“Discontinuità”, “svolta”. Per il carcere e la giustizia sono solo parole? di Franco Corleone L’Espresso, 2 settembre 2019 Il Presidente Napolitano usò lo strumento costituzionale del messaggio alle Camere nei suoi due mandati solo una volta. Per denunciare lo stato delle carceri e per proporre coraggiose riforme e avanzare anche la proposta di un provvedimento di amnistia. Il Parlamento non corrispose adeguatamente a quell’invito. La strada di una riforma è stata abbandonata e addirittura si è attuata una retromarcia. Il sovraffollamento ha ripreso a mordere e le condizioni di vita si rivelano intollerabili e il rischio che la sola prospettiva sia l’aumento dei suicidi e la violenza si fa drammaticamente concreto. Purtroppo pare che nelle discussioni dei punti del programma del nuovo governo la questione del carcere sia del tutto assente. Il cambiamento della politica delle droghe legata all’ideologia della guerra e al proibizionismo che determina enormi affari delle narcomafie e imponente criminalizzazione di consumatori di sostanze illegali, non sembra all’ordine del giorno. Neppure la crisi della giustizia sembra interessare i redattori del programma. Senza una affermazione dello stato di diritto e dei principi della Costituzione, la democrazia rischia di diventare un simulacro. Un Paese che odia la cultura e disprezza la politica non ha futuro. La polemica sui posti e le poltrone è davvero stucchevole. La verità è che solo uomini e donne dotati/e di intransigenza e di determinazione nelle scelte concrete farebbero la differenza. Persone con storie brevi o lunghe di impegno civile, di passione politica. Chissà che il Presidente Mattarella non pretenda virtù repubblicane. La politica della paura di Davide Steccanella La Repubblica, 2 settembre 2019 A Milano un giardino per Francesco Rucci, vittima del delirio Prima Linea. Alle 7,40 del 18 settembre 1981, mentre si sta recando in auto presso la Casa circondariale di Milano San Vittore, dove prestava servizio in qualità di vicedirettore degli agenti di custodia, il brigadiere Francesco Rucci viene tamponato da un’Affetta blu dalla quale scende un uomo armato che spara. Il sottufficiale cerca di allontanarsi ma viene raggiunto da altri tre che lo uccidono. L’attentato viene rivendicato dai Nuclei Comunisti, un gruppo fondato da ex appartenenti a Prima Linea, con un volantino che dichiara di avere “giustiziato il brigadiere per la sua attività al primo raggio di San Vittore, braccio famigerato per le torture a cui i boia costringono le avanguardie comuniste prigioniere”. I Nuclei Comunisti si erano dedicati, sin dalla loro origine, al “fronte carceri” e pochi mesi dopo, il 3 gennaio 1982, daranno l’assalto al carcere femminile di Rovigo, insieme ai Colp, ulteriore emanazione dell’ormai disciolta Prima Linea, per liberare le detenute Susanna Ronconì, Marina Premoli, Loredana Biancamano e Federica Meroni. Nato a Giovinazzo (Ba) l’8 luglio 1956, Francesco Rucci era entrato nel Corpo degli Agenti di Custodia nel gennaio del 1976, dapprima come servizio di leva e in seguito come servizio permanente. Per circa due anni aveva prestato servizio presso il carcere di Foggia, poi fece domanda per il corso di sottufficiale a Parma e superato l’esame venne trasferito presso il carcere di Marassi di Genova ed in seguito al carcere di San Vittore a Milano, dove fu nominato brigadiere nell’agosto del 1981. Insignito il 12 settembre 2007 della medaglia d’oro al Merito civile alla memoria, oggi il giardino di piazzale Martini 7 si chiama giardino Francesco Rucci. Codice rosso: corsia preferenziale per il contatto con la vittima di violenze domestiche di Tullio Padovani Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2019 Con la legge 19 luglio 2019 n. 69, si ripropone l’ennesimo intervento novellistico sul codice penale e, più marginalmente, su quello di procedura penale. Il fondamento baricentrico è identificato, secondo il titolo della legge, nell’esigenza di rafforzare la “tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. In realtà, le traiettorie lungo le quali si sviluppa la serie delle modifiche normative introdotte sono sostanzialmente due. La prima è costituita - more solito, vien fatto di dire (e di ripetere) - da una raffica di inasprimenti sanzionatori rivolti ad alcune fattispecie incriminatrici: violenza sessuale, atti persecutori, e così via. La seconda è rappresentata da una serie di nuove fattispecie incriminatrici, quali la coazione al matrimonio, la diffusione illecita di immagini sessualmente esplicite e alcune altre. La prima direttrice: una raffica di inasprimenti sanzionatori - Ora, per quanto riguarda la prima traiettoria si deve innanzitutto ribadire (per quel poco che serve) che i giri di vite sanzionatori non incrementano, di per sé, né punto né poco la tutela di alcuna vittima: sono destinati a lasciare le cose esattamente come le hanno trovate. L’omaggio tributato con reiterato rigore alle virtù “salvifiche” della prevenzione generale negativa (e cioè puramente intimidativa) spinta sino al parossismo, è vano e vuoto: esso vale quel che costa a chi si affanna a rinnovarlo, e cioè niente; quando non produce addirittura danno determinando aporie e sperequazioni destinate a rendere ancor meno sensato l’apparecchio della giustizia. In secondo luogo, occorre rilevare che fattispecie normative nelle quali si evidenzi in forma tipica una violenza “domestica” o di “genere” sono piuttosto rare. Al di là del delitto di maltrattamenti e di poche altre ipotesi criminose, la violenza domestica e di genere può esprimersi nelle forme delittuose più diverse, dalle percosse all’omicidio, dal sequestro di persona alla minaccia e così via declinando. La scelta del legislatore si è quindi concentrata su talune fattispecie a contesto, per così dire indifferenziato e privo di determinazioni di genere (come ad esempio, la violenza sessuale), assumendo che esse, in particolare, possano esprimere quel connotato significativo su cui si imposta l’intervento legislativo: violenza sessuale e atti persecutori, ad esempio, assumono per lo più a bersaglio una persona femminile. Quanto abbia giocato, in questa selezione un effettivo riscontro criminologico, e quanto invece abbia pesato il clamore mediatico riservato a certi tipi di reato è impossibile dire. La seconda direttrice: una nuova serie di incriminazioni - Per quanto riguarda la seconda traiettoria d’intervento costituita dalla serie delle nuove incriminazioni, si tratta di fattispecie che, salvo una (quella del nuovo articolo 387-bis del Cp), prescindono dal riferimento tipico a contesti domestici o a qualifiche di genere. Si tratta di fattispecie sotto questo profilo “comuni”, il cui retroterra criminologico può certo essere costituito anche dai rapporti familiari o riferirsi a una persona femminile; ma non necessariamente. Del resto, la formulazione di reati incentrati in via esclusiva sul genere, se non fosse solidamente basata sulla natura delle cose, supererebbe ben difficilmente un vaglio di costituzionalità in termini di rispetto del principio di uguaglianza. In definitiva, violenza domestica e violenza di genere non costituiscono che un’etichetta attraente, ma piuttosto ingannevole. I contenuti valgono per quel che sono, spogli di titoli e qualifiche ben poco rappresentativi. Dieci anni per avere ucciso la moglie. Il Gup: “Non voleva vederla soffrire” di Giulio De Santis Corriere della Sera, 2 settembre 2019 Le motivazioni della sentenza per il delitto dell’Appio. La pensionata tentò di uccidersi con delle forbici. Poi chiese al marito: “Fammi morire, tu sai come si fa”. E lui , esperto di judo, la abbracciò fino a soffocarla. Ha ucciso la moglie perché “non voleva più vederla soffrire”. È questa la convinzione del gup, Luigi Balestrieri, che ha concesso le attenuanti generiche a Valter Pancianeschi, 65 anni, condannato, al termine del rito abbreviato, a una pena lieve, 10 anni di reclusione, con l’accusa di omicidio volontario per aver tolto la vita a Paola Adiutori, di 66. La donna, sposata nel 1991, più volte aveva provato a suicidarsi per via di una malattia, curabile ma dolorosa. Il gup, come riportano le motivazioni della sentenza, avrebbe anche potuto configurare per l’imputato l’omicidio del consenziente che prevede una pena più bassa. Per compiere questo passo, però, sarebbe stata necessaria la presenza di una prova espressa, come per esempio una lettera, dove la donna avesse manifestato la volontà di morire, come osserva il gup. Ma Paola non ha lasciato nulla e “la pietà o la compassione sono incompatibili con la soppressione della vita umana”, conclude il Gup, citando una sentenza della Cassazione. “Ho fatto appello perché il mio assistito ha esaudito un desiderio. La moglie non era assoggetta dalla personalità del marito. Anzi”, dice l’avvocato Domenico Pirozzi, legale dell’imputato. Sono trascorsi undici mesi dalla tragedia, avvenuta nel quartiere Appio. La coppia si è conosciuta nel 1980, ma è senza figli. Lui è un perito informativo, esperto in arti marziali. Lei un’impiegata del ministero delle Finanze in pensione da due anni. È il mattino del 28 settembre del 2018 quando Paola assume dei farmaci. Da tempo soffre di una patologia, il prolasso rettale, che le provoca dolori terribili. Si è operata, ma senza ottenere alcun beneficio, tanto da essere caduta in depressione. Dopo l’assunzione del medicinale avverte delle fitte lancinanti. Allora afferra delle forbici e minaccia di uccidersi davanti al marito. Non è la prima volta che manifesta la voglia di farla finita. Già in precedenza Paola ha tentato di buttarsi dal balcone. E in diverse occasioni ha confessato alla sorella di voler porre fine al suo calvario. Quel giorno, però, succede qualcosa di più drammatico. Secondo il racconto dell’uomo, ritenuto attendibile dal giudice, lei lo implora, chiedendogli di toglierle la vita: “Fammi morire, fammi smettere di soffrire, tu sai come si fa”. Infatti, lui è un esperto di judo. Pancianeschi cede. “Mi si è spenta la luce”, confesserà dopo. Lei si stende sul letto, e lui la abbraccia, ma così forte da ucciderla. Tutto avviene in pochi secondi. Nelle motivazioni della sentenza, il Gup osserva come la richiesta della donna potrebbe essere stata “compromessa dallo stato di prostrazione” che ne potrebbe aver minato la lucidità. Comunque il Gup, nel motivare le concessioni delle attenuanti generiche, sottolinea che Pancianeschi ha sempre mostrato dedizione nei confronti della coniuge. Misure di prevenzione, la guida del ciclomotore senza patente rientra nella depenalizzazione Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 29 agosto 2019 n. 36648. Nessun reato per la guida del ciclomotore senza patente anche per chi è sottoposto ad una misura di prevenzione. La depenalizzazione infatti copre anche questa condotta dal momento che i ciclomotori fino a 50 c.c. non rientrano nella categoria dei “motoveicoli” per i quali la norma prevede la fattispecie di reato. Né la previsione (dal 2013) dell’obbligo della patente anche questo tipo di mezzi giustifica un’estensione del reato che sarebbe in malam partem. Lo ha stabilito la Prima Sezione della Corte di Cassazione, sentenza n. 36648, consolidando tale approdo attraverso l’espressa citazione di due pronunce del 2018 dello stesso tenore. Dunque, si legge nella decisione, “non integra gli estremi del reato di cui all’art. 73 Dlgs n. 159 del 2011 la condotta del soggetto sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che conduca senza patente - o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata - un ciclomotore non potendo tale mezzo essere ricondotto alla categoria dei motoveicoli contemplata dalla suddetta norma”. A chiarirlo, prosegue il ragionamento, è “l’analisi letterale e l’inquadramento sistematico della norma”. La disposizione incriminatrice contestata sanziona infatti con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la condotta della persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che sia sorpresa alla guida di “un autoveicolo o motoveicolo “, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata. La nozione di “motoveicolo” riportata dall’art. 73, dunque, “non è tale che possa farsi rientrare in essa anche quella di “ciclomotore”, non autorizzando a tanto le norme definitorie di tali categorie estraibili dai Codice della strada”. Anche se l’attuale disciplina (in vigore da 19 gennaio 2013 per effetto del Dlgs n. 59 del 2011, all’art. 116, comma 1) stabilisce, mutando parzialmente la prospettiva rispetto alla situazione precedente, che non si possono guidare ciclomotori, motocicli, tricicli, quadricicli e autoveicoli senza aver conseguito la patente di guida - in tal modo riconducendo ad unità il “complesso veicolare” -, “in pari tempo, però, il legislatore ha conservato le distinzioni derivanti dalle differenti caratteristiche tecniche dei veicoli stessi e dall’età dei conducenti”. Né del resto “il mero fatto dell’intervenuta previsione del conseguimento di una patente di guida anche per i conducenti di ciclomotori”, legittima di per sé sola “un’interpretazione in virtù della quale il soggetto che, sottoposto a misura di prevenzione in via definitiva, sia stato colto alla guida di un ciclomotore senza patente, possa essere chiamato a rispondere del reato previsto dall’art. 73 Dlgs n. 159 del 2011”. È infatti “ineludibile osservare che, ove il Dlgs n. 159 del 2011 avesse avuto l’obiettivo di rimodellare la fattispecie di cui all’art. 73 cit. recependo e coordinando la novità normativa introdotta nel Codice delta Strada al fine di estendere la punibilità della condotta sanzionata dall’art. 72 a conducenti di ciclomotori, lo avrebbe fatto modificando i dati strutturali della fattispecie incriminatrice, essendo già nota la novità normativa riguardante la necessità di abilitazione (anche) per la guida dei ciclomotori. Ma ciò non è avvenuto”. L’esito di questo ragionamento, argomenta la Corte, è che “tutti gli indici interpretativi rilevanti per chiarire l’ambito di applicazione de ‘art. 73 Dlgs n. 159 del 2011 inducono a concludere che, in mancanza di un intervento normativo, rimangono immutate le distinzioni riguardanti le categorie dei motoveicoli e dei ciclomotori, con l’effetto che la platea dei destinatari della norma incriminatrice in esame non può ritenersi suscettibile di ampliamento sulla scorta di un’esegesi sistematica spinta al punto tale da inserire nella sua sfera di disciplina anche i conducenti dei ciclomotori per il solo fatto che pure per loro è ora necessario il conseguimento del titolo per l’abilitazione alla guida, ove poi il titolo manchi o sia revocato per l’effetto della misura di prevenzione”. “Va, dunque, ritenuto - conclude la decisione - che estendere l’applicazione dell’art. 73 anche ai prevenuti che siano stati sorpresi alla guida di ciclomotori senza patente di guida sarebbe approdo contrario all’insuperabile divieto di analogia in malam partem in materia penale”. L’illegalità della pena applicata all’esito del patteggiamento. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2019 Processo penale - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Pena illegale - Ipotesi di ricorso per cassazione - Configurabilità - Errori di calcolo - Esclusione. In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, non ricorre una delle ipotesi di pena illegale individuate dalla giurisprudenza di legittimità, alla configurazione delle quali non concorrono gli eventuali errori di calcolo compiuti dal giudice per la determinazione della pena finale, quando quest’ultima non risulti inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 del c.p., né la pena considerata quale base di computo sia inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato contestato. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 1° agosto 2019 n. 35200. Procedimenti speciali - Patteggiamento - In genere - Reato continuato - Errata individuazione del reato più grave - Pena illegale - Ricorso per cassazione - Legittimità. In tema di patteggiamento, deve essere annullata senza rinvio ex art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., in quanto dà luogo all’applicazione di una pena illegale, la sentenza che recepisce un accordo tra le parti relativamente ad un reato continuato per il quale la pena base risulti quantificata, a seguito di una errata individuazione del reato più grave, in misura inferiore al minimo edittale di altro reato considerato satellite. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 ottobre 2018 n. 49546. Procedimenti speciali - Patteggiamento - In genere - Pena - Aumento applicato per la recidiva - Legalità - Verifica - Rilevanza del calcolo finale e non dei passaggi intermedi. In tema di patteggiamento, ai fini della valutazione della legalità della pena e del rispetto della disposizione di cui all’art. 99, ultimo comma, cod. pen., si deve aver riguardo all’aumento di pena nell’entità concordata all’esito della riduzione per il rito e non a quello risultante dai passaggi intermedi precedenti. (Nella specie, la Corte ha ritenuto congrua e legittima la pena finale in un caso in cui l’aumento applicato per la ritenuta recidiva era stato disposto in misura superiore al cumulo delle pene risultanti dalle condanne precedenti). • Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 5 dicembre 2016 n. 51736. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Sentenza - In genere - Errori di calcolo nella determinazione della pena concordata - Rilevanza - Esclusione - Condizioni. In tema di patteggiamento, gli eventuali errori di calcolo commessi nei singoli passaggi interni per la determinazione della sanzione concordata non rilevano se il risultato finale non si traduce in una pena illegale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 7 novembre 2013 n. 44907. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Sentenza - In genere - Valutazione della congruità della pena finale - Rilevanza dei singoli passaggi interni - Esclusione. La valutazione di congruità della pena oggetto dell’accordo tra le parti deve aver riguardo alla pena indicata nel risultato finale indipendentemente dai singoli passaggi interni, in quanto è unicamente il risultato finale che assume valenza quale espressione ultima e definitiva dell’incontro delle volontà delle parti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 14 luglio 2009 n. 28641. Napoli. Tutti i problemi del carcere di Poggioreale di Carlo Terzano lettera43.it, 2 settembre 2019 Sovraffollamento. Strutture degradate. Commistione tra condannati e detenuti in attesa di giudizio. Le condizioni nella Casa circondariale napoletana, tornata sotto i riflettori per la prima evasione in 100 anni. Una evasione vecchio stampo, avvenuta calandosi lungo il muro di cinta con alcuni lenzuoli annodati, da un carcere che da più parti, tanto dalle associazioni per i diritti dei detenuti quanto dai sindacati del personale penitenziario, viene definito “vetusto, inadeguato e fatiscente”. È durata 48 ore la fuga di Robert Lisowski, cittadino polacco 32enne, in attesa di giudizio per omicidio. Ma ora che il fuggiasco è nuovamente in cella non si placano le polemiche sulla casa circondariale di Poggioreale. Chi conosce bene quella struttura la giudica inadeguata a tal punto da giustificare i detenuti che tentano di scappare. “È scappato un detenuto da Poggioreale, embè?”, si è chiesto retoricamente dal proprio profilo social don Franco Esposito, cappellano della casa circondariale. Il prelato non parteggia per i presunti omicidi in fuga, ma sottolinea quanto sia “innaturale tenere rinchiuse le persone in una situazione disumana e degradante”. “Carceri come quello”, scrive don Franco, “non hanno certamente i requisiti per essere rieducativi e non servono certo al reinserimento della persona detenuta nel tessuto sociale. Allora mi domando: qual è il loro compito?” Ancora più duro il “Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP.”, che in una nota diffusa dopo l’evasione - la prima negli ultimi 100 anni - ha scritto: “l’istituto andrebbe definitivamente abbattuto e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria rimosso dall’incarico”. “Uno Stato che possa definirsi tale”, si legge, “non può e non deve accettare di non avere il controllo delle sue strutture”. “Poggioreale”, ha quindi concluso il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo, “è un carcere dove lo Stato ha fallito ed è per questo che torniamo fortemente a chiedere che venga chiuso e abbattuto quanto prima”. Insomma, per una volta sia chi è dalla parte dei detenuti, sia chi cura gli interessi degli agenti di polizia penitenziaria - che vivono in prima persona i medesimi disagi dei reclusi - concordano nel mettere alla sbarra non l’evaso ma l’intera struttura detentiva. Alla luce della recente evasione del 25 agosto appare persino profetica la relazione del Garante dei detenuti diffusa soltanto pochi giorni prima, il 19 dello stesso mese. “Con i suoi oltre 2.000 detenuti”, scriveva il Garante, “la Casa circondariale di Poggioreale è l’Istituto con il maggior numero di persone ristrette in Italia: ai primi di maggio, durante la visita del Garante, erano 2.373, su 1.633 posti previsti e una capienza reale di 1.515. Oggi i detenuti sono 2.085 su 1.423 posti disponibili”. Poggioreale ospita non solo detenuti in attesa di giudizio o condannati a pene inferiori ai cinque anni, come la natura della struttura (casa circondariale) imporrebbe, ma anche giudicati in via definitiva e per reati gravi, con la conseguenza di pericolose commistioni tra condannati e persone che la legge ritiene ancora innocenti. “Il Garante”, ha segnalato, “ha più volte avuto sentore di pressioni che soggetti in esecuzione di pena esercitano sui più deboli. La presenza nello stesso Istituto di appartenenti a criminalità di maggiore spessore riferibile agli stessi territori espone non soltanto le persone più deboli al rischio di reiterazione di reati, ma anche a forme di soggezione durante la detenzione. Il rischio di acquiescenza di taluni operatori deve essere costantemente monitorato, con un’attenzione ben superiore a quella riscontrata”. Anche l’organismo statale indipendente ha posto l’accento sulla vetustà della struttura: “Le condizioni materiali dell’Istituto risentono degli anni e della visione custodiale degli inizi del secolo scorso, quando è stato costruito, rendendolo poco compatibile con le esigenze trattamentali”. “Mancano”, annotava il Garante, “gli spazi comuni per le attività lavorative, culturali o ricreative, le sale per la socialità di reparto. Tutto ciò nonostante la realizzazione di alcuni lavori di ristrutturazione e la programmazione di altri”. “Particolarmente degradate”, si sottolineava, “alcune sezioni, come quella per persone malate o disabili, con letti a castello anche a tre piani”. E ancora: “Mancano i cancelli all’ingresso delle stanze, munite soltanto di blindi che, pertanto, nelle ore di chiusura, rendono gli ambienti interni bui e opprimenti. Le pareti delle stanze presentano importanti infiltrazioni di umidità e spesso sono coperte di muffa”. A tal punto che per il Garante “le condizioni di alcuni reparti possono essere facilmente considerate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentale e dei diritti umani che inderogabilmente vieta “trattamenti o pene inumane o degradanti”“. Per fare un esempio, “una stanza visitata dalla delegazione aveva 14 letti (quattro a tre piani e due a due piani) e 13 persone; era munita di una sola finestra e arredata con un numero di tavoli insufficiente per mangiare tutti contemporaneamente; l’unico bagno era, analogamente agli altri del reparto, in condizioni igieniche deplorevoli”. “Nella cella n. 4 bis”, viene riportato nella relazione estesa, “la muffa ha ormai invaso la stanza stessa, producendo il distacco dell’intonaco a stento trattenuto da giornali incollati alla parete posti dalle persone ristrette per evitare il pulviscolo di intonaco e la caduta di calcinacci dal soffitto”. Nella relazione si avanzavano inoltre dubbi sull’operato dell’amministrazione: “il Garante nazionale ha riscontrato alcuni episodi che sono stati oggetto di approfondimento. In particolare, il caso di una persona che, a seguito di crisi di natura psichica, è stata sottoposta a sorveglianza a vista e trasferita il giorno della visita del Garante in un altro Istituto per generici motivi “disciplinari”, senza consentire al Garante stesso di incontrarla. Per tale motivo, una parte della delegazione si è recata all’istituto dove tale persona si trovava e ha constatato direttamente i visibili segni di lesioni che aveva su varie parti del corpo”. Non meno preoccupante la relazione dell’Associazione Antigone che ha realizzato anche un video della propria ispezione. Qui viene sottolineata la differenza tra le celle oggetto di recenti rifacimenti e quelle ancora da ristrutturare: “Laddove manca ancora una ristrutturazione, le stanze versano in pessime e pericolose condizioni (dall’umidità delle pareti all’unico spazio riservato sia ai servizi igienici che alla cucina). Le sezioni non ristrutturate riflettono non solo una scarsa pulizia generale, ma anche una difficoltà pratica nell’offrire attività trattamentali idonee (in quasi tutte le sezioni mancano gli spazi per la socialità)”. E proprio le condizioni di alcuni padiglioni sarebbero alla base di una rivolta avvenuta il 16 giugno scorso: “La causa scatenante sembrerebbe essere stata il mancato ricovero di una persona detenuta malata, che ha acuito il malcontento generale relativo alla fatiscenza del padiglione, esasperato dal caldo estivo. In seguito, sembrerebbero essersi sbloccati i lavori che erano in programma da anni”. Ma la situazione di Poggioreale non costituisce un unicum, bensì è sistemica. Il nostro Paese è stato condannato più volte dalla Corte europea dei diritti umani. In diverse occasione i magistrati di Strasburgo hanno ricordato al governo italiano che non è possibile infliggere ai detenuti, oltre alle condanne stabilite dai giudici, anche pene accessorie come il mancato rispetto della dignità umana e trattamenti degradanti. È ormai provato, inoltre, che condizioni migliori riducano il rischio di reiterazione di condotte criminali e consentano di realizzare la finalità rieducativa del carcere prevista dalla nostra Costituzione. Bologna. “Troppi detenuti e poco personale, alla Dozza agenti-tuttofare” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 settembre 2019 L’allarme del Garante rilanciato dal sindacato Sinappe: “Ormai facciamo anche gli psicologi”. “Per fare il nostro lavoro ormai devi essere anche psicologo, avvocato e consulente. Non è giusto sia così, ma abbiamo dovuto imparare nostro malgrado”. Nicola d’Amore, del sindacato “Sinappe”, riassume così la giornata dell’agente di polizia penitenziaria alla Dozza. Spiegando come “in una situazione complessa come quella della realtà carceraria”, tra “sovraffollamento e carenze di personale”, gli agenti sono “chiamati a un lavoro da supplente, per il quale però non sono adeguatamente preparati”. Il tema è quello delle condizioni di vita dei reclusi. Il sovraffollamento della Dozza (oltre 850 detenuti invece che 500), appunto. Ma soprattutto la carenza di educatori che, come ha denunciato su Repubblica il Garante per i diritti dei detenuti Antonio Iannello, è diventata drammatica. “I numeri dicono che ce ne vorrebbero almeno il doppio - spiega ora il sindacalista: i pochi attualmente in servizio non riescono a svolgere il ruolo al quale sono chiamati. A volte passano mesi senza che il detenuto riesca ad avere un incontro con il proprio professionista di riferimento. Così i bisogni non trovano risposte e le tensioni salgono trasformandosi in litigi, risse e aggressioni”. Poi aggiunge: “Da agenti, inevitabilmente, siamo il primo punto di contatto tra i detenuti e l’amministrazione, ed è su di noi che vengono scaricati rabbia e delusione”. Da qui la necessità di far fronte alle carenze di educatori: “Gli agenti fanno di tutto per dare risposte diventando consulenti, avvocati, persino psicologi. Seguono le pratiche dei reclusi, sollecitano le risposte, aiutano gli stranieri a scrivere le lettere. È un lavoro che per quanto possibile facciamo volentieri, ma in tanti casi il nostro personale non è specificatamente formato”. Per Nicola d’Amore “serve una maggiore attenzione da parte delle istituzioni”, perché “se è vero che chi sta alla Dozza ha sbagliato, è altrettanto vero che c’è una dignità delle persone che non può essere ignorata”. Roma. Carcere di Regina Coeli, detenuto dà fuoco a cella corriere.it, 2 settembre 2019 Tra gli sfollati anche americano coinvolto nell’omicidio Cerciello Rega. È accaduto nel primo pomeriggio di domenica: evacuato il centro clinico del carcere. “Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari” denuncia il sindacato Sappe. Giornata da incubo per il Reparto di Polizia Penitenziaria del carcere di Regina Coeli a Roma, dove solamente la professionalità dei poliziotti penitenziari e il fato hanno evitato una tragedia tra le sbarre. “Nel primo pomeriggio di domenica, un detenuto di nazionalità rumena ha dato fuoco al materasso e a tutto quello che c’era nella sua cella del Centro Clinico del carcere. Un fatto grave, che avrebbe potuto avere peggiori conseguenze se non fosse intervenuto per tempo il personale di polizia penitenziaria. Si è reso necessario sfollare il Reparto detentivo, tra i quali detenuti ristretti vi è anche uno degli americani coinvolto nell’uccisione del vicebrigadiere dei carabinieri Cerciello Rega”. Lo afferma Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Tensioni e criticità - “Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari - aggiunge - Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di Regina Coeli a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza”. Somma esprime ai poliziotti di Regina Coeli a Roma “la solidarietà e la vicinanza del Sappe e evidenzia come l’incendio sventato nel carcere è “sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la polizia penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici”. Ferrara. Denuncia dei Radicali: “carcere sovraffollato e celle troppo strette” La Nuova Ferrara, 2 settembre 2019 Nelle carceri della Emilia-Romagna per verificare le condizioni di vita dei detenuti, incontrare, i “definitivi”, “ad alta sicurezza”, “collaboratori di giustizia” e “a fine pena”. Ieri i radicali ferraresi guidati da Monica Mischiatti hanno trascorso 3 ore in visita al carcere dell’Arginone. E alla fine il verdetto: “Situazione complicata e condizioni inaccettabili di sovraffollamento. In un carcere che dovrebbe contenere 254 detenuti, ve ne sono 350. Inevitabile - spiega la Mischiatti - che celle concepite per una sola persona ne ospitino 2, con i facilmente immaginabili disagi e con violazioni costanti delle più elementari regole che dovrebbero garantire perlomeno un minimo d’intimità personale”. Accompagnati dalla comandante della Polizia Penitenziaria, Annalisa Gadaleta, i radicali hanno registrato anche aspetti positivi dell’Arginone: un laboratorio di artigianato, una buona infermeria, cucine e bagni puliti. E da quasi un anno è attivo il progetto Galeorto in cui i detenuti coltivano la terra e producono ortaggi. Pescara. Uil-Pa: pesante la situazione all’interno del carcere San Donato corrierepeligno.it, 2 settembre 2019 Definire allarmante la situazione nella quale si vive all’interno del carcere di San Donato è dir poco. Per la drammatica situazione venutasi a creare, secondo Giuseppe Ferretti della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Pescara, non è un azzardo affermare che si è già andati oltre il punto di non ritorno. “Turni massacranti e personale allo stremo - spiega la Uil - fanno da contraltare ad un numero di detenuti mai raggiunto nel carcere pescarese e che fanno dello stesso una polveriera pronta a deflagrare. Molti sono i detenuti con notevoli problemi psichiatrici. Tanti altri con problemi esistenziali. Davvero troppi per non aspettarsi da un momento all’altro, se non si prenderanno urgenti provvedimenti, il verificarsi di casi di particolare gravità. Gli eventi critici che accadono all’interno dello storico penitenziario pescarese sono tra l’altro pressoché quotidiani e pochissimi sono gli agenti pronti a contrastarli. Addirittura due soli agenti a volte vengono utilizzati per tradurre un detenuto presso il nosocomio cittadino ed è proprio presso quest’ultimo che la scorsa settimana si stava consumando una tragedia. Un detenuto dal sesto piano dell’ospedale, infatti, aveva minacciato di buttarsi giù e solo attraverso l’elevata professionalità dei pochi agenti presenti si è evitato che venisse scritta una bruttissima pagina di storia. La Direzione, portata anch’essa allo stremo, non riesce, suo malgrado, neanche più a rispondere alle nostre legittime richieste di ferie. Inoltre solo dopo 10 giorni è capace, ma non certo per colpa sua, di assicurare il riposo settimanale. Non si può più aspettare. Molti sono i poliziotti distaccati altrove e sempre meno quelli che vivono in sede la loro professione per il notevole numero di pensionamenti sopraggiunti non seguiti da una loro compensazione. Bisogna correre urgentemente ai ripari prima che la falla che si è creata affondi una nave oramai ridotta a un relitto. Tuttavia per la condizione nella quale si é venuto a ritrovare un carcere che neanche tanto tempo fa rappresentava un esempio da seguire - conclude Ferretti - temiamo che solo un miracolo possa restituire quel minimo di serenità che serve a far sì che un lavoro deputato alla salvaguardia dell’art. 27 della Costituzione non diventi una fucina di forti stress post traumatici. Siamo pronti a lavorare insieme al direttore per invertire la rotta ma bisognerà farlo subito”. Torino. Sassi sulla polizia al Cpr, un agente ferito: “è una polveriera” di Irene Famà La Stampa, 2 settembre 2019 Discutere di accoglienza tra le mura del Cpr non è semplice. Lì, al Centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi, la maggior parte degli ospiti ha pagine e pagine di precedenti penali. E le rivolte sono all’ordine del giorno. L’ultima è scoppiata nel pomeriggio di domenica, 1 settembre. Intorno alle 16, un gruppo di persone ha dato origine a una sassaiola contro le forze dell’ordine. Un agente è rimasto ferito: ha riportato la frattura di due falangi con una prognosi di trenta giorni. “Per un po’ non voglio sentire parlare di comprensione e integrazione” si sfoga su Facebook dopo quella che definisce una azione di guerriglia. “Con cinque carabinieri - racconta - mi sono trovato a fronteggiare 158 persone, sotto un lancio di sassi pericolosissimo durato un tempo interminabile”. L’arrivo di tre squadre del Reparto mobile ha riportato la calma. Ma lui, il poliziotto ferito, è esausto. “I signori della politica fanno il gioco delle poltrone - scrive sui social - Ma, in questi centri, ad ogni turno si sfiora la tragedia e prima o poi qualcuno si farà male sul serio. Sono polveriere sempre pronte ad esplodere”. In tre, due marocchini e un tunisino sono finiti in manette per danneggiamento, resistenza e lesioni. L’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, coglie l’occasione per dirsi “Orgoglioso di aver inasprito le pene per chi attacca le divise”. C’è la querelle politica. E ci sono le continue rivolte che, come sottolinea Pietro Di Lorenzo, segretario generale provinciale del sindacato Siap: “non possono essere gestite con pochi agenti”. La carenza di personale è un tema che ha sollevato più volte. “Così è impensabile fronteggiare le esigenze del Centro”. L’episodio di domenica è stato l’ultimo della settimana. Al Cpr di Torino, l’unico attivo nel Nord Italia, sono arrivate persone nuove da altre province. E gli equilibri, già precari, sono saltati. La prima rivolta è scoppiata nella notte tra giovedì 29 e venerdì 30 agosto, quando un gruppo di ospiti ha dato fuoco ai materassi e ha divelto alcuni arredi per lanciarli contro i poliziotti. Qualcuno si è arrampicato sulle recinzioni per fuggire. I disordini si sono ripetuti la notte tra venerdì e sabato. Terni. Arriva “Fresche Frasche” con i detenuti del carcere di Sabbione di Claudia Sensi terninrete.it, 2 settembre 2019 Creare un orto sinergico con la collaborazione di detenuti della Casa Circondariale di Terni e di volontari. Questo l’obiettivo di “Fresche Frasche”, l’iniziativa di agricoltura sociale promossa dall’Associazione Demetra, che prevede un laboratorio di Land Art tenuto da Marco Barbieri (in arte Dem) e parte dei laboratori gratuiti promossi nell’ambito di Orto21. Da lunedì 2 a domenica 8 settembre al Centro di Palmetta Barbieri terrà un workshop utilizzando gli sfalci vegetali: sarà possibile imparare a preparare e realizzare strutture stabili e durature di medie/grandi dimensioni, ma anche come progettarle attraverso una serie di schizzi preparatori. Il progetto “Orto21” propone attività formative e pratiche di giardinaggio, orticoltura, frutticoltura e piccola manutenzione dello stabile del Centro di Palmetta - si legge in una nota - al fine di promuovere la formazione e l’integrazione sociale di detenuti del Carcere di Terni, l’educazione e la formazione di adulti e bambini, il rispetto per l’ambiente, la creazione e il consolidamento di legami sociali. Ampio spazio anche alla formazione con dei percorsi aperti a tutti i cittadini, tra cui un corso di potatura di ulivi e alberi da frutto nonché uno sul giardinaggio. Incontri informativi rivolti alle aziende agricole del territorio, di sensibilizzazione e promozione riguardo alle misure alternative alla detenzione e a progetti sperimentali sull’economia carceraria. Migranti. Il “nuovo umanesimo” di Conte alla prova di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 2 settembre 2019 Presentando le linee politiche cui si atterrà nel suo tentativo di formare il nuovo governo, il presidente Conte ha pronunciato due parole importanti e impegnative: nuovo governo e nuovo umanesimo. Parole da prendere sul serio da parte di chi le ha ascoltate e, prima ancora, da parte di chi le ha dette. Nuovo governo vuol naturalmente dire che esso sarà diverso da quello precedente. Nuovo umanesimo richiama indicazioni di origine cattolica, che caratterizzano l’attuale papato e l’azione sia della Chiesa cattolica italiana, che della Chiesa valdese. Ne è fondamento la prassi caritativa, ma comprende anche il laico rispetto della dignità di ogni essere umano. Una dignità che riguarda chi ne chiede rispetto per sé e, nella stessa misura, chi è chiamato a riconoscerla e proteggerla negli altri. La politica governativa nei confronti del fenomeno migratorio è terreno su cui l’annunciata novità e il nuovo umanesimo troveranno realizzazione o smentita. I tratti velleitari e crudeli dell’azione del precedente governo Conte sono sotto gli occhi di tutti. È di questi giorni l’ennesima vergogna nazionale di quella nave impedita di attraccare e sbarcare il suo carico umano. Le immagini televisive che abbiamo visto impediscono di far finta di niente. Eppure da parte del maggior partito della nuova maggioranza parlamentare, i 5 Stelle, non è venuto alcun segno di resipiscenza rispetto all’appoggio che essi hanno dato alla linea imposta dal ministro dell’Interno Salvini. Di Maio ha anzi tenuto a rivendicare “tutto” quanto fatto dal governo ora dimissionario. La questione migratoria, depurata dalla sua attitudine a scatenare la propaganda elettorale, presenta livelli e difficoltà di natura diversa, a seconda che se ne veda la dimensione globale o che si debbano affrontare i casi concreti di persone che abbandonano i loro paesi per cercare rifugio o vita migliore in un altro. Gli Stati hanno il diritto - e persino il dovere - di elaborare una politica generale, che non può essere di apertura senza regole e limiti ai milioni di potenziali immigranti. Le persone che si affacciano sul Mediterraneo, dopo tragici viaggi, sono solo la punta emergente e non necessariamente la più debole e sofferente nei paesi di origine. È giusto che l’Italia affronti il problema nel quadro europeo. Quella è la sede degli accordi con i Paesi di partenza e transito dei migranti, della attivazione di corridoi umanitari e di vie legali di immigrazione. Ma intanto nel mare davanti alle nostre coste vi sono navi che hanno raccolto persone in pericolo. Non importa che esse abbiano accettato il rischio di simili traversate. Non importa che non abbiano titolo per entrare e restare nel territorio nazionale. La concreta situazione in cui si trovano fonda il dovere di dar loro soccorso. Un dovere che ha base nelle leggi e nelle convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato. Ma prima di tutto ha base nei principi di umanità, cui non può rinunciare il “nuovo umanesimo” del presidente Conte. Il governo precedente ha adottato prassi disumane nei confronti di singoli migranti giunti in prossimità o nelle acque territoriali, credendo che l’esempio terribile loro riservato serva ad ammonire gli altri che attendono e sperano. E serva pure a impedire l’attività delle navi delle organizzazioni non governative e - aspetto di cui non si parla - a disincentivare tutti i mercantili che attraversano il Mediterraneo e che non vogliono certo affrontare le difficoltà di sbarcare le persone, che pur sarebbero tenuti a recuperare dal mare. Il governo ha usato quelle persone come strumento della sua politica generale. È pensabile che Pd e almeno parte dell’elettorato 5 Stelle possano tollerare una simile vergogna, pur di dar corpo alla nuova, improvvisa collaborazione di governo? Poiché il presidente Mattarella ha segnalato nel recente “decreto sicurezza” criticità, minimali e di stretta logica giuridica, si affaccia ora l’idea che, per dar segno di novità, si dia seguito a quei rilievi. Limitandosi però a questo. Sarebbe non serio e non adeguato al problema di dignità nazionale che la politica del precedente governo ha creato. Migranti. Mare Jonio, pressing per lo sbarco ma Palazzo Chigi stavolta tace di Alessandra Ziniti La Repubblica, 2 settembre 2019 Nulla si muove per far scendere i 31 migrasti rimasti a bordo della Mare Jonio. Neanche Palazzo Chigi. Nonostante gli appelli, le sollecitazioni sempre più irritate di quelli che dovrebbero essere i nuovi alleati di governo, il premier Giuseppe Conte non ha preso neanche quell’iniziativa che è nelle sue prerogative e che più volte si è intestato nei mesi scorsi: chiedere alla Commissione europea di cercare la disponibilità di altri Stati ad accogliere le persone soccorse dalla Ong che, in condizioni sempre più precarie, è da quattro giorni ferma al limite delle acque italiane. L’unica mossa che, fermo restando il divieto di ingresso firmato da Salvini ma anche dai ministri del M5S Toninelli e Trenta, potrebbe creare le condizioni per consentire l’approdo della nave a Lampedusa. Un silenzio ben lontano da quella “discontinuità” che il Pd chiede a gran voce. “La vicenda Mare Jonio conferma che in Italia sull’immigrazione bisogna cambiare tutto, coinvolgere con autorevolezza l’Europa, unire sicurezza, legalità e umanità è possibile. Il governo non faccia finta di niente, stiamo parlando di esseri umani”, dice Nicola Zingaretti facendo sua la richiesta rivolta ai vertici del partito da Mauro Orfini, alla testa dell’ala del Pd che vorrebbe fare dell’ingresso in porto della Mare Jonio una precondizione dell’andata in porto del nuovo governo. L’atteggiamento di Trenta e Toninelli (con qualche distinguo in più da parte della ministra della Difesa) è immutato: continuano a controfirmare i divieti di Salvini e ieri hanno bloccato pure la Alan Kurdi, con 13 persone soccorse tra cui molti minori. E per questo è a Conte che si chiede di dare prova di “discontinuità”. Lo fa Nicola Fratoianni di Leu: “Per il presidente del Consiglio chi sbarca in Italia, sbarca in Europa. Giusto. E allora cosa aspetta a far finire lo spettacolo indecoroso di decine di esseri umani bloccati da giorni sulla Mare Jonio?”. Lo fa Emma Bonino: “Malgrado le promesse di discontinuità, la condotta del presidente del consiglio continua ad essere uguale a quella di Salvini. Siamo alla violazione dei diritti umani come presupposto dell’attività di governo”. Nel vuoto cade anche l’ultimo disperato appello che parte da bordo della Mare Jonio dopo l’evacuazione d’urgenza ieri pomeriggio di una donna e due ragazzi. “Devono scendere tutti in barella? A che punto volete arrivare?”. Né, almeno per il momento, è ipotizzabile - come è accaduto la scorsa settimana per la Open Arms - un intervento della Procura di Agrigento che sul caso della Mare Jonio non ha neanche aperto un’inchiesta se non il fascicolo di prassi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina incardinato dopo lo sbarco dei primi migranti a Lampedusa. Fino a quando la nave sarà in acque internazionali, i pm non possono intervenire. Alle Procure di Roma ed Agrigento è arrivata per conoscenza una singolare mail della Guardia costiera con 39 nomi e indirizzi di posta elettronica: tutta la filiera di comando della pubblica amministrazione, dall’ultimo funzionario ai capi di gabinetto dei ministeri interessati, che ha un ruolo nel tenere ancora fuori dai porti italiani la Mare Jonio. La mail inviata per comunicare il nuovo no all’approdo deciso dalle “autorità nazionali” suona come un modo per allontanare responsabilità in una eventuale futura inchiesta per omissione di atti d’ufficio che potrebbe essere aperta quando la magistratura riceverà l’annunciato esposto di Mediterranea Saving Humans. Stati Uniti. Viaggio nelle prigioni del Paese dell’incarcerazione di massa di Luca Peretti glistatigenerali.com, 2 settembre 2019 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La frase, attribuita a Voltaire, è molto conosciuta. Non può che partire dal carcere la serie di articoli su tematiche americane che verranno pubblicati mensilmente su Gli Stati Generali. Non soltanto dalla situazione carceraria si può provare a misurare il grado di civiltà di una nazione, ma anche le sue condizioni socio-economiche e quelle che riguardano tensioni e problemi razziali. È insomma una cartina di tornasole per capire come la politica affronta (o non affronta) questioni fondamentali in una democrazia quali la repressione, il rispetto dei diritti dei più deboli, e qual è la temperatura del suo stato di diritto. Del tema, nonostante sia o dovrebbe essere fondamentale del dibattito pubblico, si parla però relativamente poco, e non rientra di certo tra i più dibattuti in vista delle primarie dei democratici e più in generale delle elezioni del prossimo anno. Qualcosa, tuttavia, pare essersi mosso di recente con il First Step Act, approvato e supportato dallo stesso presidente Trump e che ha ricevuto sostegno bipartisan. Si tratta di una riforma che, tra le altre cose, riduce le pene più severe, facilita la scarcerazione di malati terminali e aiuta il reinserimento dei detenuti nella società. Si applica tuttavia solo a livello federale, quindi solo per una minoranza dei detenuti, ma potrebbe funzionare da traino per altre riforme. Per attivisti e analisti americani è una tappa, ma c’è ancora molto da fare per migliorare la situazione delle carceri americane. Uno sguardo da dentro - L’Eastern State Penitentiary è stato un grande penitenziario poco lontano dal centro di Filadelfia. Attivo dal 1829 al 1971, negli anni Ottanta stava per essere riconvertito, o addirittura demolito, come spesso capita ad edifici storici negli Stati Uniti. Come meno spesso capita però una battaglia partita dal basso e guidata da comitati civici ha convinto le autorità a restaurarlo e autorizzare visite guidate. Adesso l’ex penitenziario è un vero e proprio museo. Avere accesso ad un luogo da cui solitamente è più facile entrare che uscire è un’esperienza alquanto sconcertante e rara - in Italia si può visitare il suggestivo carcere sull’Isola di Santo Stefano, vicino Ventotene, dove tra gli altri furono rinchiusi Sandro Pertini e il regicida Gaetano Bresci. Questo ex penitenziario è particolarmente importante perché qui e nella vicina e precedente Walnut Street Prison si è sviluppato un modello di carcerazione basato sulla detenzione solitaria, in celle singole dove il detenuto potesse pensare ai suoi errori e, appunto, pentirsi. Come risultato, la forma dei penitenziari che seguono questo “sistema della Pennsylvania” (come viene talvolta chiamato) richiama il Panopticon di Jeremy Bentham, con una serie di celle singole facilmente controllabili. Oggi all’Eastern State Penitentiary cercano di coniugare la conservazione del passato - anche celebre, come la breve detenzione di Al Capone - con l’attenzione per le condizioni attuali delle carceri statunitensi. In uno dei cortili, in un luogo di intenso passaggio, alcune colonnine illustrano la situazione dei penitenziari americani: sono dei blocchi la cui grandezza è determinata dal numero di persone presenti in carcere per ogni decade dal 1900 al 2010. Si vede chiaramente come dal 1970 in poi le colonnine crescano in altezza in modo esponenziale. La didascalia riporta: “La popolazione carceraria americana è cresciuta a un tasso storico negli ultimi 40 anni. Per più di un secolo, gli Usa hanno incarcerato tra 100 e 200 persone per ogni 100.000 persone. Nel periodo in cui ha chiuso Eastern State Penitentiary la situazione ha cominciato a cambiare. Nuove leggi e pene più lunghe hanno portato a un massiccio aumento del numero di americani che vengono mandati in carcere”. I visitatori di questo luogo affascinante e lugubre si trovano così davanti alla rappresentazione visiva di cosa è andato storto - o drittissimo, per alcuni - nelle politiche carcerarie nelle ultime decadi di storia americana. Quanti detenuti e quante carceri - “Il carcere è diventato una presenza incombente nella società in una misura senza precedenti nella nostra storia o in quella di qualsiasi altra democrazia industriale”, ha sintetizzato Elliott Currie, saggista e professore autore del fondamentale libro Crime and Punishment in America nel lontano 1998. Vale la pena allora guardare al quadro generale della situazione: negli Stati Uniti ci sono quasi 2,3 milioni di persone in carcere, divisi nei diversi livelli in cui è organizzato il sistema carcerario (carceri locali, statali, e federali), a cui va aggiunto qualche migliaio di persone nelle “Indian Country jails” (le carceri dei nativi americani) e circa 50.000 minori. Nonostante non siano il più paese più popolato al mondo, hanno la maggior popolazione carceraria - la Cina (con una popolazione totale di circa quattro volte superiore di quella nordamericana) segue molto lontana, 1.650mila circa. Guidano la classifica anche per quanto riguarda ai dati relativi, cioè al tasso di incarcerazione (che si calcola su 100.000), che, come riporta il pannello dell’Eastern State Penitentiary di Filadelfia, è di 655 e pochi posti più in basso troviamo anche territori americani come le Isole Vergini americane, le Isole Marianne Settentrionali e Guam. Sono dati abbastanza stabili dal 2000, con lievi variazioni. Non è, insomma, un’emergenza e non ci sono state recenti impennate, al contrario la speranza è che la recente riforma e altre che forse verranno potranno invertire la situazione. Ma forse i dati più preoccupanti sono altri. Negli Stati Uniti ci sono un numero spropositato di strutture carcerarie, quasi 4.500. La capacità ufficiale del sistema carcerario negli Usa è di 2 140 321 (dati del 2014, qualcosa di più probabilmente oggi). Questo cosa ci dice? Che le prigioni americane non sono orrendamente sovrappopolate come quelle italiane, che non ci sono tante persone in carcere per inadempienza e coincidenze, insomma perché è successo e non si è riusciti a porre freno. No, negli Stati Uniti ci sono molte persone in carcere per scelta. Perché l’industria carceraria, come la chiamano gli attivisti americani, è un’industria e come tale è stata costruita e si è sviluppata. E questo per precise scelte politiche e socio-economiche degli ultimi 40 anni (tutti i dati dalle risorse di Prison Policy Initiative e dal report World Prison Population List). L’incarcerazione di massa - Cosa è cambiato allora e quando? Perché ad un certo punto la popolazione carceraria americana è decuplicata? Ci sono diversi fattori che hanno contribuito, uno è la gigantesca guerra alla droga lanciata negli anni Settanta dal governo federale che ha portato migliaia di incarcerazioni, soprattutto di non bianchi. Infatti se bianchi e neri fanno uso di stupefacenti con tassi simili, i neri hanno sei volte più possibilità di finire dietro le sbarre per crimini connessi alla droga. Negli anni Ottanta vengono poi inaugurate decine di carceri. Aprono soprattutto in luoghi isolati, naturalmente autorizzate e in piena cooperazione con le istituzioni locali. Un trend che continua anche negli anni Novanta, con l’apertura di ben 351 luoghi di reclusione per un totale di nuovi 528mila posti. Sintetizza Angela Davis, che oltre ad essere un’attivista storica dei movimenti sociali americani è anche una studiosa di questi temi: “La gente voleva credere che le prigioni non solo avrebbero ridotto il crimine, ma avrebbero anche fornito posti di lavoro e stimolato lo sviluppo economico di località sperdute” (nel libro Aboliamo le prigioni?). Quindi le strutture carcerarie diventano macchine da soldi, luoghi che possono illusoriamente dare posti di lavoro e fornire manodopera a basso o bassissimo costo (cioè gli stessi detenuti). Il privato e il pubblico, infatti, si intrecciano nel mondo carcerario americano. Una ricerca della Prison Policy Initiative sottolinea come anche se soltanto una piccola parte dei carcerati è detenuto in strutture private (l’8%, un numero che da una prospettiva europea appare comunque un po’ assurdo), molte aziende private traggono profitto dall’incarcerazione di massa: dall’affitto di luoghi di detenzione, fino a contratti per sanità e alimentazione all’interno delle carceri e molti altri settori del sistema carcerario che negli Stati Uniti sono privatizzati. Non c’è bisogno insomma di essere complottisti per notare come l’aumento di persone in carcere negli Usa corrisponda a precise strategie di controllo sociale e favorisca interessi economici, più che aver a che fare con una presunta crescita del crimine: “Da una prospettiva storica - scrive Michelle Alexander nel libro The New Jim Crow. Mass Incarceration in the Age of Colorblindness - la mancanza di correlazione tra crimine e punizione non è certo una novità. I sociologi hanno frequentemente osservato come i governi usino la pena come strumento per il controllo sociale, e quindi l’entità o la severità delle pene sono spesso indipendenti dai crimini… anche se il tasso di criminalità negli Usa non è considerevolmente più alto che in altri paesi occidentali, il tassi di incarcerazione è aumentato mentre è rimasto stabile o è declinato in altri paesi”. È questa la chiave della questione, e senza dubbio questo implica che la scelta di mettere in prigione un gran numero di persone, soprattutto non bianchi, sia una scelta politica e di controllo sociale. Carcere e minoranze - La questione razziale infatti riguarda ancora tutta la società americana, ma è più acuta quando si varcano i confini del carcere. Gli afroamericani, scrive la Naacp (storica associazione che difende i diritti degli afroamericani) hanno un tasso di incarcerazione che è cinque volte superiore di quello dei bianchi. Latini e afroamericani sono circa un terzo degli americani, ma più della metà (56%) della popolazione carceraria. Per i razzisti questa è la conseguenza del fatto che i non bianchi sono naturalmente portati a commettere crimini; per tutti gli altri, non ci resta che verificare come evidentemente ci sia qualcosa che non vada nel sistema penale americano e come tratta i non bianchi. E pensare che il gap sta scendendo. A fine 2017, secondo i dati ufficiali del Bureau of Justice Statistic, c’erano in carcere 475,900 neri e 436,500 bianchi, una differenza di sole 39,400 persone mentre dieci anni prima era di 93,100 (592,900 neri e 499,800 bianchi). Anche il gap tra ispanici e bianchi è cambiato, ma perché solo saliti in modo esponenziale i carcerati di origine latina. Questi dati però vanno sempre letti in controluce. Nel 2017, i neri erano il 12% della popolazione americana adulta, e il 33% di quella carceraria; gli ispanici il 16% della popolazione adulta, e il 23% di quella carceraria; e infine i bianchi il 64% degli adulti, e il 30% dei carcerati. Il nocciolo della questione rimane quindi: i non bianchi hanno molte più probabilità di finire in carcere. L’incarcerazione di massa riguarda soprattutto loro, e ha conseguenze sulle strutture sociali, famigliari, sulla loro possibilità di reinserirsi nella società una volta usciti e di trovare un lavoro vincendo i pregiudizi contro gli ex carcerati. E non vanno dimenticati i paletti immensi che vengono messi al diritto di voto per chi ha ricevuto condanne (ancora per qualche dato nudo e crudo si più consultare il sito della Naacp). Non “infliggere pene crudeli e inusitate” - Nella costituzione americana non ci sono riferimenti espliciti al carcere, ma l’ottavo emendamento (uno di quelli originali del 1787) recita: “Non si potranno richiedere cauzioni eccessive, né imporre ammende eccessive, né infliggere pene crudeli e inusitate”. Tra i tanti aspetti del sistema carcerario americano che potrebbero essere inclusi nelle “pene crudeli e inusitate”, l’isolamento è senz’altro uno di questi. In un paese dove la pena di morte è ancora in vigore in ben 28 stati su 50 e dove di recente è stata ripristinata anche a livello federale non dovrebbe stupire che quella forma di morte lenta e crudele che è l’isolamento carcerario sia ancora in vigore. La giornalista Aviva Stahl su The Nation ha raccolto le storie di alcuni detenuti della H Unit del Florence ADX, anche detto United States Penitentiary Administrative Maximum Facility di Florence (Colorado), una delle prigioni più dure degli USA. Le condizioni sono così difficili che un Mohammas Salameh, accusato di terrorismo nel 1994 e che prima dell’11 settembre godeva di condizioni carcerarie relativamente accettabili, negli undici anni che ha passato nella H unit ha fatto 8 scioperi della fame per un totale di 428 giorni e ben 220 volte è stato alimentato a forza - pratica che l’ONU e altre organizzazioni internazionali classificano come tortura. La vita di molte di queste persone dipende dalle misure speciali amministrative (special administrative measures) che regolano le loro possibilità di scrivere, leggere, informarsi. Lo spazio di cui possono usufruire è minimo, come in molti altri casi di isolamento in giro per il mondo. Quando Charles Dickens visitò Eastern State Penitentiary scrisse nel suo L’America: “Il sistema consiste nella più rigida, stretta e disperata segregazione, e credo che nelle sue conseguenze sia non solo crudele ma soprattutto sbagliato”. Era il 1842. Oggi, 2019, negli Stati Uniti vivono circa 80.000 persone in isolamento. Forse se con Voltaire guardiamo alle carceri per misurare il grado di civiltà di una nazione, bisogna ammettere che quello degli Stati Uniti d’America sia piuttosto basso. Yemen. Croce Rossa: più di 100 morti in un raid della coalizione sul carcere Corriere della Sera, 2 settembre 2019 Il bombardamento a sud della capitale San’a’ su una prigione dei ribelli Houthi. I corpi estratti dalle macerie. Si ritiene che siano più di 100 le vittime di un raid della coalizione guidata dai sauditi su un carcere a sud della capitale dello Yemen, San’a’. Lo ha riferito il Comitato internazionale della Croce Rossa. “Stimiamo che siano state uccise oltre 100 persone”, ha detto il capo della delegazione, Franz Rauchenstein, aggiungendo che le possibilità di trovare sopravvissuti sotto le macerie sono “molto poche”. In precedenza un portavoce dei ribelli sciiti filo-iraniani Houthi aveva riferito che più di 50 corpi erano stati recuperati dalle macerie, aggiungendo però che nella prigione, colpita all’alba da 7 missili, si trovavano circa 170 detenuti. Precedentemente la coalizione militare a guida saudita aveva annunciato di avere lanciato raid aerei contro obiettivi militari houthi che “immagazzinano droni e missili”. Diversa la versione della tv houthi Al-Masirah, che aveva riferito che “decine di persone sono state uccise e ferite” in sette raid aerei che hanno colpito un edificio che i ribelli usano come prigione. Residenti locali, tuttavia, hanno denunciato che nel carcere erano detenuti membri delle loro famiglie, arrestati e imprigionati per avere espresso critiche nei confronti degli stessi Houthi. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha riferito su Twitter di aver inviato sul posto una squadra in grado di curare fino a 100 feriti, equipaggiata 200 sacche per cadaveri e forniture mediche urgenti Nel 2014 gli Houthi, un gruppo sciita da tempo in lotta con il governo dello Yemen, hanno occupato la capitale Sana’a. In risposta al sostegno fornito loro dall’Iran, l’Arabia Saudita ha formato il 26 marzo 2015 una coalizione militare internazionale a sostegno del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale. Houthi era in origine il nome di un clan dello Yemen, e non di una setta o un gruppo religioso. Di recente si è registrata l’apertura di un “terzo fronte” in Yemen tra le forze di Hadi e i separatisti del Consiglio meridionale di transizione (Stc). Le forze fedeli all’Stc hanno preso il controllo di Aden il 10 agosto dopo violenti scontri con i militari fedeli al governo riconosciuto del presidente Hadi. Lo scorso 26 agosto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno chiesto un cessate il fuoco e colloqui di pace tra il governo riconosciuto dello Yemen e i separatisti. L’appello, tuttavia, sembra essere caduto nel vuoto dal momento che separatisti e governativi continuano a contendersi il controllo della città con gli scontri armati. Medio Oriente. Hezbollah lancia missile, tank israeliani bombardano il Libano di giordano stabile La Stampa, 2 settembre 2019 Tank israeliani hanno sparato colpi di cannone contro obiettivi di Hezbollah dopo che i miliziani libanesi hanno lanciato un missile anti-tank contro un mezzo di pattuglia al confine. Nessuno dei due attacchi ha causato vittime. In un comunicato Hezbollah ha rivendicato l’azione, condotta dal gruppo Hassan Zabeeb, una unità speciale affigliata al Partito di Dio. Il movimento sciita ha precisato che il missile ha “distrutto” il veicolo israeliano vicino alla caserma di Avivim e che i militari a bordo sono rimasti “feriti”. Due ore dopo, però, una dichiarazione ufficiale delle forze armate dello Stato ebraico ha smentito che ci fossero feriti. Anche la rappresaglia con i tank è stata calibrata in modo da non fare vittime. In ogni caso si tratta del primo scontro a fuoco fra Hezbollah e l’esercito israeliano dal 2006, quando c’è stata l’ultima operazione in territorio libanese da parte di Israele. Allora, in 33 giorni di combattimenti, vennero uccisi 119 soldati israeliani e oltre 500 combattenti sciiti. Anche allora il conflitto venne scatenato da un attacco, più grave, a una pattuglia dell’esercito al alla frontiera. La crisi si è aperta domenica scorsa, quando due droni israeliani sono precipitati a Dahiyeh, il quartiere sciita di Beirut, durante un tentato raid contro “componenti missilistiche” di Hezbollah. Quello stesso giorno, in un altro raid in Siria, erano morti due miliziani libanese. Due giorni dopo il leader Hassan Nasrallah aveva promesso una rappresaglia e oggi è arrivata. Il premier libanese Saad Hariri ha informato il capo delle forze armate e il presidente della Repubblica Michel Aoun. Hariri, sunnita, guida un governo che comprende anche tre ministri del Partito di Dio sciita. Ha però rapporti privilegiati con Arabia Saudita e Stati Uniti e ha chiamato anche il segretario di Stato americano Mik Pompeo per denunciare “la violazione della sovranità libanese” e chiedergli di intervenire per frenare l’alleato israeliano. Washington sta esercitando una pressione crescente sulle banche libanesi sospettate di finanziare Hezbollah, mentre Israele accusa i miliziani alleati dell’Iran di aver creato una “fabbrica di missili ad alta precisione” di minacciare la sua sicurezza in combutta con i Pasdaran. Sudan. L’ex dittatore al Bashir incriminato per corruzione e riciclaggio di denaro La Repubblica, 2 settembre 2019 Omar al Bashir è andato a processo il 18 agosto, un giorno dopo lo storico accordo tra militari e civili. Oggi il giudice ha formalizzato l’accusa per i capi imputati e la parola ora spetta alla difesa la prossima settimana. L’ex presidente e dittatore sudanese Omar al Bashir, deposto dall’esercito l’11 aprile dopo 30 anni di potere, è stato incriminato da un tribunale di Khartoum per possesso illegale di fondi stranieri e riciclaggio, ha affermato un giudice. Le autorità “hanno sequestrato 6,9 milioni di euro, 351.770 dollari e 5,7 milioni di sterline sudanesi nella sua casa”, ha dichiarato il giudice Al-Sadiq Abdelrahman. Bashir è detenuto dal giorno della sua destituzione ed è apparso in tribunale già due volte, occasioni in cui ha ammesso di aver preso 90 milioni di dollari dai sauditi, per giustificare i soldi trovati nella sua abitazione dopo l’arresto. In particolare oggi ha confessato di averne ricevuti 25 milioni dal principe saudita Mohammed bin Salman, specificando che non li ha mai usati per scopi personali. Tra i capi d’imputazioni non c’è quello del massacro dei manifestanti durante la rivoluzione che lo ha scalzato.