Certezza della pena, funzione rieducativa e recidiva: alcune riflessioni di Riccardo Achilli talentilucani.it, 3 settembre 2019 Da anni, ogni progetto di riforma della giustizia, annunciato o prodotto, viene accompagnato dalla retorica della “certezza della pena”. È una retorica avvincente, per certi versi, perché fa presa su un Paese che ha, insieme, una sfiducia radicata nelle istituzioni (quindi anche nella giustizia) e dall’altro è innervato da un giustizialismo forcaiolo, riflesso di una rabbia sociale e di un sentimento di insicurezza diffusi. Ma chiediamoci che cosa significhi l’espressione “certezza della pena”: nell’accezione comune, quella dell’uomo della strada, essa significa una sorta di automatismo fra commissione di un reato e espiazione carceraria dello stesso. Addirittura, la volontà di anticipare la carcerazione rispetto alla stessa condanna, cancellando l’ovvio concetto di civiltà giuridica per il quale chiunque è innocente fino a prova contraria. La giustizia, spettacolarizzata dai media, è divenuta uno sfogatoio di rabbie latenti: la sofferenza indotta dalla punizione (giusta o ingiusta) crea un palcoscenico nella quale, in parte, auto-consolarsi (c’è chi sta peggio di me, io almeno non sto al fresco) ed in parte proiettare sul reo le proprie frustrazioni personali. Anche fuori da tale visione completamente distorta, il concetto di “certezza della pena” implica una idea di automatismo, per il quale ad ogni evento debba, necessariamente, corrispondere una determinata pena, una volta che la rilevanza penale dell’evento sia stata accertata giudiziariamente. Tale idea di automatismo confligge, però, con il naturale ed ovvio buon senso. Esso implica che le Procure e le Forze dell’Ordine siano sempre, indifferentemente, in grado di trovare e consegnare ai Tribunali gli autori effettivi dei reati, che il giudice agisca come un automa, applicando in automatico una previsione normativa penale perfetta, tale, cioè, da non essere suscettibile di alcuna interpretazione o di alcun adattamento alla situazione concreta per la quale si sta agendo, e che le circostanze attenuanti o aggravanti, perlomeno di tipo generico, non siano mai applicate. Nel “Contratto per il cambiamento” firmato da Lega e M5S per il governo giallo-verde, emerge esattamente tale interpretazione della “certezza della pena” declinata dal principio di automatismo fra reato e carcere e dalla severità estrema della concezione penale. Tale proposta, infatti, punta su “più carcere per tutti”, inteso sia come quantità di galera da far scontare a chi commette reati sia come quantità di prigioni da costruire per ospitare una popolazione di detenuti destinata ad aumentare per la preannunciata eliminazione di misure alternative e di benefici di ogni genere. Carcere chiuso, insomma, anzi chiusissimo. Per garantire “più sicurezza per tutti”. Qualche elemento di Costituzione e di teoria della pena Evidentemente, tale approccio confligge con l’ordinario buon senso, che evidenzia come il diritto sia per sua natura incerto, e richieda quindi, caso per caso, una interpretazione del giudice basata, oltre che su criteri tecnico-professionali e sulla giurisprudenza, anche sul suo libero convincimento in relazione all’area grigia non interpretabile secondo criteri tecnici a priori, ma soltanto in base ad una opinione che si forma sul caso concreto che viene giudicato. Ma tale approccio confligge anche con la natura della pena prevista dalla nostra Costituzione. L’articolo 27, infatti, recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La Costituzione si inserisce, con una scelta precisa, in un dibattito sulla natura della pena che dura sin da Beccaria. In estrema sintesi, l’approccio giuridico anglosassone si concentra sulla natura espiativa della pena, che ha una valenza triplice: essa deve, in tale concezione, servire da deterrente a chi voglia commettere un reato, e quindi essere sufficientemente severa da scoraggiare chi volesse intraprendere una azione criminosa, ed al contempo deve servire da “contrappasso”, da compensazione morale per il male arrecato alla società da parte di chi delinque, ed in questo senso trovano ospitalità istituti penali tipicamente anglosassoni, come il lavoro forzato, inteso in termini di compensazione economica ad un danno economico arrecato alla società, oppure la pena di morte, come parallelo di un omicidio commesso. Infine, la pena deve “togliere di mezzo” individui ritenuti inadatti ad una vita sociale ordinata per la gravità dei reati commessi, o con la morte oppure con l’ergastolo effettivo, quello in cui effettivamente non si esce più dal carcere. Tale concezione della pena è definibile come “retributiva”, per la parte in cui intende “compensare” con la pena il danno sociale arrecato, ed in parte come “funzionalistica”, nella misura in cui intende eliminare dalla vita sociale individui considerati pericolosi ed irredimibili. Già Beccaria si discosta da tale approccio, ritenendo la pena come un deterrente sociale alla commissione del reato e, in una logica marginalista, prevedendo la fissazione della stessa esattamente al punto di congiunzione fra il beneficio ottenibile tramite la commissione di un reato e il costo da pagare in caso di condanna. In questo approccio, Beccaria rigetta quindi le pene puramente espiative, cioè eccessivamente severe rispetto alla gravità del fatto commesso, ivi compresa la valutazione di totale inadeguatezza dell’individuo rispetto alla società che ne giustificherebbe la “sparizione” (egli infatti è avverso alla pena di morte) ma al contempo rigetta ogni finalità rieducativa della pena. Ciò perché egli ragiona in termini puramente razionali e non etici: il criterio etico di inadeguatezza sociale non ha fondamenti razionali, e non può quindi essere assunto a criterio-guida di pene tendenti ad eliminare per sempre il reo dal consesso sociale. La pena ha quindi, nella costruzione teorica di Beccaria, una funzione essenzialmente deterrente: eliminando il beneficio del reato con una sanzione di entità almeno pari allo stesso, scoraggia l’individuo che vorrebbe delinquere. È evidente come tale approccio sconti l’assunzione di razionalità degli agenti sociali tipica dell’intera impalcatura neoclassica e utilitaristica/marginalista. Il crimine dipende soltanto da una valutazione razionale fra costi e benefici effettuata dal potenziale delinquente, non da aspetti socio-psicologici o culturali, o dall’interazione di cause bio-psico-sociali, come un filone moderno di criminologia statunitense ritiene. Con il progressivo (anche se momentaneo) affermarsi della componente meramente sociologica della criminologia, emerge invece la possibilità di pensare alla pena come occasione di redenzione e reinserimento sociale attivo del reo. La condizione criminale non è più vista come una mera condizione fisiologica dell’individuo, come nelle teorie lombrosiane, che giustificano l’idea di una impossibile redenzione dell’individuo, che va meramente messo in condizione di non nuocere più alla società, né come una scelta razionale, che calibra la pena al punto di intersezione con l’utilità marginale dell’azione criminale. Emerge l’idea che l’ambiente socio-educativo in cui cresce l’individuo è alla radice del comportamento criminale, per cui la pena può, in qualche modo, “rieducare” il reo, fornendogli i valori di rispetto della legge e delle regole della collettività che le condizioni socio-educative in cui è cresciuto non gli hanno consegnato. La dottrina marxista fornisce un quadro in cui, se da un lato la criminalità comune è condannata fermamente come sottoprodotto del capitalismo, essa è però considerata come una conseguenza delle condizioni sociali di sfruttamento dell’uomo sull’uomo tipiche dello sfruttamento capitalistico. Altri filoni non marxisti, come la teoria delle sottoculture di Cohen, adottata per spiegare forme specifiche di devianza, come quella giovanile, insistono comunque anch’esse sulle condizioni sociali, abitative, educative e di opportunità lavorativa e di ascesa sociale in un contesto sociale molto competitivo come quello statunitense. Detta corrente di pensiero evolve fino ad assumere una forma teoricamente completa negli anni Sessanta, tramite la teoria del “labelling” (etichettatura). Secondo tale teoria, il livello di allarme sociale dei diversi reati è influenzato dalle classi dominanti della società in modo da reprimere in misura più forte i ceti sociali più deboli e disagiati, che più frequentemente li commettono. La reazione sociale a queste specifiche categorie di reato (che includono, tipicamente, la microcriminalità urbana, il piccolo spaccio di stupefacenti, i piccoli reati contro il patrimonio, il vandalismo, ecc.) condurrebbe alla conseguenza negativa di “etichettare” in modo negativo e permanente chi li commette, generalmente un membro delle classi sociali disagiate o delle minoranze, producendo, sia all’interno del sistema carcerario che all’esterno, nella società, forme di auto-percezione negativa di sé e una reputazione che ostacola qualsiasi tentativo di inserimento sano dentro il tessuto lavorativo. Al contempo, l’etichettatura induce gli etichettati a formare una “sottocultura”, come direbbe Cohen, frequentandosi fra di loro e quindi autoalimentando nuovi propositi criminali. In sostanza, secondo la labelling theory, come esposta nella sua versione più completa da Howard Becker nel suo libro “Outsiders” del 1973, sostiene che è la società a “criminalizzare” gli individui, come forma di lotta di classe, producendo forme di ghettizzazione, sia carceraria che sociale, che paradossalmente portano alla recidiva ed alla cronicizzazione delle carriere criminali. In questo filone, si sviluppa una classe di teorie chiamate “convicting theories”, che criticano il sistema carcerario per la sua assoluta carenza di attenzione alle tecniche ed alle modalità di rieducazione sociale e psicologica dei rei, ed anzi, nelle condizioni tipiche del sovraffollamento degli istituti penitenziari, mostrano come il contatto fra piccoli criminali e delinquenti di professione porti ad un aumento della probabilità di recidiva dei primi. In questo contesto teorico, dunque, la nostra Costituzione si pone nell’obiettivo, tipico della criminologia sociologica di sinistra, della funzione rieducativa della pena. Un obiettivo peraltro molto combattuto a livello di interpretazione della norma costituzionale, soprattutto da parte delle componenti democristiane di destra che parteciparono ai lavori della Costituente: “i primi anni cinquanta hanno rappresentato un periodo caratterizzato da alti indici di criminalità, che ha sicuramente costituito il terreno fertile per interpretazioni dottrinali tese a comprimere la portata innovativa del principio rieducativo. Come sempre avviene in periodi di forte allarme sociale, anche in questi anni tendono a prevalere preoccupazioni di tipo general-preventivo, cui si accompagna la mortificazione delle teorie di prevenzione speciale e un pericoloso ritorno a teorie retributive per lo più orientate in senso religioso, derivanti dall’affermarsi nel dopoguerra dell’egemonia culturale cattolica (…) La posizione più significativa, anche perché non è semplice riproposizione del passato, ma è spesso indirizzata verso nuovi fronti, è quella di Bettiol. Egli, in una serie continua di saggi, nell’arco di un quarantennio, ribadendo la finalità retributiva della pena, ha preso di mira sia la prevenzione speciale che quella generale, accusando entrambe di fare dell’uomo un oggetto pieghevole alle finalità del gruppo, della società, dello Stato53. Ma la sua analisi più attenta si è rivolta al “mito della rieducazione” dal momento che, proprio questa idea rieducativa e risocializzatrice, vulnererebbe l’uomo nella sua libertà interiore e sarebbe in agguato per soffocarne l’individualità in nome della prepotenza politica e del totalitarismo” (Zanirato, 2013). Tale impostazione ha finito per guidare diverse sentenze della Corte Costituzionale, tese a ridurre il contenuto rieducativo della pena ed a affiancarlo alla funzione “retributiva” della stessa. Funzione rieducativa della pena e tasso di recidiva Ma rispetto al contenuto ancora “rieducativo” della pena, che comunque rimane nella nostra Costituzione, cosa possiamo affermare? Il tasso di recidiva in Italia non è significativamente diverso da quello del resto dei Paesi occidentali: esso è del 68% per i detenuti negli istituti penitenziari, a fronte del 66% circa negli Usa. Tuttavia, esso crolla al 19% per chi è sottoposto a misure alternative alla carcerazione, come ad esempio i domiciliari, ed è assistito dai servizi sociali (Leonardi, 2007). E qui misuriamo già in modo chiaro il fallimento del modello penitenziario italiano, affetto da sovraffollamento (le nostre carceri hanno più di 54.000 detenuti a fronte di appena 49.700 posti disponibili), scarsa capacità di separare i piccoli criminali da quelli cronici e professionali (il 46% dei detenuti italiani sconta pene inferiori ai 5 anni, quindi è un piccolo criminale, spesso occasionale) modeste risorse assegnate per percorsi di formazione culturale, civica e lavorativa (soltanto il 4,6% dei detenuti segue corsi professionali, solo il 30% ha un lavoro in carcere). Anche i tentativi di sminuire l’enorme differenza statistica fra la recidiva in carcere e quella per le misure alternative allo stesso, tramite la considerazione che i detenuti nelle carceri tradizionali sono generalmente reclusi per reati più gravi (e quindi indicativi di una “professionalizzazione” o cronicizzazione del comportamento criminale) rispetto a chi è ai domiciliari o in carceri “sperimentali”, vengono meno alla luce del lavoro empirico di ricerca. Come riferisce Donatella Stasio, “Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanzia, Eief) e Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex), dal 2012 al 2014 hanno misurato gli effetti sulla recidiva di un carcere “aperto” - Bollate a Milano - dove il rapporto tra il dentro e il fuori è continuo e dove le attività di studio, lavoro, formazione preparano i detenuti alle misure alternative e poi alla libertà. (…) I risultati della ricerca sono infatti estremamente significativi, e incontestabili, sul fronte della recidiva: “La sostituzione di un anno in un carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali (tra il 15 e il 25% della recidiva media dei detenuti sfollati a Bollate)” spiega Terlizzese, aggiungendo che “l’effetto è maggiore per i detenuti con più bassi livelli di istruzione e per detenuti alla loro prima esperienza carceraria”. Particolarmente interessante è il maggior effetto sui detenuti sfollati, i quali, non essendo passati per il processo di “selezione” con cui vengono invece scelti gli ospiti di Bollate, sono molto più simili al detenuto medio delle carceri italiane. Il che rafforza la “validità esterna” di questa ricerca (e demolisce l’argomento secondo cui la maggior recidiva per chi è in carceri chiuse tradizionali dipende dalla maggior gravità del comportamento criminale, indice di maggiore professionalizzazione e cronicizzazione ab origine, NdA). Più in generale, lo studio dimostra quanto sia determinante - ai fini della recidiva - scontare la pena in condizioni che non umilino i detenuti ma li responsabilizzino, lasciando loro spazi di autodeterminazione”. D’altra parte, la maggior parte degli studi empirici condotti dimostra come la tipologia di relazioni intrattenute in carcere incida direttamente sulla recidiva, rendendo di fatto l’esperienza carceraria una sorta di “scuola criminale”, anziché una occasione per redimersi. Persino l’amministrazione di destra di Bush, nel 2004, ha approvato una legge (il c.d. “Second Chance Act”) mirata ad abbattere i tassi di recidiva soprattutto fornendo opportunità lavorative, già a partire dal carcere, e di reperimento di un alloggio e di cure mediche idonee dopo la scarcerazione. A partire dal 2008, 36 Stati americani hanno sperimentato un calo drastico dei tassi di incarcerazione. 33 di questi, a partire dal 2007, hanno introdotto misure di espiazione alternativa al carcere per i reati di basso impatto sociale, sperimentando un forte calo del tasso di recidiva. Per il nostro Paese, il Rapporto 2019 di Antigone sottolinea come “delle 44.287 misure (alternative alla detenzione carceraria - detenzione domiciliare, semilibertà, messa in prova, liberazione condizionale, NdA) in esecuzione nel primo semestre del 2018 ne sono state revocate in tutto 1.509, il 3,4%. E di queste solo 201, lo 0,5%, per la commissione di nuovi reati”. Ciò sostanzialmente conferma i bassi tassi di recidività di chi gode di misure alternative al carcere. Conclusione In conclusione, lungi dall’accogliere proposte draconiane e apocalittiche sulla “certezza della pena”, sul ritorno di concezioni retributive e funzionalistiche della pena, in contrasto con il nostro dettato costituzionale, noi sappiamo, oggi, che le misure riabilitative riducono la recidiva, quindi migliorano la qualità della vita delle nostre comunità, abbattendo la criminalità, e contribuiscono a ridurre il costo economico del mantenimento di un gran numero di detenuti in carceri sovraffollate e fatiscenti. Sappiamo anche, in barba ai profeti della “certezza della pena” intesa come automatismo fra reato e carcere, che la misura più efficace per ridurre la recidiva è l’assegnazione di pene alternative alla detenzione, come ad esempio i domiciliari, i lavori di pubblica utilità, la messa in prova, o la condizionale. Noi siamo già un Paese forcaiolo: appena il 44,8% dei rei è condannato a misure alternative al carcere, a fronte del 71,7% in Germania, del 70,3% in Francia, del 63,7% in Gran Bretagna, o del 52,1% in Spagna. Non abbiamo quindi bisogno di maggiore severità per sovraffollare ulteriormente carceri inadatte a costruire percorsi di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, al contrario abbiamo bisogno di rispettare il dettato costituzionale. Giustizia penale. La svolta possibile è partecipata di Paolo Borgna* Avvenire, 3 settembre 2019 Magistrati e avvocati assieme per risolvere il vero nodo: il rilancio dei riti alternativi. Oggi a mancare è il presupposto della convenienza per il loro utilizzo. Un vecchio magistrato del Novecento, volendo spiegare le ragioni del fallimento del pur perfetto Codice di procedura civile del 1940, raccontava che Arrigo Solmi, il giurista-ministro che lo aveva messo in cantiere, aveva maturato l’idea durante una sua visita a Lipsia. Entrato in Tribunale, aveva intravisto, dietro una porta, alcuni signori che discutevano, seduti intorno a un tavolo. “Chi sono?”, aveva chiesto. Gli risposero: “È un giudice che sta discutendo una causa con gli avvocati delle parti”. Solmi era rimasto folgorato: “Faremo anche noi un processo come questo: rapporto diretto tra le parti; oralità; concentrazione e immediatezza”. Un codice che - come lo stesso ministro proclamerà in un discorso del maggio 1939 - avrebbe portato nelle aule giudiziarie “una forma e un costume agili e pronti, una giustizia rapida e umana, aderente all’anima popolare”. Sennonché, il codice del 1940, fondato su tali presupposti, presto falli. Perché - spiegava quel vecchio magistrato - Solmi non sapeva che, per far discutere quei signori di Lipsia, c’erano voluti la stanza, il tavolo, le sedie; cose che spesso, nei nostri Tribunali del 1940, mancavano. Il Codice era stato varato quattro mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Le priorità erano altre. Il prossimo 24 ottobre il nostro Codice di procedura penale compirà trent’anni. Un Codice - firmato dal grande giurista Giuliano Vassalli - fondato su ottimi princìpi, con finalità che riecheggiavano quelle del Codice del rito civile del 1940: oralità, immediatezza, dialettica paritaria tra le parti. Nel 1989 nei nostri Tribunali non mancavano stanze, tavoli e sedie. Eppure anche questo codice è fallito. Di fronte a processi che, a volte, durano dieci anni e che si celebrano con rinvii di mesi tra un’udienza e l’altra, le sue originarie finalità paiono tristemente irridenti. Quando il codice fu varato, tutti dicevamo: “Potrà funzionare se l’80-90% dei processi sarà definito con i riti alternativi (l’abbreviato o il gatteggiamento)”. Così non è stato. E anche il codice Vassalli è affondato. Perché sono falliti i riti alternativi? Perché è venuto meno il presupposto che li doveva sorreggere: la loro convenienza. L’imputato che, sulla base delle prove raccolte, ritiene probabile la propria condanna, dovrebbe scegliere il rito abbreviato, che prevede una cospicua riduzione della pena (1/3 in meno). Ma se l’imputato sa che, scegliendo il rito ordinario, la condanna arriverà molti anni dopo, sarà tentato di percorrere quella strada. Del resto, più imputati sceglieranno il rito ordinario, più i dibattimenti saranno ingolfati di processi con tempi sempre più lunghi. E ciò spingerà altri imputati, che temono la condanna, a procrastinare i tempi della sentenza, scegliendo anche loro il rito ordinario. E così, le condanne arrivano molto in ritardo. Ma molto in ritardo arrivano anche le assoluzioni. È un male per tutti. In primo luogo, per la vittima, che da quel ritardo si sentirà umiliata una seconda volta. È un male per l’imputato. Comunque. Perché l’assoluzione di un innocente dopo un processo durato molti anni non sanerà il danno subìto da quell’imputato innocente: sappiamo bene che il processo è già di per sé una sanzione; e più dura il processo, più afflittiva è questa sanzione. Ma anche la giusta condanna di un colpevole, se interviene a molti anni di distanza dal fatto, è spesso un’ingiustizia, che viola il principio (stabilito dall’articolo 133 del Codice penale) secondo cui, nel determinare la pena, il giudice deve tener conto del carattere del reo e della sua condotta, non solo antecedente ma anche successiva al reato, nonché delle sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali. L’uomo che entra in carcere per una rapina di dieci anni prima è un uomo diverso da quello che commise il reato: nel frattempo, può essersi creato una famiglia, aver trovato un lavoro, scelto un’altra vita. E un male per la fiducia di ogni cittadino verso la giustizia. Perché chi si imbatte contro questa giustizia negata ne sarà scottato per sempre: il cittadino può perdonare molte cose a uno Stato poco efficiente, ma non perdona il giudice che lo delude. Questo ingolfamento del progetto originario del 1989, provocato dall’intoppo di quel che doveva essere il suo presupposto iniziale, è stato aggravato, negli anni, da un affastellarsi di piccole riforme, a volte buone, a volte pessime, sempre incoerenti. Rattoppi, poco riusciti: anche perché spesso la stoffa del rattoppo non corrispondeva alla stoffa del vestito da rattoppare. Riforme a volte ispirate da moti di opinione pubblica torbidi e fuggevoli e che hanno, sullo sfondo, quella nefasta tendenza culturale chiamata panpenalismo: l’idea che ogni devianza sociale possa avere adeguata risposta sempre e solo con la previsione di un nuovo reato. Dimenticando una verità elementare che anche il semplice buon senso dovrebbe far capire: che più aumentano i processi, più si allungano i tempi di ciascun processo. Nel gennaio 2016, per la verità, sono stati depenalizzati alcuni reati minori (per alcuni dei quali è ora prevista una sanzione amministrativa). Ma questa riforma, utile, non ha invertito la tendenza di fondo alla continua creazione di nuovi reati. Uno sguardo pacato su questa realtà porta a una constatazione incontestabile: un sistema che veda, insieme, obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri; blocco del turn over per il personale amministrativo (dal 1996 al 2016 non ci sono stati concorsi per assistenti giudiziari), è un sistema che non regge. A essere sinceri non ha mai retto. Ma, fino al 1992, si poteva far finta che reggesse grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori: dalla Liberazione al 1990, abbiamo avuto 28 amnistie. Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, fosse necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, da allora non vi son più state amnistie. Questo, probabilmente, Vassalli non lo aveva previsto. Un’unica riforma - concepita da Giovanni Maria Flick nel 1996 (!) e realizzata da Andrea Orlando nel 2015 - ha cercato di sbloccare l’ingolfamento della macchina: l’articolo 131 bis del Codice penale. Che ha previsto la possibilità che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice possa escludere la punibilità di alcuni fatti che, pur costituendo formalmente reato, siano “particolarmente tenui”. Una tenuità che va verificata in concreto, tenendo conto della lievità del danno, delle modalità e della non abitualità della condotta, con una scelta di buon senso, da praticare caso per caso. Purtroppo, alcuni recenti interventi tendono a limitare, per alcuni reati, l’applicazione di tale norma: un altro rattoppo incoerente, che aumenta i colori di quell’abito di Arlecchino che è diventato il nostro Codice. Valorizzare lo strumento dell’archiviazione per “particolare tenuità del fatto” vuol dire forse rinunciare al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale proclamato dall’articolo 112 della Costituzione? No. Al contrario, l’obbligatorietà dell’azione penale deve rimanere perché è il baluardo dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. È un orizzonte cui tendere. Se vogliamo, è un “mito”. E i “miti” non vanno gettati nei ferrivecchi solo perché non riusciamo a realizzarli pienamente. Piuttosto, è necessaria, nella testa degli operatori di giustizia, una piccola rivoluzione culturale che interpreti l’articolo 112 non come principio secondo cui l’azione penale debba essere tempestivamente esercitata per tutti i reati e ogni procedimento debba andare avanti allo stesso modo. Ma come affermazione secondo cui il pubblico ministero non può decidere di non esercitare o ritardare l’azione penale per ragioni di mera convenienza, in modo arbitrario; e nelle sue decisioni non deve subire interferenze di altri poteri. Rimane però la domanda di fondo: come accorciare i tempi del processo penale, posto che i tanti rattoppi di questi ultimi trent’anni non ci sono riusciti? A essere sinceri, non si vedono all’orizzonte proposte di soluzione definitive. Una cosa è sicura: l’eccessiva lentezza dei processi può essere affrontata esclusivamente con un’organica rivisitazione delle procedure e delle tante regole disordinatamente affastellatesi negli ultimi decenni. Una rivisitazione che lasci intatte e magari renda più salde le norme che realmente garantiscono il diritto del cittadino-imputato di rivendicare la propria innocenza (o anche solo di attenuare le conseguenze della pretesa punitiva della collettività); e, allo stesso tempo, di eliminare le norme che semplicemente sono utilizzabili per rallentare il corso della giustizia. Questa impresa ha però bisogno di un’ampia elaborazione culturale, che sappia ispirare le scelte affidate alla politica e che, certo, non può riguardare solo i magistrati. Parafrasando Clemenceau: la riforma della giustizia è cosa troppo seria per essere pensata solo dai magistrati. È necessaria e urgente una nuova stagione di dialogo tra magistrati e avvocati: un movimento culturale profondo, alimentato dalla loro comune frequentazione delle aule giudiziarie e dal loro consueto confrontarsi con i problemi della giustizia del quotidiano. Questo dialogo - che ispirò e diede forza al movimento riformatore degli anni 60 e 70 del secolo scorso e che si è spezzato a cominciare dagli anni 80, per contingenze politiche che non è qui il caso di ricordare - è oggi essenziale. Soltanto una ricomposizione della cultura giuridica, una riflessione comune degli operatori di giustizia, che sappia spazzare via le reciproche scorie e resistenze corporative - a volte alimentate dalle inframmettenze di opposti schieramenti politici - può dare fiato e gambe, passione repubblicana, a un pacato intervento del Legislatore non condizionato dalle contingenze del momento politico. Su questo fronte - così come ai magistrati deve chiedersi uno sforzo coraggioso per superare quella che Calamandrei chiamava la “albagia professionale” che a volte fa credere loro d’essere gli unici detentori della pubblica morale - agli avvocati deve chiedersi una leale e onesta riflessione su regole processuali e prassi professionali che non aiutano la difesa dei diritti e, alla lunga, creano discredito sociale alla stessa avvocatura. Tutti essendo consapevoli che quel “populismo giudiziario” spesso giustamente denunciato dagli avvocati (il bisogno immediato della condanna, che si invoca dai media prima che dai Tribunali; l’utilizzo del processo come risposta demagogica all’allarme sociale e come anticipazione della pena; lo “spirito del popolo” che nella celebrazione del processo deve andare oltre la Legge) è una malattia figlia di frustrazioni alimentate dall’eccessiva durata del processo e dalla nostra incapacità di parlare la stessa lingua e di analizzare, studiare, proporre soluzioni comuni. *Magistrato Dai processi alle garanzie, tutte le incognite dell’accordo 5 Stelle-Pd di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 settembre 2019 Che almeno sui temi della giustizia gli ex avversari 5 Stelle-Pd possano convolare più serenamente a nozze forzate è vulgata corrente. Ma forse anche illusione ottica. Non solo se si riascolta la colonna sonora dell’”anno bellissimo” grillo-leghista, ritmo che pure conta e ha visto il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, intonare i propri provvedimenti sempre come leggi “epocali” fatte apposta per cancellare quelle del centrosinistra del suo predecessore pd (e ora futuro alleato) Orlando, puntualmente bollate “svuota-carceri” e “salva-ladri”; ma anche, e soprattutto, se si sta ai fatti. La prima volontà dell’allora neoministro Bonafede è stata nel 2018 congelare la legge sulle intercettazioni voluta nel 2017 proprio da Orlando e posticiparla da allora già tre volte, l’ultima nel recente “decreto sicurezza bis” a una data (inizio 2020) che già incombe e reclama decisioni apparentemente inconciliabili in base alle rispettive premesse. E il secondo atto dell’ex maggioranza grillo-leghista in materia di giustizia, carburato dal propellente demagogico della detenzione in carcere quale unica e malintesa assicurazione di una sbandierata “certezza della pena”, è stato bloccare e svuotare la riforma dell’ordinamento penitenziario pensata per dare più sicurezza ai cittadini con un maggiore ricorso alle misure alternative, statisticamente capaci di ridurre i tassi di recidiva delinquenziale enormi in chi sconta la pena solo in carcere: cioè la riforma che proprio il Pd di Orlando prima aveva promosso con la Commissione coordinata dal giurista Glauco Giostra all’esito di due anni di studio negli “Stati generali dell’esecuzione penale”, e poi però autolesionisticamente non aveva avuto il coraggio politico di varare nell’ultimo Consiglio dei ministri del premier Gentiloni prima del voto del 4 marzo 2018. Più e prima ancora della estremizzata “legittima difesa” salviniana (una delle tante leggi ingoiate dai grillini nei mesi della cedevolezza “stile-Diciotti” all’arrembanza leghista), il terreno di scontro più prossimo tra M5Stelle e Pd si annuncia subito quello sui termini di prescrizione dei reati nel processo penale: la legge Bonafede, propagandisticamente battezzata “Spazza-corrotti”, e contenente peraltro anche altri automatismi già finiti alla Consulta per dubbia costituzionalità, fissa infatti al primo gennaio (praticamente a domani se si considerano i tempi parlamentari) l’entrata in vigore del testo criticato anche dal Pd perché dopo la sentenza di primo grado (persino se di assoluzione) blocca la prescrizione senza alcun contrappeso poi per l’imputato, diversamente da quanto invece avviene in altri Paesi che pure adottano quel modello. E se nella grillina proposta di riforma anti-correntizia dell’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura il Pd non condivide l’idea del sorteggio (magistrati estratti a caso e tra i quali poi fare votare tutte le toghe), illusorio è anche che la tanto invocata “discontinuità” sui “decreti sicurezza”, imposti da Salvini e digeriti dai grillini, riguardi solo la guerra alle Ong; e possa quindi ridursi per il Pd esclusivamente all’accoglimento (in termini che al momento appaiono peraltro tutt’altro che scontati) dei due rilievi di palese incostituzionalità additati dal presidente della Repubblica. Lungi infatti dall’essere una partita giocata “solo” sui migranti e nel campo del prossimo ministro dell’Interno, i due “decreti sicurezza” sono stati infarciti anche di micro-norme che su svariate garanzie hanno via via stratificato tutta una serie di deroghe alla disciplina generale, a sfavore di soggetti (dal comandante di una nave Ong giù giù sino ai manifestanti di un corteo) le cui condotte vengono sanzionate molto più pesantemente (rispetto ad analoghi casi ordinari) a motivo già solo del contesto in cui avvengono o dell’identità di chi le attua: e sanzionate, per di più, spesso attraverso atti solo formalmente amministrativi, ma che tendono ad assumere caratteristiche tipicamente normative, dribblandone però le rigidità procedurali e le garanzie formali richieste. Non a caso gli avvocati dell’Unione Camere Penali hanno appena inviato a tutti i parlamentari della possibile prossima maggioranza il “Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo”, sottoscritto in maggio da 150 professori universitari in 35 punti, per passare “dall’attuale logica del rancore al ritorno al garantismo”. Sui decreti sicurezza non c’è l’accordo di Giovanna Casadio La Repubblica, 3 settembre 2019 Sui decreti sicurezza ancora non ci siamo. È uno dei nodi rimasti sul tavolo del programma e che andranno sciolti entro questo pomeriggio, quando i capigruppo del Pd Graziano Delrio e Andrea Marcucci e quelli dei 5Stelle Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli si incontreranno di nuovo a Palazzo Chigi con il premier incaricato Giuseppe Conte per chiudere l’accordo. Il documento che disegna le politiche del futuro governo giallo-rosso è scandito in 30 punti. Quindici sono ancora aperti. Alla fine della lunga riunione di ieri - con un black out di 15 minuti per via del nubifragio che si abbatte sulla Capitale - sia Dem che 5Stelle minimizzano i dissensi, sostenendo che alcune questioni non sono state affrontate solo per mancanza di tempo. Ma nella trattativa di programma in coda sono rimaste proprio le spine. L’immigrazione, innanzitutto. I Dem non sono disposti a fare passi indietro sulla revisione profonda e radicale dei decreti di Salvini. “Non possiamo sopportare provvedimenti che tengono i migranti in ostaggio e i porti chiusi”, commentano a fine giornata al Nazareno, la sede del Pd. Vero è che ci sarà una nuova legge sull’immigrazione che archivierà la Bossi-Fini (e questo è stabilito nel programma). Non solo. Conte nel video che posta ieri su Facebook - e che completa mentre la riunione di programma è in corso chiedendo una pausa di qualche minuto - annuncia la battaglia da condurre in Europa: “Vanno sviluppati i negoziati di Dublino per la gestione europea dell’immigrazione”. Bene, rimarcano i Dem, ma non possiamo aspettare che gli sbarchi, i soccorsi, la gestione dei flussi siano rinviati a data da destinarsi. Delrio è convinto che si arriverà all’intesa su tutto. “Si è lavorato e si lavora nel merito degli argomenti, sono stati fatti passi avanti”. Oltretutto sarà proprio il documento programmatico la base del discorso con il quale il premier si presenterà alle Camere per chiedere la fiducia. Ovviamente una volta superata oggi la madre di tutte le prove per i 5Stelle: il voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau. E non è un caso che Conte metta l’accento sul cavallo di battaglia grillino: il taglio dei parlamentari. Si farà: nella prima data utile del calendario parlamentare passerà alla Camera in ultima lettura con il sì del Pd. Però sarà accompagnato dalla revisione della legge elettorale. Quindi 345 parlamentari in meno - 115 senatori e 230 deputati tagliati - ma con una legge di impianto proporzionale. Questa è la novità inserita ieri nel documento. I Dem hanno chiesto tuttavia che un impianto totalmente proporzionale abbia dei correttivi per non essere in balia del ricatto dei piccoli partiti. Inoltre - affermano i capigruppo del Pd - si deve pensare ad alcune garanzie per dare stabilità al sistema. Saranno però questioni da affrontare nei tavoli tecnici e parlamentari, insieme agli altri aggiustamenti costituzionali e all’aggiornamento dei regolamenti delle Camere. “Dobbiamo continuare nell’azione di eliminazione dei privilegi, perché chi è chiamato a svolgere una funzione pubblica, deve farlo con “disciplina e onore”, senza indebiti vantaggi”, sottolinea Conte su Facebook. Tra i punti che invece sono rimasti per ora fuori c’è la revisione delle concessioni autostradali che tanto sta a cuore ai grillini, mentre un compromesso è stato raggiunto sulle trivelle: non si fermano gli investimenti esistenti però non saranno date nuove concessioni. Tra i nodi da affrontare oggi c’è la questione dell’acqua pubblica, che è uno dei cardini dell’ala più di sinistra del M5S. Da mettere a punto il tema del conflitto d’interessi. Infine la corruzione e la lotta alle mafie, su cui c’è sintonia tra Pd e pentastellati. I temi della giustizia sono da definire: dalla prescrizione alle intercettazioni alla riforma delle carceri. Codice Rosso. Greco: “Legge giusta, ma siamo sommersi di denunce” di Andrea Galli, 3 settembre 2019 Il Procuratore capo di Milano sulla vicenda di Adriana Signorelli, assassinata a Milano, che aveva attivato la norma 4 giorni prima dopo l’ennesimo episodio di violenza. L’ex marito, Aurelio Galluccio, la picchiava e l’aveva minacciata di morte. Sempre uguale a se stesso, il persecutore e assassino Aurelio Galluccio, 65 anni. Fino all’ultimo. Nella notte tra martedì e mercoledì, aveva aggredito l’ex moglie Adriana Signorelli. La donna, 59 anni, aveva chiamato la polizia, era intervenuta una “volante” e la giustizia milanese aveva avviato una procedura di “codice rosso”, ovvero aveva registrato il caso di pericolo - a maggior ragione considerato il profilo balordo di Galluccio, uno già in cella per maltrattamenti famigliari - e aveva invitato Adriana, come primo argine, ad andarsene dalla sua abitazione in via San Giacomo 4. Non era successo. Eppure, ha rimarcato il capo della Procura Francesco Greco, “quel che si poteva fare è stato fatto”, ed è “illusorio” pensare che “si possano risolvere vicende come queste solo con la galera” poiché “ci sono casi in cui si è impotenti rispetto alla pazzia umana”. E poi, certamente, il “codice rosso”, ha aggiunto, è uno strumento “utile”, ma “il problema è come gestirlo”. Qui Greco si riferisce alla progressione di denunce - una trentina al giorno, a Milano, più di una ogni ora contando il giorno e la notte -, alla crescita spaventosa di pestaggi, agguati, vendette: e allora il rischio, concreto, è di “non riuscire a estrapolare i casi più gravi” anche perché “tutti quanti i casi per legge devono essere trattati con urgenza”. Adriana aveva garantito che si sarebbe rifugiata nella casa della figlia Silvana, nell’hinterland. La stessa figlia ha trovato la mamma senza vita all’una e un quarto di domenica, il corpo riverso sul pavimento della cucina, la schiena trafitta da profonde coltellate, almeno cinque. Contrariamente alle promesse ai poliziotti, la vittima non ha mai lasciato l’appartamento nella periferia popolare sud di Milano, quello delle reiterate violenze nel tempo dell’ex, che la picchiava e inseguiva, che bruciava la porta d’ingresso, che minacciava di morte, che piombava, com’è piombato sabato, sudato fradicio, alterato dagli psicofarmaci buttati giù insieme agli alcolici. L’omicida, non si sa se perché in duraturo stato confusionale a causa per l’appunto di pasticche e bicchieri, oppure per una recita, ancora sta farfugliando davanti agli inquirenti, dice che non ricorda, che comunque non c’entra. Le sue parole non sono dirimenti per indirizzare gli investigatori della Squadra Mobile. Resta da capire l’orario esatto dell’agguato, avvenuto non prima delle 14, quando figlia e mamma si sono sentite al cellulare, e forse non dopo le 22, quando la figlia ha richiamato, stavolta invano: il cellulare squillava a ripetizione. E resta da capire la genesi dell’omicidio. Alcuni vicini di casa sostengono d’aver sentito l’ennesimo litigio, altri al contrario dicono che la coppia camminava tranquilla, anche sorridendo, all’esterno del condominio. Ciò premesso, il generale contesto abitativo non aiuta, nella misura in cui la prepotenza di Galluccio, in generale in guerra col mondo, era insistita e diffusa, e così le pesanti discussioni in quell’appartamento, il rumore di oggetti scagliati, si mischiavano alle offese sulle scale e agli inviti a farsi i fatti propri, inviti di solito, con omertà, rispettati. L’assassino è piantonato in ospedale, al San Paolo: nelle fasi successive all’intervento sulla scena del crimine, alla guida della sua Citroen C3 aveva cercato di investire gli agenti e Silvana, nata come il fratello Alessandro da una precedente relazione. Galluccio non era riuscito nell’intento e aveva perso il controllo della macchina, terminata su un’aiuola. Sceso dall’abitacolo, era stato colto da una crisi respiratoria. I prossimi passaggi dell’inchiesta saranno la richiesta di convalida del fermo e di trasferimento in carcere. Diventa tristemente accessorio ripetere quale esistenza ha avuto Adriana prima d’essere assassinata. A volte Galluccio “spariva”, sembrava che avesse finalmente deciso di smetterla, ma era solo un’illusione, come hanno ripetuto i figli negli uffici della squadra Mobile, forse era solo un trucco per illudere e ulteriormente impaurire al pensiero di un suo ritorno. E infatti tornava. Più inferocito e vendicativo. I candidati al Csm ora tengono le correnti a distanza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 settembre 2019 I magistrati scontano così il caso Palamara. Candidature “autonome” alle suppletive del Csm per i due posti della categoria dei requirenti. Per tentare di archiviare lo scandalo del mercato delle nomine, esploso dopo la pubblicazione delle intercettazioni che hanno interessato l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, i pm in corsa alle elezioni di ottobre prendono le distanze dalle correnti. Un déjà vu che ricorda molto da vicino quello che è accaduto alla fine della Prima Repubblica, quando i partiti tradizionali entrarono in crisi, con il proliferare di liste civiche, composte da esponenti della società civile, e di movimenti destrutturati legati al carisma del singolo. Il primo a smarcarsi dal gioco correntizio è stato il pm antimafia Nino Di Matteo. Dal palco della Versiliana dove questo fine settimana era in corso la festa del Fatto Quotidiano, Di Matteo ha sottolineato di “non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo”, e di voler rappresentare una candidatura “autonoma e indipendente”. All’inizio della carriera simpatizzante per le toghe progressiste dei Movimenti per la giustizia, adesso confluite insieme a Magistratura democratica nel raggruppamento Area, Di Matteo, va comunque ricordato, si spostò successivamente al centro. Candidato ed eletto nelle liste di Unicost - la corrente di cui per anni è stato leader indiscusso Palamara - alla giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, ne divenne il presidente per un intero mandato. Negli ultimi tempi si è avvicinato ad “Autonomia e Indipendenza”, il gruppo fondato dal’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo. Ma la scelta di Di Matteo verrà seguita anche da Unicost e Magistratura indipendente, che ospiteranno candidature di indipendenti nelle proprie liste. Solo il cartello progressista Area, ed in questo si torna al dèjà vu con la politica, ha al momento candidati espressione del gruppo associativo. Fra le 16 toghe in corsa per prendere il posto dei dimissionari Antonio Lepre (Magistratura indipendente) e Luigi Spina (Unicost), spicca il nome di Anna Canepa, già segretaria nazionale di Md, attualmente in forza, come Di Matteo, alla Dna. Ma tra gli altri c’è appunto anche chi, pur sostenuto da un preciso gruppo associativo, tende a marcare la propria natura di indipendente. È il caso, per esempio, di Antonio D’Amato, presentato da “Mi” ma attento a rimarcare, nelle comunicazioni inviate ai colleghi, la propria vocazione autonoma. Stessa attenzione seguita da Alessandro Crini, che Unicost propone al proprio bacino elettorale come un nome al quale affidarsi, ma che, personalmente, non fa certo del sostegno ottenuto dal gruppo centrista l’argomentazione prevalente della propria campagna. La vicenda Palamara ha indubbiamente minato la credibilità della magistratura. Ma è avvenuto anche per l’assenza di una legge che regolamenti il transito dalle aule del tribunale ai palazzi della politica. Legge richiesta da tutti ma che non ha ancora trovato ospitalità nella Gazzetta ufficiale. Gli osservatori della politica giudiziaria hanno già evidenziato le possibili conseguenze della prese di distanza dalle correnti: ad essere eletti saranno i candidati che hanno maggiore visibilità e conoscibilità. Ed e chiaro che un magistrato è noto al grande pubblico per le indagini che conduce. Come nel caso di Di Matteo con il processo Trattativa. Legittimo il trattenimento della corrispondenza in entrata al detenuto 41bis ilpenalista.it, 3 settembre 2019 Anche se proveniente dal difensore. Cass. pen., Sez. I, 14 giugno 2019 (dep. 13 agosto 2019), n. 36041. Secondo la Prima Sezione, con sentenza n. 36041, è legittimo, e, quindi, privo di censure, il provvedimento adottato dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo (e confermato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma), con cui si è disposto il trattenimento di una missiva proveniente dal difensore di un detenuto sottoposto al regime di cui al 41bis ord. pen.: la Cassazione, pur non entrando nel merito, ma disquisendo sull’irritualità dell’impugnazione formulata personalmente, mediante reclamo, dal detenuto, ha ritenuto corretto il modus operandi della Sorveglianza. Per il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, infatti, il trattenimento della corrispondenza in entrata, anche se proveniente dal difensore e, anche se a contenuto giudiziario, risulta conforme alle esigenze preventive e di sicurezza, tenuto conto, che tali documenti erano privi di autenticazione, e, quindi, avrebbero potuto essere state oggetto di alterazione e celare all’interno indebite informazioni. Responsabile il proprietario del locale per i rumori prodotti dagli avventori all’esterno di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 2 luglio 2019 n. 28570. La corte di cassazione con la sentenza n. 28570 depositata il 2 luglio 2019 pone il principio di diritto per il quale nel caso di rumori prodotti dagli avventori al di fuori del locale ad esserne responsabile sia il gestore del locale. Il caso di specie, trae origine dalla condanna del tribunale di Firenze per il reato di disturbo alla quiete pubblica previsto dall’articolo 659 del codice penale, la condanna era stata emessa nei confronti del titolare di un esercizio d’ intrattenimento al cui esterno si trovavano numerosi avventori che disturbavano la quiete pubblica con le loro condotte rumorose e moleste. I giudici di merito infatti avevano ritenuto che di tali condotte fosse responsabile il gestore dell’ esercizio d’ intrattenimento pubblico, sulla base della considerazione che ai sensi della normativa vigente esiste in capo al titolare dell’ esercizio un preciso obbligo di controllo, circa la presenze nelle immediate adiacenze dei locali dell’ impresa. Avverso la condanna ricorreva il gestore del locale con apposito atto del difensore, eccependo il difetto dei presupposti richiesti dalla normativa per la condanna. Deduceva in particolare il legale la mancanza di un effettivo disturbo alla quiete pubblica che impediva la concreta configurabilità del reato, e che anche se questo potesse essere rilevato ad ogni modo nulla gli poteva essere contestato. Proseguiva infatti il legale come sul titolare di un esercizio non incomba alcun onere di controllo delle condotte poste in essere da parte dei clienti. Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte degli ermellini con la sentenza qui in commento che pone un nuovo principio di diritto in ordine alla posizione dei titolari degli esercizi pubblici. La questione più volte propostasi all’esame dei giudici della corte suprema aveva in precedenza trovato una soluzione difforme da quella individuata nella sentenza recentemente pubblicata piuttosto rigorosa nei confronti degli imprenditori che si occupano d intrattenimento collettivo. Gli ermellini infatti in una precedente pronuncia aveva ritenuto che nulla potesse essere contestato al gestore di un locale pubblico nel caso di condotte rumorose poste in essere dai clienti una volta usciti dal locale. Ben diversa è invece la posizione ora assunta da parte dei giudici della corte suprema di cassazione. Osservano infatti i supremi giudici come nel processo diretto alla contestazione del reato di disturbo alla quiete pubblica previsto e sanzionato dall’articolo 659 del codice penale, debbano ad ogni modo essere considerate le risultanze delle indagini dell’autorità, eseguite circa l’ intensità dei rumori. Non solo ma proseguono gli ermellini osservando come il contenuto della normativa vigente prevede per la configurazione dell’illecito la semplice potenzialità del rumore e la sua astratta idoneità a molestare la collettività stanziata nel settore del territorio adiacente al pubblico esercizio. Ad avviso degli ermellini esiste un preciso obbligo giuridico da parte del gestore di un esercizio pubblico al fine di evitare gli eventuali disturbi alla pubblica da parte dei clienti usciti dall’esercizio di pubblico intrattenimento. Pertanto, nel caso in cui tale obbligo venga violato, facendo sì che vengano poste in essere condotte lesive della pubblica tranquillità come nel caso di specie, diverrà possibile l’applicazione del reato previsto dal codice penale, che per l’ appunto prevede la sanzione, per casi come questo, ove vengano poste in essere condotte lesivi per la pubblica tranquillità. Lombardia. Presenze record nelle carceri, ci sono 2.200 detenuti in più di Marco Galvani Il Giorno, 3 settembre 2019 Diciotto carceri. Una capienza regolamentare stabilita per decreto dal ministero della Giustizia di 6.199 detenuti ma una popolazione effettiva costantemente superiore. L’ultimo censimento ufficiale ha contato 8.472 reclusi (1.306 già condannati ma non in via definitiva e 1.098 ancora in attesa del primo grado di giudizio). Quasi la metà (3.651) sono stranieri. Confermando la Lombardia come la regione d’Italia con il maggior numero di detenuti davanti alla Campania (7.606), al Lazio (6.483) e alla Sicilia (6.396). In un clima altamente esplosivo. Che ormai quasi quotidianamente consegna alle cronache aggressioni, gesti di autolesionismo e risse. Che, spesso, nascono da scontri fra etnie e di religione. “Si lavora in una polveriera”, denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). I numeri, a livello nazionale, non mentono: nei primi sei mesi del 2019 sono stati messi a referto 5.205 atti di autolesionismo, 683 tentati suicidi, 4.389 colluttazioni, 569 ferimenti, 2 tentati omicidi. I decessi per cause naturali sono stati 49 e i suicidi 22. Mentre le evasioni sono state 5 da istituto, 23 da permessi premio, 6 da lavoro all’esterno, 10 da semilibertà, 18 da licenze concesse a internati. “La cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto - sottolinea Capece. Il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno ma non tutti sono impegnati in attività lavorative. E il risultato sono episodi come l’aggressione avvenuta sabato nel carcere modello di Bollate”. Una rissa tra quattro detenuti romeni ubriachi. Sì, ubriachi. In cella possono avere un quarto di vino al giorno, per lo più per cucinare. Ma molti non lo usano e se lo passano. E in assenza, fanno macerare per giorni la frutta e ne tirano fuori alcol. “Se ci fossero più agenti potremmo aumentare i controlli - continua Alfonso Greco, segretario regionale del Sappe. In Lombardia siamo 4.500, ne servirebbero altri 1.400 (4mila la carenza a livello nazionale). E quelli in servizio non sono tutti operativi nelle sezioni detentive perché occorre tamponare i posti scoperti anche negli uffici”. Di fatto, soltanto un terzo garantisce il servizio 24 ore su 24 a contatto con i detenuti: “Personale costretto anche a 10 ore di servizio continuato, con un sovraccarico di stress estremamente pericoloso”. Il fatto è che “ormai il carcere è diventato un contenitore in cui rinchiudere tutti - sbotta Capece - e lo Stato sembra aver dimenticato il rispetto verso la polizia penitenziaria”. Altrimenti “investirebbe di più in tecnologia e in personale”. Lombardia. Un boom di stranieri in cella: “difficile gestirli senza mediatori” di Marco Galvani Il Giorno, 3 settembre 2019 “Lavoriamo sempre nell’emergenza, ma il vero problema è l’alto numero di stranieri”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, va dritto al punto: “È una popolazione che non riusciamo a governare. Hanno abitudini e atteggiamenti diversi dagli altri e noi non siamo preparati. In molti casi non c’è possibilità di comunicazione”. Degli oltre 3.600 detenuti stranieri richiusi nelle carceri lombarde, 947 sono marocchini, 504 albanesi, 315 romeni, 260 tunisini, 178 egiziani e 116 nigeriani. “Bisognerebbe avere il coraggio e la forza di fare in modo che possano scontare la pena nei loro Paesi d’origine - continua il sindacalista. Senza contare i detenuti stranieri che, pur avendo meno di un anno da scontare, non possono usufruire di pene alternative perché senza fissa dimora. Risolvere questi temi permetterebbe anche un notevole risparmio visto che ogni detenuto ci costa 170 euro al giorno”. Restano in cella. Con “la mancanza di mediatori culturali che aggrava l’incapacità del sistema carcerario di gestire la popolazione detenuta straniera”. Sulla carenza di mediatori culturali la Lombardia vanta un altro primato, se per effetto delle norme a livello nazionale risultava il rapporto di un mediatore ogni 62 detenuti, in Lombardia il rapporto è di uno ogni 73 carcerati. Perugia. Verini e Ginetti (Pd) in visita al carcere di Capanne umbriadomani.it, 3 settembre 2019 “Emergenza gestita con grande professionalità. Serve organico effettivo”. I parlamentari dem umbri Walter Verini e Nadia Ginetti hanno incontrato questa mattina la direttrice del carcere di Perugia Bernardina di Mario, insieme ai comandanti Brillo e Tosoni e ad alcuni agenti di polizia penitenziaria dopo i fatti dell’altro giorno. “Abbiamo sentito il dovere - sottolineano Verini e Ginetti - di assicurare la nostra vicinanza e il nostro sostegno a tutti coloro che operano in un’istituzione modello come il carcere di Perugia dopo eventi che evidentemente hanno colpito e scosso; e insieme di mobilitarci, mettendo in pratica quanto è nelle nostre competenze e possibilità, per risolvere le criticità. Abbiamo registrato la grande professionalità con la quale in queste ore si sono governati momenti drammatici di emergenza. Ora, però, pensiamo ci sia bisogno urgente di assumere provvedimenti immediati, come abbiamo già avuto modo di segnalare direttamente al ministro Bonafede nelle ore passate e che torniamo a sottolineare. Su tutti la garanzia di un organico effettivo e operativo, perché non basta fare la pianta organica se poi questa rimane sulla carta e il personale non c’è o non è messo nelle condizioni di svolgere al meglio le proprie funzioni. Abbiamo chiesto, poi, che il carcere di Perugia non sia un luogo di compensazione rispetto alle difficoltà di altri istituti, con il rischio di concentrare detenuti difficilmente gestibili. Servono, quindi, maggiori risorse dal provveditorato per far lavorare e formare i detenuti, perché più lavoro e più formazione per i detenuti significano non solo un clima più sereno nelle carceri, ma soprattutto meno tendenza a tornare a delinquere e una società più sicura. Abbiamo chiesto, infine, di attuare da subito i protocolli regionali per l’assistenza e la prevenzione psichiatrica. Siamo convinti - concludono Verini e Ginetti - che al di là della chiusura positiva dei gravi eventi dei giorni scorsi, sia necessario praticare nel migliore dei modi possibili e con tutti gli strumenti a disposizione l’articolo 27 della Costituzione, che individua nel carcere un istituto di pena ma anche e soprattutto di rieducazione. Gli impegni in questo senso messi in essere negli anni in cui siamo stati al governo sono stati completamente disattesi e minati negli ultimi 14 mesi dall’ormai ex ministro “dell’Insicurezza” Salvini: sminuire il ruolo rieducativo delle carceri e dire ‘buttiamo via la chiavè significa rendere la società più insicura e il paese più incivile”. Voghera (Pv). “Così voglio aprire il carcere alla città”. La direttrice Mussio racconta la svolta di Alessio Alfretti La Provina Pavese, 3 settembre 2019 Tante iniziative: stand nelle fiere con i prodotti realizzati dai detenuti, cibo per i poveri, appuntamenti sportivi e culturali. Un carcere sempre più integrato nella città: la casa circondariale di Voghera, guidata dal direttore Stefania Mussio, vive una fase di svolta. L’ultima iniziativa due settimane fa, con il Ferragosto solidale, quando i detenuti hanno scelto di rinunciare al proprio pasto per donare gli alimenti alle persone meno abbienti. Il cibo è stato regalato alla Caritas che lo ha distribuito alla Casa del pane e all’associazione Pane di Sant’Antonio. “Non si tratta di un’iniziativa di carattere episodico -spiega il direttore Mussio- ma del frutto di un progetto condiviso, per limitare lo spreco e ottimizzare le risorse. L’esperienza detentiva acquista significato solo se incardinata in un rapporto di costante collaborazione e reciprocità con il contesto sociale”. Molti sono i laboratori curati dai detenuti, tra cui quello dolciario, la sartoria e la falegnameria. “Con il suo artigianato il carcere è stato presente all’ultima edizione della fiera dell’Ascensione di Voghera e, lo scorso luglio, nella basilica del santuario di Nostra Signora della Guardia a Tortona. A dicembre era stato esposto in sala Pagano a Voghera il presepe artigianale realizzato da alcuni ospiti della Casa circondariale con la supervisione del personale della Polizia penitenziaria, che ha rappresentato il frutto di un gratificante rapporto di collaborazione con la Consulta per il volontariato e il Comune di Voghera, destinato a continuare: pensiamo di riproporre l’iniziativa, arricchita, in occasione del prossimo Natale. Sono già in corso i lavori di preparazione e allestimento del nuovo presepe e proporremo alla cittadinanza oggetti e inedite creazioni natalizie”. Diversi volontari aiutano il carcere e grazie a loro sono circa 10 le persone che possono trascorrere parte della giornata lavorativa all’esterno. I volontari impegnati in progetti di collaborazione sono don Pietro Sacchi, responsabile dell’associazione “Terre di mezzo”, numerosi docenti, gli operatori dei percorsi musicali e quelli dell’associazione Unione italiana sport per tutti (Uisp), comitato di Pavia, che cura le attività sportive. Molta attenzione è infatti data allo sport e anche alla scuola, con una collaborazione con l’istituto “Maserati” e con il Centro provinciale per l’istruzione agli adulti (Cpia) di Voghera. “Vogliamo incentivare la pratica dello sport come strumento di autodisciplina e abbiamo anche acquistato nuovi attrezzi sportivi per realizzare una palestra. Inoltre ci stiamo attivando per progetti di educazione alla legalità, oltre a impegnarci per la riqualificazione del settore scuola. Proprio in questi giorni è in corso la tinteggiatura delle aule e per arredarle avremmo bisogno di sedie a banchi: chi volesse aiutarci può contattare l’istituto al numero 0383212222 oppure scrivere a cc.voghera@giustizia.it” La Casa circondariale non finisce di guardare avanti: “Stiamo progettando un evento solidale per novembre a Tortona e continua la collaborazione con l’amministrazione di Voghera”. Torino. Cpr, gli “ospiti” in rivolta per protestare contro il degrado di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2019 Il centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino torna nuovamente alla ribalta delle cronache per la rivolta di domenica scorsa degli “ospiti”, che ha provocato il ferimento di un poliziotto al quale i sanitari hanno dato trenta giorni di prognosi. “Per un po’ non voglio sentire parlare di comprensione, integrazione e accoglienza”. Comincia così il messaggio che ha postato su Facebook il poliziotto rimasto ferito durante quella che ha definito “una notte di guerriglia passata al Cpr di Torino”. Scrive ancora: “Trenta giorni di prognosi, una bella frattura scomposta di due falangi con prospettazione di intervento chirurgico, due monconi malamente appesi che improvvisamente vanno in direzione opposta a quella che il tuo cervello vorrebbe fare... e mentre i “signori” della politica fanno il gioco delle poltrone, facendo a gara a chi di loro si rivela essere il più capriccioso, in questi Centri di Permanenza e Rimpatrio a ogni turno si sfiora la tragedia e prima o poi - credetemi - qualcuno si farà male sul serio”. Non si è fatto attendere il ministro degli Interni, Matteo Salvini. “Solidarietà al poliziotto e a tutte le forze dell’ordine. Sono orgoglioso - scrive il leader della Lega - di aver inasprito le pene per chi attacca le donne e gli uomini in divisa e per aver fermato l’immigrazione clandestina. Se il Pd vuole riportarci indietro e ha nostalgia del business dell’invasione, lo dica chiaramente agli italiani”. Ma se c’è stata una rivolta - non l’unica - nel Cpr di corso Brunelleschi di Torino, non si può non tener conto delle cause che l’hanno scatenata. Ricordiamo che nella notte tra il 7 e l’8 luglio è morto un uomo di origine bengalese, Faisal Hossai, 32 anni. Era stato posto in isolamento per ragioni non ancora chiarite, nonostante tale disposizione punitiva non sia prevista all’interno di queste tipologie di strutture. Alla notizia della morte del compagno del centro, di cui ancora erano ignote le cause, alcuni migranti hanno iniziato una protesta che ha causato piccoli incendi in alcuni moduli della struttura. A svolgere le indagini sono state la squadra mobile della questura di Torino e la procura, al termine delle quali è stata esclusa qualsiasi ipotesi delittuosa e il decesso è stato associato a un arresto cardiaco. I reclusi del centro hanno quindi messo a fuoco materassi e mobili, mentre in serata attorno alle mura del Cpr si sono raccolti numerosi solidali. Da dentro arrivavano forti le voci delle persone rinchiuse e il grido “libertà” ha accompagnato lo svolgersi del presidio. La polizia ha risposto sparando lacrimogeni nel Cpr e al tentativo di blocco da parte dei manifestanti, in una delle strade adiacenti, sono partite delle violente cariche. Ma il Cpr di Torino è stato da sempre al centro delle rivolte per denunciare lo stato di degrado nel quale riversa. Vengono definiti “ospiti”, ma in realtà i migranti vivono in condizione di reclusione nonostante non abbiano commesso alcun reato. Una reclusione peggiore di quella rispetto ai detenuti che scontano la pena nelle carceri. La situazione degli ospiti verte in situazioni preoccupanti, sia dal punto di vista della vita quotidiana, che scorre senza alcuna attività che impegni le ore della giornata, il che comporta delle evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica di quanti vi dimorano anche oltre sei mesi, sia per quanto riguarda le condizioni materiali degli ambienti, lasciati in condizioni di deterioramento strutturale e igienico. Tutte osservazioni ribadite puntualmente dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, con le relazioni annuali. Ricordiamo, appunto, che i Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr), rinominati (prima si chiamavano Cie) dalla legge Minniti- Orlando (L 46/ 2017), sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno. LasciateCiEntrare, la campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, a proposito dei fatti del Cpr di Torino, ha ricordato che le rivolte scaturiscono perché risulta l’unico via dei migranti per avere visibilità e denunciare all’opinione pubblica il degrado nel quale vivono. La campagna nazionale ha deciso di lanciare, per la seconda volta, “alimentiamo la protesta”, ovvero una raccolta di cibo in solidarietà a chi viene recluso perché non ha documenti che attestino la legittimità della sua esistenza. Roma. Concerti di Dolcenera e Ruggeri nelle carceri di Rebibbia e Civitavecchia askanews.it, 3 settembre 2019 Grazie a progetto “La mia Libertà-Note in carcere”. A settembre torna la musica in carcere con Dolcenera ed Enrico Ruggeri, ultimi due appuntamenti della prima edizione del progetto “La mia Libertà-Note in carcere”, promosso dal vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Cangemi, in collaborazione con l’Agenzia Joe&Joe. Dopo le performance di luglio, negli istituti penitenziari di Rebibbia femminile, Regina Coeli e casa circondariale di Velletri, mercoledì 4 settembre alle 17, Dolcenera si esibirà per i detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso; lunedì 9 settembre, alle 17, sarà la volta di Enrico Ruggeri sul palco della Casa circondariale di Civitavecchia, chiudendo la rassegna che ha visto protagonisti anche Paolo Vallesi, Marcello Cirillo e Mario Zamma. “L’idea di Franco Califano di portare la musica in carcere, cui si ispira il progetto La mia Libertà, si è rivelata una intensa esperienza di partecipazione e condivisione - afferma Cangemi - i detenuti hanno accolto gli artisti con entusiasmo e lavoreremo per riproporre l’iniziativa, coinvolgendo anche altre strutture penitenziarie”. Venezia. Alla Mostra il docu-film su viaggio Consulta nelle carceri askanews.it, 3 settembre 2019 Prodotto da Rai Cinema e Clipper media. Giovedì 5 settembre alle 17, nella Sala storica dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, sarà proiettato, come evento speciale della 76ma Mostra internazionale d’Arte cinematografica, il docu-film di Fabio Cavalli “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper media. La proiezione sarà introdotta da una breve presentazione del presidente della Biennale Paolo Baratta. All’evento saranno presenti, oltre al regista, la vicepresidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e i giudici costituzionali Francesco Viganò e Luca Antonini. Accompagnati dall’Agente di polizia penitenziaria Sandro Pepe, sette giudici della Corte costituzionale - che giudica le leggi e non le persone, ma che con le sue decisioni incide profondamente nella vita di ciascuno - entrano in sette istituti penitenziari italiani. Il film si ispira all’omonima iniziativa avviata dalla Corte costituzionale nel 2018 e racconta l’incontro tra questi due mondi apparentemente agli antipodi e diversamente “chiusi”, incontro che non ha precedenti nella storia del nostro Paese e nel mondo. Piccoli gruppi e approdi nascosti: l’80% dei migranti in Italia con “sbarchi fantasma” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 settembre 2019 Arrivati così almeno 4.300 stranieri. Il paradosso e il nodo divieti: mentre il ministro dell’Interno Salvini annunciava “la chiusura dei porti”, sulle spiagge e negli approdi più nascosti continuavano ad attraccare gommoni e barchini. L’80 per cento dei migranti giunti in Italia quest’anno lo ha fatto con “sbarchi fantasma”. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini annunciava “la chiusura dei porti”, sulle spiagge e negli approdi più nascosti, sono arrivati oltre 4.300 stranieri. Ai quali bisogna aggiungere le persone che non sono state rintracciate, circa 2.000 secondo le stime degli analisti. I divieti del Viminale - Il numero complessivo rimane comunque molto basso visto che al 2 settembre 2019 i migranti identificati sono poco più di 5.000. Ma il problema rimane quello dei divieti, perché è accaduto che mentre al Viminale veniva firmato il decreto per impedire l’ingresso di navi che trasportavano qualche decina di persone, a pochi chilometri di distanza attraccavano gommoni e barchini con un numero molto superiore. La Mare Jonio - Il caso più eclatante risale al 29 agosto scorso quando la “Mare Jonio” della Ong Mediterranea chiede di poter arrivare a Lampedusa. Permesso negato con un provvedimento di Salvini - controfirmato dai colleghi di governo Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli - che autorizza soltanto lo sbarco di donne, bambini e malati stremati da una traversata di giorni. E dunque le motovedette della Guardia Costiera portano a terra 64 migranti, mentre rimangono a bordo altri 34 che soltanto ieri, alla fine di una vera e propria odissea, sono stati fatti scendere. Ebbene in quelle stesse ore un gruppo di 78 tra siriani e bengalesi viene rintracciato a Lampedusa: è appena sbarcato senza innescare alcun allarme. I 208 sbarchi - Negli ultimi otto mesi è accaduto ben 208 volte, come dimostrano i dati ufficiali del Viminale. Fino a ieri risultano giunti via mare 5.253 stranieri. Sono 947 quelli portati con le navi dell Ong con 26 sbarchi. Ma la maggior parte ha evidentemente scelto modalità alternative: sono stati infatti 208 gli “sbarchi fantasma” che hanno consentito a 4.306 migranti di arrivare a terra. In ben 110 casi - e per 1.979 persone - il “rintraccio” è avvenuto dopo l’approdo. Una situazione analoga, sia pur con numeri leggermente più elevati (per un raffronto effettivo bisognerà attendere la fine dell’anno) era accaduta nel 2018. Al 31 dicembre risultano effettuati ben 341 sbarchi e arrivate 5.999 persone. Di queste 2.331 sono state trovate appena scese dai barchini e altre 3.668 sono state rintracciate a terra. Le nuove rotte - È stata proprio la Guardia Costiera a evidenziare quali siano le rotte battute da queste piccole imbarcazioni per sfuggire ai controlli che sono “lontane e diverse da quelle che hanno come punto di partenza la Libia visto che i natanti utilizzati provengono principalmente da Tunisia, Algeria e Turchia. Si tratta di piccoli pescherecci, a differenza dei gommoni monotubolari o barconi in legno più largamente impiegati nel Mediterraneo centrale che generalmente portano un numero non elevato di migranti”, anche se in alcuni casi sono arrivati anche a 100 persone. Le barche “sono prive di qualsiasi sistema di rilevazione che ne consenta il monitoraggio attraverso le tecnologie di cui sono dotate le Sale Operative”. In alcuni casi vengono utilizzate “barche a vela provenienti da Est, che possono essere facilmente scambiate per quelle dedite ad una regolare navigazione da diporto o comunque ad un “normale” uso del mare e, pertanto, non immediatamente associabili all’evento migratorio”. In alcuni casi “le imbarcazioni sono trainate da una nave madre che a poche miglia dalla costa le lascia e fa perdere le proprie tracce allontanandosi a grande velocità”. “Schema Ursula” per i migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 settembre 2019 L’apertura europea voluta dalla nuova presidente von der Leyen favorisce una svolta in Italia. Vero ostacolo o pretesto che sia, l’immigrazione pare fin qui un inciampo maggiore sulla via del nuovo governo. Se il Movimento Cinque Stelle è riottoso ad abiurare la linea tenuta in coalizione con la Lega, la sinistra tende a fare di quell’abiura una sorta di totem. Intendiamoci: quest’esigenza è ben comprensibile. Dopo 14 mesi con la testa sott’acqua a causa del dominio di Matteo Salvini, il Pd e i suoi sodali hanno bisogno almeno di uno strappo visibile per mettersi con chi aveva condiviso le durezze del leader leghista, talvolta persino anticipandole (l’assai opinabile battuta sulle Ong “taxi del mare” è di Luigi Di Maio). E lo strappo più visibile e meno costoso è il solito (molto più dell’economia che richiede tempi lunghi e sacrifici, cambiare registro sui migranti è gratis e ad alto impatto mediatico, tanto che anche Salvini vi si dedicò con notevole impeto comunicativo). Certo, i due famosi decreti sicurezza (ora convertiti in legge) non sono esenti da difetti assai gravi. Mattarella lo ha messo per iscritto al momento di lasciarli passare (e il punto di mediazione tra Cinque Stelle e Pd sarebbero proprio i rilievi del presidente). Il secondo pecca senz’altro di disumanità e forse di incostituzionalità (abbiamo il dovere di salvare chi scappa dall’orrore e salvarlo significa portarlo al sicuro, cioè a terra). Il primo ha anche grosse falle di efficacia: cancellando la protezione umanitaria butta fuori i migranti dai centri d’accoglienza senza sapere dove collocarli perché mancano gli accordi bilaterali di rimpatrio (Salvini non ci ha mai lavorato) e dunque, secondo l’autorevole istituto di studi Ispi, gli irregolari in Italia per effetto del primo decreto passeranno da 600 mila a 730 mila in un paio d’anni. Il decreto bis, quello che inasprisce le misure contro le Ong, potrebbe essere disapplicato da un nuovo ministro degli Interni di buonsenso con il sol fatto di non ritenere ostili o pericolose per la nostra sicurezza le navi umanitarie o col semplice appello alle normative internazionali che ha richiamato Mattarella; si rammenti peraltro che tenere a mollo per settimane gruppetti di 40 o 50 profughi in mare avverso ma in favore di tv è stato un semplice specchietto per le allodole mediatico (appena 600 sono stati i migranti soccorsi dalle Ong fino ai primi di luglio a fronte di 2.486 sbarchi “autonomi” e non contrastati dal Viminale). È servito a Salvini a distogliere l’attenzione dalla sua incapacità di scovare i famosi 600 mila invisibili di cui aveva promesso il rimpatrio veloce prima delle elezioni del 4 marzo 2018. I 600 mila sono ancora tutti lì, visibilissimi, nelle nostre stazioni, nei giardinetti delle nostre città, nelle pieghe interstiziali delle nostre periferie (e anzi sono in aumento, appunto, a cagione del primo decreto sicurezza, che non è aggirabile poiché ha già sortito i suoi effetti negativi). Ma è giusto questa la faccenda cui il Pd e i suoi sodali dovrebbero fare grandissima attenzione. Se è comprensibile il desiderio di portare al proprio elettorato il ribaltamento del teorema Salvini su migranti e Ong, sarebbe assai pericoloso fingere che la questione migratoria non esista più: una questione che non sta in mare, negli sbarchi, ma sulla terraferma, tra coloro che il nostro sistema d’accoglienza ha perso per strada, lasciato tracimare nell’illegalità e nell’oblio. Sbagliato sarebbe un rompete le righe (nel quale sembra iscriversi anche un nuovo rilassamento verso le occupazioni abusive, in primis a Roma). Se la sinistra vuole provare a risalire la china del consenso non può non offrire soluzioni strutturali alla questione migratoria né tantomeno può distrarsi dalla sicurezza reale dei cittadini (ben altro rispetto al rispolverare generici slogan sulla “sicurezza urbana”). Significa certo aprire i porti a chi fugge ma anche aprire più Centri di identificazione ed espulsione (Cie o come li si voglia chiamare) per contenervi chi non può o non sa stare nel nostro territorio. Significa aprire vere vie di immigrazione legali ma anche canali di rimpatrio con accordi bilaterali da stringere con almeno una mezza dozzina di Stati africani. Significa ridare linfa e soldi agli Sprar per un’autentica integrazione di secondo livello (piccoli numeri diffusi nei Comuni) ma pure selezionare al meglio la nuova immigrazione “economica” di cui le nostre aziende e le nostre pensioni hanno bisogno. Significa governare il fenomeno togliendo dai marciapiedi una pletora di disperati che diventa manovalanza criminale. Mai come ora la congiuntura europea potrebbe favorirci. Lo “schema Ursula”, con un inedito impegno della Ue nell’affrontare una questione finora tutta lasciata sulle nostre spalle, s’è palesato più volte a luglio in via informale con la disponibilità pratica di un gruppo di Paesi (Francia, Germania, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo) a farsi carico dei migranti delle navi Ong che noi non volevamo accogliere. L’apertura manifestata da Ursula von der Leyen al nostro Giuseppe Conte, all’indomani della sua elezione a presidente della Commissione europea grazie a voti Pd e M5S, non va lasciata cadere: un’immigrazione ripartita può togliere un potente argomento retorico ai sovranisti. Ma solo una sinistra di governo che sappia tenere insieme legalità e solidarietà avrà le carte in regola per stare seduta al tavolo. Stati Uniti. Appello al governatore del Texas per salvare la vita di un uomo di Roberta Gisotti vaticannews.va, 3 settembre 2019 La Comunità di Sant’Egidio lancia una petizione on line per scongiurare l’esecuzione capitale di un detenuto negli Stati Uniti. Intervista a Carlo Santoro: la pena di morte è un orpello di crudeltà da consegnare alla storia passata. Un appello urgente viene lanciato oggi per salvare la vita di Billy Jack Crutsinger, condannato a morte 16 anni fa, in attesa di essere giustiziato il prossimo 4 settembre nello Stato del Texas. La petizione on line è aperta alla firma sul sito e sulla pagina Facebook della Comunità di Sant’Egidio. Nella lettera - rivolta al governatore Abbott e ai componenti del Board of Pardon and Paroles del Texas - si chiede “di fermare l’esecuzione e rinviarla” e “di considerare l’ipotesi di commutare la condanna a morte”, ispirati da “sentimenti di umanità e di pietà”. Sarebbe “un atto coraggioso e di grande potata, a cui verrebbe data la risonanza che merita”, conclude la petizione. Pena di morte applicata ancora in 36 Paesi, tra cui gli Usa - Meno di 48 ore per impedire che la vita di quest’uomo sia soppressa per mano di un’autorità statale. Ad oggi sono 106 i Paesi che hanno abolito la pena capitale, 7 quelli che l’hanno eliminata per i crimini ordinari, 42 quelli che non la applicano da almeno 10 anni, 6 quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni e 36 quelli che la mantengono, tra cui gli Usa, dove 19 Stati l’hanno però abolita e 3 hanno varato delle moratorie ma a livello federale è stato invece deciso di riprendere dopo 16 anni le esecuzioni, secondo quanto annunciato nel luglio scorso dal ministro della Giustizia William Barr, sollevando però animate proteste. Carlo Santoro, della Comunità di Sant’Egidio, coordinatore della Campagna abolizionista della pena capitale negli Stati Uniti, invita a firmare la petizione e pregare... R. - Le speranze ci sono fino all’ultimo momento. Noi invitiamo tutti a firmare l’appello, sul nostro sito, mandando al governatore la richiesta di fermare l’esecuzione, ma invitiamo anche tutti a pregare per Billy. Affidiamo la preghiera anche a Madre Teresa, una santa che è stata a visitare i condannati a morte. Proprio in questi giorni il 5 settembre cadrà la ricorrenza di Madre Teresa: affidiamo la vita di quest’uomo a lei. Billy è nel braccio della morte da 16 anni: è un tempo davvero lungo, in cui è rimasto in contatto con una persona della Comunità di Sant’Egidio... R. - Sì, con Ilaria una giovane di Genova, che ci ha sollecitato anche lei a tentare questo ultimo appello. A lei Billy ha scritto “Non ho perso la fede, no davvero: tu e i tuoi amici mi aiutate moltissimo a ricordarmi sempre il suo amore per me”. Noi siamo infatti in contatto epistolare con quasi un migliaio di condannati a morte negli Stati Uniti: penso che sia molto importante il fatto di scrivere a questi detenuti speciali, perché è un modo per entrare in contatto con loro, è un modo per far conoscere fuori questa realtà così difficile. Come procede la lotta per abolire in tutto il mondo la pena di morte? R. - Sta lentamente ma costantemente retrocedendo, e negli Stati Uniti c’è stato un costante calo sia delle condanne a morte sia delle esecuzioni. Un anno fa la Chiesa cattolica ha riformato il Catechismo, grazie a Papa Francesco, è questo è stato un segnale fortissimo. Anche in seguito a questo in California il governatore ha deciso di bloccare tutte le esecuzioni con una moratoria. E devo dire che fa anche molto effetto vedere le immagini del braccio della morte che è stato smantellato, come se fossero state deposte delle armi. È un segnale a favore della difesa della vita in qualsiasi circostanza. Che cosa potrebbe fare cambiare idea al governatore del Texas? R. - Io penso anzitutto la mobilitazione internazionale; devo dire che è incredibile, ma anche il Texas sta retrocedendo: nel 2015, ad esempio, non c’è stata nessuna condanna a morte. Io penso che noi dobbiamo spingere, tutti insieme. In questo molto, molto sta facendo la Chiesa americana: in ottobre sarò a Washington perché ci sarà un grande incontro per preparare la nostra strategia per l’abolizione della pena di morte Stato per Stato negli Usa. Quindi tanto più è importante la partecipazione popolare, che si faccia sentire in tutto il mondo... R. - Diciamo che la pena di morte ormai è una pratica da mettere in museo, una pratica da consegnare alla storia perché è una pratica barbara e crudele che ormai non ha più senso nel mondo. La Chiesa ha detto con chiarezza che la pena di morte è inammissibile ed è contraria al Vangelo. Pakistan. Asia Bibi: “Il mondo aiuti chi è ancora in carcere per blasfemia” lanuovabq.it, 3 settembre 2019 Nella prima intervista dal giorno della sua liberazione, Asia Bibi, la donna cristiana assolta dopo un calvario di nove anni dall’accusa di blasfemia e ora rifugiata in Canada, racconta le difficoltà della sua prigionia, gli strazianti incontri in carcere con le sue figlie, i momenti di scoraggiamento. Ma soprattutto lancia un appello per le decine di persone che in Pakistan sono in carcere con l’accusa di blasfemia, che prevede anche la pena di morte. I retroscena dei contatti con l’Unione Europea. Dalla località segreta in Canada dove si trova dallo scorso maggio, Asia Bibi per la prima volta parla con la stampa. In una intervista rilasciata il 31 agosto al Sunday Telegraph la donna cristiana pakistana, scampata all’esecuzione capitale alla quale era stata condannata nel 2009 in seguito a una falsa accusa di blasfemia, ringrazia tutti quelli che nel mondo si sono preoccupati della sua sorte e hanno contribuito alla sua liberazione. Parla della sua prigionia durata nove anni, racconta i giorni dello sconforto e quelli della speranza. “A volte ero così disperata e mi domandavo se mai sarei uscita di prigione, che cosa ne sarebbe stato di me, se sarei rimasta in carcere per tutta la vita. Quando le mie figlie mi venivano a trovare, davanti a loro non piangevo mai, ma quando se ne andavano e restavo sola, allora piangevo piena di angoscia e dolore. Pensavo a loro continuamente, alla vita che erano costrette a vivere”. Poi descrive l’ansia, dopo l’assoluzione pronunciata dalla Corte Suprema e la liberazione dal carcere nell’ottobre del 2018, i mesi trascorsi nascosta, sotto stretta sorveglianza per evitare che gli integralisti islamici, furiosi, riuscissero a trovarla e a ucciderla. Insieme al marito, Ashig Masih, è stata ospitata prima in una casa sulle colline attorno alla capitale Islamabad e poi nella città portuale di Karachi. Avevano una televisione che li collegava al mondo e in quei mesi hanno comunicato con l’esterno con un telefono cellulare, ma non sono mai usciti di casa. La tensione è stata tale da farla cadere in depressione e causarle disturbi cardiaci. Ma nel frattempo si lavorava per la sua salvezza, possibile solo se un paese avesse concesso asilo a lei e ai suoi famigliari e se si fosse riusciti a farla uscire dal paese: in Pakistan gli integralisti islamici, decisi a sostituirsi alla giustizia, l’avrebbero cercata implacabili e prima o poi l’avrebbero trovata. Jan Figel, un politico slovacco, dal 2016 inviato speciale dell’Unione Europea per la libertà religiosa, per la prima volta rivela come si è arrivati al suo espatrio. Su mandato dell’Unione Europea, Figel ha incontrato più volte a Bruxelles il procuratore generale pakistano, Anwar Khan, e il ministro per i diritti umani Shireen Mazari per decidere come procedere. Dapprima, spiega, i candidati a concederle asilo erano la Francia e il Belgio. Ma intanto le figlie di Asia Bibi avevano ottenuto asilo temporaneo in Canada e, per quanto Asia Bibi preferisse andare in un paese europeo, alla fine si è deciso che la cosa migliore era che le raggiungesse. Per tutto il periodo delle trattative Asia Bibi è stata in costante contatto con Muhannadu Amanullah, un attivista in difesa dei diritti umani che aveva già aiutato cinque altre persone accusate di blasfemia, che ha fatto da tramite tra lei e l’Unione Europea. Anche lui aggiunge un tassello alla ricostruzione dei fatti: “Il governo pakistano continuava a dirci che sarebbero partiti entro due settimane, forse dieci giorni e così sono trascorsi mesi. A un certo punto Asia Bibi era così disperata che un giorno mi ha detto: ‘se mi uccidessero o mi capitasse qualcosa, per favore abbi cura delle mie figlie”. Secondo Jan Figel il primo ministro Imran Khan e l’esercito pakistano hanno ritardato la partenza di Asia Bibi in attesa di mettere sotto controllo la situazione, cosa che ha richiesto una dura prova di forza tra governo e leader dei partiti e dei movimenti integralisti. Tuttavia, quando è venuto il momento, Asia è stata costretta a partire di nascosto. Non ha neanche avuto modo di salutare suo padre e la sua città: “Me ne sono andata con il cuore in pezzi per non aver potuto fare un ultimo saluto alla mia famiglia. Il Pakistan è il mio paese, è la mia patria. Amo il mio paese, amo la mia terra”. Poco dopo anche Muhannadu Amanullah ha lasciato il Pakistan perché è stato dichiarato apostata a causa del suo impegno in favore delle persone accusate di blasfemia e ormai anche lui è nel mirino degli integralisti. Quanto al futuro, Jan Figel rivela che l’intera famiglia dovrebbe in seguito trasferirsi in un paese europeo di cui non verrà rivelato il nome: “Le condizioni di sicurezza - ha detto ai giornalisti - continuano a essere di cruciale importanza per Asia Bibi e per la sua famiglia”. “La storia di Asia e l’alta professionalità della sentenza di assoluzione della Corte suprema - ha aggiunto - possono servire come base per riformare la legislazione sulla blasfemia, troppo facilmente usata in dispute tra vicini e contro persone innocenti”. Anche Asia Bibi ha rivolto il pensiero a quanti in Pakistan stanno patendo il suo stesso calvario, come lei accusati di blasfemia. Il Dipartimento di Stato statunitense stima che nelle carceri pakistane ci siano 77 persone, per la maggior parte musulmane, accusate di blasfemia. “Mi rivolgo al mondo intero per chiedere di occuparsene - ha detto Asia Bibi - richiamo l’attenzione sul fatto che si può essere incriminati senza indagini e senza vere prove a carico. La legge sulla blasfemia deve essere emendata. Nessuno deve essere giudicato colpevole senza prove”. Brasile. Amazzonia, gli incendiari gridano al fuoco di Manlio Dinucci Il Manifesto, 3 settembre 2019 Di fronte al dilagare degli incendi in Amazzonia, il vertice del G7 ha cambiato la sua agenda per “affrontare l’emergenza”. I Sette Grandi - Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Giappone, Canada e Stati uniti - hanno assunto, insieme all’Unione europea, il ruolo di vigili del fuoco planetari. Il presidente Macron, in veste di capo pompiere, ha lanciato l’allarme “la nostra casa è in fiamme”. Il presidente Donald Trump ha promesso il massimo impegno statunitense nell’opera di spegnimento degli incendi. I riflettori mediatici si concentrano sugli incendi in Brasile, lasciando in ombra tutto il resto. Anzitutto il fatto che ad essere distrutta non è solo la foresta amazzonica (per i due terzi brasiliana), ridottasi nel 2010-2015 di quasi 10 mila km2 l’anno, ma anche la foresta tropicale dell’Africa equatoriale e quella nell’Asia sud-orientale. Le foreste tropicali hanno perso, in media ogni anno, una superficie equivalente a quella complessiva di Piemonte, Lombardia e Veneto. Pur differendo le condizioni da zona a zona, la causa fondamentale è la stessa: lo sfruttamento intensivo e distruttivo delle risorse naturali per ottenere il massimo profitto. In Amazzonia si abbattono gli alberi per ricavarne legname pregiato destinato all’esportazione. La foresta residua viene bruciata per adibire tali aree a colture e allevamenti destinati anch’essi all’esportazione. Questi terreni molto fragili, una volta degradati, vengono abbandonati e si deforestano quindi nuove aree. Lo stesso metodo distruttivo viene adottato, provocando gravi danni ambientali, per sfruttare i giacimenti amazzonici di oro, diamanti, bauxite, zinco, manganese, ferro, petrolio, carbone. Contribuisce alla distruzione della foresta amazzonica anche la costruzione di immensi bacini idroelettrici, destinati a fornire energia per le attività industriali. Lo sfruttamento intensivo e distruttivo dell’Amazzonia viene praticato da compagnie brasiliane, fondamentalmente controllate - attraverso partecipazioni azionarie, meccanismi finanziari e reti commerciali - dai maggiori gruppi multinazionali e finanziari del G7 e di altri paesi. Ad esempio la JBS, che possiede in Brasile 35 impianti di lavorazione di carni dove si macellano 80 mila bovini al giorno, ha importanti sedi in Usa, Canada e Australia, ed è largamente controllata attraverso quote del debito dai gruppi finanziari creditori: la JP Morgan (Usa), la Barclays (GB) e le finanziarie della Volkswagen e Daimler (Germania). La Marfrig, al secondo posto dopo la JBS, appartiene per il 93% a investitori statunitensi, francesi, italiani e ad altri europei e nordamericani. La Norvegia, che oggi minaccia ritorsioni economiche contro il Brasile per la distruzione dell’Amazzonia, provoca in Amazzonia gravi danni ambientali e sanitari con il proprio gruppo multinazionale Hydro (per la metà di proprietà statale) che sfrutta i giacimenti di bauxite per la produzione di alluminio, tanto che è stato messo sotto inchiesta in Brasile. I governi del G7 e altri, che oggi criticano formalmente il presidente brasiliano Bolsonaro per pulirsi la coscienza di fronte alla reazione dell’opinione pubblica, sono gli stessi che ne hanno favorito l’ascesa al potere perché le loro multinazionali e i loro gruppi finanziari abbiano le mani ancora più libere nello sfruttamento dell’Amazzonia. Ad essere attaccate sono soprattutto le comunità indigene, nei cui territori si concentrano le attività illegali di deforestazione. Sotto gli occhi di Tereza Cristina, ministra dell’agricoltura di Bolsonaro, la cui famiglia di latifondisti ha una lunga storia di occupazione fraudolenta e violenta delle terre delle comunità indigene.