Roma chiama Messico. Lavoro dei detenuti, esportato il modello di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 settembre 2019 Coniugare da Roma a Città del Messico le esigenze di cura del territorio a carico degli Enti locali con la promozione della funzione rieducativa della pena e del reinserimento sociale dei detenuti per un rinnovamento penitenziario a livello nazionale e internazionale. Sarà esportato nella capitale messicana il protocollo d’intesa tra Roma Capitale, ministero della giustizia-Dap, Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise per il reinserimento socio lavorativo di detenuti sottoposti a condanna definitiva destinatari di progetti di pubblica utilità nel territorio di Roma Capitale. L’intesa è stata rinnovata il 20 settembre scorso presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con una novità: il modello italiano di riscatto dei detenuti arrivato al suo terzo anno di continuità, è stato adottato a Città del Messico dove partirà in via sperimentale il prossimo novembre. Intanto, il rinnovo del nostro aggiorna un analogo accordo scaduto il 31 luglio scorso, sottoscritta dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, e dall’assessore allo Sport, politiche giovanili e grandi eventi cittadini, con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale, Daniele Frongia. Si tratta dell’ulteriore rinnovo di un anno del modello che ha dato vita al progetto “Mi riscatto per… Roma”, l’intesa siglata fra Campidoglio e Via Arenula finalizzata allo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti degli istituti penitenziari romani nelle aree verdi e sulla rete stradale urbana. E, come ribadito nel protocollo, potranno essere individuati anche ulteriori ambiti di intervento dove i detenuti possano dare una mano. L’attività che cade sotto la voce “lavori di pubblica utilità” ha infatti un eterogeneo ambito di applicazione che va oltre la tutela del patrimonio pubblico e ambientale: prestazioni a favore di persone affette da Hiv, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari, protezione civile o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. Un modello, quello di “Mi riscatto per...” che nel giro di un anno, è stato sottoscritto da una quarantina di municipi fra città metropolitane e piccoli comuni. Possibile in base all’intesa, estendere gli interventi lavorativi anche nelle aziende agricole di proprietà di Roma Capitale come Castel di Guido e Tenuta del Cavaliere. I dettagli dei singoli progetti saranno di volta in volta stabiliti da specifici protocolli operativi, nei quali verranno individuate le aree, le attività e le modalità del loro svolgimento. E per coordinare gli interventi concordati, sarà istituita una cabina di regia guidata dagli uffici di gabinetto del sindaco di Roma che si riunirà almeno una volta ogni due mesi. Dentro i rappresentanti del Dap, degli istituti penitenziari coinvolti, dei dipartimenti tutela ambientale, politiche sociali e Sviluppo infrastrutture del comune di Roma insieme al comando del Corpo di polizia locale del comune di Roma e dell’ufficio del Garante dei detenuti di Roma Capitale. “Siamo più che soddisfatti dei risultati e dei riconoscimenti che questo progetto sta ottenendo”, ha detto Basentini. “La città di Roma è capofila di questo progetto stupendo ed è stata un modello per tante altre città italiane, grandi e piccole. Non solo: lo è stata anche per una metropoli straniera come Città del Messico, dove il progetto sta partendo. Questo è un eccezionale esempio di collaborazione fra pubbliche amministrazioni che cercheremo di replicare ovunque: al Ministero si sta lavorando per esportare in Europa il modello Roma di lavori di pubblica utilità e noi saremo ben lieti di offrire la nostra disponibilità e il nostro supporto e di mettere a disposizione il nostro know-how. Dobbiamo iniziare a pensare il mondo penitenziario in modo nuovo: come una risorsa e una grande possibilità per tutti”. Avanti il disegno di legge: carcere fino a 16 anni per chi aggredisce un medico di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 30 settembre 2019 La crisi del sistema sanitario e la mancanza di risorse hanno esasperato un’emergenza. Le aggressioni versi i medici hanno raggiunto numeri record in Italia. C’è chi ha subito un tentativo di stupro, chi è stato selvaggiamente picchiato, chi quasi strangolamento, chi si è trovato un cacciavite al collo o chi è stato vittima di spedizioni punitive. È questa la vita quotidiana dei medici italiani. 7 su 10, cioè il 66% della categoria, tra quelli intervistati, dichiara di aver subito un’aggressione da parte dei pazienti. Il minimo è essere stati aggrediti verbalmente. A 2 su 3 è accaduto, mentre la restante parte ha subito un’aggressione fisica. Lo scrive un sondaggio pubblicato a fine 2018 dal sindacato Anaao Assomed. Ovviamente il settore psichiatria e il Pronto soccorso sono gli ambiti più a rischio, pericoli che si corrono soprattutto al Sud. Il dato in Mezzogiorno e Isole esplode arrivando fino al 72% di medici che denunciano aggressioni, e sale all’80% per chi lavora nei Pronto soccorso. Il 23% degli intervistati ha risposto di essere a conoscenza di casi di aggressione da cui è scaturita addirittura un’invalidità permanente o un decesso. Smarrimento, rabbia e solitudine sono i sentimenti più diffusi in chi ne è vittima. Quanto alle cause, i medici le attribuiscono a fattori socio-culturali per il 37%, al de-finanziamento del Servizio Sanitario per il 23% e a carenze organizzative del settore per il 20%. Negli ultimi anni, ha commentato Costantino Troise, segretario dell’Anaao “abbiamo assistito a un’escalation” e “la frustrazione dei pazienti aumenta laddove ci sono più carenze di personale e di posti letto”. Un situazione drammatica dove disagio dei pazienti per mancanza di cure efficaci, lunghi tempi di attesa e inefficienze diffuse fanno spesso degenerare la protesta in vere e proprie aggressioni. La Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri si è mossa con una raccolta di firme a sostegno di una proposta di legge volta a equiparare le aggressioni contro gli operatori sanitari a quelle contro un pubblico ufficiale, con conseguente aumento delle pene e possibilità di procedere d’ufficio. Così il 25 settembre scorso al Senato è stato licenziato un ddl, a costo zero, contro la violenza a medici e operatori sanitari. Probabilmente anche merito della diffusa presenza di operatori del settore in parlamento. Attualmente tra Camera e Senato vi sarebbero in parlamento 37 medici, 10 farmacisti, 4 biologi, 3 psicologi, 2 fisioterapisti, 2 infermieri, un assistente sociale ed un operatore sanitario. Anche il neo ministro alla Sanità Roberto Speranza ha commentato il voto positivamente su Twitter: “Gli episodi di violenza e le aggressioni a chi lavora nel mondo della sanità sono inaccettabili. Oggi dal Senato è arrivata una prima importante risposta con il voto all’unanimità. È la strada giusta su cui continuare a lavorare”. È prevista, presso il ministero della Salute, l’istituzione di un Osservatorio nazionale, sperando che non sia il solito carrozzone burocratico, e l’introduzione di pene più severe per chi aggredisce un medico o un operatore sanitario. L’Osservatorio ha il compito di monitorare gli episodi e le situazione cercando di ridurre i rischi a seconda del contesto e settore. Con decreto del ministero (che dovrà essere emanato entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge), dovranno essere definite la durata e la composizione dell’Osservatorio e le modalità con le quali l’organismo riferisce sugli esiti della propria attività ai ministeri interessati. Sono previsti fino a 16 anni di carcere per chi aggredisce un medico “in caso di lesioni personali gravi o gravissime cagionate a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria o a incaricati di pubblico servizio, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio presso strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche o private”. La reclusione da 4 a 10 anni è prevista per le lesioni gravi e da 8 a 16 anni per le lesioni gravissime. Nella legge vengono anche introdotte le circostanze aggravanti comuni del reato, cioè l’avere commesso il fatto con violenza o minaccia a danno del soggetto mentre questi era nell’esercizio delle sue funzioni. Si procederà d’ufficio per i casi gravi. Per adesso infatti viene esclusa la procedibilità a querela della persona offesa, per i reati di percosse e lesione personale, quando ricorrano le circostanze aggravanti. L’appello della sorella di Falcone: “Atti non più segreti, ora chi sa parli” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 settembre 2019 “Fino ad oggi sono stati desecretati atti, è importante ma non basta, adesso è il momento che siano le persone a desecretarsi”. La sorella di Giovanni Falcone, Maria, lancia un appello dopo aver finito di leggere le carte appena pubblicate dalla commissione parlamentare antimafia sul 1989, la stagione dei veleni di Palermo: “Non dobbiamo smettere di cercare la verità sulle stragi - dice - un pezzo di quella verità è dentro lo Stato. Chi sa parli”. Gli ultimi documenti emersi dagli archivi di Palazzo San Macuto, anticipati da Repubblica.it, raccontano che trent’anni fa il giudice Falcone finì addirittura sul banco degli imputati per il ritorno del pentito Contorno in Sicilia, sospettato di essere un killer di Stato. “In questi giorni, sono tornata indietro di trent’anni, a quello che è stato il periodo più doloroso della vita professionale di mio fratello - dice Maria Falcone - prima provarono a delegittimarlo con le lettere anonime del cosiddetto Corvo, che lo accusavano di avere gestito l’operazione Contorno. Giovanni era convinto che quegli scritti arrivassero dal palazzo di giustizia”. Per la sorella del giudice assassinato nel 1992, dietro gli anonimi c’era anche la mafia: “Delegittimarlo serviva a preparare l’attentato sulla scogliera dell’Addaura, avvenuto poco tempo dopo. Così, la sua morte non avrebbe creato indignazione, come poi invece è avvenuto tre anni dopo. Gli italiani non hanno dimenticato”. Con l’avvio dell’anno scolastico, Maria Falcone, animatrice della fondazione intitolata al fratello, ha ricominciato i progetti con gli studenti. “I giovani vogliono sapere cosa è accaduto. Racconto che gli ultimi dodici anni di Giovanni a Palermo sono stati una Via Crucis. Aveva anche pensato di inscenare un finto divorzio con Francesca, per salvarla. Sapeva che sarebbe finita nel peggiore dei modi. Dopo l’Addaura parlò di menti raffinatissime che orientano l’azione della mafia”. La sorella del giudice ribadisce l’appello: “Chi sa parli”. Abnorme il rifiuto del Gip a incidente probatorio per motivi di urgenza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 26 luglio 2019 n. 34091. È abnorme il provvedimento con cui il Gip rigetti la richiesta di incidente probatorio presentata dal pubblico ministero ex articolo 392, comma 1-bis, del Cpp, adducendo ragioni di mera opportunità processuale e l’asserita assenza di ragioni di urgenza. Così si è espressa la sezione III della Cassazione con la sentenza 26 luglio 2019 n. 34091. L’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale prevede che nei procedimenti relativi a taluni gravi reati (come, ad esempio, quello di violenza sessuale) il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi del comma l dello stesso articolo, e prevede altresì che si procede allo stesso modo, “in ogni caso”, vale a dire, indipendentemente dal reato oggetto di indagine, all’assunzione della testimonianza della persona offesa che “versa in condizione di particolare vulnerabilità”. Tale disposizione esclude qualsiasi potere discrezionale da parte del giudice circa l’opportunità di accogliere la richiesta. Secondo la Cassazione, le uniche valutazioni consentite (oltre a quella generale desumibile dall’articolo 190, comma 1, del codice di procedura penale, che attribuisce al giudice il potere di escludere “le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”) attengono alla sussistenza dei requisiti indicati dalla disposizione, vale a dire che: l’istanza provenga da soggetto processuale legittimato (il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, ovvero la persona sottoposta alle indagini); il procedimento penda nella fase delle indagini preliminari ovvero in udienza preliminare (cfr. Corte costituzionale, sentenza 10 marzo 1994 n. 77); si stia procedendo per uno dei reati indicati dalla norma, ovvero quando la persona offesa di altro reato versi in condizioni di particolare vulnerabilità; la testimonianza di cui si richiede l’assunzione riguardi un minore di età (anche se non trattisi di persona offesa) ovvero la persona offesa maggiorenne. Entro questi limiti, ragiona la Suprema corte, l’obbligo per il giudice di disporre l’incidente probatorio è imposto dal rilievo che il legislatore ha inteso evitare i fenomeni di vittimizzazione secondaria ritenendo detto interesse prevalente sul principio generale secondo cui la prova si forma in dibattimento, e dall’ulteriore rilievo che, proprio con tale disposizione, il legislatore ha inteso, in ossequio agli obblighi internazionali, non conculcare la tutela dei diritti delle vittime. Alla luce di questi ineccepibili principi la Cassazione ha affrontato il ricorso proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento del Gip reiettivo della richiesta di incidente probatorio: nella fattispecie, il Gip aveva infatti respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal pubblico ministero con la seguente motivazione: “l’assunzione della testimonianza della persona offesa circa i fatti per cui si procede non presenta caratteri di urgenza tali da non consentirne l’espletamento nella sede deputata alla formazione della prova, quale il dibattimento, né appaiono ricorrere ulteriori condizioni che suggeriscano l’adozione del mezzo di prova nelle forme richieste”; la Cassazione, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato senza rinvio l’ordinanza reiettiva, ritenendo tale provvedimento strutturalmente abnorme, perché con esso si era “disapplicata”, senza alcuna argomentazione, una regola generale di assunzione della prova prevista in ottemperanza ad obblighi assunti dallo Stato in sede internazionale: non si trattava, quindi, soltanto di violazione di norme processuali, ma di un provvedimento reso al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite, e quindi affetto da c.d. abnormità strutturale. È interessante notare come il collegio abbia esplicitamente ritenuto di non poter seguire - proprio relativamente all’incidente probatorio - il consolidato orientamento - fondato sul principio di tassatività delle impugnazioni - secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari accoglie, rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di incidente probatorio (tra le tante, sezione IV, 7 ottobre 2009, Antonelli e altri; nonché, sezione V, 17 luglio 2017, Palmeri e altri; ma anche, sezione III, 13 marzo 2013, Bertolini, proprio relativa a un incidente probatorio). Percorso a cascata in tre step per identificare il titolare effettivo di Davide Cagnoni e Angelo Dugo Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2019 Per le società e gli enti spesso non è facile individuare il titolare effettivo soprattutto in presenza di gruppi complessi all’interno dei quali non è immediato ricostruire la catena partecipativa e nemmeno individuare con chiarezza i soggetti titolari dei poteri di amministrazione e di direzione della società. Le ultime novità in materia di titolare effettivo previste dal testo di modifica del Dlgs 231/2007 e finalizzate al recepimento della V direttiva antiriciclaggio (direttiva Ue 2018/843), prevedono che gli amministratori delle società ed enti debbano richiedere direttamente al titolare effettivo le informazioni adeguate ed aggiornate in merito alla titolarità effettiva della società (la bozza di modifica è consultabile sul sito del ministero dell’Economia). In sostanza, la nuova versione dell’articolo 22 del decreto, vincola gli amministratori alla richiesta della titolarità effettiva direttamente al soggetto individuato, con la conseguenza che le informazioni reperite attraverso le scritture contabili, i bilanci, il libro soci o le comunicazioni relative all’assetto proprietario avranno l’unico scopo di supportare le dichiarazioni fornite dallo stesso titolare effettivo. Per tali ragioni, è opportuno ripercorrere il percorso individuato dalla normativa per l’identificazione del titolare effettivo ed altresì porre in evidenza i recenti chiarimenti forniti dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (Cndec) attraverso le “Linee guida per la valutazione del rischio, adeguata verifica della clientela, conservazione dei documenti, dei dati e delle informazioni ai sensi del Dlgs 231/2007” che possono senz’altro fornire spunti utili nei casi di gruppi societari complessi e/o costituiti mediante regole di governance particolari. Come procedere - Il Cndec al paragrafo 3.2.1. precisa che le modalità con cui si deve provvedere all’individuazione del titolare effettivo, risultano “scalari” e non alternative nel senso che si dovrà iniziare utilizzando i criteri previsti dal comma 2 dell’articolo 20 (proprietà o titolarità diretta o indiretta di partecipazioni superiori al 25% delle partecipazioni in capo ad una o più persone fisiche), per poi passare a quelli del comma 3 (controllo o influenza dominante dei voti in assemblea) e, se non si riesce ad individuare il titolare effettivo con nessuna delle modalità dianzi evidenziate, si dovrà procedere con le regole del comma 4 (persona fisica o persone fisiche titolari dei poteri di amministrazione o direzione della società). Il contributo del Cndcec non è limitato al commento della normative ma fornisce chiarimenti ed esempi pratici che vanno ad aggiungersi a quelli già a suo tempo dati dall’Abi nel Position paper del 20 dicembre 2016. Tra le indicazioni fornite meritano di essere segnalati i chiarimenti in materia di società di persone. Per queste ultime, infatti, non è mai stato definito un criterio per l’individuazione della titolarità effettiva. Il Cndcec ha quindi ritenuto opportuno utilizzare lo stesso criterio delle società di capitali e pertanto procedere ad individuare il titolare effettivo a scalare partendo dalle percentuali di conferimento al capitale per poi passare, in caso di esito negativo di queste ultime, ai soggetti che hanno l’amministrazione, disgiuntiva, congiuntiva o mista nonché la rappresentanza legale della società. Gli esempi - Per quanto riguarda, invece, l’individuazione del titolare effettivo attraverso il primo step (partecipazioni superiori al 25%) il Cndcec ha formulato i seguenti esempi: - società di capitali con più soggetti che detengono oltre il 25% del capitale. In questi casi, tutti saranno titolari effettivi anche qualora un solo soggetto detenga la maggioranza assoluta; - quote o azioni date in usufrutto. Se le azioni o quote sono detenute in usufrutto in percentuale maggiore al 25%, i titolari effettivi sono coloro che hanno la piena disponibilità delle quote o delle azioni non concesse in usufrutto per ammontari superiori al 25%. Se, invece, le quote o azioni sono detenute da una persona fisica per ammontare superiore al 25% e concesse in usufrutto, sia l’usufruttuario sia il nudo proprietario sono titolari effettivi; - società detenuta mediante fiduciaria. Società di capitali partecipata da una fiduciaria che gestisce tale partecipazione del 50% per conto di un cliente persona fisica. Gli altri soci sono 5 persone fisiche che detengono il 10% cadauno della società. In questa situazione la fiduciaria deve rivelare al soggetto obbligato (amministratore) i dati che consentano allo stesso di conoscere il socio persona fisica (fiduciante) proprietario reale della partecipazione e quindi titolare effettivo. La condotta materiale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2019 Reati contro la pubblica amministrazione - Resistenza a pubblico ufficiale - Elemento oggettivo del reato - Fattispecie relativa a fuga all’alt intimato dalla polizia. Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la violenza consiste in un comportamento idoneo a opporsi, in maniera concreta ed efficace, all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, sicché deve rispondere di tale reato il soggetto che, alla guida di un’autovettura, anziché fermarsi all’alt intimatogli dagli agenti di polizia, si dia alla fuga ad altissima velocità e, al fine di vanificare l’inseguimento, ponga in essere manovre di guida tali da creare una situazione di generale pericolo. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 16 settembre 2019 n. 38240. Reati contro la pubblica amministrazione - Resistenza a pubblico ufficiale - Elemento materiale del reato -Violenza o minaccia - Configurabilità - Fattispecie. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è stato tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta a impedire la libertà d’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, di talché la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto in modo idoneo e univocamente a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l’atto di ufficio o di servizio intrapreso, ciò perché l’idoneità della minaccia va valutata con giudizio ex ante, a nulla rilevando il fatto che in concreto i destinatari non siano stati intimiditi e che il male minacciato non si sia realizzato (nella fattispecie, l’imputato risultava avere cercato di ostacolare l’attività degli agenti, facendo intendere di essere in grado di arrecare loro problemi in sede giudiziaria, millantando di averlo già fatto contro altri agenti, quindi prospettando implicitamente la presentazione di una denuncia calunniosa: la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di condanna, ha ritenuto che anche una millanteria può costituire mezzo idoneo a turbare e ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, per effetto della prospettazione di conseguenze pregiudizievoli attraverso la presentazione di un esposto calunnioso con l’implicito riferimento alla possibilità di creare problemi grazie alle proprie conoscenze influenti). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 luglio 2019 n. 30424. Resistenza a pubblico ufficiale - Controllore - Ausiliare del traffico in servizio - Riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio - Verifica del titolo di viaggio - Minacce e lesioni personali - Reato di cui all’articolo 337 c.p. Il verificatore dei titoli di viaggio (cosiddetto controllore) dipendente di un’azienda di trasporto pubblico locale, riveste, se in servizio, la qualità di pubblico ufficiale, essendo munito dei poteri autorizzativi e certificativi previsti dall’articolo 357, co. 2, c.p. Nessun rilievo ostativo a tale inquadramento giuridico assume l’attribuzione alla stessa persona fisica di tali mansioni insieme a quelle proprie dell’ausiliario del traffico, inquadrato come incaricato di pubblico servizio dall’articolo 17, co. 2, Legge 127/1997, come interpretato dall’articolo 68, co. 1, Legge 488/1999. Di conseguenza, chi reagisce alla legittima richiesta del controllore in servizio di esibire il biglietto di viaggio, minacciandolo e cagionandogli lesioni personali, commette il reato di resistenza a pubblico ufficiale punito. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 maggio 2019 n. 23223. Resistenza a pubblico ufficiale - Elemento oggettivo - Violenza o minaccia - Violenza c.d. impropria - Sussistenza del reato - Fattispecie relativa all’inottemperanza all’intimazione dell’alt da parte dei Carabinieri e conseguente fuga. Il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) è integrato anche dalla violenza cosiddetta impropria, che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente nell’esplicazione della sua funzione, impedendola o ostacolandola; pertanto solamente la resistenza passiva, come mancanza di qualunque forma di violenza o di minaccia, rimane al di fuori della previsione legislativa. (Nella fattispecie l’inottemperanza all’intimazione dell’alt da parte dei Carabinieri aveva causato un inseguimento con concreto pericolo per l’integrità degli utenti della strada). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 dicembre 2017 n. 57222. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Resistenza a pubblico ufficiale - In genere - Violenza - Nozione - Violenza sulle cose - Sufficienza - Condizioni - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la violenza o la minaccia sia usata sulla persona del pubblico ufficiale, ma soltanto che sia stata posta in essere per opporsi allo stesso nel compimento di un atto di ufficio, con la conseguenza che è sufficiente anche la violenza sulle cose, la quale non è però configurabile quando la condotta si traduce in un mero atteggiamento di resistenza passiva. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza del reato in relazione a condotta consistita nel puntare i piedi e le mani su di un’auto della polizia per evitare di essere caricato sulla stessa e di essere così condotto negli uffici di p.s.). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 febbraio 2015 n. 6069. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Resistenza a pubblico ufficiale - In genere - Condotta esclusivamente ingiuriosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale - Nesso di causalità con l’atto d’ufficio - Mancanza - Configurabilità del delitto di cui all’art. 337 cod. pen. - Esclusione - Oltraggio a pubblico ufficiale - “Abolitio criminis” - Fattispecie. Non integra il delitto di resistenza di cui all’art. 337 c.p. la condotta ingiuriosa posta in essere nei confronti di un pubblico ufficiale, quando essa non riveli alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio e risulti priva del nesso di causalità psicologica tra l’offesa arrecata e le funzioni esercitate, ma rappresenti piuttosto l’espressione di uno sfogo di sentimenti ostili e di disprezzo, da inquadrare nell’ipotesi di oltraggio già prevista dall’art. 341 c.p. e abrogata dall’art. 18 della L. 25 giugno 1999, n. 205. (Fattispecie in cui l’imputato, senza porre in essere alcun comportamento violento o minaccioso, si è limitato a ingiuriare gli agenti operanti in occasione di un controllo sulla sua autovettura). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 dicembre 2008 n. 44976. San Gimignano (Si). Salvini soffia sul fuoco nel carcere, farò una visita come Garante di Franco Corleone L’Espresso, 30 settembre 2019 L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini si è recato giovedì 26 settembre nel carcere di San Gimignano non per verificare come parlamentare le condizioni dell’Istituto penitenziario ma per manifestare solidarietà a quindici agenti della Polizia Penitenziaria imputati fra gli altri del reato di tortura. Scelta politicamente legittima. Poco opportuna forse; come certamente inopportune le foto con gli agenti. Salvini ha avuto anche modo di dichiarare che i garanti dei diritti delle persone private della libertà sono inutili e andrebbero sostituiti dai garanti degli agenti. È una opinione che cozza con la legge e con le Convenzioni internazionali ma va presa in considerazione come segno dei tempi. Una volta, magari retoricamente, ci si richiamava a Cesare Beccaria; ora l’Italia è il paese del “marcire in carcere”. La reazione nel carcere non si è fatta attendere. Alle 20.20 iniziava una manifestazione di protesta collettiva con una battitura dei cancelli e delle inferriate. Pare che il rumore fosse assordante e venivano lanciati insulti contro i visitors del pomeriggio. Si sono verificati anche episodi di piccoli incendi, di lanci di oggetti nel corridoio della sezione e alcuni danneggiamenti delle suppellettili delle celle. Martedì come garante della Regione Toscana mi recherò a fare visita al carcere che vive un momento assai difficile. Incontrerò il nuovo direttore e il nuovo comandante e chiederò un salto di qualità per le condizioni di vita quotidiane. La Costituzione deve essere alla base dei comportamenti di tutti coloro che vivono in una struttura con grossi problemi che vanno risolti. Le criticità coinvolgono anche il personale. San Gimignano è una delle sedi del Polo Universitario e bisogna che abbia gli spazi indispensabili per operare. La capienza regolamentare non deve essere superata garantendo dignità e diritti. A novembre la Regione Toscana festeggerà come tutti gli anni la grande riforma illuminista del Granduca Leopoldo che nel 1786 abolì tortura e pena di morte. È un monito per l’oggi. Padova. Lavoro in carcere, telefonisti e pasticceri di Rosalba Carbutti quotidiano.net, 30 settembre 2019 “Collegare dentro e fuori: la rieducazione passa da qui”. Cè un dentro e un fuori nel carcere Due Palazzi di Padova. Corridoi, cancelli, ancora un labirinto di corridoi che sembra non finire mai. In fondo si arriva nei laboratori di lavoro. Ti accolgono le frasi di Dante “Fatti non foste a viver come bruti” e a destra la concezione di Sant’Agostino sulla giustizia terrena. “Quando entro qui non mi sento più in gabbia. È come se fossi fuori”, dice Ahmed, uno dei 167 detenuti-lavoratori. Tre cooperative (Giotto, Work Crossing, AltraCittà) permettono loro un’assunzione regolare e uno stipendio, a seconda se l’impiego è full time o part time, che va da 600 a mille euro. Ma il “caso Padova” se non è proprio unico, è certamente raro. Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto, su 60.741 detenuti, i lavoratori non alle dipendenze dell’amministrazione carceraria sono appena 2.459, neanche il 4%. Ancora meno, 700, coloro che hanno un impiego vero. “È questo il problema - dice Nicola Boscoletto, presidente della Coop Giotto che opera al Due Palazzi da trent’anni. Lavorare in carcere è considerato un premio, addirittura un privilegio, mentre dovrebbe essere la normalità”. Santino, 53 anni, è uno dei pasticceri di Giotto, alle dipendenze della cooperativa Work Crossing, e mentre impasta dolci e fa torroni, ti fissa con i suoi occhi azzurrissimi: “Ho ucciso. Lavorare mi distoglie da questo pensiero fisso”. Il suicidio? “Era quasi un’ossessione all’inizio. Oggi non più. Fare il pasticciere mi aiuta tutti i giorni”. Negli spazi di “AltraCittà” ci accompagna Rossella Favero tra laboratori di assemblaggio, legatoria e cartotecnica, fino alla redazione del giornale Ristretti Orizzonti. “I muri sono azzurri, gialli, colorati. Li hanno dipinti i detenuti per creare un’altra città, appunto, dove i reparti - racconta la presidente della cooperativa - hanno nomi di donna: Telma e Luise. Alice. Claudia. Loredana”. Brahim, 42 anni, viene dal Marocco e deve scontare 23 anni di carcere. Quando lo dice gli trema la voce, ma non ha perso la speranza: “Quando uscirò non sarò vecchissimo, potrò ancora riscattarmi. Intanto il lavoro mi dà una speranza, altrimenti non mi resterebbe che la corda”. Non è l’unico a evocare quella stramaledetta corda. E i suicidi, in carcere, sono tanti. Troppi. Il dossier Antigone calcola che quest’anno fino al 25 luglio sono stati 27. Da qui, la necessità di evitare di marcire in cella senza scopo e soprattutto di riconquistare un ruolo anche agli occhi delle famiglie. Negli spazi della cooperativa Giotto c’è il call center dove i detenuti-operatori si occupano delle prenotazioni per l’ospedale di Padova e danno informazioni per la società bolognese Illumia che opera nel mercato libero dell’energia elettrica. Lavori veri, non piccoli lavoretti per occupare il tempo. Sui muri sono appese foto della città di Padova e ci sono particolari degli affreschi della cappella degli Scrovegni che mostrano Inferno e Paradiso, vizi e virtù. “Il dentro dev’essere collegato al fuori”, spiega Boscoletto. “Una volta una bambina disse a un detenuto: “Prima di uccidere non ci potevi pensare?”. Lui, che usciva per la prima volta in permesso dopo 17 anni, pregò di essere riportato in carcere. Non riusciva ad affrontare l’impatto con l’esterno, ed è stato proprio in quel giorno che ha iniziato a scontare la sua pena. Noi è su questo che dobbiamo agire”. Basta guardarsi intorno, e tra i pc del call center e il mega server, quasi ci si dimentica di cancelli, corridoi, sbarre alle finestre. Sembra un qualsiasi posto di lavoro del mondo. Oggi a Padova ci sono 600 detenuti, una sessantina condannati al Fine Pena Mai. Tra di loro anche Donato Bilancia, il serial killer delle prostitute. Per ora non lavora e recentemente gli è stato negato il permesso che aveva richiesto. Il direttore del carcere Claudio Mazzeo, nel ricordare l’episodio, ci mostra una piantina del parco del carcere: “Faremo come a Bollate, piccole villette nel giardino. Così i detenuti che non ottengono il permesso di uscire potranno comunque vedere con maggiore privacy la propria famiglia”. Nel progetto ci sono casette, piante, panchine. Per un attimo sembra un giardino come un altro. Sembra di essere fuori. Sembra. Ma dentro restano le criticità. La richiesta di creare più posti di lavoro e le lungaggini burocratiche, l’equilibrio tra apertura e controllo, tra vigilare e redimere, tra punire e rieducare. Palmi (Rc). I detenuti dell’A.S. protestano “pronti a iniziare uno sciopero della fame” lacnews24.it, 30 settembre 2019 È una denuncia pubblica quella che i 31 detenuti dell’Alta Sicurezza del carcere di Palmi rivolgono al direttore della struttura e al comandante della polizia penitenziaria. Una denuncia che si articola in un ampio preambolo e in 12 punti, nei quali viene sviscerato l’atto di accusa nei confronti dei vertici del carcere. Lo scritto è stato inviato al giudice del tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria Daniela Tortorella, per tramite dell’avvocato Giovanna Ariniti “per portare a conoscenza… un malessere sempre più diffuso, causato da un approccio assolutamente colpevolista, autoritario e di totale chiusura al dialogo, che la nuova direzione (direttore e comandante) sta portando avanti nei nostri confronti”. I detenuti sostengono che se entro 30 giorni non saranno ricevuti in “un incontro collettivo” inizieranno uno sciopero della fame. “Rivendichiamo il diritto - scrivono i 31 detenuti dell’alta sicurezza - di essere trattati come esseri umani, rifiutando per il solo fatto di essere detenuti, di venire considerati come la peggiore feccia esistente sulla faccia della terra”. Lo scritto mette in evidenza la presunta differenza di trattamento tra il precedente direttore e l’attuale. La Costituzione e il regolamento penitenziario “impongono un trattamento rieducativo che tende al reinserimento sociale dei detenuti. Noi riteniamo - attaccano i firmatari del documento - che questa dirigenza stia attuando un sistema contrario a questi principi, dove è preminente il principio di sottomissione e umiliazione della persona. Con ciò non intendiamo offendere nessuno, ma semplicemente evidenziare che stiamo vivendo una realtà in cui anche esprimere una perplessità, può essere causa di un rapporto disciplinare, che puntualmente viene sanzionato con il massimo possibile (15 giorni di isolamento). Un sistema che modifica le regole senza farci sapere nulla… un sistema che riconosce solo la punizione disciplinare e che non dà spazio neanche in sede di consiglio disciplinare di esporre le proprie ragioni, portando il detenuto ad allontanarsi dal percorso rieducativo”. La lunga disamina articolata in 12 punti raffronta quanto era permesso sotto la precedente direzione e che ora con la nuova gli sarebbe negato: “Tanti detenuti che per anni hanno tenuto un comportamento esemplare, ora si trovano puniti con sanzioni disciplinari perché, per esempio, sono stati trovati in possesso di una penna Pilot, che la direzione precedente gli aveva permesso di acquistare”. Nei punti messi in evidenza ci sono l’impossibilità di detenere semplici farmaci da bancone per curare, per esempio, gli stati influenzali, la diminuzione dei tempi per potere usare l’acqua calda, le pessime condizioni dei locali che ospitano lo studio dentistico e l’impossibilità di potersi curare. Forlì. Il nuovo carcere sarà pronto nel 2022, la ripresa dei lavori è attesa nei prossimi giorni forlitoday.it, 30 settembre 2019 Per il completamento del nuovo carcere al Quattro bisogna attendere mille giorni. Obiettivo 2022. Lo ha annunciato il direttore della casa circondariale, Palma Mercurio, in occasione del 202esimo anniversario della Fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria. La ripresa dei lavori è attesa nei prossimi giorni. Il cantiere è fermo dall’inizio dell’anno, quando il Tar ne aveva bloccato l’assegnazione dopo che erano state segnalate dell’anomalie sul bando. Il primo stralcio dei lavori è stato assegnato al raggruppamento temporaneo di imprese “Devi Impianti Srl” di Busto Arsizio (Varese), che si sono aggiudicate l’appalto con un ribasso del 23%, poco più di 26 milioni.” Piazza Armerina (En). “Io leggo perché”: cultura, libri e teatro alla Casa circondariale start-news.it, 30 settembre 2019 La Casa circondariale di Piazza Armerina in concomitanza con la settimana nazionale dedicata alla promozione della lettura “Io leggo perché” ha messo i campo tutta una serie di iniziative con l’obiettivo di rilanciare le attività risocializzanti e culturali. Tra le prime iniziative della Casa Circondariale armerina c’è la riapertura della biblioteca carceraria con una campagna per l’incremento dei volumi grazie alle donazioni di privati e di associazioni. Grazie all’impulso dato dalla direzione, più di 400 nuovi volumi, di narrativa, testi didattici, testi in lingua straniera hanno arricchito, raddoppiandone la consistenza, la dotazione della biblioteca. Due detenuti, che svolgono attività a titolo volontario, hanno sistemato e catalogato i nuovi libri distribuendoli ai detenuti che ne hanno fatto richiesta. La geografia degli istituti penitenziari assegna alla Casa Circondariale il compito di svolgere attività di risocializzazione e, per questo, si stanno allestendo alcuni ambienti per creare aule didattiche e laboratori. Una volta terminata la ristrutturazione anche la biblioteca sarà ospitata in un nuovo più ampio locale, anche per consentire ai detenuti, che ne faranno richiesta, di accedervi per scegliere i libri da chiedere in prestito. Come sa bene chi ama leggere, un libro va guardato, toccato, sfogliato e solo dopo comprato o preso in prestito. Ma l’attività della Casa Circondariale non si ferma solo a questo. Grazie agli operatori della Caritas, è ripresa nei giorni scorsi, quest’anno con il supporto della regista Samantha Intelisano, l’attività teatrale con l’obiettivo di mettere in scena, nei prossimi mesi, una rappresentazione aperta al pubblico esterno. Tutto ciò con lo scopo di creare un dialogo con la società esterna ed attenuare l’isolamento del carcere. Ascoli Piceno. “Ora d’aria”, i detenuti nigeriani cantano col poeta Franco Arminio cronachepicene.it, 30 settembre 2019 Incontro con il poeta Franco Arminio per i detenuti della casa circondariale di Marino del Tronto e di quella di Fermo. L’appuntamento è legato al progetto “Ora d’aria”, una serie di laboratori ideati da un altro poeta, Luigi Socci, direttore artistico del poesia festival “La Punta della lingua” che ha accompagnato lo stesso Arminio insieme al Garante regionale dei detenuti Andrea Nobili. Arminio ha fatto quello che fa di solito, nelle sue letture in giro per l’Italia. Ha letto le sue poesie e una, che inizia con i tre intensi versi “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento”, l’ha fatta tradurre nei vari dialetti parlati dai detenuti. Poi ha cantato, insieme al pubblico dei ristretti, la canzone “Azzurro”. L’esperimento è talmente riuscito che ha spinto un gruppo di detenuti nigeriani del carcere di Ascoli a cantare una canzone del loro paese. Poeta, scrittore e regista italiano, Franco Arminio si è autodefinito “paesologo”. Ha raccontato i piccoli paesi d’Italia descrivendo con estrema realtà la situazione soprattutto del Mezzogiorno. Animatore di battaglie civili, collabora con diverse testate locali e nazionali e ha realizzato anche vari documentari. Negli ultimi anni ha pubblicato molti libri, con notevole successo di critica e crescente apprezzamento dei lettori. Ecologia. Un milione di voci senza ascolto di Massimo Giannini La Repubblica, 30 settembre 2019 Un milione di ragazzi, in 180 piazze d’Italia. A urlare “un solo grido, un solo allarme, pianeta in fiamme, pianeta in fiamme”. Possibile che la veduta corta sulle prossime elezioni impedisca alla politica di cogliere l’enorme capitale sociale racchiuso nella protesta delle nuove generazioni? Amitav Ghosh la chiama “la Grande Cecità”: le classi dirigenti non vedono che il cambiamento climatico mette in crisi l’idea di libertà. Per questo non colgono il potenziale dirompente del “Fridays4future”. Non capiscono che la domanda di futuro gridata da quei ragazzi non può essere irrisa o delusa. Non fanno l’unica cosa che avrebbe senso: dare risposte, qui e ora. Non per lucrare un’altra manciata di voti, mettendo il cappello su un movimento che finora ha giustamente rifiutato di farsi imprigionare nella gabbia dei partiti. Ma per dare forma e sostanza a quella volontà di cambiamento, in nome di un semplice principio di responsabilità condivisa: la vostra battaglia è la nostra battaglia, e d’ora in poi la combatteremo insieme. C’è chi rievoca il ‘68 o il ‘77, la Pantera o la Gilda. Ma stavolta è diverso. Non c’è il vecchio riflesso della cultura protestataria dei nonni, e nemmeno del generico disagio adolescenziale dei padri. Le istanze da cui muovono gli scioperi in difesa dell’ambiente sono maledettamente reali. Supportate dalle rilevazioni degli scienziati, non dalle allucinazioni dei terrapiattisti. Fermare l’Apocalisse è possibile, ma per farlo occorre quella radicalità delle scelte di fronte alla quale i politici non sanno come reagire. Alle Nazioni Unite Greta Thunberg ha osato l’inosabile: sfidare l’establishment. “How dare you?”, “Come vi permettete?”, ha chiesto ai potenti della Terra, che hanno risposto nell’unico modo che conoscono: come si permette lei, la ragazzina? In Italia è andata allo stesso modo. Dall’opposizione, la destra negazionista ha un solo incubo: demolire la figura di Greta, la marionetta manovrata dal solito Soros, e insieme a lei liquidare con la pernacchia del cinismo “adulto” tutti i “gretini” che le vanno dietro (salvo poi piagnucolare, da sedicenti moderati per talk show, perché signora mia, questi giovani non hanno più valori). Dal governo, la sinistra riformista ha un solo sogno: promettere un velleitario “Green New Deal” che purtroppo non può garantire (infatti il maxi decreto-clima da 19 miliardi è già diventato mini, ridimensionato nelle risorse e osteggiato dalle corporazioni). Nel frattempo intellettuali pensosi e opinionisti d’accatto discutono su cosa implichi la giustificazione scolastica per chi ha scioperato (come fa inopinatamente anche Massimo Cacciari), non su cosa significhi quel milione di ragazzi che scendono in strada senza seguire nessun pifferaio magico, ma semplicemente ascoltando l’appello di una coetanea (come osserva giustamente Marco Revelli). Invece è proprio qui che è custodito quel formidabile “deposito di democrazia” cui i partiti dovrebbero attingere. Quelle 180 piazze sono il “luogo” materiale e morale nel quale le famose élite possono provare a riempire l’abisso che hanno scavato in questi anni tra loro stesse e la società civile. L’abisso che ha consentito al populismo grillino e al sovranismo salviniano di prosperare e poi congiungersi al governo del Paese, all’insegna del comune furore anti-politico. Di fronte al vuoto, riempito dalle prediche futili dei profeti dell’odio contro “il sistema”, i giovani sono stati i primi a ritrarsi nella loro ridotta demografica (in Europa gli elettori con meno di 25 anni sono solo 39 milioni). A rifugiarsi nei loro mondi nascosti (un giovane su due non ha votato alle elezioni 2018), o a fuggire in altri mondi lontani (250 mila cervelli sono emigrati all’estero in dieci anni). Ora, quel milione che ha cantato in coro “su Marte vacci tu”. Certo, in quel magma ci saranno anche quelli che approfittano per saltare la scuola e se ne fregano del clima. Ma al fondo di quella rabbia composta c’è un avvertimento, oltre che un allarme: noi stavolta ci siamo, vogliamo partecipare alla vita pubblica, vogliamo contare nelle vostre decisioni, e chiedere conto di ciò che fate e farete. Se nella politica, e soprattutto nella sinistra, ci fossero leader all’altezza del compito, non lascerebbero cadere nel nulla questo bisogno di partecipazione. Ripartirebbero da qui, da questa straordinaria occasione che gli piove dal cielo intossicato  per riallacciare i fili strappati della rappresentanza. Non lasciando Greta da sola, come ha scritto ieri Eugenio Scalfari. Prendendo finalmente sul serio quei ragazzi, che marciano disorganizzati e spontanei per una causa giusta. Non abbandonando gli studenti delle università e dei licei in balia di Casa Pound, di Forza Nuova o delle reti dell’ultrasinistra antagonista. Vale lo stesso concetto che ha usato qualche giorno fa Pierluigi Bersani, in un’intervista a Repubblica in cui parlava di tutt’altro: “Credili migliori, diventeranno migliori”. Ma forse loro lo sono già. Al contrario di noi. Migranti. Ius culturae, frenata grillina e si dividono anche i dem di Liana Milella La Repubblica, 30 settembre 2019 Da Di Maio stop a un provvedimento sui nuovi italiani: “Oggi ci sono altre priorità”. E la renziana Morani spacca il fronte della sinistra: “Principio sacrosanto ma parlarne adesso è un errore”. Il no di Meloni e Salvini. Il Pd, pur con qualche frattura interna, spinge. M5S invece frena. E sullo ius culturae, alias ius soli, si apre una nuova crepa nella maggioranza giallo-rossa. Lo slancio di Giuliano Pisapia nell’intervista a Repubblica - “lasciamoci alle spalle l’oscurantismo di Salvini, cittadinanza al minore straniero entrato in Italia entro i 12 anni, che abbia frequentato regolarmente un percorso formativo per almeno 5 anni sul territorio nazionale” - non contagia, o forse spaventa M5S, e apre un’ala di dissenso nel Pd. Dove si oppone in modo netto Alessia Morani, una renziana di ferro rimasta però nella casa madre e oggi sottosegretario al Mise. “È un principio sacrosanto e una legge di grande civiltà - scrive su Fb - ma riprendere ora il dibattito è un errore”. Del pari Giuseppe Brescia, grillino dell’area Fico e presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, dice che “ora ci sono altre priorità come una legge sul conflitto di interessi e il taglio dei parlamentari che approveremo martedì”. Concetto ribadito ieri sera dallo stesso Di Maio in tv: “Oggi ci sono altre priorità”. Quindi per lo ius culturae, sarebbe meglio aspettare, soprattutto perché i pentastellati, su una questione delicata come questa, hanno bisogno di una consultazione sulla piattaforma Rousseau. Argomento fortemente divisivo da sempre, lo ius culturae stavolta trova un appoggio pieno sia nella stragrande maggioranza del Pd, che nella sinistra di Leu. Ecco cosa ne pensa Matteo Orfani: “Si può approvare in poche settimane. Senza tentennamenti, senza paura e senza subalternità agli argomenti della peggiore destra”. Sicuramente quella di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni che già ieri hanno dichiarato la loro piena avversità alla sola idea. Durissimo il capo della Lega che, con il suo consueto garbo, definisce lo ius soli “un insulto per gli immigrati per bene” e aggiunge “a 18 anni hai la maturità per scegliere, perché la vogliono dare prima? Perché così restano qua genitori, nonni, zii, ma io di criminali ne ho piene le palle”. Mentre Meloni già si lancia nell’ennesima manifestazione di piazza prevista per giovedì, quando in commissione parte la discussione. Proprio in vista dell’opposizione a destra, nel Pd pesano ancora di più le possibili fratture. Il niet di Morani - che potrebbe anticipare il no di Renzi e di Italia viva - preoccupa per il suggerimento di aspettare “giugno del prossimo anno, dando il tempo agli italiani di apprezzare che c’è un modo efficace e diverso da quello di Salvini di governare i flussi migratori e di fare sul serio politiche di integrazione”. Quindi prima si cambiano i decreti sicurezza Uno e Due, poi si fa lo ius soli. Ora invece “la legge non sarebbe compresa”. In compenso massima apertura arriva da Leu dove il capogruppo alla Camera Federico Fornaro afferma che “in una nazione normale lo ius culturae sarebbe votato da tutti, anche dalla destra”. Ma in Italia non è affatto così. Giornata mondiale del Migrante. Il Papa: dolore per il mondo ogni giorno più crudele di Ester Palma Corriere della Sera, 30 settembre 2019 Nell’omelia della messa in San Pietro, Francesco chiede ai fedeli di “sentire compassione per la sofferenza degli ultimi, avvicinarsi, toccare le loro piaghe, condividere le loro storie, per manifestare la tenerezza di Dio verso di loro”. “Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. È una verità che fa dolore. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili, ai quali si impedisce di sedersi a tavola e si lasciano le “briciole” del banchetto”. È la 105esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato e papa Francesco ha celebrato, in unione con i fedeli di tutte le Diocesi del mondo, una Messa dedicata sul sagrato di San Pietro: “Il tema di quest’anno è “Non si tratta solo di migranti”. Ed è vero: non si tratta solo di forestieri, ma di tutti gli abitanti delle periferie esistenziali che, con stranieri e rifugiati, sono vittime della cultura dello scarto. Il Signore ci chiede di mettere in pratica la carità nei loro confronti; ci chiede di restaurare la loro umanità, assieme alla nostra, senza escludere o lasciare fuori nessuno”. “Chiediamo a Dio la grazia di piangere davanti alla sofferenza” - Ha aggiunto il Papa: “Amare il prossimo come se stessi vuol dire anche impegnarsi seriamente per costruire un mondo più giusto, dove tutti abbiano accesso ai beni della terra, dove tutti abbiano la possibilità di realizzarsi come persone e come famiglie, dove a tutti siano garantiti i diritti fondamentali e la dignità. Significa sentire compassione per la sofferenza dei fratelli e delle sorelle, avvicinarsi, toccare le loro piaghe, condividere le loro storie, per manifestare concretamente la tenerezza di Dio nei loro confronti. Significa farsi prossimi di tutti i viandanti malmenati e abbandonati sulle strade del mondo, per lenire le loro ferite e portarli al più vicino luogo di accoglienza, dove si possa provvedere ai loro bisogni”. E ha concluso: “Come cristiani non possiamo essere indifferenti di fronte al dramma delle vecchie e nuove povertà, delle solitudini più buie, del disprezzo e della discriminazione di chi non appartiene al “nostro” gruppo. Non possiamo rimanere insensibili, con il cuore anestetizzato, di fronte alla miseria di tanti innocenti. Non possiamo non piangere. Non possiamo non reagire. Chiediamo al Signore la grazia di piangere, il pianto che converte il cuore davanti a questi peccati”. La scultura per la “sfida dell’accoglienza” - Dopo la Messa e l’Angelus e prima del giro in papamobile sulla piazza, Francesco ha ringraziato tutti i partecipanti alla celebrazione e benedetto la scultura in bronzo e argilla dell’artista canadese Timothy Schmalz che ha come tema le parole della Lettera agli Ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”. E ha spiegato: “L’opera raffigura un gruppo di migranti di varie culture e diversi periodi storici. l’ho voluta qui in piazza San Pietro, affinché ricordi a tutti la sfida evangelica dell’accoglienza”. Francesco ha davvero apprezzato l’opera: l’ha osservata nei dettagli e toccata, girandole intorno più volte. Bassetti: “Gli stranieri come Lazzaro alla nostra tavola” - Al termine della celebrazione, ha preso la parola anche il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, cher ha concelebrato la Messa col Papa: “Questa piazza vivace e colorata ha raccolto gente di ogni dove, unita nello spirito di lode al Signore, padre di tutta l’umanità. La fede e la potenza del risorto ci fanno sentire fratelli e ci spingono ad amare tutti, come Lui ci ha amati e ha dato se stesso per noi. La Chiesa che è in Italia si sente interpellata dal mondo delle migrazioni. Milioni di uomini e donne, bambini, giovani e anziani ogni anno lasciano la propria terra in cerca di una vita migliore, di un luogo di pace o di progresso dove poter trovare rifugio e dignità. Stendono la mano come il povero Lazzaro, chiedendo almeno le briciole del pane per sfamarsi. Ma il ricco epulone della parabola non vuole vedere né sentire, la sua ricchezza lo ha reso povero di sentimento e gli ha inaridito il cuore. Egli non vuol condividere con altri le sue ricchezze e la prosperità la considera cosa privata. Ma il Signore, con la sua Parola e il suo esempio di amore, ci invita ad essere solidali, a non assecondare le ingiustizie e l’empietà. I poveri che bussano alla nostra porta, i migranti che cercano una vita migliore sono il nostro prossimo nel bisogno”. Migranti. Incendio e rivolta nel campo di Lesbo: muoiono una donna e un bambino La Repubblica, 30 settembre 2019 Scontri con la polizia nel campo dove sono ospitati 13mila migranti a fronte di una capienza di 3mila. Tragedia nel campo profughi di Lesbo dove la situazione era già insostenibile da mesi con oltre 13.000 persone in una struttura che ne può ospitare 3500. Una donna e un bambino sono morti nell’incendio (sembra accidentale) di un container dove abitano diverse famiglie ma le vittime potrebbero essere di più. Una quindicina i feriti che sono stati curati nella clinica pediatrica che Medici senza frontiere ha fuori dal campo e che è stata aperta eccezionalmente. “Nessuno può dire che questo è un incidente - è la dura accusa di Msf. È la diretta conseguenza di intrappolare 13.000 persone in uno spazio che ne può contenere 3.000”. Dopo l’incendio nel campo è esplosa una vera e propria rivolta con i migranti, costretti a vivere in condizioni disumane, che hanno dato vita a duri scontri con la polizia e hanno appiccato altri incendi all’interno e all’esterno del campo di Moria, chiedendo a gran voce di essere trasferiti sulla terraferma. Ancora confuse le notizie che arrivano dall’isola greca dove negli ultimi mesi gli sbarchi di migranti provenienti dalla Turchia sono aumentati in maniera esponenziale. Pakistan. “Blasfemo” assolto dopo 18 anni nel braccio della morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 settembre 2019 Wajih-ul-Hassan, un cittadino pachistano di religione musulmana, è uscito dal braccio della morte il 25 settembre. C’era entrato 18 anni prima, accusato di aver scritto una lettera “offensiva” a un avvocato, da questi resa poi pubblica, e dunque passibile della più estrema delle sanzioni ai sensi delle leggi sulla blasfemia. La Corte suprema ha stabilito che non vi sono prove certe che Wajih sia l’autore della lettera, cosa che l’ormai ex condannato a morte aveva sostenuto per quasi 20 anni. In questo blog, seguendo in particolare la vera e propria “via crucis” giudiziaria della cristiana Asia Bibi, ora in esilio, abbiamo più volte denunciato come le leggi sulla blasfemia, introdotte negli anni Ottanta per punire coloro che dissacrano il Corano e offendono il profeta Maometto - si prestino all’abuso e all’arbitrio più assoluti. Dal 1987 al 2014, secondo la Commissione nazionale per la giustizia e la pace, 1300 persone sono state accusate di “blasfemia”. Se è vero che la maggior parte degli accusati è di religione musulmana, va sottolineato come il 14 per cento dei processi abbia riguardato non-musulmani, che costituiscono il tre per cento della popolazione del Pakistan. Almeno 40 persone sono in carcere, condannate all’ergastolo o alla pena di morte. Fortunatamente, dall’entrata in vigore delle leggi non ha avuto luogo alcuna esecuzione capitale. Ma folle di facinorosi si sono fatte giustizia da sé: secondo il Centro di ricerca e studi sulla sicurezza, dal 1990 sono stati assassinati per via extra-giudiziale almeno 65 sospetti “blasfemi”. Egitto. Al Sisi rimanda in carcere Alaa, icona della rivolta di Tahrir di Francesca Caferri La Repubblica, 30 settembre 2019 Nell’ultima settimana arrestati 1.900 attivisti nella repressione più dura degli ultimi anni. Uno dei più importanti attivisti egiziani, Alaa Abdel Fatah, è stato arrestato sabato nell’ambito dell’ondata di fermi che le autorità egiziane hanno lanciato dopo le proteste scoppiate contro il regime del presidente Abdel Fatah al Sisi nell’ultima settimana. Abdel Fatah è uno dei volti principali della rivolta di piazza Tahrir, che nel 2011 con 18 giorni di manifestazioni pacifiche destituì il presidente Hosni Mubarak dopo 30 anni di potere. Ingegnere, informatico e blogger, 37 anni, è stato, come molti volti della società civile del 2011, travolto dalla spirale di repressione seguita a quei giorni di speranza. Nel 2014, sotto Al Sisi, fu arrestato con l’accusa di aver promosso una protesta: nel 2015 condannato a cinque anni di carcere, nonostante le campagne internazionali per la sua liberazione. Scarcerato a marzo 2019, Abdel Fatah era ancora costretto a passare in prigione tutte le notti e non aveva avuto il permesso di lasciare l’Egitto. Proprio nel carcere in cui si trovava è stato arrestato nella notte fra venerdì e sabato: “Hanno tentato di fingere di averlo rilasciato sabato mattina alle 6, ma nostra madre era fuori ad aspettarlo e così sono stati costretti ad ammettere di averlo fermato di nuovo”, ha scritto su Twitter sua sorella Mona Seif. Poche ore dopo, uno dei legali dell’uomo, Mohamed el Baker, che si era recato alla prigione per seguire il caso, è stato anche lui arrestato. Secondo quanto riferito all’agenzia Reuters da fonti della procura del Cairo, entrambi sono accusati di aver diffuso false notizie e incitato alla rivolta. Abdel Fatah è uno dei 1900 egiziani arrestati nell’ultima settimana: si tratta della più dura repressione di massa messa in atto dal regime di Al Sisi negli ultimi anni. In manette sono finiti scrittori, attivisti, giornalisti, legali e semplici familiari di persone che, dall’estero e via social network, avevano espresso critiche al governo. Gli arresti seguono un’ondata di proteste scatenata in tutto l’Egitto dai video in cui l’imprenditore in esilio Mohamed Ali accusa il governo di corruzione: migliaia di persone sono scese in piazza nelle maggiori città del Paese, nonostante la sistematica repressione del dissenso portata avanti da Al Sisi negli ultimi anni, con omicidi di Stato, sparizioni forzate e torture nelle carceri. Preoccupata per gli arresti, la commissaria Onu per i Diritti umani Michelle Bachelet ha inviato nei giorni scorsi un monito all’Egitto, affinché le proteste pacifiche siano tollerate e non represse. Iran. Sale a 95 il numero delle donne impiccate nella presidenza Rouhani di Loredana Biffo caratteriliberi.eu, 30 settembre 2019 Si chiama Leila Zarafshan, è la 95 esima donna impiccata dalla dittatura teocratica al potere in Iran, insieme a lei hanno giustiziato 10 prigionieri tra i 25 e 26 settembre nelle carceri di Gouhar-dasht a Karaj e a Sanandaj e Urumieh, contemporaneamente con la seduta dell’Assemblea generale dell’Onu a New York con la presenza di Rouhani. Giovedì 19 settembre 2019 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che condanna il regime iraniano per le violazioni dei diritti delle donne in Iran. La risoluzione è stata adottata con 608 voti a favore, 7 contrari e 46 astensioni. Il Parlamento europeo ha emesso una dichiarazione di condanna al regime iraniano che reprime brutalmente le donne che si rifiutano di mettere il velo, che chiedono libertà di espressione e di riunione. Queste vengono arrestate arbitrariamente, e quasi sempre uccise nelle carceri con l’accusa di sedizione, e di essere simpatizzanti della Resistenza dei dissidenti. Molti difensori dei diritti umani sono stati incarcerati per il loro lavoro, ricordiamo l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh condannata a 33 di carcere e 148 frustate; si è trattato della più dura condanna inflitta negli ultimi anni contro i difensori dei diritti umani in Iran, a riprova che le autorità, incoraggiate dalla completa impunità di cui godono i responsabili di tali violazioni, stanno inasprendo la repressione, soprattutto a causa delle sempre più numerose rivolte popolari. La risoluzione del Parlamento europeo ha inoltre chiesto che tutti i cittadini di nazionalità iraniana-UE, compreso Nazanin Zaghari-Ratcliffe, siano immediatamente rilasciati. Il Parlamento europeo, tramite Anna Fotyga, deputata polacca, ha affermato di ammirare le combattenti iraniane per il loro coraggio nella lotta per i diritti delle donne e le loro proteste contro il regime, guidate da una donna, Maryam Rajavi che è a capo del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Ncri). È stato inoltre condannato fermamente l’uso della pena di morte, in particolare contro i minorenni, chiedendo alle autorità iraniane di procedere alla sua abolizione e a cooperare con il relatore speciale delle Nazioni unite per chiarire la questione delle violazioni dei diritti umani in Iran, consentendo l’ingresso degli ispettori internazionali nel paese. È stato inoltre chiesto alle autorità iraniane di rivedere tutte le disposizioni giuridiche che discriminano le donne e di garantirne l’accesso a tutti gli stadi, in particolare riferimento alla tragedia della giovane donna che recentemente si è data fuoco ed è morta dopo essere stata condannata al carcere per essersi introdotta in uno stadio per assistere ad una partita. Tutto questo in corso alla conferenza di New York, mentre in Iran si impiccava la novantacinquesima donna vittima del potere teocratico. Afghanistan. Elezioni flop, ma Kabul non tornerà al passato di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 30 settembre 2019 Alle presidenziali hanno votato meno di due milioni di elettori su nove e mezzo registrati, tuttavia anche gli osservatori più pessimisti concordano almeno su un punto: il Paese non tornerà allo sfascio di venti o trent’anni fa. È evidente che le presidenziali afghane di sabato sono state un fallimento clamoroso. Il Paese vacilla, la violenza talebana impera. Però sarebbe un errore esagerare nei catastrofismi. Anche se paiono ovvi. I primi dati riportano una partecipazione inferiore al 20%. Avrebbero votato meno di due milioni sui nove e mezzo dei registrati. Solo cinque anni fa erano stati oltre otto milioni. “Vince l’astensione, assieme a paura, alle accuse di corruzione contro i politici. È la delegittimazione non solo del governo attuale, ma anche del futuro, dei candidati e in realtà dell’intero sistema democratico così come costruito con l’aiuto dei Paesi Nato dalla fine del regime talebano”, commenta tra i 18 candidati alla presidenza lo stesso Wali Massoud, fratello di Shah Massoud, l’eroe della resistenza anti-talebana assassinato da Al Qaeda al tempo degli attentati dell’11 settembre 2001. La crescita del peso dei Talebani, di Isis e la crisi economica renderanno ancora più incerta la prossima fase politica, già avvelenata dai sospetti di brogli. Tuttavia, anche gli osservatori locali più pessimisti concordano almeno su di un punto: l’Afghanistan non tornerà allo sfascio di venti o trent’anni fa. Li capisce bene chi vide il Paese ridotto in macerie. Un mondo primitivo, sprofondato indietro di secoli, le strade impassabili, ospedali inesistenti, no acqua, no elettricità, Kabul semivuota con i profughi a bruciare pattumiere per riscaldare e cuocere i cibi in ricoveri senza finestre. “Anche grazie a voi occidentali è cresciuta una società civile assertiva, la gente sa protestare, è collegata col mondo, conosce i media, ci sono donne pronte a morire per le libertà civili”, dicono in tanti. Gli stessi talebani sono divisi tra moderati ed estremisti. Il passato resta un fantasma, la prossima crisi sarà diversa. Afghanistan. La reporter Forotan: “Le donne siano la nostra linea rossa” di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 settembre 2019 Mentre si chiudono le urne e ancora si parla di un accordo coi talebani, una giovane giornalista racconta da Kabul cosa significhi difendere i diritti femminili. “La nostra linea rossa? Fondamentalmente è la sopravvivenza”. Farahnaz Forotan, 26 anni, originaria della provincia di Kapisa è una delle giornaliste afghane più note. Un curriculum come reporter nei più grandi network afghani, Tolo e Ariana, oggi Forotan ha deciso di mettersi in proprio e lavorare per proteggere i diritti delle donne afghane. E all’inizio di quest’anno - proprio mentre si tenevano i round negoziali tra i talebani e l’inviato Usa a Mosca e a Doha - con l’agenzia delle Nazioni Unite Women Afghanistan ha lanciato un campagna social dal titolo #MyRedLine. Obiettivo, raccontare racconta le libertà e i diritti a cui donne e uomini afghani non sono disposti a rinunciare in nome di un accordo per il ritiro delle forze straniere. “Come reporter ho avuto accesso alle zone più remote del Paese, compreso l’Helmand sotto il controllo dei fondamentalisti”, spiega al Corriere in vista del suo arrivo in Italia (Forotani sarà a Ferrara al Festival di Internazionale, venerdì 4 ottobre alle 18.30). Durante i suoi viaggi Forotan ha incontrato decine di donne che le hanno raccontato la loro sfida quotidiana di sopravvivenza. “Nella provincia di Feourzah, ad esempio, ho avuto modo di conoscere una poliziotta locale che aveva perso negli attacchi 35 membri della sua famiglia. Nonostante tutto quella donna aveva deciso di continuare a lottare e di lavorare per la sicurezza del suo villaggio”. In questi mesi molto si è dibattuto a proposito del rischio che un accordo con i talebani potesse far tornare indietro il Paese di 18 anni. Negli ultimi anni le donne afghane hanno compiuto notevoli progressi verso l’uguaglianza. Nel 2001 solo in 900 mila andavano scuola, quasi nessuno di sesso femminile. Oggi, 9 milioni di bambini hanno accesso all’educazione. Di questi 3,5 milioni sono ragazze. Inoltre, 100 mila donne frequentano l’università. Sebbene i talebani abbiano apparentemente allentato le redini sull’educazione femminile, in realtà la loro posizione è ambivalente. Non è un caso che subito dopo la pubblicazione del documento finale di Doha siano emerse delle incongruenze tra la versione in inglese e quelle in dari e pashto, le due lingue maggioritarie in Afghanistan. Dopo la rottura dei negoziati all’inizio di settembre voluta dal presidente statunitense Donald Trump e durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, #MyRedLine ha ottenuto l’appoggio dall’establishment afghano. Tra gli oltre 30 video pubblicati in rete e l’oltre milione e mezzo di visualizzazioni, è arrivato anche l’appoggio del presidente Ashraf Ghani che durante un incontro nella provincia di Faryab ha dichiarato “Le donne sono la mia linea rossa nei colloqui di pace”. D’altro canto per Forotan e per le sue colleghe (“ho sempre saputo che avrei fatto la giornalista e questo nuovo modo di farla mi entusiasma”), ora oltre al diritto all’istruzione, c’è anche un’altra linea rossa da difendere. Ed è quella della libertà di espressione, “un diritto che ci siamo faticosamente guadagnate pagando anche con la nostra stessa vita. E che difenderemo con tutte noi stesse”.