente da comportamenti esenti da rilievi di natura disciplinare, in netto contrasto con quanto accaduto nei primi anni di carcerazione. Da circa un paio di anni Bilancia coltiva un sogno, fin qui rimasto irrealizzato. Quello di incontrare un bimbo di nove anni, di origini cinesi, affetto da sindrome di Down, cui eroga una parte del suo trattamento pensionistico, con l’obiettivo di assicurargli un regolare ciclo di studi. Il piccolo vive all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola, alle porte della città. Ed è in questo ambito protetto che il pluriomicida vorrebbe incontrare il bambino, assieme al cappellano del carcere don Marco Pozza, che lo sta sostenendo nel percorso di fede e che ha definito questo particolare legame con il minore “una delle più sincere e disinteressate gesta di carità che mi è capitato di vedere in questi sette anni di lavoro”. La stabilizzazione della condotta comportamentale, il particolare impegno negli studi (quattro gli esami sostenuti alla facoltà universitaria di Progettazione e Gestione del turismo culturale dopo il diploma in ragioneria e la buona conoscenza di tre lingue straniere), nelle attività carcerarie, come componente della commissione cucina cui partecipa ogni mattina, e la sincera compartecipazione emotiva nei momenti in cui ha potuto esprimere il proprio dispiacere per i crimini del passato non sono stati ritenuti sufficienti per la concessione del permesso premio. Secondo il magistrato di sorveglianza “non sono stati acquisiti elementi tranquillizzanti sotto il profilo della pericolosità sociale”. In quei sei mesi d’inferno in cui ha firmato diciassette delitti Bilancia ritiene di essere stato colpito da una specie di malattia, non controllabile ma limitata nel tempo, da cui ora sarebbe però guarito. Non si è però mai sottoposto ad un percorso psicoterapeutico che lo obblighi ad una revisione in chiave critica dei suoi orribili comportamenti. Ed è questo l’aspetto che non convince il giudice: “La conclusione del percorso avviato soltanto nel marzo scorso - scrive la dottoressa Cesaro - consentirebbe da un lato di comprendere l’origine delle gravissime condotte che Bilancia giustifica con sentimenti di rabbia e frustrazione per il tradimento da parte di un amico e con l’utilizzo di cocaina, di cui tuttavia non si trova alcun riscontro, dall’altro di capire se egli sarebbe in grado di gestire adeguatamente momenti di frustrazione e rabbia nel momento in cui venisse a trovarsi fuori dell’ambiente contenitivo del carcere”. Almeno per ora il serial killer dovrà quindi rinviare l’atteso incontro con il bimbo cinese. Mancano le rassicurazioni necessarie per poter beneficiare dell’esperienza premiale. Napoli. L’estate nera nel carcere di Poggioreale di Antonio Folle Il Mattino, 4 settembre 2019 Familiari dei detenuti pronti alla mobilitazione. L’estate ormai finita è stata rovente per il carcere di Poggioreale e per gli oltre duemila detenuti nella struttura. Scioperi della fame, rivolte, risse tra bande e, dulcis in fondo, la rocambolesca fuga di un detenuto che ha violato la sicurezza di una struttura ritenuta tra le più sicure d’Italia. Tante le falle anche all’interno del carcere. Il sindacato della polizia penitenziaria negli scorsi mesi ha denunciato la presenza di droga, telefoni cellulari - 11 chili di droga e ben 900 cellulari - e un fitto sistema di comunicazioni che permetterebbe ai camorristi di controllare i loro traffici criminali anche dietro le sbarre. A tenere banco è il tema del sovraffollamento della struttura e la richiesta - ormai da più voci - della dismissione del carcere di Poggioreale e della trasformazione in un museo. Come Alcatraz. Pietro Ioia, presidente dell’associazione ex Don - Detenuti Organizzati Napoletani - ha tracciato un desolante quadro della situazione. “Questo carcere è una polveriera pronta a esplodere - ha affermato - e questa estate è stata infernale da tutti i punti di vista. Abbiamo assistito a una fuga, a episodi di risse tra detenuti, rivolte e aggressioni ai danni delle guardie carcerarie. Non si può andare avanti in questo modo - prosegue - in una struttura dove entra di tutto, dalla droga ai telefonini portati dentro da alcuni familiari. C’è bisogno di una profonda riforma del sistema carcerario italiano ma quello che chiediamo a gran voce è la chiusura definitiva di questo inferno e la trasformazione degli spazi in un museo”. Una situazione, quella della casa circondariale di Poggioreale, molto distante da quello che dovrebbe essere lo scopo della detenzione. La rieducazione dei detenuti, come denunciato più volte dai sindacati della polizia penitenziaria, è di fatto impossibile. Le associazioni delle famiglie dei detenuti hanno annunciato un autunno caldo sul fronte delle proteste di piazza. La prima è prevista per sabato a piazza Nazionale. “Non resteremo con le mani in mano ad aspettare che qualcuno si decida a risolvere i problemi dei detenuti che stanno scontando giustamente la loro pena - ha proseguito ancora Ioia - per questo abbiamo indetto per sabato 7 settembre alle 17 una manifestazione a piazza Nazionale. Invitiamo i familiari delle persone detenute in questo inferno a scendere in piazza e a manifestare il loro disappunto. Solo così si potranno ottenere risultati a breve e medio termine. Ad ogni modo - ha poi concluso il presidente dell’associazione Ex Don - la manifestazione di sabato è solo un primo passo. Nelle prossime settimane chiameremo a raccolta ancora una volta i familiari dei detenuti, che sono poi i veri garanti dei loro diritti, per manifestazioni all’esterno delle carceri della Campania”. Napoli. Carcere di Poggioreale, raccolta fondi per comprare 600 ventilatori ai detenuti internapoli.it, 4 settembre 2019 Mancano quattro giorni per completare la raccolta di fondi per comprare seicento ventilatori per il carcere di Poggioreale e mancano ancora più di cinquemila euro. Per questo il deputato Paolo Siani, che a giugno ha visitato l’istituto di pena con l’onorevole Michela Rostan, la consigliera regionale Bruna Fiola e il garante dei detenuti Samiele Ciambriello, dalla sua pagina Facebook rilancia l’iniziativa. “Ultimi giorni per l’acquisto dei ventilatori per il carcere di Poggioreale a Napoli - scrive l’onorevole - Ne sono stati già acquistati e consegnati 100 per il padiglione sanitario. Se vi va di aiutarmi in questa “piccola impresa” in internet trovate tutte le indicazioni”. Il link da cliccare è: http://https//www.derev.com/aria-pulita-per-il-carcere-di-poggioreale. “Vi chiediamo un aiuto per dare aria pulita e ossigeno - si legge sulla pagina. Si tratta di dare un po’ di aria pulita, fresca, ricca di ossigeno a chi ha sbagliato e sta pagando. Si tratta di riempire di ossigeno i polmoni, il cervello, il cuore. Donare ossigeno che possa penetrare nella pelle e rigenerare tutti i tessuti. A Poggioreale le condizioni di detenzione sono durissime e i detenuti non possono di certo uscire come persone migliori in queste condizioni. A chi ha sbagliato è giusto togliere la libertà, non la dignità, altrimenti falliremo nell’obiettivo di recuperare e rieducare il più possibile e togliere, così, criminali dalla strada. Aiutateci a regalare un ventilatore per ogni cella! Ne servono 600 e ogni ventilatore costa 13 euro. Facciamolo in fretta, fa caldo e in quelle celle non si respira, non arriva ossigeno. Ancona. Protocollo anti-suicidi per le carceri di Montacuto e Barcaglione cronacheancona.it, 4 settembre 2019 Una task force per prevenire episodi di autolesionismo e suicidi nei penitenziari di Montacuto e Barcaglione. Il direttore dell’Area vasta 2, Giovanni Guidi e la direttrice degli Istituti penitenziari di Ancona, Manuela Ceresani, hanno siglato il protocollo “Piano Locale condotte suicidarie Istituti Penitenziari di Ancona”, sintesi del lavoro multi-disciplinare e inter-istituzionale che vede la collaborazione tra il personale sanitario e quello operante nelle carceri. Sulla scorta delle esperienze positive degli anni precedenti (gestiti con il protocollo del 2014) che hanno ridotto fortemente gli episodi di autolesionismo - con un solo suicidio tra il 2014 ed il 2018 -, sono stati introdotti alcuni nuovi elementi previsti dalle indicazioni nazionali e regionali. Tra queste, il nuovo protocollo prevede la presenza di referenti locali, uno sanitario ed uno della polizia penitenziaria per coordinare i vari livelli di interventi multidisciplinari, a partire dallo screening nel momento dell’ingresso in carcere, fino al colloquio con il funzionario giuridico pedagogico, passando per il triage medico infermieristico e la valutazione psichiatrica. Il detenuto viene collocato in una fascia di rischio su una scala da 0 a 3 in funzione della quale scattano protocolli via via più intensivi di sorveglianza La cabina di regia è costituita dal gruppo di valutazione multidisciplinare, composto dagli operatori dell’Av 2, dall’amministrazione penitenziaria e dal dipartimento di Giustizia minorile e comunità. Presenti alla stipula del protocollo anche il direttore generale e quello sanitario dell’Asur, Alessandro Marini e Nadia Storti, ed il garante dei diritti Andrea Nobili. Milano. Rogoredo, l’inferno del “boschetto” dei ragazzi-ombra di Carmen Mora Il Dubbio, 4 settembre 2019 In città negli ultimi due anni il consumo di eroina è aumentato del 103% e le morti per overdose di oltre il 15%. Milano, con circa un milione e 300 mila abitanti e un indotto di oltre due milioni e mezzo di persone che entrano ed escono dalla città ogni settimana, è uno dei capoluoghi in cui si consuma più droga d’Italia. Denaro in abbondanza, attività finanziarie, moda, università e movida rappresentano il tessuto sociale ideale per la diffusione e l’abuso di sostanze stupefacenti. Domanda alta. Offerta ancora più alta. Un fenomeno trasversale, quello della tossicodipendenza, che oggi riguarda una fascia molto estesa della popolazione, dai preadolescenti agli anziani e seguitare a credere che i tossici appartengano al mondo degli sballati emarginati è un grossolano errore di valutazione che nessuno può permettersi. Rogoredo è un quartiere periferico a sud-est del centro di Milano poco distante dalla famosa Abbazia di Chiaravalle. All’inizio del secolo scorso fu protagonista di un consistente processo di industrializzazione con l’insediamento di acciaierie e industrie chimiche e conseguente significativo aumento della popolazione al punto da assumere i contorni di un paese indipendente ai margini di Milano. La situazione ha iniziato a complicarsi intorno al 2015, in corrispondenza con Expo, quando i consumatori, allontanati dal centro città, sono confluiti in questa zona periferica rivelatasi logisticamente strategica. La maggior parte dello spaccio e del consumo avviene in un’area alberata all’interno del Parco Cassinis, meglio nota come “il boschetto” oppure nei pressi della limitrofa stazione dell’alta velocità. Due luoghi malsani, oltre ogni dignità, dove centinaia di tossicodipendenti comprano e consumano eroina, cocaina e droghe sintetiche creando un vero e proprio allarme sociale per il quartiere. Degrado, spaccio, violenza e pochissimi controlli nonostante la presenza di un presidio fisso delle forze dell’ordine concentrato, evidentemente, a un lavoro più contenitivo che risolutivo. In pochi anni Rogoredo è diventato lo scenario quotidiano di un pendolarismo massiccio da tutta la Lombardia e dalle regioni confinanti e per quanto possa apparire insolito intraprendere un viaggio in treno per comprare una dose, il motivo è facilmente spiegato: non esistono prezzi così bassi in tutto il nord Italia. Nel boschetto della droga c’è un tariffario per ogni servizio e non si vende solo una dose ma tutto il kit necessario per drogarsi. Con 8 euro, ad esempio, oltre alla dose di cocaina cosiddetta “dei poveri” si ottiene una siringa nuova, un accendino e un cucchiaino e ai più fortunati i pusher omaggiano l’uso di un materasso malconcio per circa un’ora. Una monodose di eroina da 0,1 grammo invece può costare 2 o 3 euro. Meno di un pacchetto di sigarette. A chi non ha soldi a sufficienza viene proposto di vendere il proprio corpo nella tenda canadese rossa dove, oltre alla droga, talvolta viene consegnato un preservativo. Le prestazioni sessuali vanno da 5 euro per il sesso orale a 20/ 30 euro per un rapporto completo. La cocaina rimane in assoluto la droga più diffusa ma la vera emergenza degli ultimi 4 / 5 anni è il grande ritorno dell’eroina. Di facile accessibilità, non si inietta più solo in vena ma si fuma. La tendenza dei narcotrafficanti è quella di potenziarla aumentando la percentuale di principio attivo per “affamare” il consumatore e fidelizzarlo. Siamo di fronte a geniali e strategiche operazioni di marketing da parte di spacciatori senza scrupoli che, attraverso l’aumento della disponibilità e il calo dei costi, raggiungono i veri obiettivi finali: drastico abbassamento dell’età dei consumatori e parco clienti allargato. I primi contatti avvengono a 13 / 14 anni attraverso i cannabinoidi, ancora oggi, la sostanza di ingresso più diffusa. Molti ragazzi giungono al primo consumo per motivazioni banali e il senso di invulnerabilità tipico della giovane età li conduce a sperimentare di tutto senza conoscere nulla della sostanza assunta trascinandoli velocemente nel baratro della dipendenza. Risale a pochi giorni fa l’ennesimo angosciante fatto di cronaca che ha coinvolto una 17enne tossicodipendente e incinta aggredita e picchiata al “boschetto della droga”. La ragazza, con il volto tumefatto dalle botte, accasciata tra i cespugli piangeva e gridava aiuto in uno stato di grave disagio psico- fisico. Fortunatamente è stata soccorsa e trasferita in una struttura medica adeguata. Ma il dramma rimane. Il dramma di una realtà statica in cui l’assunzione di sostanze stupefacenti da parte dei giovani sembra un fatto quasi scontato. Una sorta di lento ma inesorabile processo di normalizzazione dei comportamenti trasgressivi. Pochi anni fa l’indagine “Sballo 2.0” scoperchiò un giro di giovanissimi spacciatori/ consumatori che si scambiavano droghe di ogni genere comunicando con disegnini via Whatsapp la sostanza prescelta. Come se fascinazione e mitizzazione del pericolo e del vietato prevalessero su tutto il resto in un rapporto con la realtà totalmente scomposto e distante. Nel boschetto, tra rifiuti e siringhe abbandonate, circolano più di 500 persone al giorno. Tra i clienti abituali non mancano ex imprenditori, disoccupati, impiegati, persino un nonno con un nipote e studenti neodiplomati con lo zainetto in spalla che invece di bussare alla porta di qualche azienda si infilano l’ago nel braccio. Negli ultimi due anni il consumo di eroina è aumentato del 103% e le morti per overdose di oltre il 15%. È indispensabile prendere atto della crisi dei processi formativi tradizionali e della responsabilità educativa degli adulti a loro volta, troppo spesso, disorientati e spiazzati dalla complessità del raggiungimento di un reale progetto di vita. Alla radice della crisi dell’educazione vi è innanzitutto una crisi di fiducia nella vita con cui prima o poi tutti dovranno fare i conti. Agrigento. Corsi per detenuti, potranno acquisire la qualifica di pizzaiolo comunicalo.it, 4 settembre 2019 Mentre scontano la pena i detenuti ad Agrigento avranno la possibilità di studiare e prendere la qualifica per pizzaioli o partecipare a corsi di formazione brevi è per operatori della ristorazione e per operatori agricoli. È quanto prevede il progetto Aquilone finalizzato all’inclusione delle persone in esecuzione penale finanziato dall’assessorato regionale al Lavoro, Famiglia e Politiche sociali a valere sull’Avviso 10/2016, rientra nell’attuazione dell’Asse II “Inclusione Sociale e lotta alla povertà”, del Po Fse Sicilia 2014/2020, Obiettivo tematico 9, Azione 9.2.2.. Il progetto ad Agrigento è già rivolto a soggetti in esecuzione penale esterna; sono in corso intese per includere anche il carcere di Agrigento e i reclusi di quell’istituto, come già avviene negli istituti penitenziari di Enna e a Piazza Armerina, dove i beneficiari sono detenuti. I destinatari del progetto sono tutte le persone dai 18 ai 64 anni che, a diverso titolo e con diverse misure, sono sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria di limitazione o restrizione della libertà individuale. Rientrano in questo ambito le seguenti categorie di destinatari: soggetti in esecuzione penale intramuraria; soggetti in esecuzione penale esterna; soggetti sottoposti a misure di sicurezza o in sospensione del procedimento per messa alla prova. Il progetto è promosso da: Eap Fedarcom (capofila), Enaip Enna (sono entrambi enti di formazione), Associazione Spiragli (soggetto del terzo settore specializzato nell’animazione sociale di soggetti reclusi), Cifa Italia (Associazione datoriale) che ha delegato alla partecipazione operativa la sua federazione Upi (Unione Pizzaioli Italiani). Il progetto Aquilone prevede percorsi integrati di accoglienza e orientamento, corsi di formazione brevi (per operatori della ristorazione e per operatori agricoli) e a qualifica (per pizzaioli) e accompagnamento al lavoro (cioè tirocini finalizzati all’inserimento lavorativo). Ferrara. La Camera Penale in visita al carcere: “tante attività ma poco partecipate” estense.com, 4 settembre 2019 Presenti 373 detenuti. Progressi nell’opera rieducativa ma ci sono difficoltà logistiche ed economiche. Nella giornata di martedì una delegazione del Direttivo e dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale Ferrarese, composta dagli avvocati Pasquale Longobucco, Alessandro Misiani, Irene Costantino, Mattia Romani, Carlo Alberto Papotti, Alessandra Palma, Nicola Sganzerla e Lucrezia Vaccari, ha fatto visita alla casa circondariale di via Arginone. Attualmente presso la struttura sono presenti 373 detenuti (nella maggior parte dei casi collocati in celle a due letti) rispetto ad una capienza regolamentare di 244 e una capienza tollerabile di 464, di cui circa il 35% di stranieri. Il numero dei detenuti risulta in progressivo e costante aumento, secondo un trend di crescita che caratterizza tutto il territorio nazionale e che testimonia, ancora una volta, la natura sistemica del fenomeno del sovraffollamento carcerario. Pur con tutte le problematiche connesse, da un lato al numero dei detenuti e, dall’altro al numero del personale di polizia penitenziaria (ad oggi inferiore di poco più di venti unità rispetto alla pianta organica) si è potuto constatare - come già, invero, avvenuto anche nel corso dell’ultima visita, risalente allo scorso anno - che, nel corso degli ultimi anni, sono stati effettuati indubbi progressi nell’opera rieducativa-trattamentale, grazie al costante impegno degli uffici direttivi della struttura. I detenuti, infatti, hanno la possibilità di accedere a diverse attività formative e lavorative tra le quali, in particolare, la scuola (è attivo il percorso di studi dell’istituto alberghiero), il recupero dei Raee, la coltivazione di orti e il laboratorio di bricolage. Deve, tuttavia, rilevarsi che il numero dei detenuti coinvolti in queste attività, ad oggi, risulta ancora troppo limitato a causa soprattutto di difficoltà logistiche ed economiche. “Un’efficace opera rieducativa, però, non può assolutamente prescindere dallo svolgimento costante e generalizzato di attività di studio e di lavoro il cui reperimento non può essere lasciato agli sforzi del singolo istituto, ma necessita di interventi strutturali e centrali - spiega il direttivo e l’osservatorio della Camera Penale Ferrarese. Proficue e, sicuramente da proseguire e incrementare, appaiono anche le iniziative di collaborazione con associazioni del territorio e, in generale, con realtà esterne all’istituto” chiosa la delegazione, “ringraziando gli organi direttivi della casa circondariale per l’occasione e per il confronto costruttivo che, nel corso delle nostre visite, è sempre stato garantito”. Torino. Un negozio con soli prodotti realizzati da detenuti di Gioele Urso torinotoday.it, 4 settembre 2019 Arrivano da 40 carceri in tutta Italia. Si chiama Freedhome e il suo motto è “creativi dentro”. Stiamo parlando del negozio gestito Cooperativa Sociale Extraliberi che in centro a Torino vende esclusivamente prodotti realizzati in carcere e da detenuti. “Da undici anni la nostra cooperativa opera nel carcere di Torino. A ottobre saranno tre anni che saremo stabiliti in questi locali, impegnati a gestire questo posto arricchendolo di esperienze diverse e creando con la cittadinanza un corridoio di dialogo tra il carcere, che spesso rimane ai bordi delle nostre città, e il resto della società” - racconta Eloisa Spinazzola della Cooperativa Sociale Extraliberi. Dentro il negozietto di via Milano 2/C ci sono prodotti di ogni genere che arrivano da 50 realtà sparse in 40 carceri italiane. Si va dalle specialità realizzate con le mandorle, tipiche della Sicilia, alle magliette stampate dentro la casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, ma anche borse e un vino speciale prodotto ad Alba, l’unico ricavato da una vigna che si trova anch’essa all’interno del carcere. “I detenuti che in Italia si occupano di lavorare per imprese e cooperative, che li formano e li stipendiano per fare quello che poi per loro diventa un lavoro, sono circa un migliaio. Quando un detenuto lavora durante la pena, la sua possibilità di tornare a delinquere diminuisce e passa da un 70-80% di possibilità di tornare a delinquere a un 10-20%” - continua Eloisa Spinazzola specificando che le percentuali sono stimate. “Quello che si nota è che le persone quando lavorano e possono attuare un percorso di crescita personale ed economica, il loro futuro migliora come migliora il futuro della società intera perché avere un ex detenuto che si ricrea una vita rende anche tutte le nostre città più sicure”. Livorno. Le “Pecore Nere” vanno in meta dentro al carcere e vincono il match quilivorno.it, 4 settembre 2019 La squadra composta dai detenuti del carcere cittadino, allenati dallo staff tecnico dei Lions Amaranto, ha battuto per 4 mete a 3 gli avversari pistoiesi in un test match pre-campionato. Le “Pecore Nere” hanno iniziato in grande stile la loro nuova stagione agonistica. La squadra composta da detenuti del carcere de “Le Sughere”, attivi nel mondo del rugby grazie al lavoro della società dei Lions Amaranto Livorno, hanno battuto, nella prima amichevole di un’annata che si preannuncia particolarmente intensa, 4 mete a 3, il Pistoia. Il punteggio del confronto, disputato in questo caldo sabato di fine agosto sul campo sintetico situato all’interno dell’istituto penitenziario labronico, ha un valore del tutto secondario. Ben maggiori sono i significati extra-tecnici della sfida. Sono stati proprio gli ospiti - in piena preparazione in vista del campionato di C2 - a richiedere di confrontarsi con le Pecore Nere. Richiesta accettata con entusiasmo da parte della squadra del carcere livornese. Alla presenza del direttore de “Le Sughere”, Carlo Alberto Mazzerbo, le due compagini si sono misurate in una partita all’insegna dell’equilibrio. Pistoia - a sua volta alla prima uscita stagionale - si è presentata con soli 11 elementi, per defezioni dell’ultima ora. E dunque le due formazioni si sono affrontate a ranghi incompleti. Deroghe rispetto alle classiche regole proprie della palla ovale (niente trasformazioni dopo le mete, così come accade nel campionato Old), ma, per la prima volta da quando, cinque anni fa, è iniziata l’avventura delle Pecore Nere, si sono lanciate le classiche touches, le rimesse laterali. Insomma, passo dopo passo, la squadra dei detenuti - che si allena una volta alla settimana, sotto la conduzione tecnica di Manrico Soriani, Michele Niccolai e Mario Lenzi - sta crescendo. Pistoia sblocca ben presto il punteggio. La reazione delle ‘Pecore Nerè non si fa attendere: la meta del mediano di apertura, su disattenzione difensiva degli antagonisti, consente ben presto di pareggiare i conti. Pistoia ha più possesso ed un numero maggiore di punizioni a disposizione (troppi i fuori gioco della formazione dei detenuti). Le Pecore Nere, però, sfruttano, con grande concretezza, le poche occasioni costruite e, sia pur di misura, portano a casa il risultato. È stata una giornata meravigliosa, rugbisticamente parlando, che si è conclusa con un luculliano terzo tempo organizzato a regola d’arte a base di arancini, pizza e dolci. Un ringraziamento particolare va ai ragazzi pistoiesi che hanno scelto come loro prima uscita un confronto che va al di là dell’agonismo e che per i ragazzi detenuti è di fondamentale importanza. Un ringraziamento speciale a tutti gli agenti ed al direttore dottor Mazzerbo, che hanno reso possibile l’evento. Cuneo. Nuovo appuntamento con il teatro nel carcere di Saluzzo targatocn.it, 4 settembre 2019 Lo spettacolo “Scusate l’attesa”, prodotto da Voci Erranti, andrà in scena dal 26 al 29 settembre. Con prenotazioni aperte fino al 14 settembre. È questo il momento dell’anno in cui riprendono gli impegni dopo le vacanze e ritorna il tradizionale appuntamento con il nuovo spettacolo che i detenuti del carcere di Saluzzo preparano per i tanti nuovi ed affezionati spettatori. È questa un’esperienza particolare perché assistere ad uno spettacolo in carcere è, sicuramente, un incontro con l’arte ma non può essere disgiunto dal coinvolgimento emotivo dell’entrare in una Casa di Reclusione. È un incontro con quella umanità a cui, solitamente, non pensiamo o che, solitamente, immaginiamo in termini cinematografici. Eppure fa parte della nostra società, il detenuto è cittadino e il carcere, oltre alla storia sociale e politica, partecipa anche all’economia di un territorio. La realtà del Teatro in Carcere di Voci Erranti è riconosciuta, a livello nazionale, come una delle realtà più interessanti ed innovative, unica nella possibilità di replicare gli spettacoli sia in teatri esterni che per gli studenti nell’ambito del Progetto Educare alla Legalità. Premiata a Roma, nel dicembre 2018, dall’Associazione Nazionale Critici Teatrali è sempre presente in contesti di Festival e Convegni come testimone di una buona pratica artistica in campo sociale. Questi risultati sono il frutto di un lavoro serio e rigoroso costruito negli anni con tutto il personale coinvolto, dal Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Cuneo, al Direttore, agli Educatori e tutto il personale di Polizia Penitenziaria. “Scusate l’attesa” - È il titolo della nuova produzione che Voci Erranti porta in scena con un gruppo di venti detenuti, partecipanti al Laboratorio Teatrale tenuto da Grazia Isoardi e Marco Mucaria. È una riflessione sul tempo, un tempo che fuori passa troppo veloce e dentro è congelato, eterno. La vera condanna del recluso è questa sospensione temporale, un’attesa vuota come in una sala d’aspetto di una stazione senza luogo e senza tempo dove nessun treno passerà. Diceva Qolet, nell’Antico Testamento, e lo ha ripreso Ivano Fossati che c’è un tempo per tutto eppure quello dell’attesa lo viviamo con ansia e frustrazione, dimenticando che l’attesa è una condizione in cui il tempo trattiene il fiato per ricordarci chi siamo. E non possiamo liberarci facilmente dell’ambiguità della vita con il suo alternarsi di presenza-assenza, “non più-non ancora”. Forse la musica è riuscita a rendere nel modo più concreto questo dualismo anche se i suoi ritmi seguono uno schema più definito rispetto alle vicissitudini della vita. E allora balliamoci sopra perché, tutti, siamo dentro a questo ballo. Lo spettacolo andrà in scena dal 26 al 29 settembre, ore 15 e ore 17. Sono aperte le prenotazioni fino a sabato 14 settembre scrivendo a info@vocierranti.org o telefonando ai numeri 380 1758323/340.3732192. Il viaggio nelle carceri dei giudici della Consulta approda al Festival di Venezia di Teresa Valiani redattoresociale.it, 4 settembre 2019 Evento speciale della Mostra del Cinema, il docu-film di Fabio Cavalli sarà proiettato giovedì. Il regista: “Occorreva dare tridimensionalità alla Costituzione attraverso i punti di vista dei suoi custodi e interpreti. E fare altrettanto con quel ‘sistema della pena’ tanto evocato, vilipeso e, fondamentalmente, sconosciuto”. Approda al Festival del Cinema di Venezia, come evento speciale di questa 76ma edizione, “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”, il docu-film di Fabio Cavalli prodotto da Rai Cinema e Clipper media. La pellicola racconta un incontro che non ha precedenti nella storia del nostro Paese, quello “tra due mondi apparentemente agli antipodi e diversamente ‘chiusi’ - sottolinea una nota della Consulta - e si ispira all’omonima iniziativa avviata dalla Corte costituzionale nel 2018” quando sette giudici intrapresero un viaggio all’interno delle carceri italiane incontrando i detenuti di altrettanti istituti. “Pensando alla realizzazione di un docu-film che racconti l’incontro fra i giudici della Corte costituzionale e le carceri italiane - racconta il regista Fabio Cavalli - mi è tornato in mente il ‘Viaggio in Italia’ di Guido Piovene: un reportage prima radiofonico per la Rai, poi in volume, sul finire degli anni ‘50. L’Italia è molto cambiata. Ma c’è una cosa che tiene insieme le generazioni: la Carta Costituzionale. Poco se ne parla, eppure è la legge fondamentale che dà forma alla nazione ed incide sulla vita di ciascuno di noi. Anche sulla vita dei cittadini detenuti. Per questo docu-film ho provato ad assumere il punto di vista di Piovene: andare a scoprire davvero quello che si crede illusoriamente di conoscere. Aprire lo sguardo sugli aspetti della realtà che non stanno in luce, coperti dal bagliore dei rilievi. Trovare l’ombra nel tuttotondo”. La proiezione è prevista per giovedì 5 settembre alle 17.00 nella Sala storica dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia e sarà introdotta dalla presentazione del presidente della Biennale, Paolo Baratta. All’evento saranno presenti, insieme al regista, la vice presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, e i giudici costituzionali Francesco Viganò e Luca Antonini. “Storie di viaggi e incontri. Uomini, donne, persone uniche e comuni: i giudici, i carcerati, il personale penitenziario - prosegue Cavalli raccontando il suo film -. Storie di luoghi inaspettati: le carceri, il loro habitat architettonico e il loro contesto antropologico. E storie di paesaggi visivamente potenti, il loro spirito profondo, quello che il tempo disegna, incidendo anche lo spirito del popolo che li abita”. “Ho potuto usare qualsiasi mezzo di ripresa - sottolinea il regista - per disegnare i rilievi del nostro Paese, dal punto di vista delle sue valli più oscure: coi droni abbiamo sorvolato il maestoso Palazzo della Consulta e i cieli sopra le carceri. Genova-Marassi, Napoli-Nisida, Lecce, Terni, Milano San Vittore, Firenze-Sollicciano, Rebibbia. E poi dai cieli siamo scesi giù, nel profondo delle celle e nei loro sotterranei. Occorreva dare tridimensionalità alla Costituzione della Repubblica Italiana, attraverso i punti di vista dei suoi custodi ed interpreti: i giudici. E fare altrettanto con quel ‘sistema della pena’ tanto evocato, vilipeso o invocato, e, fondamentalmente, sconosciuto. Da una parte gli uomini e le donne dell’Istituzione, dall’altra gli uomini, le donne e i ragazzini minorenni che l’Istituzione l’hanno violata. Il loro incontro getta un po’ di luce fra le ombre. Un incontro per me emozionante, un’avventura fra storie umane incredibili, dolorose, paradossali, umanissime. Un film sugli sguardi dei giudici e dei detenuti. Fra il prima e il dopo l’incontro c’è una differenza ben visibile negli sguardi. La stessa differenza che spero di leggere negli sguardi degli spettatori all’uscita dalla proiezione”. “45 seconds of laughter”. Tim Robbins: mi ispiro alle commedie di Dario Fo di Stefania Ulivi Corriere della Sera, 4 settembre 2019 Il regista al Lido con un documentario realizzato con detenuti-attori: “Non mi illudo, ma bisogna cambiare la situazione carceraria”. Alla Mostra del cinema con un film (fuori concorso) che racconta il potere rigenerativo del teatro. Si intitola 45 seconds of laughter(45 secondi di risa) il documentario che Tim Robbins ha presentato ieri al Lido. Cronaca di sei mesi, un lavoro appassionato iniziato con la sua sua compagnia, The Actors’ Gang all’interno dell’istituto di pena statale di Calipatria in California. Arlecchino e Pulcinella e altre maschere della commedia dell’arte offerte ai detenuti come armi per liberare le proprie emozioni. Sessantuno anni, i capelli ormai candidi, così orgoglioso di essere nonno al punto da scriverlo nelle note biografiche, Robbins è legatissimo alla sua esperienza con la Actors’ Gang. “Non ha scopo di lucro, facciamo teatro per le comunità. È la mia casa, il luogo di confronto e continuo arricchimento, dove impari a lasciare l’ego fuori dalla porta. Siamo venuti anche in Italia in tournée - con 1984 di Orwell - lo abbiamo portato a Spoleto. E a Milano ho recitato davanti a Dario Fo che è uno degli autori che mi ha ispirato”. Fu Morte accidentale di un anarchico, ricorda spesso, a spingerlo verso il palcoscenico. Con i colleghi della compagnia, fin dall’inizio, tiene seminari nelle scuole. Dopo aver girato Le ali della libertà e Dead Man Walking, arrivò l’idea di entrare nelle carceri. Gli Usa, ricorda l’attore e regista, detengono il poco onorevole record di Paese con il più alto numero di reclusi del mondo. “Con gli studenti abbiamo avuto esperienze notevoli: ragazzi chiusi in loro stessi, frustrati e pieni di rabbia che lasciavano emergere le emozioni. E lo stesso è accaduto con i carcerati, con The Actors Gang Prison Project”. Grazie alle maschere, non è un paradosso, è più facile mostrarsi. Al di là delle differenze sociali, di etnia, del carattere. “Abbiamo chiesto di poter entrare in contatto con le realtà carcerarie più dure e difficili, che ogni classe fosse interrazziale e che le bande rivali si incontrassero nella stessa stanza: abbiamo scoperto cose sorprendenti e di grande umanità, un’esperienza che ha segnato tutti noi. Se si vuole cambiare qualcosa bisogna cambiare anche la situazione carceraria. È importante aiutare le persone a ritornare nella vita sociale, una volta usciti dal carcere. Io non ho mai avuto un atteggiamento giudicante verso i detenuti, questo ha aiutato”. È un tipo testardo Robbins (“Sono cresciuto con genitori che mi hanno reso consapevole del mondo. Penso gli artisti abbiano l’obbligo di dire la verità”) ma non si fa illusioni: questo tipo di lavoro non è una terapia e non basta a risolvere i problemi del mondo. Ma può fare la differenza. I detenuti che hanno partecipato all’esperienza hanno ricevuto l’89% in meno di provvedimenti disciplinari legati a episodi violenti, e il 77% una volta fuori ha trovato un lavoro. “È difficile cambiare le cose a livello macro, ma puoi lasciare un segno lavorando sui micro-livelli. Esperienze così ti danno speranza per il futuro. Vedi cambiare le persone”. E scene che ti aprono il cuore: “Come la madre di un detenuto viene da te e ti dice: “Grazie, rivedo mio figlio”. Il nuovo umanesimo significa solidarietà di Bruno Forte Corriere della Sera, 4 settembre 2019 Nella visione cristiana, ma anche in quella laica, la concezione dell’orizzonte ideale del Paese è agli antipodi delle logiche sovraniste. “Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo: non ho mai pensato fosse lo slogan di un governo, ma l’orizzonte ideale del Paese”. Così si è espresso Giuseppe Conte dopo aver ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo dal Capo dello Stato. Per comprendere che cosa Conte intenda dire, bisogna tener conto di due fattori: da una parte la sua formazione, legata tra l’altro al mondo spirituale e culturale di quella Villa Nazareth dove - col sostegno e l’ispirazione di figure come il cardinale Achille Silvestrini, morto a fine agosto - è stata data a tanti giovani universitari la possibilità di prepararsi a offrire un serio contributo etico e professionale al futuro del Paese; dall’altra, occorre considerare il dibattito sul concetto stesso di “nuovo umanesimo”, cui ha dedicato un interessante lavoro Michele Ciliberto (Il nuovo Umanesimo, Laterza, Bari 2017) e di cui si occupa anche il recente saggio di Massimo Cacciari, intitolato “La mente inquieta” (col sottotitolo Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019). Per semplificare, si potrebbe parlare delle due anime del concetto di nuovo umanesimo: quella di ispirazione cristiana e quella “laica”, che non rinnega in alcun modo legami con la prima. Nella visione cristiana l’idea è fondata sulla centralità dell’uomo “immagine di Dio” e sulla conseguente dignità inalienabile della persona umana, libera e responsabile. È l’idea che è stata al centro anche del Convegno della Chiesa italiana, tenuto a Firenze nel 2015. In quell’occasione, papa Francesco ebbe a dire: “Gesù è il nostro umanesimo... Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda”. Partendo da questo fondamento evangelico, il Papa aggiunse: “Non voglio qui disegnare in astratto un nuovo umanesimo, una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei “sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni”. Nell’elencare questi sentimenti, Francesco delineava uno stile di Chiesa, eloquente per tutta la società: “L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria dignità, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra... Dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”. Il compito che ne risulta è quello di vivere la solidarietà e la condivisione come indifferibile urgenza: “Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile”. Una tale concezione del nuovo umanesimo è agli antipodi delle logiche sovraniste, fondate sull’affermazione del primato assoluto dell’identità e sulla valutazione dei bisogni altrui a partire esclusivamente dalla difesa dei propri interessi. Se questo è il genere di nuovo umanesimo cui Conte intende ispirarsi, sarà necessario che il suo governo riveda posizioni quali quelle espresse dal ministro Salvini nei confronti della questione migratoria. Se i morti degli ultimi mesi nel Mediterraneo si contano a centinaia, non è possibile barricarsi in posizioni difensive verso chi viene a bussare alle nostre porte, in fuga da fame e morte o anche solo alla ricerca di un futuro migliore. Occorre rivedere norme e trattati internazionali e coinvolgere decisamente l’Unione Europea in politiche di accoglienza e di ridistribuzione dei rifugiati e degli immigrati, che siano rispettose della loro dignità di esseri umani. Diversamente, parlare di nuovo umanesimo resterebbe retorica facile. Anche a partire da una visione “laica” l’idea di nuovo umanesimo evidenzia urgenze morali e politiche indifferibili: come mostra Ciliberto, “l’Umanesimo è tornato attuale perché si è riaperto, in maniera drammatica e in forme del tutto nuove, il problema della condizione umana”. In un mondo “che si divide in forme sempre più feroci, nel quale le differenze di religione o di razza generano conflitti sanguinosi”, l’umanesimo testimonia il valore della tolleranza, che non è solo passiva accettazione, ma positivo riconoscimento della dignità dell’altro. Da par suo, Cacciari, presentando l’umanesimo come “età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro”, rende avvertiti che parlare di nuovo umanesimo significa essere coscienti del cambiamento d’epoca in cui ci troviamo e della conseguente esigenza di cercare soluzioni ai problemi non di semplice difesa e conservazione, ma di largo respiro e di responsabile condivisione. È quanto l’espressione più volte usata chiede ora al presidente Conte di mettere in atto, con decisione e coraggio. È quanto non possiamo non augurargli di fare per il bene del Paese e il suo futuro, nel contesto di un’Europa solidale e coesa a partire dalle radici ispirative, radicate nel cristianesimo, delle idee dei suoi grandi Padri fondatori. Anche gli italiani finiscono schiavi del caporalato di Giuliano Foschini La Repubblica, 4 settembre 2019 Vincenzo, 53 anni, lavorava per 3,50 euro all’ora: fino a qualche settimana fa tirava fuori dalla terra pomodori nell’azienda di uno dei più importanti imprenditori agricoli di Foggia, prima che la procura non lo arrestasse. Ines, invece, raccoglieva mirtilli e lamponi in Piemonte per poco meno di 5 euro all’ora: “Ma i padroni non segnavano tutte le giornate di lavoro” hanno scoperto i carabinieri. Un po’ come accadeva a Paola Clemente, morta di fatica a 49 anni mentre raccattava uva per due euro l’ora in Puglia, a luglio del 2015: in borsa, all’obitorio, le hanno trovato un pettine, che le serviva per togliere la terra dai capelli. E una busta paga fasulla, che invece serviva per dimostrare che tutto era a posto, in caso di controlli. Vincenzo. Ines, Paola. Così come Pasquale Fusco, il bracciante campano morto qualche giorno fa sotto una serra per i meloni a Giugliano, sono alcuni delle migliaia di schiavi italiani, travestiti da braccianti, che ogni mattina lavorano nelle campagne del nostro paese. “Uomini e donne - per usare le parole di Pino Gesmundo, segretario pugliese della Cgil che della battaglia al caporalato ha fatto una bandiera - che hanno abdicato a ogni diritto, anche spesso quello alla vita, che accantonano la dignità per cercare di portare a casa la “giornata” di lavoro”. In Italia ogni anno lavorano poco più di un milione di braccianti agricoli, il 28 per cento dei quali stranieri. Secondo le ultime statistiche, un’azienda su due è fuorilegge e la maggior parte delle infrazioni riscontrate riguardano proprio le paghe dei lavoratori. “Non è vero, come magari è più facile immaginare, che gli unici schiavi siano cittadini irregolari e per questo in situazioni di fragilità e debolezza particolari - spiega Francesca Pirrelli, procuratrice aggiunta di Foggia, dove è nata una squadra di magistrati dedicata espressamente al caporalato. Nelle nostre indagini emergono sempre più spesso casi di braccianti italiani e stranieri regolari che lavorano per pochi euro l’ora, costretti da una situazione di bisogno economico. C’è stata una trasformazione di questo tipo di reati: non ci troviamo di fronte a lavoratori in nero. Ma in grigio. Hanno cioè contratti, buste paga. Ma viene segnato loro molto meno di quello che effettivamente lavorano”. Era quanto accaduto a Paola Clemente: il processo ai suoi caporali è in corso al tribunale di Trani. Una di loro, Giovanna Marinaro, italianissima, è stata recentemente riacciuffata a Taranto mentre portava braccianti italiane a raccogliere fragole. Quello che accade, è ben spiegato proprio negli atti di quel processo. Racconta Tina: “Inutile fare la guerra con il caporale: la perdi. Sarà per questo che mai nessuno si è permesso di ribellarsi”. A decidere chi lavora è infatti il caporale, che oggi lavora in un’agenzia interinale. O si nasconde dietro una cooperativa per il trasporto dei lavoratori. “Giovanna Marinaro, quando eravamo sotto il vigneto, si aggirava tra i filari dicendo a voce alta: “Quanto prendete voi al giorno, 40 euro! Voi prendete 40 al giorno”“, racconta Filomena, che al giorno invece ne guadagnava 20 o poco più. “Attenzione a come parlate”, ci diceva, “perché se no finite di testa sotto terra...”. Era impossibile ribellarsi: “Se dici che vuoi i 40 euro giornalieri come da contratto, Ciro dice “statti a casa”. E noi abbiamo bisogno di lavorare”. E così accettavano che in busta paga risultassero sette euro l’ora, quando invece intascavano poco meno della metà. Proprio in nome di Paola Clemente era però nata una legge, la 199, voluta dall’allora ministro Maurizio Martina, che avrebbe dovuto mettere fine a questo scempio. La legge c’è. Funziona nella sua parte repressiva (le operazioni si ripetono, le procure si muovono). Ma per salvare la vita a Pasquale, mentre raccoglieva i meloni, serviva altro. Non è mai stata attuata “tutta la parte preventiva - denuncia Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil - che prevedeva l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, trasporto e accoglienza. Soltanto così si toglierebbe veramente ogni forza dalle mani dei caporali e degli imprenditori che ad essi si rivolgono”. Per dire: l’ormai ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e quello dell’Agricoltura, Gianmarco Centinaio, avevano annunciato di voler mettere mano alle norme. Non in difesa dei lavoratori, ma perché considerate troppo punitive per gli imprenditori che, se colti a sfruttare i braccianti, rischiano anche di perdere il controllo dell’azienda. Il ministro Luigi di Maio a settembre scorso aveva annunciato invece “un tavolo permanente sul caporalato”. È passato un anno e quel tavolo non è stato più riconvocato. Pasquale, intanto, è morto di fatica. La prova dell’immigrazione di Gad Lerner La Repubblica, 4 settembre 2019 Da almeno un ventennio i nostri governanti, di qualunque colore politico, hanno avuto in comune il medesimo convincimento: l’immigrazione è una bomba che si può disinnescare solo riuscendo, a tamponare il suo flusso. Ci si poteva dividere sul trattamento da riservare a chi ha varcato i nostri confini - integrazione o discriminazione? - ma non sull’assoluta priorità di limitare nuovi arrivi. Questa ci è stata inculcata come regola inesorabile della realpolitik, già da ben prima che Salvini utilizzasse il palcoscenico del Viminale per dare spettacolo con la sua “cattiveria necessaria”. Anche in precedenza la domanda inquietante che nei talk show doveva tappare la bocca ai cosiddetti buonisti è sempre stata: “Ma allora secondo te l’Italia dovrebbe accoglierli tutti?”. Una domanda di apparente buon senso, adoperata per eludere la questione spinosa e impopolare che invece s’imporrebbe a chiunque abbia responsabilità di governo: come può essere regolamentata una migrazione economica in cui i fattori climatici e le catastrofi ambientali si legano inestricabilmente alle guerre? Davvero è ancora possibile distinguere chi scappa da una persecuzione da chi scappa dalla siccità? Capisco bene che i partiti protagonisti delle trattative per la formazione del nuovo governo non avessero il tempo di elaborare una risposta all’altezza. Lunedì scorso, nelle stesse ore in cui s’incontravano a Palazzo Chigi, la cronaca gli scaraventava addosso il caos normativo esasperato dai decreti propagandistici del primo governo Conte. Duecentosessanta migranti approdavano in Sicilia a bordo di cinque imbarcazioni: i 104 della Eleonore forzando il blocco; i 31 della Mare Jonio autorizzati dopo un’assurda attesa; altri 29 grazie al salvataggio della nostra Marina militare; e inoltre due barconi sfuggiti al respingimento. Sono numeri limitati, tutt’altro che allarmanti, ma riassumono un groviglio morale e giuridico di fronte al quale la politica si agita inconcludente. Rivelatosi fallimentare il cinico progetto di ricattare l’Unione Europea tenendo in ostaggio nel mare qualche centinaio di sventurati, spetterà al nuovo governo elaborare forme di pressione più efficaci (e dignitose) per vincere l’egoismo dei nostri partner comunitari. Non sarebbe la prima volta. Per anni i governi italiani hanno praticato la ricollocazione dei migranti nell’Ue con metodo non dichiarabile ma efficacissimo. La polizia non gli prendeva le impronte digitali e li lasciava transitare verso gli altri Stati. Così, eludendo i regolamenti di Dublino, abbiamo smaltito la grande ondata di profughi dell’estate 2015. Umanitari e pragmatici, li abbiamo salvati e rifocillati e mandati via. È un escamotage, come tale non replicabile, d’accordo. Ma se vogliamo superare il vincolo per cui chi arriva in Italia non può uscirne più, forse è il caso di prendere in considerazione la proposta di Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale: far sbarcare i migranti nell’ambito di un regime giuridico esplicitamente derogatorio rispetto agli accordi di Dublino, in nome e per conto e a spese dell’Unione Europea. Sarebbe una forzatura positiva, ben diversa dal metodo Salvini, rivolta a smuovere la nuova Commissione presieduta da Ursula von der Leyen. Questo per l’emergenza, determinatasi in seguito al monopolio che i governi europei hanno regalato agli scafisti. Come? Rendendo quasi impossibile un’emigrazione legale dall’Africa. Rimane con ciò inevasa la necessità di soluzioni organiche di lungo periodo. Un governo di legislatura ha il dovere di cimentarvisi. Ieri, per la prima volta, al punto 15 del programma divulgato dal M5S compare la parola “integrazione”. Vedremo se significa qualcosa, per esempio in materia di cittadinanza per ius culturae. Ma è soprattutto il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ad avere assunto propositi impegnativi di riforma legislativa sull’immigrazione. All’Assemblea nazionale del 13 luglio scorso aveva proposto l’abrogazione della Bossi-Fini, “sostituita da un nuovo testo unico sull’immigrazione e il diritto d’asilo” che preveda “canali d’ingresso regolari”. Certo Zingaretti non immaginava che il suo partito sarebbe tornato al governo poche settimane dopo. Lo aspettiamo alla prova dei fatti: disinnescare la bomba immigrazione richiede coraggio e lungimiranza. La timida riforma dei decreti Salvini contro migranti e ong di Carlo Lania Il Manifesto, 4 settembre 2019 I dl sicurezza si riscrivono ma solo in parte e senza toccare l’impostazione anti ong. L’unica vera novità è l’archiviazione della legge Bossi-Fini. Rimettere mano ai decreti sicurezza tenendo conto delle osservazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma neanche una parola a proposito della necessità di arrivare finalmente a una nuova legge sulla cittadinanza, sulla mancata approvazione della quale il Pd a suo tempo aveva pure fatto autocritica ma soprattutto attesa da un milione di giovani italiani figli di immigrati. La conferma di quanto l’immigrazione rappresenti ancora una spina nel fianco del prossimo governo giallorosso sta proprio nella vaghezza con cui il tema viene affrontato nella bozza di programma presentata ieri. Al punto 15 si parla infatti della necessità di coinvolgere l’Europa nella gestione dei flussi migratori “anche nella definizione di una normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina” e che tenga conto della necessità di integrazione. Non c’è governo che in passato non si sia impegnato a combattere le organizzazioni criminali che lucrano sulle traversate del Mediterraneo finendo poi col colpire soprattutto i migranti e il fatto che si sia voluto specificare che nel mirino del prossimo esecutivo ci sia anche “l’immigrazione clandestina” fa pensare che, almeno sotto questo punto di vista, le cose non cambieranno. Per quanto riguarda l’Europa, poi, Giuseppe Conte ha più volte ricordato la necessità di arrivare a una modifica del regolamento di Dublino ma il premier dovrebbe sapere che già da due anni il parlamento europeo ha varato un’ottima riforma che risponde perfettamente alle esigenze italiane e che attende solo di essere esaminata dal Consiglio europeo. Restano i decreti sicurezza. La bozza non spiega se le modifiche alle quali si fa accenno riguarderanno entrambi i provvedimenti voluti dall’(ormai) ex ministro dell’Interno Matteo Salvini o solo il secondo. Per il decreto bis dal Colle sono arrivate pochi ma decisamente significativi rilievi indicati in una lettera inviata lo scorso 8 agosto alle Camere. A partire dal fatto che, come ricorda il presidente, nonostante quanto previsto dal decreto per chi va in mare resta l’obbligo di salvare i naufraghi. Altra modifica dovrebbe riguardare le sanzioni per le navi che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali. La multa prevista varia da 150 mila un milione di euro. Troppo per Mattarella, che ha ricordato come una recente sentenza della Consulta abbia stabilito che sanzioni così alte sono paragonabile a una sentenza penale. L’ultimo rilievo riguarda la seconda parte del decreto dedicata all’ordine pubblico e in particolare la norma che consente ai giudici di non applicare la “tenuità del fatto” in caso di di reati ai pubblici ufficiali. Nessun accenno al primo decreto sicurezza, che pure contiene l’abrogazione della protezione umanitaria, la riforma del sistema Sprar e il divieto per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe dei Comuni. Punti sui quai almeno per adesso il Pd non pare voglia intervenire. Sembra sicura invece, la revisione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione che trova d’accordo anche il M5S. Migranti. La Grecia come l’Italia: via l’appello per chi non ottiene l’asilo di Carlo Lania Il Manifesto, 4 settembre 2019 Mentre l’Unione europea si dice preoccupata per l’aumento degli arrivi sulle coste greche di migranti in fuga dalla Turchia, ad Atene il nuovo governo di centrodestra del premier Kyriakos Mitsotakis vara un pacchetto di misure urgenti che dovrebbero servire ad arginare quella che ormai molti leggono come una nuova possibile crisi umanitaria. Misure che, se da una parte servono a decongestionare almeno in parte i centri di accoglienza che si trovano sulle isole dell’Egeo, veri e propri inferni come quello di Lesbos, dall’altra colpiscono i diritti dei profughi con una riforma dell’asilo che, sul modello italiano, punta ad abolire il ricorso in appello per coloro che si vedono respinta la domanda di protezione internazionale. Da settimane Lesbos, Samos, Chios, Kos e Leros sono sempre più sotto pressione per i continui arrivi di imbarcazioni provenienti dalla vicina Turchia, al punto che la scorsa settimana il ministro degli Esteri Nikos Dendias ha convocato l’ambasciatore turco Burak Ozugergin per chiedere un maggiore impegno da parte di Ankara nel fermare le partenze, anche sulla base di quanto previsto dall’accordo siglato a marzo del 2016 con l’Unione europea. Un paradosso se si considera che, secondo alcuni osservatori, a spingere i migranti alla fuga sia proprio la repressione messa in atto dalla Turchia nei loro confronti oltre che la ripresa dei combattimenti in Siria. Che la situazione sia comunque cambiata rispetto agli anni passati non ci sono dubbi. Dal primo gennaio al primo settembre sono stati 60.460 i migranti arrivati in Europa e di questi, secondo i dati forniti dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, più della metà, 33.999, sono giunti in Grecia contro i 18.758 della Spagna i 5.234 dell’Italia, i 1.585 arrivati a Malta e i 794 di Cipro. Numeri che hanno fatto salire a 84.000 i migranti presenti in Grecia, 19.900 dei quali solo sulle cinque isole dell’Egeo. L’apice si è toccato giovedì della settimana scorsa quando in un solo giorno sono arrivate a Lesbos 13 imbarcazioni con in tutto 540 persone, delle quali 240 erano minori. E altri 400 migranti sono arrivati nel fine settimana. Uomini, donne bambini che, almeno per qualche giorno, non hanno avuto altra alternativa che finire nel campo di Moria, una ex caserma in grado di accogliere fino a tremila persone e trasformata in un centro di accoglienza dove oggi trovano posto 11.000 disperati costretti a vivere in condizioni igieniche inesistenti e per di più nel terrore a causa delle numerose violenze che si verificano al suo interno. Per fronteggiare l’emergenza sabato scorso Mitsotakis ha convocato il Consiglio per gli affari esteri e della difesa e varato un pacchetto di sette misure tra le quali il trasferimento sulla terraferma di una parte di coloro che si trovano sulle isole e in particolare di 160 minori non accompagnati per i quali dovrebbe essere facilitato il ricongiungimento con le famiglie, l’aumento dei controlli di polizia nelle isole alla ricerca di coloro ai quali non è stato riconosciuto il diritto di asilo e maggiori controlli in mare. Ma anche una riforma del diritto di asilo che punta ad accorciare i tempi di esame delle domande (quelle presentate fino a maggio sono 37.045). Chi si vedrà rifiutata la protezione internazionale non potrà più fare ricorso in tribunale, come accade ora, ma dovrà rivolgersi direttamente alla giustizia amministrativa. Una riforma che ricalca quella varata nel 2017 in Italia dagli allora ministri Pd Minniti e Orlando. I primi trasferimenti da Moria sono già cominciati. 720 migranti sono arrivati ieri in nave fino a Salonicco e da lì trasferiti nei campi allestiti a Nea Kavala, vicino al confine con la Macedonia, Kilkis e in altre strutture. Temporaneamente saranno alloggiati in 200 tende in attesa di una sistemazione più stabile. Un’operazione che non ha mancato di suscitare perplessità tra gli operatori umanitari. “La situazione Moria è sicuramente terribile, ma la decisione del governo di spostare i migranti non risolve il problema del sovraffollamento. È più che altro un esercizio di propaganda”, ha spiegato nei giorni scorsi uno di loro al quotidiano britannico Telegraph. “Non c’è nessuna invasione di immigrati: si perde tempo intorno a questa retorica insana” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 4 settembre 2019 La vera questione è assorbire bene chi arriva. E qui la politica scappa. Parla l’alto commissario Unhcr Filippo Grandi: “Aiutarli a casa loro? Se avessero una casa loro, non scapperebbero e non si chiamerebbero rifugiati”. Nominato dall’Assemblea ge­nerale delle Nazioni Unite per un mandato di cinque anni nel 2016, Filippo Grandi è l’italiano che ha raggiunto la più alta carica diplomatica nelle Nazioni Unite. Il lavoro dell’Unhcr - 15 mila persone in 128 paesi - fornisce assistenza e protezione a 70 milioni di rifugiati, rimpatriati, sfollati interni e apolidi. Nato a Milano 62 anni fa, dopo una laurea in Storia e Filosofia Filippo Grandi si dedica alle persone in fuga da guerre e epidemie da trent’anni, dagli inizi con la cooperazione internazionale fino all’incarico attuale, nel momento di più grande crisi umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale. Partiamo dai numeri. Esiste un’invasione in Europa? Possiamo parlare di crisi umanitaria europea? “Certo che no, soprattutto non possiamo parlare di invasione. L’altro giorno studiavo i numeri degli arrivi via mare di quest’anno in Italia: sono meno di 4 mila. Tanto per avere una cifra di riferimento l’aeroporto di Fiumicino gestisce 43 milioni di passeggeri l’anno. Le due cifre sono slegate naturalmente, ma ci forniscono un ordine di comparazione generale. Siamo arrivati a un punto incredibile in cui i disgraziati che arrivano sono pochissimi eppure generano un dibattito sproporzionato. Detto questo, sono presenti in Italia centinaia di migliaia di persone arrivate nel passato, che vanno gestite - e ci sono enormi lacune nell’assorbimento dell’integrazione. Dunque non c’è un’emergenza in Europa: parlerei piuttosto di una questione sociale che va affrontata con urgenza, altrimenti tutto si confonde nell’immaginario collettivo in una propaganda politica mirata al consenso”. L’urgenza quindi è soprattutto nel ripensare le modalità di accoglienza? “Nel dibattito non si parla mai di come migliorare l’integrazione nel tessuto sociale, nei servizi, nel lavoro e così via. Ho provato, nel ruolo che ricopro, a fare campagna in questa direzione. Confesso, non molto utile, perché nessuno ascolta. Finiamola con la polemica inutile sull’invasione e chiediamo ai politici proposte concrete sulla gestione del fenomeno migratorio. Gestirlo vuol dire riformare l’asilo, la distribuzione di chi arriva, accelerare le procedure, effettuare i rimpatri di chi non hanno diritto all’asilo. Un dibattito serio e lucido che non si fa perché si perde tempo intorno alla retorica insana che ingigantisce un fenomeno chiamandolo “invasione” quando non lo è e annebbia il dibattito sui problemi reali che vanno gestiti e che nessuno affronta”. Quali sono i mezzi per contrastare la narrativa sovranista, il razzismo in cui è sprofondato il racconto dello straniero - chiunque esso sia - che bussa alla nostra porta? Come si risponde alla retorica del “non possiamo accoglierli tutti”? “Innanzitutto con una risposta morale e valoriale: prima di parlare di accoglienza dobbiamo ribadire che chiunque arrivi da noi ha diritto al rispetto e alla dignità. Questo non è né negoziabile né discutibile. Mi riferisco alla questione dei salvataggi in mare: in mare si salvano tutte le persone in pericolo perché esiste un obbligo legale e un obbligo morale. Solo poi passiamo a discutere di accoglienza. È necessario ribadire all’opinione pubblica che per i rifugiati che fuggono da guerre, persecuzioni e discriminazioni gli Stati hanno obblighi giuridici precisi, definiti da griglie legali altrettanto precise. Migliorabili certo ma solide. Per chi non ricade sotto il mandato dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, posso solo dire che il trattamento dignitoso è una precondizione essenziale. Ci sono forme di protezione umanitaria temporanee, persone che potrebbero non essere considerate “rifugiati” ma avere motivi umanitari che li hanno spinti alla fuga per cui è meglio che non tornino a casa. E per altri ci sono altre formule, incluso - certo - il rimpatrio”. Qual è la vostra posizione sui rimpatri? “Credo sia importante fare un discorso strutturato sui rimpatri delle persone non riconosciute bisognose di protezione umanitaria internazionale. Non vi è un obbligo a dar loro una residenza temporanea o permanente nei paesi in cui lo richiedono e quindi ci sono formule per cui tornino a casa ma è fondamentale che questo avvenga in modo rispettoso, umano e dignitoso. Mi lasci dire che non mi sembra ci siano, almeno in Italia, modalità efficaci. Nonostante tutta la retorica dei ritorni si è fatto poco, i rimpatri sono sette-otto mila l’anno”. Cosa è cambiato in Europa in questi anni? Penso all’immagine di Alan Kurdi, il bambino siriano il cui corpo fu trovato sulla spiaggia di Bodrum in Turchia il 2 settembre 2015 che tanto scosse le coscienze. O al naufragio del 3 Ottobre 2013 che animò l’operazione Mare Nostrum. Oggi viviamo nell’Europa dei confini. Nell’Italia dei decreti sicurezza che puniscono il soccorso in mare. Cosa ha provocato secondo lei questo cambiamento? “Si è identificata la questione migratoria con i falsi e tendenziosi temi dell’invasione, della sostituzione etnica e altre idiozie di questo tenore. Menzogne che hanno creato un consenso formidabile. Chi ha abbracciato questa propaganda ha effettivamente ottenuto consenso politico, virando la bussola di meccanismi di salvataggio e accoglienza che funzionavano verso le derive che viviamo oggi. L’altra questione problematica io credo sia legata alle lacune vistose nella gestione degli arrivi, dell’accoglienza e dell’integrazione. Ritengo ci sia stata negligenza, trascuratezza nell’affrontare il ripensamento di alcuni capitoli di intervento, che non si sia voluta o saputa vedere con chiarezza l’entità dei problemi che stavano sorgendo.Questa inadeguatezza si è declinata in molti Paesi in maniera diversa. Penso al modello di integrazione svedese, uno dei più efficienti, che ha mostrato le sue debolezze. Anche in quei paesi - Svezia, Norvegia - abbiamo assistito a qualche restrizione legislativa, come risposta a un anno cruciale come il 2015. Dovremmo però essere in grado di dire: il nostro modello è imperfetto, va rivisto, va aggiornato. Questo è un discorso razionale. Diverso è rincorrere la grammatica dell’invasione al grido di “blocchiamo porti e confini”“. E il classico “aiutiamoli a casa loro”... “Mi faccia dire innanzitutto che “aiutiamoli a casa loro” per l’Agenzia per i rifugiati è una frase che fa amaramente sorridere. I rifugiati non sono mai a casa loro, altrimenti non sarebbero rifugiati”. Citava il 2015, un anno spartiacque. L’Europa si accorge della crisi siriana perché un milione di persone bussa alle nostre porte. Perché nel dibattito pubblico si è parlato di paura e emergenza, ma non si è spiegato a sufficienza che quell’esodo è stato provocato anche da una drastica diminuzione degli aiuti e di un conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei rifugiati che hanno scelto di lasciare le zone in cui vivevano alla volta dell’Europa? “Per un motivo semplice: la politica del consenso sulla retorica dell’invasione non sopporta la complessità dell’argomento. Il 2015 è fondamentale da analizzare, perché il movimento dei siriani verso l’Europa dalla Siria sia dai paesi limitrofi, specie Turchia e Libano - è stato generato da una combinazione di fattori. Primo: i siriani, ovunque fossero, sentivano che non c’era più speranza in quel conflitto - e non avevano torto perché siamo nel 2019 e la guerra non si è risolta. Secondo: gli aiuti umanitari nei paesi di accoglienza stavano calando rapidamente in settori fondamentali, cioè l’istruzione per i bambini, l’accesso ai servizi, al mercato del lavoro locale. I due aspetti sono legati. Le persone si sono dette: la guerra non finirà, non torneremo a casa quindi siamo destinati all’esilio, i nostri figli non andranno più a scuola, non avranno mai una educazione”. Torniamo ai numeri. Il Libano, ad esempio che ospita più di un milione di siriani su una popolazione complessiva di 4 milioni di persone. O più in generale, l’85% dei 70 milioni di rifugiati nel mondo sono ospitati in paesi che a loro volta hanno bisogno di aiuto. Il dibattito però è esasperato dalla grammatica dell’emergenza e mai delle soluzioni a lungo termine. “Il fenomeno migratorio - nel suo senso più largo, legato ai cambiamenti economici, climatici, alla gestione dei rifugiati - è di una complessità straordinaria che ha radici precisamente nelle zone da cui se ne vanno. Guerra, povertà estrema, cambiamenti climatici emergenziali, epidemie. Sono ragioni che richiedono interventi costosi e di lungo termine, strategicamente molto complicati, perciò rifuggiti dai politici che cavalcano scadenze elettorali. Dovrebbero spiegare che è necessario investire in maggiori aiuti, interventi duraturi e di ampio respiro, gli interventi strutturali costano di più. Sono temi né popolari né semplici. Quindi si danno spiegazioni semplicistiche, si disumanizza e alla fine rimaniamo con i problemi irrisolti e l’animo più ruvido”. Quale lezione dovremmo trarre dal 2015, anno della crisi balcanica, del ritorno dei confini e dei muri in Europa? “Innanzitutto che nessun conflitto è lontano. Penso ad esempio al Venezuela. Oggi non possiamo dire che esistano guerre lontane dai paesi ricchi. Dobbiamo sforzarci per ridiventare capaci di risolvere queste crisi internazionalmente. Guardo a Biarritz, al G7, mi chiedo se le grandi potenze discutano per risolvere conflitti. A me non sembra che ci sia uno sforzo delle grandi potenze per ripristinare insieme questa capacità di risolvere i conflitti. Il secondo tema sono gli aiuti”. E questo è un tema cruciale. Disponete delle risorse di cui avete bisogno? “Rispondo con un esempio. Io sono diventato Alto Commissario nel 2016. Il 4 febbraio di quell’anno ero a Londra per una conferenza storica di supporto per la Siria, il messaggio era chiaro: servono aiuti, non ci possono essere soluzioni durature se le crisi perdurano e gli aiuti non bastano. Il modello umanitario da solo non basta e genera flussi secondari. Gli attori politici presenti riconobbero con forza la necessità di cambiare il modello allo sviluppo nelle grandi crisi dei rifugiati. Abbiamo costruito un intero patto globale: il Global compact sui rifugiati è costruito su quelle basi. Però bisogna capire che quei discorsi noiosi, difficili da spiegare agli elettori, che non sono al centro del dibattito pubblico sono le sole risposte a crisi internazionali complesse”. Con l’approvazione del Global compact sui rifugiati l’approccio sul conferimento delle risorse è dunque cambiato? “L’Unhcr muove ogni anno 4 miliardi di dollari. Dalla dichiarazione di New York (che ha dato il via all’iter per i due patti, Global compact per rifugiati e migranti, ndr) sono stati mobilitati sei miliardi e mezzo di dollari di nuove risorse destinati agli Stati che ospitano i rifugiati, grazie ai nuovi strumenti finanziari della Banca Mondiale che affrontano le crisi con orizzonte di lungo termine. Bisogna calmare il dibattito politico se vogliamo realmente agire con fatti concreti, depoliticizzare il tema migratorio per risolvere i problemi”. Le semplificazioni del dibattito corrispondono alle semplificazioni delle azioni politiche. Si è monetizzata la chiusura dei confini. L’Europa ha investito miliardi per i campi in Turchia e l’addestramento e i mezzi alla guardia costiera libica. Qual è il suo giudizio a qualche anno da questi accordi? “Non ho una risposta semplice. Noi non siamo l’Alto commissariato per l’Europa, siamo l’Alto commissariato globale, e quindi abbiamo il dovere di aiutare qualsiasi paese che si trovi ad affrontare una crisi di rifugiati. Unhcr lavora in Turchia (che ospita 4 milioni di rifugiati) e in Sudan (che ospita un milione di persone) e in altri paesi che hanno destato perplessità sul rispetto dei diritti umani. Per noi è dunque fondamentale che l’Europa ci sostenga nell’aiutare quei paesi a gestire i flussi, nei sistemi di asilo e inclusione sociale. E per i rifugiati che si fermano in quei paesi è vitale l’azione economica europea. Quello che diciamo all’Europa, e all’Australia e agli Stati Uniti, è che questo tipo di aiuti non può essere sostitutivo dell’accoglienza nei paesi ricchi. Anche se rinforziamo i sistemi di accoglienza nei paesi di transito le persone non smetteranno di arrivare nei paesi ricchi. La porta, dunque, deve rimanere aperta. Rinforzare una porta non significa chiuderne un’altra”. In Libia vale la stessa valutazione? “No, la Libia è un caso a parte. Questo discorso non si può applicare perché lì non possiamo rinforzare i sistemi di asilo perché è un paese in guerra, in una guerra complicata e crudele e imprevedibile”. Ha fatto bene l’Europa a investire sulla Guardia costiera in Libia? “Se il sostegno alla Guardia costiera fosse stato una parte di un investimento generale atto a rinforzare le strutture del Paese e gestire i flussi sarebbe stata una cosa positiva. Purtroppo invece quell’investimento economico è rimasto isolato. Cioè si è investito nella Guardia costiera senza investire altrove, perciò il risultato netto è negativo. Oggi tutte le persone intercettate dalla Guardia costiera libica - cioè il 70 per cento di chi prova a partire - finiscono nei centri di detenzione, quindi in un sistema di abuso. La verità è che se non si risolve il conflitto, se non si trova unità di azione almeno in Europa, ogni decisione sarà vanificata dalle competizioni e dagli interessi incrociati”. Droghe, si apre il fronte degli psichedelici di Marco Perduca Il Manifesto, 4 settembre 2019 Quasi a celebrare il cinquantesimo anniversario di Woodstock, la quinta Breaking Convention, la conferenza europea multidisciplinare sulla coscienza psichedelica, si è chiusa il diciotto agosto all’Università di Greenwich di Londra dopo che per tre giorni oltre centocinquanta oratori hanno affrontato tutto ciò che ruota attorno a piante e sostanze spesso proibite. Lanciata nel 2011 dallo psichiatra e psicoterapeuta Ben Sessa, e convocata biennalmente, la Breaking è un festival dalle mille sfaccettature che prevede simposi scientifici sulle più recenti e promettenti, ricerche oltre che approfondimenti innovativi su scienze umane e sociali, diritto, politica, arte, storia e filosofia che hanno a che fare con gli psichedelici. Tra i sostenitori storici della Convention si segnala la Beckley Foundation e Maps (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies), quest’ultima in fase tre di trial clinici per la cura di stress post-traumatico con psicoterapie aiutate dall’Mdma. Sessa collabora anche con l’equipe di Robin Carhart-Harris e David Nutt che ad aprile scorso all’Imperial College di Londra ha lanciato il primo centro istituzionale al mondo per la ricerca sugli psichedelici, dopo aver portato avanti per anni studi ed esperimenti con Lsd e psilocibine con problemi legali e di disponibilità di fondi. Pur focalizzati sulle ricerche, gli organizzatori della Convention hanno sempre tenuto le porte aperte anche ad altri tipi di esperienze coinvolgendo persone che sperimentano su se stesse, ricercatori autodidatti, appassionati o esponenti di culture e tradizioni indigene. Il festival londinese ha un corollario di eventi che, grazie agli psichedelici, suscitano e accompagnano viaggi mentali, innescano creatività, spiritualità e positività individuali e collettive. “Microdosing” e self-medication sono alcune delle parole chiave della Convention, anche se Nutt e i suoi collaboratori il 15 luglio scorso hanno lamentato scarse evidenze sull’impiego terapeutico di piccole dose di Lsd, mescaline o psilocibine. “Non esiste uno standard sulla quantità assunta né protocolli definiti” si legge nel loro lavoro: che però, piuttosto che archiviare il tutto come amatoriale, aneddotico e osservazionale, auspica studi sistematici lanciando, al contempo, una ricerca di volontari per trial clinici sulla depressione. Cerimonie, gong, visioni, piante, chimica, antropologia, etno-botanica, archeologia musica e attivismi costruiscono la multidisciplinarietà delle Breaking nel perseguimento di quella Unità (Onennes) psico-culturale, e sempre più “politica”, che si interroga sulle possibilità di una lotta trans-nazionale anti-proibizionista. La lotta contro la perdita di autodeterminazione - a livello individuale e dei popoli indigeni - la penalizzazione di scelte culturali e di opzioni “terapeutiche” altre, l’attacco alla natura e alla bio-diversità, sono i temi chiave di questo movimento che propone un “rinascimento psichedelico” pro-attivo. In Italia l’unica conferenza interamente dedicata a queste “terapie stupefacenti” l’ha organizzata nel 2017 l’Associazione Luca Coscioni all’Università di Torino, città dove dal 1990 è attiva la Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza. Dall’inizio dell’anno è in via di costituzione una Società Psichedelica Italiana. A Londra c’era un unico oratore italiano: Giorgio Samorini. Alla fine di ogni conferenza viene pubblicato un volume contenente gli interventi più significativi dell’incontro. Si tratta di un codice miscellaneo che contribuisce a diffondere il verbo psichedelico e a rispettare il diritto internazionale; anche perché, pochi lo notano, la Convenzione Onu del 1961 sulla carta dovrebbe favorire l’accesso per fini medico-scientifici alle piante mediche, psichedelici compresi, seppur elencate nelle tabelle delle sostanze proibite. Gran Bretagna. Prigioni techno free di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 settembre 2019 In Gran Bretagna la situazione carceraria è disastrosa. Così parte un progetto da 2,5 miliardi di sterline. Un carcere senza sbarre e dal design innovativo, non grigio ma luminoso, con spazi ampi, luoghi di incontro e giardini rigogliosi, ma soprattutto in grado di garantire una detenzione dignitosa e un effettivo percorso di rieducazione. È stata già ribattezzata “la prigione del futuro” e aprirà i battenti nel 2021 a Wellingborough, città della contea del Northamptonshire, in Inghilterra, nota per aver dato i natali a Thom Yorke, frontman dei Radiohead. Il nuovo istituto di pena, che costerà 253 milioni di sterline e ospiterà circa 1.600 detenuti, fa parte del maxi piano da 2,5 miliardi di sterline annunciato dal primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, per risollevare un sistema penitenziario ormai in ginocchio e al centro delle preoccupazioni internazionali: oltre 84 mila detenuti reclusi (il numero più alto nell’Europa occidentale), sovraffollamento cronico, aumento degli episodi di violenza, suicidi e morti in carcere, riduzione costante del personale penitenziario, alto tasso di recidiva. L’imbarazzo delle autorità britanniche ha toccato il punto di non ritorno lo scorso maggio, quando un tribunale olandese ha deciso di bloccare l’estradizione nel Regno Unito di un trafficante di droga per il rischio che l’uomo potesse subire un trattamento “inumano e degradante” nel carcere di Liverpool, dove sarebbe dovuto essere recluso. Il governo sembra ora voler affrontare di petto l’emergenza, dando il via a un piano di assunzione di circa 20 mila agenti penitenziari e alla costruzione di nuovi istituti di pena in grado di ospitare altri 10 mila detenuti. In questo quadro c’è spazio anche per l’esperimento del nuovo carcere di Wellingborough, che, affidato allo studio di architettura di fama mondiale Bryden Wood, mira a realizzare “la più grande riprogettazione del carcere dall’epoca vittoriana”. Niente più sbarre alle finestre, grazie all’impiego di vetri rinforzati. Niente più struttura “Panopticon”, secondo il modello elaborato alla fine del 700 da Jeremy Bentham, con un edificio centrale dal quale si dipanano i vari bracci con le celle dei detenuti, ora sostituita da una forma a croce, in cui i lunghi e anonimi corridoi si riducono in zone più piccole e più sociali, permettendo al personale carcerario di sviluppare migliori relazioni con i detenuti attraverso un contatto più diretto. Niente più oscurità, con la presenza di ampi cortili che si affacciano ai giardini e di un centro visite arioso e circondato da strutture in legno. Ma, soprattutto, niente più abbandono dei detenuti alla noia e alla solitudine, grazie a un unico hub centrale che fornirà istruzione, formazione professionale e servizi sociali. Come raccontato dal Guardian, il “carcere del futuro” è stato disegnato grazie all’impiego della tecnologia della realtà virtuale, che ha consentito agli architetti di esplorare e testare gli innumerevoli layout con il personale carcerario, modificando le larghezze e le lunghezze dei corridoi, regolando le altezze del soffitto e modellando l’acustica per trovare un layout che garantisse un equilibrio tra riabilitazione dei detenuti ed efficienza operativa. Anche in Italia, per certi versi, le tecnologie della realtà virtuale hanno fatto il loro ingresso in carcere. Basti pensare che l’unico film italiano in concorso nella categoria “Venice Virtual Reality” della 76esima edizione della Mostra del cinema di Venezia è un cortometraggio realizzato all’interno della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Si intitola “VR Free”, è diretto dal regista iraniano Milad Tangshir e consente di esplorare in prima persona gli spazi detentivi, catturando momenti salienti della vita in carcere. Nel film si vedono anche le reazioni di alcuni detenuti che, con l’aiuto dei caschi VR, riescono a partecipare virtualmente ad alcune situazioni collettive e intime che non sono più alla loro portata, come una passeggiata in un parco o una partita allo stadio. Il Regno Unito, insomma, prova a guardare al modello di carcere scandinavo (senza sbarre, senza celle e con una vera rieducazione dei detenuti), ma con un grande paradosso: i dati dimostrano che la costruzione di nuove carceri determina sempre un aumento della popolazione carceraria. Se non accompagnata dalla chiusura delle strutture più fatiscenti, la strategia di Johnson rischia di consegnare al Regno Unito un sistema penitenziario con pochi casi virtuosi (come quello di Wellingborough) e la sopravvivenza di decine di carceri inadeguate a svolgere la loro funzione rieducativa, con uno scarso impatto sul tasso di recidiva dei condannati. Un paradosso diverso, ma non troppo, sembra affliggere l’Italia, dove il numero di reati continua a scendere, ma le carceri sono sempre più sovraffollate (aumenta il tasso di detenzione): i detenuti reclusi nelle carceri italiane sono 60.254, a fronte di una capienza di 50.480. Ma nel nostro paese sembra non esserci alcuna intenzione di affrontare lo stato di illegalità del sistema penitenziario. Australia. Lo yoga in carcere, primi risultati positivi di Stefania D’Ammicco sanihelp.it, 4 settembre 2019 È stata pubblicata una ricerca che si basa sul programma di pratica in un penitenziario, e i dati sono davvero incoraggianti. Lo yoga in carcere è una realtà non solo presente in Italia, ma anche in altri Paesi. Tuttavia, la sola pratica può sicuramente dare dei risultati, ma tanti vorrebbero conoscere i dati relativi all’effettività dello yoga in carcere. Per questo sono stati raccolti i risultati relativi allo yoga in carcere che è stato proposto, a partire dal 2017, nell’Alexander Maconochie Center che si trova in Australia e, in modo più specifico, a Canberra. Questo è stato il primo programma di yoga in Australia ad essere non solo proposto ma anche valutato sotto il punto di vista della sua efficacia. Infatti, i risultati relativi alla pratica sono stati seguiti, e sono stati ora pubblicati all’interno dell’International Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology. Il risultato della pratica costante sarebbe stato davvero molto positivo, così come si legge nell’articolo. I prigionieri avrebbero mostrato di aver potuto ricever dei benefici dal punto di vista fisico e mentale grazie al programma. Ancora più nello specifico, sarebbero migliorati di molto i livelli di stress, ansia e depressione. Allo stesso tempo, molti partecipanti al programma hanno potuto constatare un aumento della loro autostima, diventando maggiormente capaci non solo di seguire i programmi proposti all’interno del carcere, ma anche di porsi degli obiettivi che non fossero a brevissimo termine. Infine, grazie al programma i carcerati avrebbero avuto la possibilità di creare delle relazioni forti e sane con i compagni di cella e, in generale, con gli altri ospiti della struttura. Il programma ha coinvolto dieci prigionieri i quali hanno potuto seguire le lezioni di yoga per otto settimane in tutto, non abbandonando, in seguito, più la loro pratica. Iran. I diritti umani e le responsabilità dei giornalisti di Luciana Borsatti articolo21.org, 4 settembre 2019 Non passa giorno che non salti fuori una notizia di violazione dei diritti umani in Iran: vi è dunque un’ampia disponibilità di informazioni, che rivela la grande vivacità e consapevolezza della società civile iraniana, oltre che una vasta ed efficace rete di comunicazione che ne raccoglie le segnalazioni e raggiunge i desk redazionali. Anche se sta forse proprio qui uno dei temi su cui ci dovremmo interrogare: perché tanta informazione proprio dall’Iran e sull’Iran? Fra le notizie più recenti, la condanna ad oltre dieci anni di reclusione e 148 frustate per la giornalista Marzieh Amiri, reporter per le pagine economiche del quotidiano riformista Shargh, accusata di riunione e collusione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo stato, disturbo dell’ordine pubblico. Era stata arrestata il primo maggio scorso, mentre copriva una manifestazione di lavoratori di fronte al parlamento, e riferiva nel suo lavoro delle difficoltà economiche degli iraniani. Secondo il Center for Human Rights in Iran (Chri) almeno altri sei giornalisti sono stati perseguiti dalla magistratura solo nel 2019. A pronunciare la sentenza, che ora dovrà essere confermata in appello, la branca n.28 della Corte rivoluzionaria (organismo giudiziario parallelo alla giustizia ordinaria) presieduta dal giudice Mohammad Moghiseh: lo stesso magistrato che ha condannato - riferiscono la famiglia e le ong per i diritti umani - a 33 anni di reclusione e 148 frustate l’avvocato Nasrin Sotoudeh, già in carcere per una precedente sentenza, e colpevole fra l’altro di aver difeso diverse donne arrestate per essersi ribellate all’obbligo del velo - anche se la nuova e pesante pena effettiva da scontare è di 12 anni, quella per il più grave dei sette reati contestati. A proposito di donne ribelli al velo, l’ultima sentenza in ordine di tempo è stata nei giorni scorsi per Saba Kord-Afshari, condannata a 24 anni secondo lo stesso CHRI, basato a New York. Che ricorda anche come siano almeno 12 le donne condannate per la stessa accusa dal gennaio 2018, quando iniziarono le proteste contro il velo obbligatorio, e 32 quelle arrestate. Lo stesso centro ha anche commentato con il Manifesto la recente sentenza della corte amministrativa di Ishfahan di rilasciare ad una giovane motociclista la patente per la guida di motocicli. In Iran non ci sono leggi che vietano esplicitamente l’uso di moto e motorini alle donne, che possono guidare auto, bus e perfino camion. “Si tratta piuttosto di un modus operandi adottato arbitrariamente dalla polizia stradale e supportato dalle autorità religiose e dalle fazioni più conservatrici della società”, ha detto Jasmin Ramsey. “È una questione legata all’equilibrio di poteri - ha aggiunto -, non di giustizia”. Con poche buone notizie e tante cattive, l’elenco di episodi in cui sono stati violati dei diritti umani in Iran - a partire da quelli ad un equo processo ed alla proporzionalità della pena, per finire con un’ancora troppo vasta e troppo spesso opaca applicazione della pena di morte - potrebbe dunque continuare all’infinito, visto anche il rilevante numero di Ong internazionali che raccolgono tali denunce e se ne fanno portavoce. Tanto lungo è questo elenco che alla fine da giornalisti dobbiamo scegliere, e secondo criteri che rispondano alla necessità che la notizia abbia più visibilità e risonanza - criteri insomma più mercantili che umani. E con una netta prevalenza delle notizie che riguardano le donne, filone che risveglia l’interesse dei lettori molto più di altri. In fondo, una donna giovane e bella condannata a carcere e frustante fa più notizia di uno sconosciuto curdo impiccato per oscuri motivi in qualche area periferica e che mai passerà ai transeunti onori delle cronache. D’altronde, digitando “diritti umani Iran” su Google News si trovano oltre 36 mila risultati. Se la stessa ricerca si fa per l’Arabia Saudita, il grande rivale di Teheran sul piano geopolitico oltre che fedele alleato degli Usa e dell’Occidente, i risultati si fermano a circa 19 mila, con prevalenza delle notizie neutre o positive almeno nella prima schermata che ci appare. Da giornalisti, allora, forse dovremmo chiederci come mai vi sia questa differenza. Forse che la Repubblica Islamica compie più violazioni dei diritti umani perché conta 80 milioni di abitanti invece dei 31 milioni di sudditi della vicina potenza petrolifera araba? Forse che questo accade nonostante si tratti di una “repubblica” islamica, in cui presidente e parlamento sono eletti ogni quattro anni a suffragio universale, mentre nella “monarchia assoluta” islamica con sede a Riad si eleggono solo i consigli municipali e il re è affiancato soltanto da un’assemblea consultiva? Forse perché fa indiscutibilmente più notizia l’ennesima condanna in Iran rispetto all’ennesimo vano appello di Amnesty International per la liberazione di almeno 14 attiviste in carcere per avere difeso, negli anni passati, i diritti delle donne e i loro diritti umani? Donne finite dietro le sbarre, torturate e violentate, sempre secondo Amnesty, nonostante avessero combattuto per quegli stessi diritti - di guidare la macchina o di viaggiare senza il permesso di un tutore maschio - che nel frattempo sono stati loro regalmente concessi dal principe erede riformatore - oltre che presunto mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khasoggi - Mohammad Bin Salman. Interroghiamoci, dunque. E chiediamoci anche se davvero possiamo limitarci, proprio noi giornalisti, a dare notizia delle pur ingiuste condanne senza cercare di spiegare, ogni volta, il contesto in cui avvengono. Forse che fare il giornalista vuol dire fare copia/incolla delle notizie fornite da altri? O non significa anche - sempre che i nostri editori ce ne diano il tempo e le forze - inserire tali notizie (senza dimenticare di citare la fonte da cui provengono) nei contesti in cui i fatti sono maturati? E cercare di dare al lettore gli strumenti per comprendere tali contesti? Per esempio, una delle possibili chiavi di lettura del ripetersi di pesanti condanne e violazioni dei diritti della difesa da parti di Corti rivoluzione può ricondursi al fatto che in questi anni di “massima pressione” Usa contro l’Iran l’ala ultraconservatrice del sistema, cui appartengono la magistratura e le strutture repressive e di intelligence in mano ai Pasdaran, si é rafforzata. E che mentre Trump usciva dall’accordo sul nucleare e lasciava mani quasi libere ai falchi anti-iraniani - con gran soddisfazione dei falchi anti-Occidente in Iran - l’Europa poco o nulla faceva per sostenere le forze moderate e riformiste che invece si erano giocate tutto sull’accordo sul nucleare del 2015 e sulle prospettive di sviluppo, benessere e fruttuose interazioni con l’Occidente che ne sarebbero derivate. E allora da giornalisti ci potremmo chiedere se le stesse violazioni dei diritti umani che oggi ci troviamo a segnalare ci sarebbero ugualmente state e, se sì, in quale misura. E allora sicuramente troveremmo, in Iran come all’estero, un sacco di gente che sostiene che la Repubblica islamica è inemendabile e dunque solo rovesciabile (e qui si pone il problema di come questo possa accadere in modo indolore). Ma anche molte altre persone convinte che un processo di riforma interna graduale è sicuramente preferibile alle incognite di una nuova rivoluzione, a soli 40 anni dalla prima, peggio ancora se indotta da interferenze esterne. Oppure potremmo seriamente porci il quesito: ma la violazione dei diritti umani - così come la civiltà occidentale e il diritto internazionale li hanno formulati - è davvero intrinseco ad un “sistema” che pone le sue fondamenta sul diritto islamico? E questo stesso diritto islamico - e qui sintetizzo a grandi spanne alcune precisazioni di Raffaele Mauriello, docente italiano alla Allameh Tabataba’i University di Teheran - si riduce forse al generico e ideologico concetto di sharia, o forse non viene invece diversamente declinato in scuole giuridiche storicamente diverse, o codificato con norme scritte in certi casi (come appunto in Iran) e discrezionalmente applicato dal giudice in altri (come appunto nella ultraconservatrice Arabia Saudita)? Certo, la storia e la cronaca non si fanno con i “se”, ma l’Occidente non può sfuggire all’obbligo di interrogarsi sulle sue responsabilità nella stretta repressiva di questi ultimi anni. E noi giornalisti dovremmo più semplicemente chiederci se è solo per abitudine o pigrizia o conformismo che perseveriamo, riforniti da attivisti e uffici stampa, nell’inseguire il sempreverde filone dei diritti umani in Iran, invece che andare a cercare altre violazioni in altri paesi, meno esplorati e sicuramente più opachi della chiacchieratissima Repubblica Islamica. A meno che non vogliamo trasformarci in attivisti pure noi, perdendo quella ‘giusta distanza’ dai fatti che - almeno ad avviso di chi scrive - non dovremmo mai smettere di perseguire. E ancora a meno che, più o meno consapevolmente, non ci facciamo noi stessi megafoni di campagne volte non tanto a difendere i diritti umani degli iraniani, quando ad annientare un rivale geopolitico troppo indipendente dall’Occidente e addirittura a perseguire un irresponsabile regime change. Un cambiamento di regime che invece non vediamo auspicare per i massacratori del collega Khasoggi, che invece tanto lo vorrebbero per i loro scomodi vicini persiani. E infine potremmo anche chiederci se il primo diritto umano degli iraniani, come di ogni altra nazione, non sia quello di determinare autonomamente, e senza ingerenze esterne più o meno animate da buone intenzioni, il proprio destino. Il nuclear deal poteva forse essere una strada per aiutarli in questa direzione. Oppure no, come qualcuno fermamente sostiene. Di sicuro - e la cronaca e forse anche la storia già lo hanno certificato - nessuno lo ha potuto verificare. Yemen. I responsabili dei crimini contro i bambini devono risponderne alla giustizia articolo21.org, 4 settembre 2019 Le persone e le parti in conflitto responsabili di atrocità in Yemen devono essere chiamate a risponderne davanti alla giustizia, sottolinea Save the Children - l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro - in seguito alla diffusione odierna del rapporto del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite sullo Yemen, presentato oggi a Ginevra. Il rapporto evidenzia che le parti in conflitto hanno commesso “una serie di possibili crimini di guerra”, molti dei quali hanno preso di mira i bambini o hanno avuto un impatto sulla loro vita. È inaccettabile - sottolinea Save the Children - l’impunita persistente per i responsabili degli abusi e delle gravi violazioni contro i bambini, nel quinto anno di conflitto. Violazioni che, in base alle indagini condotte dal gruppo di esperti dell’Onu, comprendono crimini commessi attraverso gli attacchi aerei, bombardamenti indiscriminati, uccisioni e detenzioni arbitrarie, torture e violenza sessuale. “I responsabili dell’uccisione, del ferimento e di altre gravi violazioni contro migliaia di bambini dello Yemen continuano a non pagare per i crimini commessi. Non possiamo più accettare tutto questo. Così come non possiamo più accettare che in Yemen la fame venga utilizzata come vera e propria arma di guerra, come rileva il rapporto, con conseguenze su migliaia di bambini che soffrono di gravi forme di malnutrizione. Perché i bambini, in Yemen, non muoiono soltanto a causa delle bombe e delle armi, ma vengono soffocati silenziosamente perché viene negato loro il cibo”, ha dichiarato Tamer Kirolos, Direttore di Save the Children in Yemen. “Ogni giorno, i nostri team sul terreno hanno davanti ai loro occhi le conseguenze di questo terribile conflitto: i bambini si ammalano, soffrono di malnutrizione, a volte sono fin troppo deboli anche per mangiare e muoiono perché non hanno acqua pulita e medicinali. Il nostro staff continua a lavorare per offrire ai bambini il sostegno di cui hanno bisogno, ma finché ci sarà la guerra possiamo solo aiutarli a rimanere in vita e non a costruirsi il futuro al quale hanno diritto. Il gruppo di esperti dell’Onu ha dolorosamente fatto luce sui possibili crimini di guerra commessi in Yemen, ma il suo mandato non dovrebbe fermarsi qui e, anzi, andare oltre ed essere rafforzato”, ha proseguito Kirolos. Pertanto Save the Children si appella ai membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite perché, durante la prossima riunione sullo Yemen prevista per l’11 settembre, il mandato del Gruppo di esperti venga rinnovato e rafforzato, compiendo così un importante passo verso l’identificazione delle responsabilità nei confronti dei bambini yemeniti. In particolare, sottolinea l’Organizzazione, il mandato dovrebbe prevedere un focus specifico sull’individuazione delle prove, ulteriori relazioni pubbliche e competenze specifiche riguardanti i minori. Relativamente a tutte le presunte violazioni del diritto internazionale umanitario, dovrebbero inoltre esserci indagini credibili e indipendenti, in modo che gli autori dei crimini siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Save the Children reitera infine il proprio appello a tutte le parti in conflitto a favorire tutti gli sforzi per evitare di colpire la popolazione e le infrastrutture civili come scuole e ospedali, nonché a garantire il pieno accesso agli aiuti umanitari in tutto il paese e a trovare una soluzione duratura per mettere fine al conflitto in Yemen e alle sofferenze dei bambini e delle loro famiglie. Brasile. Indagini e processi sugli incendi in Amazzonia: al via la campagna di Amnesty di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 settembre 2019 Amnesty International ha lanciato una campagna online per sollecitare il presidente brasiliano Jair Bolsonaro e il suo governo a rafforzare la protezione dei territori nativi e delle riserve naturali dell’Amazzonia. Secondo l’organizzazione per i diritti umani, è necessario che le autorità brasiliane svolgano indagini e processi nei confronti dei responsabili degli incendi illegali in Amazzonia affinché si prevenga l’ulteriore distruzione della foresta pluviale. Il 29 agosto il presidente Bolsonaro ha promulgato un decreto che proibisce di appiccare incendi a scopo di disboscamento per 60 giorni. Il decreto, lamentano però gli esperti, potrebbe avere scarsa efficacia dato che buona parte dei recenti incendi è già vietata dalle leggi esistenti. Il problema è proprio questo: sulla carta il Brasile le leggi in grado di proteggere i territori nativi e le riserve naturali ci sarebbero, ma il presidente Bolsonaro si è attivamente prodigato per indebolire queste protezioni. Da aprile 2019 Amnesty International ha visitato quatto territori nativi dell’Amazzonia brasiliana: Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau nello stato di Rondônia, Arara nello stato di Pará e Manoki nello stato di Mato Grosso. Nei quattro territori visitati, la percentuale di deforestazione è superiore di quasi l’80 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. In alcune aree, i leader delle comunità native hanno ricevuto minacce di morte per aver cercato di difendere i loro territori tradizionali. Il 23 agosto Amnesty International ha assistito all’incendio divampato nel territorio nativo Manoki, nello stato di Mato Grosso (nella foto scattata da un drone). La zona data alle fiamme era stata chiusa. Secondo i leader Manoki, l’incendio era stato appiccato allo scopo di creare pascoli per le mandrie di bovini. Al di là della volontà politica, o forse anche a causa di essa, i tagli di bilancio a livello federale hanno causato la riduzione delle operazioni di monitoraggio e di prevenzione delle acquisizioni di terreni e delle deforestazioni illegali sono state ridotte. “Se avessimo abbastanza personale per effettuare le ispezioni, la situazione non sarebbe arrivata a questo punto”, ha dichiarato sotto anonimato un funzionario dell’agenzia nazionale per l’ambiente dello stato di Rondônia. Un nativo Manoki, che a sua volta ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto: “L’Ibama [l’istituto brasiliano nato per la tutela ambientale e la protezione della foresta amazzonica] ha smesso di venire qui. Non so perché. Abbiamo preparato rapporti, comunicato le coordinate dove erano in corso i disboscamenti illegali, ma non si sono più fatti vivi”. La Funai (Fondazione nazionale dell’Indio), da cui dipende l’Ibama, ha subito un taglio del budget. Secondo dati del governo, i fondi di spesa assegnati alla Funai dall’inizio dell’anno al 28 agosto sono stati inferiori del 10 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Fonti di stampa hanno reso noto che complessivamente il budget dell’Ibama è stato ridotto del 25 per cento. Lanciando la campagna, il segretario generale di Amnesty International Kumi Naidoo ha dichiarato: “Siamo di fronte a una crisi dei diritti umani e a una crisi ambientale. Nel lungo termine, rafforzare i poteri delle autorità civili per contrastare la deforestazione e le acquisizioni illegali dei terreni è l’unica strada percorribile. Per il futuro della foresta pluviale amazzonica e per coloro che la considerano la loro casa, nonché per il resto del mondo che da essa dipende per la stabilità del clima, il Brasile deve fare di più”.