Fiera delle parole. Scritture dal carcere Ristretti Orizzonti, 29 settembre 2019 Il 3 ottobre, nella “Fiera delle Parole”, alle ore 16.30, presso la Sala Grande del Centro Universitario di Padova, Angelo Ferrarini, docente di scrittura volontario in carcere, presenterà due volumetti nati nella redazione di “Ristretti Orizzonti” al carcere Due Palazzi: Angelo Meneghetti, Gli occhi azzurri di Luana e altri sorrisi. Racconti per uccidere la noia di oggi; Antonio Papalia, Poveri figli d’Aspromonte. Insieme ai promotori Mauro e Anna Feltini, saranno presenti volontari dell’Associazione Granello di Senape e redattori di Ristretti. Gli autori, Angelo Meneghetti e Antonio Papalia, alla loro prima esperienza editoriale, stanno scontando l’ergastolo ai Due Palazzi, impegnati con la redazione interna di “Ristretti Orizzonti” in un percorso di riflessione sul reato e sulla pena. In questo ambito partecipano da qualche anno al laboratorio di “scrittura lettura ascolto” settimanale tenuto da Angelo Ferrarini. Come studenti del corso hanno scritto da sempre brevi testi narrativi e poesia, ma ora selezionati e confluiti in una raccolta di racconti e in un romanzo, che han suscitato via via l’interesse dei volontari e di lettori esterni, grazie alla micro-diffusione e ad alcuni concorsi di scrittura, fino a coinvolgere Granello di Senape (l’Associazione che promuove i progetti con le scuole e di editoria “Ristretti Orizzonti”) in una vera pubblicazione cartacea. Il primo, dal titolo volutamente rosa, con prefazione di Anna Scarso, raccoglie racconti originati dall’ambiente di provenienza, il piovese e la bassa padovana, con ricordi e immagini sognate dalla cella, quegli argini dell’infanzia ricchi di giochi, di amori e di gare in moto, le campagne dove compaiono contadini gentili e vecchi visti come maestri di vita e di leggi di casa nostra, lontane dallo stato. E lì si capisce che traligna l’illegalità - scrive nella presentazione Angelo Ferrarini - che porterà a frutti accennati ma ben intravisti dal lettore. Accanto alla trama magica nella ricostruzione del ricordo e della nostalgia, da segnalare la lingua narrante tipica del racconto orale e confidenziale, con cui l’autore si rivela sognatore detenuto alla finestra della cella e della memoria, e continua la magia dei racconti della sua infanzia in grado di coinvolgerci in ambienti e stati d’animo comuni alla nostra fanciullezza e identità anche veneta, ma che diventa universale. Il secondo, dal titolo che riecheggia altre storie classiche, con prefazione di Armida Gaion, è “una storia vera di fantasia” in cui si denuncia l’educazione alla illegalità via via più spietata, che comincia con l’infanzia di piccoli pastori calabresi allontanati da scuola per furti di olive, “avvicinati” poi da adulti criminali organizzati, che li coinvolgeranno via via in attività dove è normale applicare la pena di morte per infedeltà alle regole interne e per “sgarri”. Dalla Calabria si passa a Milano dove si prospetta un lieto fine di riscatto e inserimento. I fatti sono raccontati in stile serrato e duro, in parallelo a foto d’ambiente in bianco e nero, con una lingua adeguata e ridotta all’essenziale, senza concessione alcuna a pensieri e riflessioni di altro genere che non sia il bisogno e la necessità indotti dall’esistere fuori dalla legge, ogni ora, ogni giorno, dove la natura stessa è sempre ostile e nemica. I racconti di Meneghetti illudono sulla vera natura della vita felice di comunanza tra giovani ingenui e adulti “esperti”, mentre il romanzo di Papalia svela le inevitabili derive e l’altra faccia dell’educazione illegale. Nel primo c’è anche nostalgia nell’abbandono e tradimento di quell’ambiente di sogno; nel secondo il dolore per essere stato costretto a non aver altra scuola ed affetti se non quelli dell’illecito e del reato. In entrambi, la dimostrazione che i piccoli comportamenti sbagliati, le trasgressioni, le scelte rischiose portano facilmente a uno scivolamento nell’illegalità, contro il quale l’attività di “Ristretti Orizzonti”, che ormai dura da più di vent’anni, mette in guardia le giovani generazioni negli istituti del Trivento con il suo “Progetto Scuola-Carcere”. Presentarli al pubblico della Fiera delle Parole significa dare la possibilità di sentire la narrazione piegata alla dichiarazione dei sentimenti umani che ci accomunano come uomini e come lettori “delle tragedie antiche e delle rimembranze”, uniti in una auspicabile ricostruzione condivisa. Nella struttura senza muri che cura le madri assassine. “Così ritornano a vivere” di Niccolò Zancan La Stampa, 29 settembre 2019 A Castiglione delle Stiviere la residenza con 20 donne giudicate incapaci di intendere e volere. Gli psichiatri: “Il momento più straziante è quando ti chiedono di pregare sulla tomba dei figli”. Come bisogna chiamarle, innanzitutto, le donne che vivono qui? “Per il codice penale sono internate. Un nome che fa paura. Definirle utenti sarebbe scorretto, visto che non scelgono di usare questo servizio. Ospiti, poi, non avrebbe alcun senso. Per noi sono semplicemente delle pazienti”. Lo psichiatra Gianfranco Rivellini le ha conosciute tutte. Dal 1986 è al suo posto. La sezione femminile è accanto al campo di pallavolo. Attorno alla rete, ci sono delle sedie di plastica rossa: lì stanno sedute nel pomeriggio le madri assassine. Chi cospargeva suo figlio di acqua santa e l’ha ucciso perché voleva liberarlo dal demonio. Chi intendeva proteggerlo da un male incombente, che sicuramente sarebbe arrivato. Chi lo considerava vittima di pedofilia, quindi meglio metterlo al riparo. “Totalmente incapaci di intendere e volere” quando hanno commesso “il fatto”, secondo il giudice. E adesso sono qui. Su questa frontiera di sofferenza estrema. A cercare forse un ritorno alla vita. Una volta Castiglione delle Stiviere finiva in tutte le trasmissioni di cronaca nera. L’immagine era sempre la stessa: queste panchine davanti all’ingresso, sul crinale della collina, con una donna inquadrata di spalle. Fra Desenzano del Garda e Mantova, in una terra di trattori e piscine fuori terra, c’era l’unico ospedale psichiatrico giudiziario italiano con una sezione femminile. Dal 31 marzo 2015, con la chiusura degli Opg e l’inaugurazione delle Rems - residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - le competenze sono state distribuite in tutta Italia. Ogni regione ha la sua struttura. Ma quella di Castiglione delle Stiviere resta la più grande. Oggi ci sono 160 persone che non potevano andare in carcere: 140 uomini e 20 donne, di cui tre madri che hanno ucciso i loro figli. Edlia Dobrushi, di 38 anni, che a Lecco accoltellò le figlie Sidni, Kesi e Simona. Antonella Barbieri che fece lo stesso con i figli Kim e Lorenzo, fra Luzzara e Suzzara in un pomeriggio di dicembre. La terza donna, Alice Sebaste, era stata fermata con un carico di marijuna fra Monaco di Baviera e Roma ed uccise i suoi figli Faith e Divine in un posto in cui dovevano essere al sicuro. Li buttò giù dalle scale nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, e dopo qualche giorno disse al giudice: “Adesso sono liberi”. Molto è cambiato nel corso degli anni. Sono cambiate anche le madri che arrivano qui. “Una volta erano per lo più donne di campagna”, dice il dottor Rivellini. “Erano persone sole, non curate. In percentuale meno dal meridione, più dal settentrione. Ora predomina il contesto urbano. La maggior parte ha fra i 30 e i 40 anni. Sono in aumento le donne di origine straniera. Tutte hanno vissuto una situazione insopportabile e ingestibile dentro una grave cornice di disturbo mentale”. Per pranzo: tortelli di zucca e fettine di pollo. Le giornate scandite da ritmi precisi. Alle 8 viene somministrata la terapia. Alle 10 bisogna lasciare la stanza. C’è un bar centrale dove si può fare la seconda colazione e incontrare tutti gli altri pazienti. Ogni tanto nascono delle storie d’amore. Nessun poliziotto fa la guardia. Perché questa non è una prigione, nemmeno deve sembrarlo. “L’unico percorso possibile è quello della fiducia reciproca”, dice l’altro direttore della struttura che ricade sotto la competenza dell’Asl di Mantova, il suo nome è Stefano Pellizzardi. Lui deve occuparsi delle questioni pratiche. Per esempio: far quadrare i numeri. “Deve esserci uno psichiatra ogni dieci pazienti. Almeno uno psicologo e un educatore ogni venti. Due infermiere sul turno delle 24 ore”. Ogni tanto qualcuno scappa. Non è una fuga. Si chiama “allontanamento volontario”. “Qui non ci sono muri, nessun sistema coercitivo”, dice ancora Pellizzardi. “Ma dobbiamo stare comunque attenti alla sicurezza di tutti. Dei pazienti, degli operatori e del mondo fuori. Con la prefettura stiamo studiando un protocollo per i pattugliamenti esterni. Abbiamo delle telecamere, tutti i vetri sono anti sfondamento”. Gli operatori spesso devono fronteggiare la rabbia o, peggio, la consapevolezza. “Arriva quasi ogni volta il momento in cui mi chiedono di poter andare a pregare sulla tomba del figlio ucciso”, racconta la psichiatra Maria Grazia Missora. “È il momento più straziante”. Oggi sono venti le persone in lista d’attesa per poter entrare al Rems di Castiglione delle Stiviere. In genere il giudice assegna dieci anni di trattamento. Ma quando il percorso di riabilitazione funziona, le madri vengono affidate a una comunità e poi vanno a casa, quando ancora ne hanno una. “La guarigione totale non c’è, ma si può tornare a vivere una vita dignitosa”, dice Rivellini. “Per noi è gratificante vedere i progressi. Ma un grande ruolo lo giocano i parenti. Questo è un reato che lascia un segno profondissimo anche nella società. Mi sembra che ultimamente ci sia più comprensione per la malattia mentale”. Passano nella testa i ricordi. Quella signora che adesso lavora in un laboratorio tessile e ha trovato un nuovo compagno. Quella donna rientrata in Macedonia, che ancora manda ogni volta gli auguri di Natale. E “la Meri”. “La Meri che a distanza di anni sta bene, ed è rimasta in contatto con altre donne”. Dal 1996 a oggi sono passate da qui 94 madri assassine. Solo una di loro è tornata a essere violenta. Alle 5 finisce la partita di pallavolo. Qualcuno fa giardinaggio. Altri partecipano al laboratorio di poesia. Quello che serve è stare insieme. Questa sera al cinema della comunità danno Erin Brockovich, una donna che ha combattuto per farsi ascoltare. Braccio di ferro Conte-Di Maio sui diritti di Federico Capurso La Stampa, 29 settembre 2019 Il premier spinge per lo Ius culturae, il ministro teme invece ripercussioni elettorali e frena pure sul “fine vita”. Giuseppe Conte sta marcando una volta di più, nel campo dei diritti civili, la differenza che passa tra la sua idea di leadership e quella di Luigi Di Maio. Il premier affronta il “fine vita” accogliendo i dubbi dei vescovi italiani e spinge a favore di uno Ius culturae che estenda la cittadinanza ai minori stranieri. Detta delle coordinate, dunque, alla sua azione di governo e indirettamente a chi, nel Movimento, lo vede come prossima guida del partito. Dall’altra parte, invece, Di Maio sbuffa, svicola, frena; contrariato all’idea di dover prendere posizione su un terreno che considera da sempre scivoloso, perché è lì che il suo elettorato è diviso. Ed è questo un nuovo e pericoloso elemento di fragilità per la maggioranza giallorossa, non tanto per le idee delle due forze di maggioranza - anzi, più vicine di quanto non fossero quelle dei gialloverdi - quanto per gli ulteriori attriti che stanno scaturendo tra Conte e Di Maio e che rischiano di riflettersi sul Movimento. Negli ultimi giorni Di Maio ha dato indicazioni chiare ai suoi fedelissimi: il governo non dovrà toccare palla né sul “fine vita”, né sullo Ius culturae, perché - è il ragionamento del capo politico M5S - sono temi che “danno benzina alla campagna elettorale permanente di Matteo Salvini”. Fosse per lui - assicura chi gli è vicino - non si affronterebbe né l’uno né l’altro tema. Ma sul fine vita, dopo la sentenza della Consulta, sarà complicato evitare un intervento legislativo e allora per Di Maio dovrà essere esclusivamente “il Parlamento a occuparsene”. Conte però non è convinto. Sono settimane che il premier subisce forti pressioni da parte della comunità dei vescovi italiani e di quel mondo cattolico nel quale il premier affonda le proprie radici, a partire dalla formazione a Villa Nazareth, e con il quale ha mantenuto sempre vivi i rapporti. Tanto da aver espresso pubblicamente le proprie perplessità sull’”esistenza di un diritto alla morte” e sulla necessità di prevedere per i medici l’obiezione di coscienza. Insomma, il governo - seppur indirettamente nella forma - se ne sta occupando. Di Maio non può esserne felice. La morsa del leader M5S sui suoi parlamentari sembra essersi allentata. All’interno del partito si muove ormai in modo autonomo una porzione ampia di deputati e senatori, poco inclini a piegarsi agli umori del capo. Ne è un esempio il caso del disegno di legge sullo Ius culturae, di cui è stato nominato relatore il 5S Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali. Un provvedimento appoggiato da Conte e salutato entusiasticamente da una larga fetta di deputati, nonostante Di Maio lo osteggi apertamente. Il numero di parlamentari grillini che vuole cogliere l’occasione del governo con il Pd per allontanare il M5S dal populismo di destra è vasto. Ed è cresciuto rispetto alla corrente di sinistra che un tempo si agitava sotto il vessillo del presidente della Camera Roberto Fico. “Di Maio si comporta come se il Movimento stesse ancora lavorando con la Lega”, dice tra i denti un senatore di peso M5S. “Mi sembra evidente che non creda in questo progetto, a differenza di Conte”. Iniziano persino a circolare timori che Di Maio possa chiedere a chi gli è fedele di frenare la corsa di questi provvedimenti, rallentandone i passaggi parlamentari. Un’azione di sabotaggio di fronte alla quale viene evocato ancora una volta Conte, perché in grado di sbloccare l’impasse e indicare la direzione, anche su quel terreno dei diritti civili da cui il Movimento è sempre fuggito. Bonafede: “Prescrizione, niente melina. Disposto a incontrare Renzi” di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2019 Il Guardasigilli: “Col Pd partiamo da posizioni differenti, ma non accetto che si perda tempo sulla riforma della giustizia”. Il ministro che è rimasto dov’era doveva ripartire da lì, dalla sua riforma della giustizia: “Uno dei motivi per cui Matteo Salvini ha fatto saltare il governo è stato quello di fermarla”. Venerdì scorso, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, numero due di fatto del M5S, si è ritrovato a Palazzo Chigi con un altro alleato di governo, il Pd, a misurare la distanza su prescrizione e riforma del Csm. Mentre quello rimasto fuori, Matteo Renzi, gli ricordava che dovranno comunque passare da lui per varare qualsiasi legge. Uscendo da Palazzo Chigi, lei si era mostrato molto soddisfatto sull’incontro con i dem. Ma poi il Pd ha diffuso comunicati critici sulla sua riforma della prescrizione. Spiazzato? Non esiste alcun problema sulla prescrizione. Noi e il Pd partiamo da posizioni differenti sul tema, ma quelle sono norme già approvate, che entreranno in vigore a gennaio. Io e gli esponenti democratici siamo stati invece pienamente d’accordo sul varare una legge delega per una riforma che dimezzerà i tempi dei processi penali e civili. Tanti dem hanno parlato contro la prescrizione: il problema esiste… Non capisco perché se ne continui a parlare. E comunque io non accetto che qualcuno possa fare melina sulla riforma per poi magari dire a dicembre che esiste un nodo sulla prescrizione. Lavoriamo per ridurre i tempi dei processi. Conferma che la riforma verrà spacchettata in due leggi delega? Potrebbe accadere, per permettere al Parlamento di valutare tutto nel modo giusto. La riforma penale e del Csm e quella civile partirebbero in contemporanea in due rami differenti del Parlamento. Ma la priorità sarà approvare entro il 31 dicembre la riforma penale. Prima della prescrizione, perché non si sa mai... Guardi, un fatto che nessuno ricorda mai è che i primi effetti processuali della riforma sulla prescrizione entreranno in vigore non prima di quattro anni. Con le nuove norme elimineremo un’isola di impunità, innanzitutto per i colletti bianchi, ed è doveroso nei confronti di persone come i familiari delle vittime della strage di Viareggio. La nuova prescrizione non piace neanche a Renzi. Non lo avete invitato al tavolo, ma con lui dovrete parlare… Intendo incontrare gli addetti ai lavori e tutte le forze di governo, prima che la riforma della giustizia arrivi in aula. Per esempio mi interessa molto confrontarmi con Pietro Grasso di LeU. È disposto a incontrare anche Renzi? Certamente. La riforma della prescrizione non convince neanche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. Soprattutto, è assolutamente critico al sorteggio per i membri del Csm. E venerdì su questo le ha detto no anche il Pd… È suo diritto esprimere perplessità, ma il punto principale è che la riforma del Consiglio non è contro i magistrati, bensì contro le degenerazioni del correntismo. Io ho difeso le istituzioni e la magistratura quando è scoppiato lo scandalo del Csm, e dal vicepresidente mi aspetterei un atteggiamento positivo, perché è innegabile che ci siano cose da cambiare. Sul sorteggio sono critici anche tanti addetti ai lavori. E, insisto, il Pd. Lei stesso ha parlato di “divergenze”… I democratici sollevano un problema di legittimità costituzionale del sorteggio. So che questo aspetto è stato posto da altri, e lo valuteremo assieme. Continuo a pensare che sia una misura giusta, ma l’essenziale è riformare il Csm, cancellando le porte girevoli tra politica e magistratura. È un pacchetto di norme molto ambizioso, e chi lo ostacola rischia di difendere un sistema malato. Lei è in un governo di cui fa parte Luca Lotti, al centro del caso del Csm. Non è un problema politico che la pone a disagio? Non parlo di inchieste o di singoli elementi di altre forze politiche. Io valuto quello che mi arriva sul tavolo. Il Pd era consapevole del patto di governo sottoscritto con il M5S, dove tra i punti c’è anche l’esigenza di interrompere i rapporti tra politica e magistratura. I democratici non possono avere dubbi su questo. Anzi, la riforma della giustizia rappresenta un’occasione per eliminare qualsiasi tipo di equivoco sull’argomento. Invece il Renzi che difende Berlusconi che equivoci genera? Ha detto che a Firenze lo hanno indagato senza prove. Grave, non pensa? Non mi interessa rispondere a un singolo senatore. Da quando sono ministro però ripeto che la politica deve rispettare la magistratura, a maggior ragione quando si tratta di magistrati che indagano su mafia e terrorismo, mettendo a rischio la propria vita per servire lo Stato. Torniamo alla trattativa con il Pd. Lei ha bloccato la riforma delle intercettazioni del precedente ministro della Giustizia, quell’Andrea Orlando con cui ora deve trattare. Un problema in più? Ma no. Venerdì non abbiamo parlato di questo, ma ci confronteremo. Le intercettazioni sono uno strumento fondamentale per la lotta alla corruzione e alla criminalità. Vanno tutelati tutti gli interessi in gioco, a partire da quello alla privacy, e quella riforma pregiudicava per esempio il diritto alla difesa e la qualità delle registrazioni perché i magistrati venivano estromessi nella prima parte delle indagini. Promettete da tempo il carcere per i grandi evasori. Darete corpo alle promesse, e come? Certamente, anche se dobbiamo ancora decidere lo strumento. Di certo verranno rideterminate le soglie di punibilità, abbassandole. Manettari, diranno. E magari hanno ragione... L’intenzione è colpire persone condannate in via definitiva. Chi sbaglia deve pagare. Se la giustizia è “servizio” nella lezione di Sciascia di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 29 settembre 2019 L’idea che il magistrato “sia” giustizia, piuttosto che un funzionario che la amministra, è diffusa e comanda tante volte l’atteggiamento di chi è incaricato di accusarci e giudicarci. “Spero venga letto con serenità”. Così Leonardo Sciascia chiudeva la prefazione a un libro (A futura memoria) composto a raccolta di alcuni suoi scritti in argomento di giustizia. Sciascia probabilmente si augurava che la poca serenità con cui furono letti i suoi scritti giornalistici sulla giustizia italiana cedesse passo a un atteggiamento diverso - e non si dice di favore, ma almeno più sereno, appunto nell’occasione di quella iniziativa editoriale di riproposizione di quei suoi interventi su giornali e riviste. Ed è altrettanto probabile che quell’augurio Sciascia formulasse, per così dire, con intima riserva: e in profundo con la triste certezza che non sarebbe stato così, e cioè che il tempo pur passato non avesse ottuso le punte di irritazione, di risentimento che già si erano rivolte contro la pubblicazione originaria di quei suoi scritti. Ancora dopo trent’anni è lo stesso. E non su Sciascia e verso Sciascia, ma su chiunque e verso chiunque si provi a discutere delle questioni di giustizia rivendicando il diritto del cittadino di tenere sott’occhio il lavoro dei magistrati: e di giudicarlo. Il diritto dei cittadini di considerare l’amministrazione della giustizia un servizio, come tale esposto al giudizio civile di chi ne usufruisce e lo subisce: e lo paga. Un servizio: non una missione apostolare. E di considerare chi deve prestare quel servizio un funzionario: non un sacerdote. Chi rivendica questi diritti - et pour cause - passa per bestemmiatore. E si potrà anche dire che a volte la critica a questo o quel comportamento del magistrato è poco serena, dunque contaminata dalla stessa temperie per cui si segnala la reazione. Si potrà anche dire, cioè, che la mancanza di serenità contrassegna tutto il dibattito in argomento. Ma c’è una differenza. E cioè che i destinatari di un’applicazione impropria della violenza giudiziaria hanno tutto il diritto di lamentarsene e di denunciarla anche poco serenamente. Perché non sono in posizione di parità; e chi è soggetto alla pretesa punitiva dello Stato, chi è indagato, chi è processato, soffre per ciò solo una condizione di oppressione che gli attribuisce tutto il diritto di essere poco sereno, e di poco serenamente dolersi se il suo coinvolgimento nell’affare è indebito. È chiaro che tutto questo non significa in nessun modo contestare al magistrato il potere di giudicare, o che non debbano essere osservati i suoi provvedimenti. Il suo potere di emetterli e il nostro obbligo di rispettarli sono intangibili. Ma quel suo potere e questo nostro obbligo non trasformano una sentenza sbagliata in una buona. Salvo credere che sia buona non per quel che dice ma per il solo fatto che è stata emessa o, peggio, che ad emetterla è stato chi non può sbagliare o, peggio ancora, chi, se pure sbaglia, non deve risponderne in nessun modo. L’idea che il magistrato “sia” giustizia, in modo consustanziale e insostituibilmente, piuttosto che un funzionario che la amministra, è disgraziatamente diffusa e comanda purtroppo tante volte l’atteggiamento di chi è incaricato di accusarci e giudicarci. Diritto all’oblio: quando la memoria non è un valore di Giovanna Boschetti* e Nicolò Bastaroli** La Repubblica, 29 settembre 2019 La recente sentenza della Corte di Giustizia ha escluso l’obbligo di rimozione di dati al di fuori dell’Unione Europa. Ma la pronuncia introduce nuovi temi di incertezza. Martedì è stato pubblicato il testo di una sentenza della Corte di Giustizia europea che si è pronunciata su un contenzioso avente ad oggetto il “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento 2016/679 meglio conosciuto come “gdpr” e riguarda la legittimità della sanzione comminata dall’autorità francese garante del trattamento dei dati personali “Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL) a Google per aver rifiutato di deindicizzare dei dati, a seguito della richiesta di un imprenditore francese, su tutte le estensioni del nome di dominio del suo motore di ricerca. La sentenza ha di fatto negato all’uomo coinvolto nel contenzioso la tutela al diritto di rimozione già accordata dal Cnil dei dati presenti on line e negativi per la propria reputazione. Il comunicato stampa pubblicato dalla Corte di Giustizia, pur riconoscendo che “in un mondo globalizzato, l’accesso da parte degli utenti di Internet […] può produrre effetti immediati e sostanziali sulla persona in questione all’interno dell’Unione”, ha infatti legittimato il permanere delle notizie “incriminate” sulla base della circostanza per cui molti Stati esterni all’Unione europea non riconoscono il diritto alla deindicizzazione, così considerando che “il diritto alla protezione dei dati personali non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”. La sentenza della Corte di Giustizia ha così stabilito - alla luce di una ricostruzione societaria strutturale della Google LLC e del fatto che quest’ultima, per mezzo delle sue controllate locali (come, nel caso di specie, Google France), gestisca una rete globale con nodi operativi su scala nazionale tra loro interconnessi e soggetti a ordinamenti nazionali extraeuropei - una tutela soltanto parziale per il ricorrente, prevedendo la deindicizzazione esclusivamente nelle versioni del motore di ricerca corrispondenti agli Stati membri dell’Unione. L’esclusione dell’obbligo per Google di deindicizzazione per le versioni nazionali esterne a quelle degli Stati membri della UE è stata molto criticata dai massimi esponenti istituzionali in materia di data protection e la reazione è certamente condivisibile. Dal punto di vista degli operatori del settore, ed in particolare da giuristi italiani che ogni giorno si confrontano con interrogativi e soluzioni nell’interesse di persone giuridiche e fisiche - seguendo l’operatività delle aziende con un occhio costante agli adempimenti di legge e ai diritti inviolabili - si può dire che la pronuncia in questione introduce temi di incertezza de iure condito e de iure condendo, anche alla luce di ciò che la politica comunitaria sembra esprimere nella sua politica legislativa, sempre più attenta al tema digitale. Ciò che risulterebbe emergere da tale politica è l’urgenza di offrire una giusta collocazione nel mondo del diritto al ruolo ed alla natura degli Internet Service Provider, soprattutto in considerazione dell’enorme impatto delle notizie pubblicate sui motori di ricerca (come Google), dei volumi di consultazione, dell’esaustività e della qualità dei contenuti fruibili e del fatto che tale massa di informazioni, anche collocata negli algoritmi del web a divenire “big data”, è idonea a orientare e condizionare le opinioni e le scelte quotidiane, sia nel mondo privato che professionale. Per tale motivo, non si dovrebbe mettere in discussione che proprio l’articolo 17 del Regolamento 2016/679 ben noto come Gdpr, istituendo il “diritto all’oblio”, costituisca un baluardo fondamentale dei diritti dei singoli in rete e debba essere considerato volto a costituire un fondamentale tassello per il progresso della legislazione e dell’etica digitale. Tale diritto, infatti - vale la pena ricordarlo - elaborato proprio dalla sentenza del 2014 della Corte di Giustizia (nel caso c.d. “Google Spain”) si configura come un diritto alla cancellazione dei dati in forma rafforzata, che dovrebbe tradursi nel riconoscimento in termini assoluti del diritto a essere dimenticati in relazione a informazioni del nostro passato non più attuali o pertinenti al contesto storico, oppure rispetto ai quali sia venuto meno l’originario interesse pubblico. Per tali ragioni il diritto all’oblio, finalmente sancito dal Regolamento 2016/679 quale diritto non negoziabile e irrinunciabile per tutti i cittadini dello Spazio Economico Europeo senza limiti spazio-temporali alla luce dell’extraterritorialità del Gdpr, non dovrebbe, semplicemente, poter più costruire oggetto di alcun bilanciamento di interessi. In tale contesto, non si può prescindere dal fatto che la sentenza in questione pone anche temi rilevanti sul piano della natura e delle responsabilità degli Internet Service Provider sui contenuti pubblicati in rete. In un momento legislativo particolarmente delicato posto che la legislazione europea risulterebbe richiedere - anche nella Direttiva Copyright di recente emanazione - un ruolo sempre più attivo e consapevole da parte degli operatori del settore nella supervisione dei contenuti e nel controllo degli stessi. *Associate Cba **Head of Legal Department Ealixir Barcellona P.G. (Me). Antigone: “situazione critica per la salute psichica dei detenuti” Ristretti Orizzonti, 29 settembre 2019 Dopo l’ennesimo suicidio di un ventenne palermitano, avvenuto solo qualche giorno fa, Pino Apprendi e Lucia Borghi, dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone, hanno visitato il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, ex ospedale psichiatrico giudiziario. “Dire ex Opg - evidenziano i due osservatori - è un modo di dire, non solo perché arrivando nei pressi della struttura ancora sono collocati due cartelli bene in vista che indicano che stai arrivando in un Opg, ma perché visitando le celle non hai la sensazione di vedere detenuti dietro le sbarre, ma malati e ti chiedi perché. Perché - proseguono Apprendi e Borghi - dal 2015, quando si decise di chiudere definitivamente gli Opg, non si è fatto nulla, o pochissimo, per evitare questo stato di cose”. Di fatto la Regione non ha mai preso in carico del tutto la struttura di Barcellona, dove prestano servizio tre psichiatri, di cui uno dipendente e due a contratto e tre psicologi e dove all’ottavo reparto ci sono oltre 60 malati. “Altro capitolo è il reparto femminile, dove ci sono soltanto 8 donne, ma non grandi differenze con il maschile - sottolineano gli osservatori di Antigone Sicilia. Entrando, anche lì, si vede ad occhio nudo che sei di fronte ad ammalati che non dovrebbero stare in un carcere dove la sera si chiude la porta con il blindo. Una scena straziante, persone che potrebbero stare in strutture alternative al carcere”. Dal gennaio 2015 ad oggi quella di Barcellona Pozzo Di Gotto è la struttura carceraria siciliano dove percentualmente c’è il più alto tasso di suicidi rispetto al numero di detenuti con sei persone che si sono tolte la vita. I detenuti, durante la visita, lamentavano la mancanza di attività, la mancanza d’impegno, niente lavoro, niente attività ricreative, soltanto qualche ora d’aria. “Ci chiedevano: ma come possiamo guarire in queste condizioni? Se ci lamentiamo riceviamo soltanto rapporti informativi e provvedimenti disciplinari, per colloqui con lo psicologo dobbiamo inoltrare domanda e dopo 15 giorni veniamo contattati. La salute e la vita burocratizzata” concludono Pino Apprendi e Lucia Borghi. Torino. Detenuto non mangia da quasi due mesi, è ricoverato in terapia intensiva di Carlotta Rocci La Repubblica, 29 settembre 2019 Protesta per una condanna “ingiusta”. Engyell M., detenuto alle Vallette, non mangia da 59 giorni. È nato in Albania, dove ha moglie e una figlia, e ha 51 anni. Ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le sentenze che lo hanno portato in carcere a Torino con condanne ormai definitive. Chiede la revisione dei suoi processi perché - dice - quando è stato condannato ad oltre dieci anni di carcere, con scadenza della pena nel 2023, si trovava in Albania per via di un decreto di espulsione e non ha potuto partecipare al dibattimento. Il suo ultimo avvocato Alessio Michele Soldano lo ha incontrato spesso nelle ultime tre settimane per spiegargli che una condanna definitiva è lapidaria e nulla - se non l’emergere di una nuova prova - potrebbe permettere la revisione del processo. Engyell però si sente vittima della giustizia ed è disposto a lasciarsi morire. Ha già perso quasi metà del suo peso e il 6 settembre - dopo una perizia medica - è stato trasportato al Repartino delle Molinette, poi trasferito il 16 in terapia intensiva con l’aggravarsi delle sue condizioni. “Abbiamo intercettato la sua storia il 27 agosto quando lo sciopero durava ormai da molti giorni”, spiega la Garante dei detenuti della Città di Torino Monica Cristina Gallo che ha scritto anche ai garanti nazionali e regionali, e all’Ordine dei medici, per sollevare, l’attenzione sul caso. “Quando lo abbiamo incontrato per la prima volta non era già più in grado di alzarsi dal letto - spiega Gallo - Al di là della vicenda giuridica, solleviamo il tema umano. Questa persona ha pochi strumenti per far sentire la propria voce ma la sua protesta è determinata e pericolosa. Sappiamo che la Regione sta lavorando a un protocollo per la prevenzione dei suicidi in carcere e speriamo ci sia attenzione anche su un caso come questo che non è contemplato ma si tratta di un lento suicidio”. Engyell è stato visitato dai medici ed è perfettamente lucido. “Stiamo facendo di tutto per convincerlo a mangiare”, spiega il direttore del carcere Domenico Minervini che per due volte ha scritto al tribunale della libertà per chiedere di poter prendere provvedimenti. “Abbiamo provato a farlo parlare con la moglie in Albania e con il nostro cappellano”, spiega il direttore. I giudici hanno stabilito che il detenuto può essere sottoposto a un’idratazione forzata e, solo in caso di perdita di conoscenza, all’alimentazione per salvargli la vita. La terapia ha reso le sue condizioni leggermente migliori, l’uomo è stato spostato in un altro reparto, ma nei prossimi giorni potrebbe essere dichiarato “dimissibile”. “Ma mi chiedo cosa potrebbe succedere se venisse riportato in carcere”, si chiede Gallo. Trento. Detenuti e reinserimento: ok allo schema di protocollo d’intesa lavocedeltrentino.it, 29 settembre 2019 Un’azione coordinata fra Ministero della Giustizia, Provincia autonoma di Trento e Regione Trentino Alto Adige/Südtirol al fine di promuovere una rete a sostegno dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale o alternative alla detenzione, per favorirne il reinserimento sociale e lavorativo. Punta a questo il protocollo approvato venerdì dalla Giunta provinciale, su proposta dell’assessore alla salute, politiche sociali, disabilità e famiglia, Stefania Segnana. “Lo schema di accordo e le linee di indirizzo sono stati predisposti in collaborazione con la Garante provinciale dei diritti dei detenuti, Antonia Menghini che ringrazio per la sua dedizione, e dopo un attento e impegnativo confronto con il Ministero della Giustizia - è il commento dell’assessore Segnana. In particolare preme sottolineare l’attenzione prestata ad alcune questioni delicate, come la necessità di favorire il mantenimento dei legami familiari laddove uno dei genitori viva la detenzione, il bisogno di assicurare ai detenuti la formazione professionale e l’orientamento al lavoro nel momento nevralgico del loro reingresso in società”. Il Protocollo prevede la costituzione di una Commissione tecnica con rappresentanti di Provincia, Regione, Ministero della Giustizia, Servizi Sociali Territoriali, Terzo settore e Organizzazioni del Volontariato. A sua volta la Commissione è organizzata in Gruppi tecnici che si occuperanno di macro-temi quali: reinserimento sociale, legami familiari e cultura; lavoro; salute; minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile; giustizia riparativa e mediazione penale. In base alle linee di indirizzo, le parti si impegnano a promuovere e attuare interventi per: -promuovere la salute e il benessere dei detenuti e l’umanizzazione della pena, al fine di assicurare piena dignità ai soggetti ristretti; -assicurare il trattamento rieducativo e il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti ospiti della Casa circondariale di Spini di Gardolo; -assicurare il trattamento rieducativo e il reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti, adulti e minori, sottoposti a misure alternative alla detenzione; -assicurare e implementare l’assistenza sanitaria in carcere, nella Rems e nelle strutture territoriali deputate ad accogliere i soggetti in esecuzione penale esterna; -sviluppare, previo consenso delle vittime, percorsi di giustizia riparativa con particolare riferimento alla ricomposizione del conflitto originato dalla commissione del reato. Naturalmente le Linee di indirizzo allegate al Protocollo definiscono una prima progettazione delle iniziative relative a queste aree tematiche; questi indirizzi potranno essere ridefiniti dalla Commissione tecnica in funzione di nuove esigenze. Trento. Liberi da Dentro: kermesse dà voce ai detenuti, per sovvertire gli stereotipi di Tiziano Grottolo ildolomiti.it, 29 settembre 2019 Inizia oggi con la biblioteca vivente a Riva del Garda l’evento che nasce per avvicinare il mondo del carcere alla cittadinanza e viceversa e per ricordare che “i detenuti sono cittadini a tutti gli effetti”. Durante le giornate della fiera “Fa’ la Cosa Giusta” sarà esposto anche un container che riproduce una cella in scala 1:1. “Una società più sicura passa anche attraverso il reinserimento della popolazione carceraria” è con questo spirito che prenderà il via oggi, a Riva del Garda con la Biblioteca Vivente, il progetto “Liberi da dentro”, organizzato da un cartello di associazioni che vedono come capofila Apas. “Promuovere una diversa narrazione sul tema del carcere”, così l’assessora alle politiche sociali del comune di Trento, Mariachiara Franzoia, ha aperto la conferenza stampa di presentazione. “Con questo progetto - spiegano gli organizzatori - vogliamo lavorare in particolare sui pregiudizi che circondano le problematiche legate al carcere”. Proprio per questo si è scelto di intensificare le iniziative, che da quest’anno coinvolgeranno tre comuni: Riva del Garda, Rovereto e Trento, per coinvolgere cittadinanza nel processo di accoglienza nel tessuto sociale delle persone sottoposte a condanne penali. Come ricordato dagli organizzatori: “I principi costituzionali impongono che la pena sia rieducativa e perché questo avvenga è indispensabile il coinvolgimento attivo del territorio trentino”. Il progetto mira a diffondere nella cittadinanza una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, superando i relativi stereotipi e pregiudizi attraverso eventi e incontri pubblici e conferenze. Un modo questo per avvicinare il mondo del carcere alla cittadinanza e viceversa e per ricordare che, come affermato da Antonella Valer dell’associazione ‘Dalla Viva Vocè: “I detenuti sono cittadini a tutti gli effetti, partiamo dal presupposto che chi compie un reato, prima o dopo, tornerà a far parte della società per questo puntiamo forte sul tema dell’economia carceraria”. Preparare i detenuti al reinserimento in società dando loro la possibilità di acquisire delle competenze che torneranno utili nel mercato del lavoro è uno dei passaggi fondamentali per abbassare, se non eliminare, il rischio di recidività. Il progetto, finanziato attraverso un bando della Fondazione Caritro, trae le sue fondamenta nelle realtà di volontariato che operano, in collaborazione con la casa circondariale di Trento e gli enti locali, nel reinserimento sociale dei detenuti e all’organizzazione di eventi socializzanti e rieducativi, anche rivolti al pubblico, in cui i detenuti svolgono un ruolo attivo nell’attività culturale, fra queste si contano le associazioni: Apas, Dalla Viva Voce, Trentino Arcobaleno, Micro finanza e Sviluppo Onlus. Cuore di tutta la proposta è la possibilità di ascoltare le testimonianze direttamente dalla voce dei detenuti o ex detenuti si ritiene che il processo della narrazione personale autobiografica possa essere uno strumento efficace per permettere ai cittadini di conoscere, in prima persona, vicende e dimensioni abitualmente esclusi dal dibattito pubblico e di lavorare in modo più efficace sul superamento dei pregiudizi. In un evento di “Biblioteca Vivente” le persone che vi partecipano diventano dei “Libri Umani” che nell’essere “letti” raccontano un episodio rilevante della loro vita selezionato e sviluppato in un percorso di formazione. Non ci si deve quindi stupire se i “Libri Umani” che parteciperanno al progetto non racconteranno dell’esperienza detentiva, perché ciò a cui Liberi da Dentro mira è fare in modo che detenuti ed ex-detenuti siano visti come persone in primis, che oltre al tempo trascorso in carcere hanno un’intera vita fatta di migliaia di esperienze come chiunque altro. Gli eventi della biblioteca vivente partono oggi a Riva del Garda dalle 16.00 alle 19.00, in Piazza delle Erbe (in biblioteca in caso di pioggia). Sarà poi a Trento il 19 ottobre dalle 15.30 alle 18.30 presso TrentoFiere nelle giornate di “Fa’ la cosa giusta”, per concludersi a Rovereto il 25 dello stesso mese alle 18.30, sotto la cupola del Mart (in biblioteca in caso di pioggia). La kermesse si divide però in tre aree, e oltre alla già citata biblioteca vivente ci sarà modo di toccare con mano l’arte dei detenuti con i prodotti realizzati attraverso progetti di economia carceraria e assaggiando le pietanze cucinate nelle “cene galeotte”. Con quest’ultime si fa rifermento a veri e propri eventi culinari nei quali a preparare i pasti saranno i detenuti che frequentano l’Istituto Alberghiero Trentino di Rovereto e Levico Terme all’interno della Casa Circondariale di Spini per dar loro modo di sperimentarsi con una clientela reale in vista delle prove che dovranno sostenere durante l’anno scolastico. Mentre in occasione della fiera Fa’ la Cosa Giusta che si tiene dal 18 al 20 ottobre nel complesso di TrentoFiere, si dedicherà uno spazio speciale all’economia carceraria. Per tutta la durata dell’evento vi sarà una sezione della fiera dedicata alle cooperative che producono in carcere o impiegano persone ex detenute e l’allestimento della “cella in piazza” dell’associazione La Fraternità di Verona. Venerdì 18 dalle 17 alle 18:30 ci sarà inoltre una tavola rotonda dal titolo “Fare impresa in carcere”. Infine si segnala la conferenza organizzata da Apas e Cnca del Trentino-Alto Adige, sempre in occasione della Settimana dell’Accoglienza, venerdì 4 ottobre dalle 15.30 alle 18.30 presso la Sala della Fondazione Caritro, dal titolo “Riparare la solitudine: percorsi di giustizia riparativa ed incontro tra vittime ed autori di reato”. L’evento vedrà la partecipazione di Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari dei caduti della strage di Piazza della Loggia. Milani, dopo la perdita della moglie nel grave atto terroristico del 1974, si è impegnato in un lungo percorso di riparazione ed incontro con ex terroristi degli anni di piombo. Oristano. Massama, la cultura in carcere di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 29 settembre 2019 La scuola che diventa opportunità di recupero e persino di “evasione” anche per un ergastolano. I detenuti del carcere di Alta sicurezza di Massama da tempo sfruttano questa opportunità. C’è chi nel frattempo si è diplomato e sono già in quattro gli iscritti all’Università. Sono alcuni dei dati emersi ieri in occasione della Festa del Corpo di polizia penitenziaria, alla quale hanno partecipato le autorità civili e militari. È stato il Commissario Salvatore Cadeddu, a fornire una serie di elementi che permettono di capire la vita dei 265 detenuti, dei quali, 171 in regime di alta sicurezza, esponenti di vertice delle più pericolose organizzazioni criminali di mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita. Nel carcere dove c’è un unico detenuto per terrorismo, Cesare Battisti arrivato in Italia a seguito dell’estradizione dalla Bolivia dopo una lunga latitanza in Brasile, sono in 63 a scontare l’ergastolo, alcuni in regime ostativo. Solo una minima parte delle celle ospita detenuti di media sicurezza, che sono appena 74, altri 13, invece, godono della semilibertà. In questa struttura tanto moderna quanto inespugnabile, la scuola è diventata una opportunità straordinaria. Due i corsi di scuola superiore, composto dalle cinque classi della Ragioneria “Mossa”, frequentate da 37 detenuti e le sei classi del Liceo artistico con 40 iscritti. Esiste anche un corso per il conseguimento della terza media, frequentato da 12 detenuti e organizzato dal Centro territoriale permanente. In tanti riescono a portare a termine gli studi da dietro le sbarre: dieci si sono diplomati in ragioneria. Che la scuola sia una realtà importante lo ha affermato anche il direttore Pier Luigi Farci: assente per motivi di lavoro alla cerimonia, ieri ha affidato i suoi saluti ad una lungo messaggio nel quale non ha mancato di ringraziare tutto il personale del carcere. Alla cultura sono affidati molti progetti di riscatto e reinserimento per i detenuti, con iniziative svolte in collaborazione con l’Istar e l’Università di Sassari, spettacoli musicali e persino un laboratorio di restauro che ha visto coinvolti i detenuti in regime di alta sicurezza 1. Anche il lavoro ha un ruolo fondamentale per i detenuti di Massama, che ormai da anni partecipano a campagne di scavi archeologici coordinati dal professor Raimondo Zucca e ai progetti di agricoltura sociale di Terra madre. Iniziative che si possono realizzare grazie al contributo di tutto il personale carcerario, a partire dagli educatori fino agli impiegati. Il lavoro quotidiano, di vigilanza e garanzia della sicurezza è certo il più impegnativo in un carcere dove, sono appena 14 agenti del Nucleo piantonamenti. Nell’arco di un solo anno sono state eseguite 582 traduzioni delle quali, ben 70 nazionali. “Solo grazie al contributo di tutto il personale del reparto - ha detto il commissario Cadeddu - siamo riusciti a far fronte a questa immensa mole di lavoro”. Da giugno di quest’anno il carcere si è dotato di un impianto per l’effettuazione delle udienze in videoconferenza, che permettono al detenuto di partecipare a distanza alle udienze giudiziarie. Una innovazione tecnologica che ha fino ad ora permesso di effettuare ben 115 udienze a distanza. Un anno di lavoro intenso, per la Polizia penitenziaria che sono dovuti intervenire anche con atti di polizia giudiziaria, fra cui, 25 denunce per reati commessi all’interno dell’istituto. Saluzzo (Cn). Opere libere degli studenti ristretti per portare con lo “sguardo dentro” targatocn.it, 29 settembre 2019 Inaugurata ieri la mostra alla Croce Nera. Visitabile oggi e domani. Fa parte del progetto creato dal Soler Bertoni per l’iniziativa “Lo Sguardo di dentro” firmato da Matera 2019, Capitale europea della cultura per promuovere il diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale. Nell’ambito del progetto “Un viaggio: la città scopre il carcere” promosso dall’istituto Soleri Bertoni, inserito nell’iniziativa “Lo Sguardo di dentro” firmata da Matera 2019 Capitale europea della Cultura per promuovere il diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità, è stata inaugurata ieri venerdì 27 settembre alla Confraternita della Croce Nera. L’esposizione a cura del Corso carcerario del Soleri - Bertoni e in collaborazione con L’Associazione Collegium Artium si intitola “Opere Libere - La Bellezza dell’imperfezione” ed espone gli elaborati prodotti nei laboratori di oreficeria, pittura, scultura ed ebanisteria dagli studenti del Corso carcerario del indirizzo artistico dell’istituto attivo dall’anno scolastico 2011-12 nella casa di reclusione Morandi. Hanno coordinato i lavori i docenti Daniela Zinola, Marco Odello e Gabriella Messina, Miriam Fabris, Michele Lanfranco. Il taglio del nastro è stato accompagnato dagli interventi musicali del Coro del liceo diretto da Enrico Miolano e dall’ intervento “L’esperienza del bello può cambiare una persona?” a cura di Carla Bianco. L’apertura della mostra oggi 29 settembre dalle ore 15 alle 19. Ascoli Piceno. Progetto “Ora d’aria”, il poeta Franco Arminio ospite del carcere di Annalisa Coccia picenooggi.it, 29 settembre 2019 Lo scrittore ha detto ai detenuti le sue poesie, che hanno anche intonato insieme a lui la canzone “Azzurro”. Incontro con il poeta Franco Arminio per i detenuti degli istituti di Pena di fermo e Ascoli Piceno. È avvenuto nell’ambito del progetto “Ora d’aria”, una serie di laboratori ideati da un altro poeta Luigi Socci, direttore artistico del poesia festival “La punta della lingua”, che ha accompagnato Arminio insieme al Garante regionale delle Marche Andrea Nobili. Franco Arminio ha fatto quello che fa di solito, nelle sue letture in giro per l’Italia. Ha letto le sue poesie e una, che inizia con i tre intensi versi “Abbiamo bisogno di contadini,/di poeti, gente che sa fare il pane,/che ama gli alberi e riconosce il vento”, l’ha fatta tradurre nei vari dialetti parlati dai detenuti. Poi ha cantato, insieme al pubblico dei ristretti, la canzone Azzurro. Ad Ascoli Piceno l’esperimento è talmente riuscito che ha spinto un gruppo di detenuti nigeriani a cantare una canzone del loro paese. La giusta quantità di dolore di Laura Montanari La Repubblica, 29 settembre 2019 “La giusta quantità di dolore”, di Giada Ceri Exorma, € 14. “In carcere i minuti e le ore hanno un’altra velocità”. Lei lo sa perché collabora nel terzo settore con progetti in area penitenziaria. “La giusta quantità di dolore” è il reportage narrativo scritto da Giada Ceri e pubblicato da Exorma che il 2 ottobre alle ore 18 verrà presentato alla libreria Ibs di Firenze (in via dè Cerretani). La prefazione è affidata a Luigi Manconi: “Occultamento, rimozione, separazione: ecco altrettante procedure che escludono il carcere e i carcerati dallo sguardo di chi non sta in carcere e non è carcerato, dunque dall’opinione pubblica e dalla stessa dialettica democratica”. Il viaggio comincia da Sollicciano: “Casa circondariale, dice la targa all’ingresso. Siamo oltre i confini della città e qua intorno non c’è molto altro. Non un bar non un’edicola, un giardino. Nemmeno gli autobus si spingono nel luogo della pena”. Parla del carcere di Firenze, ma potrebbe essere quello di Ranza a San Gimignano costruito come un gigantesco fungo in mezzo a una valle senza nessun servizio intorno. O altri. Giada Ceri racconta in questo viaggio come sono le carceri dall’interno, viste da un convegno dedicato alla loro architettura, le considerazioni sul 41bis (il carcere duro), le “domandine” che scandiscono bisogni e desideri dei detenuti, l’ergastolo bianco, la fine degli Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario), il Giardino degli Incontri, il teatro a Volterra (e le cene Galeotte con il curioso l’elenco degli alimenti che possono entrare in carcere e quelli no). Fra i pregi del libro c’è una narrazione sciolta e al tempo stesso disincantata di chi ha sentito ripetere tante volte le stesse frasi da esperti, presunti esperti, passanti. Ambiente. I movimenti denunciano i governi, mille cause per la giustizia climatica di Cecilia Erba Il Manifesto, 29 settembre 2019 Dagli Usa all’Europa associazioni e singoli cittadini portano l’inezia degli Stati nei tribunali chiedendo il risarcimento dei danni subiti. Nel corso degli ultimi anni, il numero di azioni legali correlate ai cambiamenti climatici è aumentato esponenzialmente. Secondo il Climate Change Litigation Database, sono oltre 1000 i casi già depositati nei tribunali di tutto il mondo che riguardano gli impatti dei cambiamenti climatici, i rischi che questi implicano per la società e la popolazione, la mancanza di misure di mitigazione o azione, la responsabilità degli Stati e delle imprese, l’inadempienza delle autorità locali o nazionali. Se ogni caso è differente per ovvi motivi legati al contesto giuridico, al tribunale competente e al tipo di azione, tutti chiedono l’intervento del giudice per contribuire ad arrestare la crisi climatica in atto. Da oltre trent’anni, la comunità scientifica lancia infatti allarmi sempre più gravi. I rapporti dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici istituito già a fine anni ‘80 che raccoglie migliaia di scienziati da tutto il mondo, restituiscono un quadro sempre più preciso e drammatico dei danni causati dall’uomo al clima mondiale e di quello che ci attende se continueremo sulla stessa strada: lo stravolgimento dei nostri ecosistemi e la distruzione di larga parte di quelle risorse naturali che attualmente sostengono le società umane. Allo stesso tempo, la soluzione è sempre stata chiara: tagliare le emissioni di gas serra, abbandonare i combustibili fossili, smettere di sfruttare il pianeta in modo eccessivo. Tuttavia, le misure finora adottate dai governi sono assolutamente inadeguate alla portata della crisi, se non in molti casi in direzione contraria. Secondo Carbon Brief, dal 2000 a oggi la capacità di generazione energetica a carbone è raddoppiata nel mondo, mentre ad agosto 2019 il tasso di deforestazione dell’Amazzonia era cresciuto del 300% solo rispetto all’anno precedente. E senza andare troppo lontano, lo Stato italiano continua a identificare nel gas una risorsa strategica nel proprio mix energetico, rimandando l’abbandono dei combustibili fossili a dopo il 2040, come emerge dal Piano Nazionale Energia e Clima pubblicato a inizio 2019. Tutto ciò trova riscontro nel fatto che, nonostante i proclami dei rappresentanti governativi durante gli annuali summit internazionali sul clima, come quello che nel 2015 ha portato all’adozione del tanto sbandierato Accordo di Parigi, le emissioni globali di anidride carbonica, invece che diminuire, continuano ad aumentare: dell’1.7% nel 2017 e di ben il 2.7% nel 2018. A fronte di tutto ciò, una serie di organizzazioni, movimenti, comitati e singoli cittadini ha deciso di ricorrere ai tribunali e all’azione legale per chiedere che la crisi climatica, nelle sue molteplici sfaccettature, venga arrestata. Nel 2015, con la storica sentenza della corte distrettuale dell’Aia, la Fondazione Urgenda e circa 900 cittadini hanno vinto la causa intentata contro lo Stato olandese. Per la prima volta, un giudice ha richiesto che uno Stato adotti misure di precauzione sui cambiamenti climatici, riconoscendo l’obbligo legale di proteggere i propri cittadini e le generazioni future. Nel verdetto, si sottolinea come l’Olanda, in quanto Paese sviluppato, debba assumere un ruolo guida nella riduzione delle emissioni di gas serra a livello globale, adeguandosi alle misure individuate dalla comunità scientifica per prevenire le conseguenze più pericolose dei mutamenti del clima. Il caso Urgenda non ha ancora concluso definitivamente l’iter giudiziario, ma le successive sentenze nei vari gradi di appello non hanno fatto altro che rafforzare quanto stabilito dalla prima corte, e i principi espressi hanno ispirato nuove azioni legali in vari Paesi. In Francia, quattro organizzazioni hanno lanciato l’Affaire du Siècle, citando in giudizio lo Stato francese per l’inazione sia in campo di mitigazione che di adattamento dei cambiamenti climatici, sostenuti da una petizione che ha raccolto oltre 2 milioni di firme di cittadini che condividono l’iniziativa. Con il peoplès climate case, dieci famiglie di diversi Paesi europei ed extraeuropei che già stanno subendo gli impatti dei cambiamenti climatici hanno deciso di fare causa contro l’intera Unione Europea, contestando l’inadeguatezza delle azioni e dei target adottati per la riduzione delle emissioni, non in linea con quanto richiesto dalla comunità scientifica. Secondo la loro argomentazione, se non vengono adottate misure adatte ad evitare stravolgimenti climatici disastrosi, misure che tra l’altro sarebbero nel pieno delle capacità economiche e tecnologiche dell’Unione, la tutela dei diritti fondamentali della popolazione viene messa a rischio. La Corte ha respinto in primo grado la causa per motivi procedurali, riconoscendo tuttavia che i cambiamenti climatici hanno delle conseguenze su ogni individuo, e già sono stati depositati i documenti per l’appello. Sulla stessa linea, anche in Germania, Irlanda, Svizzera, Gran Bretagna, Grecia e altri Paesi europei sono stati lanciati o sono in preparazione azioni legali per contestare l’azione dei governi e chiedere la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, il rispetto dei principi di equità tra le nazioni e di giustizia tra le generazioni, l’applicazione del principio di precauzione. In Italia, la campagna Giudizio Universale, promossa al momento da circa 100 associazioni, comitati, movimenti e realtà della società civile e lanciata il 5 giugno 2019, anticipa la prima causa climatica contro lo Stato. Le emissioni italiane si sono infatti ridotte di appena il 17% rispetto al 1990, una cifra molto deludente se si pensa che già nel 2007 l’IPCC chiedeva che i Paesi sviluppati le tagliassero del 25-40% entro il 2020. Dato che gli allarmi della comunità scientifica sono rimasti inascoltati per così tanto tempo, e che nel frattempo la concentrazione di gas serra in atmosfera, da cui dipende la gravità del riscaldamento globale, è aumentata, sono necessarie adesso misure ancora più drastiche di quanto non si pensasse in passato, come spiegato nell’ultimo rapporto speciale dell’IPCC pubblicato nell’ottobre 2018. Eppure, l’Italia non sembra preoccuparsene: nonostante a causa della posizione geografica nel bacino del Mediterraneo, delle caratteristiche del territorio e dell’eccessiva urbanizzazione e sfruttamento rischiamo che il cambiamento del clima globale abbia conseguenze catastrofiche nel nostro Paese, si continua a investire nelle fonti fossili e a rimandare la transizione verso una società a zero emissioni. E se allora gli stati falliscono nella fondamentale missione di proteggere i diritti dei propri cittadini, se le imprese sono libere di continuare a emettere e inquinare, la sentenza di un giudice può rappresentare un ulteriore strumento di rivendicazione in una battaglia che, in fondo, è per la nostra sopravvivenza. Ambiente. Greta, i suoi critici e l’arte di invecchiare di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 29 settembre 2019 Sono ingenui, gli studenti che sognano di evitare la catastrofe climatica che s’annuncia? Alla loro età, noi straparlavamo di politica, della quale capivamo poco o niente. Göterborg, Bokmässan. Una fiera del libro piena di capelli biondi e codini grigi, e residenti dall’aria post-scandinava: africani e mediorientali che la Svezia - un paese di soli 10 milioni di abitanti - ha accolto in gran numero, con generosità e non senza conseguenze. Atmosfera internazionale, per un paese che resta globale oppure chiude; ma capirlo è faticoso. I sovranisti locali - Sverigedemokraterna, Democratici Svedesi, un nome involontariamente autoironico - sfruttano i malumori, raccattano già un voto su cinque, e crescono. Questa è anche la terra di Greta Thunberg, l’adolescente più conosciuta e influente del pianeta. C’è qualcosa di nordico, nella sua serietà e nella sua resilienza. E c’è qualcosa di antico nel modo in cui viene criticata. Soprattutto da chi ha tre o quattro volte i suoi anni. Greta viene dipinta da molti adulti - lo sapete - come una ragazzina ingenua, retorica e superficiale; e coloro che la sostengono vengono accusati di strumentalizzarla, di avallare una protesta ambientale che non porterà a niente. È difficile capire come queste persone - sono molte, anche in Italia - possano mancare il punto centrale: Greta è un simbolo. Il simbolo di un risveglio necessario. Una sorta di coscienza adolescente del pianeta, che grida: ehi, siamo messi male. Perché siamo messi male, e i negazionisti del cambiamento climatico sono stupidi o in malafede: non hanno visto i ghiacciai sciogliersi e i temporali trasformarsi in uragani? Non ogni vent’anni, tre volte ogni estate. I personaggi-simbolo, che hanno finito per impersonificare una buona causa, non sono nuovi: è successo nel campo della non-violenza, dei diritti civili, del rispetto dell’infanzia e della condizione femminile. Non sempre queste persone hanno scelto di diventare la bandiera di un’idea il cui tempo era arrivato. È accaduto, e basta. Sono ingenui, gli studenti che sognano di evitare la catastrofe climatica che s’annuncia? Risposta: e se anche fosse? Alla loro età, noi straparlavamo di politica, della quale capivamo poco o niente. Eravamo migliori? Non credo. Ai tanti miei coetanei che non capiscono, accusano e dileggiano Greta & C., dico: invecchiare bene è difficile. Ma bisogna provarci. Migranti. Se vogliamo lo “ius soli” cambiamogli il nome di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 29 settembre 2019 Per evitare una scelta suicida, per la legge meglio adottare la definizione “ius culturae”, condizionato a un ciclo di studi. La scelta di tempo appare suicida: con una maggioranza ancora così fragile e un’opinione pubblica diffidente. La riapertura allo ius soli - Boldrini testimonial - regalerebbe alla destra salviniana un referendum abrogativo a colpo quasi sicuro se Pd e Cinque Stelle varassero la legge. Le battaglie di testimonianza sono necessarie, ma la politica è altro. Dunque va anzitutto archiviata la definizione ius soli, affossata dalla impopolarità. Nessun automatismo alla nascita se si vuole evitare il facile slogan di “Italia sala parto dell’Africa”. Resta tuttavia il buon diritto di quasi un milione di bambini e ragazzi che, nati qui o arrivati qui in fasce, qui hanno studiato, parlano un italiano migliore di molti parlamentari e fremono alle note dell’inno di Mameli più di molti leghisti (che un partito tanto a lungo ostile all’Italia neghi loro la cittadinanza nel nome dell’italianità è uno dei paradossi di questo tempo confuso). Dunque, che sia ius culturae: condizionato a un ciclo di studi. E che sia collegato a immagini concrete, svincolandolo dal suolo di nascita. Il quattordicenne del Mali, annegato con la pagella cucita nella giacca, sarebbe stato magari uno splendido liceale del Parini di Milano. E il piccolo Aylan Kurdi, morto a tre anni sulla spiaggia di Bodrum, per qualche percorso imperscrutabile sarebbe potuto diventare un bravo scolaro della Mazzini di Roma. I numeri vanno riempiti di persone reali se si vuol tornare a quando, nel 2011, prima di avere il cuore congelato dalla paura, 7 italiani su 10 volevano la cittadinanza per i figli di migranti, costretti ora a diventare eroi per ottenerla come Ramy e Adam, i ragazzini del pullman di San Donato. Per evitare a un milione di giovani italiani l’esclusione da concorsi e occasioni pubbliche, la norma deve avere un volto. E forse non sarebbe il suicidio politico che oggi appare, una legge Aylan. Migranti. La Guardia costiera libica è una grande fake news di Andrea Palladino L’Espresso, 29 settembre 2019 Non esiste un vero centro di coordinamento soccorsi libico. Lo si scopre tra gli omissis della documentazione del progetto finanziato da Bruxelles per la “Sar zone” libica messo sotto segreto. Chi è allora a coordinare le azioni delle motovedette? Seimila persone in appena otto mesi. Donne, bambini, uomini con i segni dei viaggi nel deserto e delle torture. Sono le persone fuggite dai centri di detenzione libiche e che a quell’inferno sono state restituite dalla Guardia costiera libica. “Salvati”. dice Tripoli. “Contenuti”, ha spiegato il primo ministro Giuseppe Conte. Riportati in un porto non sicuro per la loro incolumità, nei fatti. La Guardia costiera di Tripoli è una creatura tutta italiana. Le motovedette che hanno recuperato in mare i migranti naufraghi sono state donate da Roma, la formazione del personale avviene all’interno delle nostre basi navali. E, da più di un anno, il centro di coordinamento dei salvataggi Mrcc delle Capitanerie di porto affida tutte le operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale agli ufficiali di al-Sarraj. Dove prima operava Mare Nostrum, oggi agiscono le motovedette libiche. Un cambio di strategia avvenuto grazie ad un’azione finanziata nel 2017 dalla Commissione europea e affidata al comando generale delle Capitanerie di porto italiane. Per operare nella “ricerca e salvataggio” dei migranti, la Guardia costiera di Tripoli aveva bisogno di un riconoscimento internazionale, ovvero della dichiarazione di una propria zona Sar, le coordinate che delimitano l’area di competenza per il soccorso. Fino al giugno 2018 non esisteva e, dunque, il coordinamento dei salvataggi non poteva essere gestito da Tripoli. Il progetto europeo affidato all’Italia aveva l’obiettivo di far dichiarare ai libici la propria area “search and rescue”. Era il passaggio necessario per quell’opera di “contenimento” citata da Giuseppe Conte: fermare i migranti nel golfo della Sirte, impedire i salvataggi da parte di navi europee, che avrebbero avuto l’obbligo di portare i naufraghi in un porto sicuro. Di certo non in Libia. La struttura della Guardia costiera di Tripoli appare, però, come una sorta di finzione. Mezzi e intelligence italiani (“ringrazio i nostri apparati”, ha detto Conte), supporto del nostro governo, con una linea di comando opaca. La documentazione del progetto finanziato da Bruxelles per la Sar zone libica è stata messa sotto segreto. Prima dall’Italia, che ha bollato come “classificato” il rapporto sulla capacità di effettuare salvataggi da parte dei libici. Poi dalla stessa Commissione europea, che ad una richiesta di accesso agli atti ha risposto con un dossier in buona parte coperto da omissis. Tra le righe oscurate appare però un dettaglio chiave: non è mai esistito un vero centro di coordinamento dei soccorsi libico. Una struttura fantasma. Nella lettera di conclusione del progetto del 16 aprile scorso, inviata dalla Commissione europea al comando generale delle Capitanerie di porto italiano, si parla appena di “futura installazione del centro libico di coordinamento dei salvataggi marittimi”. Un centro che oggi non c’è. Chi coordina, dunque, sul campo le azioni delle motovedette? Chi è al comando delle azioni di “contenimento” dei migranti operate dagli ufficiali di al-Sarraj? È il segreto tenuto sotto chiave, tra Bruxelles e Roma. Le linee guida per la religione e la sicurezza di Marco Ventura Corriere della Sera, 29 settembre 2019 Il nuovo documento Osce incoraggia il rispetto dei credenti. Il 19 settembre scorso è stato presentato a Varsavia il primo documento interamente dedicato al binomio sicurezza e religione nella storia della comunità internazionale. La policy guidance su “Libertà di religione o credo e sicurezza” è un documento dell’Odihr, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Non è un testo adottato dai 57 Paesi che partecipano all’Osce, né tantomeno uno strumento giuridicamente vincolante. Tuttavia i principi di questa guida al rispetto dei credenti nelle politiche sulla sicurezza sono dedotti da fonti autorevoli, talvolta dal lavoro delle corti internazionali, e su di essi vi è un vasto consenso tra esperti, governi e confessioni religiose. È dunque presumibile che il documento abbia un impatto significativo nella vasta regione Osce: da Vancouver a Vladivostok, da Canada e Stati Uniti a Ucraina e Russia, dai paesi dell’Unione europea a Turchia e Armenia. Nata nel 1975 con l’Atto finale di Helsinki quale piattaforma di confronto tra i due blocchi della guerra fredda, e ridisegnata dopo il 1989 per sostenere il processo di democratizzazione negli ex Paesi comunisti, l’Osce ha nel proprio Dna la ricerca di un compromesso politico tra parti in conflitto che tuteli la sicurezza nella regione attraverso la cooperazione dei governi e nella società civile. Proprio tale vocazione spiega perché l’Osce arrivi per prima a produrre linee guida in una materia cruciale. Nel mondo contemporaneo, il rapporto tra religione e sicurezza pone una sfida a due facce. Da un lato, nella religione si identifica una causa, spesso la causa, dell’insicurezza su scala globale e locale. Dall’altro, la risposta al fenomeno prende la forma di politiche restrittive nei confronti dei credenti. Entrambe le facce allarmano. L’emergenza sicurezza ha tante cause e tante sono le traiettorie del religioso. Il rapporto tra insicurezza e fedi, perciò, non va né esagerato né sminuito. Ridurre il problema alla religione, assolutizzando e semplificando, non funziona neppure nei casi in cui è palese la ragione religiosa della minaccia alla sicurezza, come, a seconda dei punti di vista, nel terrorismo islamista e nelle guerre di vendetta anglo-americane in nome della civiltà cristiana. Anche le politiche restrittive della libertà religiosa in difesa della sicurezza sono sbagliate. Di rado nuocciono davvero a chi porta una minaccia reale: più spesso colpiscono nel mucchio, alla rinfusa. Soprattutto, si usa il pretesto della sicurezza per contrastare la diversità religiosa e per proteggere monopoli e privilegi, come in Italia quando si impedisce la costruzione di luoghi di culto non cattolici o si escludono i musulmani dall’8 per mille. È la deriva di offensive contro la radicalizzazione e l’estremismo attraverso le quali opera una sofisticata macchina della propaganda e si compatta il noi maggioritario a spese del voi religioso minoritario. Ne sanno qualcosa i testimoni di Geova in Russia: altri 6 di loro sono stati appena condannati per “estremismo” a Saratov, sicché è salito a 42 il numero di membri della confessione detenuti nel Paese (in 23 sono poi ai domiciliari, ad altri 21 è stata vietata ogni attività religiosa, e in totale 252 sono sotto indagine). Trascinati dal vortice, Paesi abituati a politiche aggressive d’ingerenza religiosa hanno aumentato la pressione sulle minoranze, dalla Russia, appunto, alla Turchia e alle repubbliche centrasiatiche post-sovietiche, mentre Paesi pure tradizionalmente devoti alla neutralità e all’equidistanza, come Francia e Usa, hanno introdotto pesanti deroghe in vista della costruzione di una religione “moderata” sotto tutela governativa. Il pericolo è avvertito da esperti e attori. Per suonare l’allarme si è coniata l’espressione PVEd religion, dove Pve sta per “prevenzione dell’estremismo violento”. La religione “pezzata” nel senso di religione subordinata alla prevenzione dell’estremismo violento è anzitutto un problema culturale: se la sicurezza è la lente con la quale s’interpreta il fenomeno religioso, diviene impossibile lo sguardo ampio, aperto, che invece serve di fronte alla diversità religiosa di oggi. Essa è poi un problema politico, e giuridico, quando diventa una categoria ispiratrice delle strategie governative, interne ed estere, in nome della quale si legittimano indiscriminate misure restrittive. Cercano di rispondere, con le cautele e i distinguo necessari, le 70 pagine del documento dell’Osce. Da un lato esso propone un linguaggio, una grammatica, un arsenale di concetti contro confusioni e abusi. Dall’altro lato responsabilizza gli attori. Perché la vera sicurezza si edifica non contro i credenti e le loro comunità, ma insieme ad essi. Donne e uomini che non delegarono il coraggio di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu La Lettura - Corriere della Sera, 29 settembre 2019 Accadde nella Germania hitleriana e nell’India britannica, nell’Alabama segregazionista e nel Vietnam in guerra, nella Praga invasa dai sovietici e nell’Irlanda del Nord dei “troubles”, nella Polonia comunista e in piazza Tienanmen: persone che decisero di spendersi personalmente per la libertà, rischiando tutto, praticando la non violenza, senza predicare restando nascosti. Talvolta morirono, talvolta le loro ragioni vennero riconosciute molti anni dopo, ma la storia rivelò che non avevano avuto torto. Nel 1955, nella città americana di Montgomery, Alabama, per un nero avere diritti civili significava non dover cedere il proprio posto a un bianco, se questi era rimasto in piedi. Nel 1980, in Polonia, per gli operai avere diritti civili significava non essere pagati come schiavi. Nel 1968, a Praga, chi chiedeva diritti civili non voleva più obbedire a una potenza straniera, l’Urss. Questo aveva un nome: libertà. Ma né in Alabama né in Polonia né a Praga quella libertà sarebbe stata mai conquistata senza persone disposte a sacrificare vita, lavoro, famiglia. Sconosciuti che da soli misero in moto la storia con il proprio esempio. E che non chiesero ad altri di pagare il conto, come invece fecero i predicatori di rivoluzioni violente, relegati poi nella spazzatura della storia. In Alabama cambiò la storia la sartina Rosa Parks, a Danzica l’elettricista Lech Walesa, a Praga lo studente Jan Palach. E tanti altri, in altri Paesi. Non piegarono la schiena, scelsero di non tollerare l’ingiustizia. Scelsero: cioè praticarono l’unico vero diritto che un essere umano abbia su questa terra, il libero arbitrio. Conobbero la paura, come tutti, ma non le permisero di umiliarli. Smentirono il detto manzoniano: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Se furono condizionati dalle circostanze storiche in cui vissero, come tutti lo siamo, non ne furono però prigionieri. Non avevano eserciti né ricchezze dietro di loro. Non predicavano la salvezza del mondo. Ma la dignità dell’individuo, di ogni individuo. Alcuni di loro furono dimenticati per dieci, venti, trent’anni. Ma non scomparvero mai del tutto, sono diventati simboli più forti della macina del tempo. Il loro esempio scorre, come certi rivoli carsici che non perdono mai la loro energia nascosta. Basta saperli trovare e ascoltare il loro scrosciare. Sophie Scholl, la giovane Rosa bianca Sophie Scholl aveva 21 anni quando fu decapitata il 22 febbraio 1943, dalla lama d’acciaio pesante 15 chili della ghigliottina nella prigione di Monaco di Baviera. Scarabocchiò dietro il foglio della sentenza una parola: Freiheit, libertà. Motivazione della condanna: aver seminato nelle strade migliaia di volantini antinazisti, aver vergato sui muri “Hitler assassino del popolo”. E aver scritto: “Niente è più indegno di una nazione civilizzata che lasciarsi governare senza alcuna opposizione da una cricca che fa leva sugli istinti più elementari… Il danno reale è fatto da quei milioni di cittadini onesti che vogliono solo essere lasciati in pace... Copiate e diffondete”. Sophie era una studentessa di filosofia dal volto anonimo. Lei, il fratello Hans e altri avevano fondato un piccolo gruppo, la Rosa bianca, dal titolo di un’opera di Clemens Brentano, scrittore del Romanticismo tedesco autore di poesie e canzoni contro Napoleone. I loro volantini, 7 in tutto, usciti da un vecchio ciclostile, rivelarono già nella prima fase della guerra: “Da quando la Polonia è stata conquistata, 300 mila ebrei sono stati massacrati in quel Paese, nella maniera più bestiale”. Questa, secondo alcuni storici, fu la prima denuncia all’Olocausto in terra ed epoca naziste da fonte tedesca. Nessuno, fra chi trovò quei volantini, poteva più giustificarsi con un “non sapevo”. I fogli dicevano anche altro: “Il tedesco non deve sentire semplicemente pietà: egli deve sentire la colpa. Ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!”, sottolineato tre volte. Sophie e i suoi compagni furono arrestati quando il bidello che li conosceva da tanti anni li denunciò alla Gestapo. Ma Traudl Junge, ultima segretaria personale di Hitler, la fedelissima che raccolse il suo testamento e scrisse “ero troppo giovane per capire”, alla fine della vita annotò nei suoi diari: “Un giorno notai la targa alla memoria di Sophie Scholl in Franz Joseph Strasse a Monaco, e quando mi sono resa conto che quella ragazza era stata giustiziata nel 1943, ne fui profondamente scioccata. Anche lei all’inizio era stata una ragazza del Bdm (la sezione femminile della Gioventù hitleriana, ndr), di un anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale. La mia scusa perdeva ogni consistenza”. Il “fachiro” che sconfisse Churchill Un uomo può sconfiggere un impero, e nello stesso tempo essere tormentato dalle paure. Gandhi temeva il buio, i serpenti, i fantasmi. Ed era anche pieno di contraddizioni. Churchill lo aveva definito “un fachiro seminudo, nauseante”. Da adulto, con il voto del brahmacharya, rinunciò al sesso, ma da ragazzo era stato divorato da una vera ossessione sessuale per la moglie quattordicenne Kasturba. Un giorno che aveva il padre morente fra le braccia, quando questi si assopì, corse subito dalla moglie-bambina, la svegliò per fare l’amore. E nel frattempo, il padre morì: “La vergogna era la vergogna del mio desiderio carnale perfino nel momento tragico della morte di mio padre”. Ma non sono i dettagli biografici a fare la storia. Molto più conta l’ammirazione da lontano di Churchill - proprio quel Churchill che di Gandhi si era fatto beffe - per il Mahatma che abbracciava anche gli “intoccabili”. Alla fine, il “fachiro seminudo, nauseante” vinse nel 1947 l’impero britannico, che dominava su 412 milioni di persone, con le sue marce pacifiche e i digiuni a oltranza. Sempre in prima fila, non mandò altri al suo posto. Gli estremisti indù lo chiamavano codardo e traditore. Ma le loro bombe non scalfirono l’impero di Londra. E furono loro nel 1948, a uccidere Gandhi. Lui si era detto pronto a dare l’unica cosa che poteva dare: la sua vita. E così fece. Il “no” della sartina dell’Alabama Rosa Parks era una sartina di 42 anni, e il 1° dicembre del 1955 aveva preso l’autobus per tornare a casa dal lavoro. La Corte distrettuale federale dell’Alabama doveva stabilire se la segregazione razziale violasse la Costituzione. Quel giorno l’autobus era affollato, e Rosa si era seduta come sempre nella fila riservata ai neri, ma l’autista James Blake le aveva ordinato di cedere il posto a un bianco, rimasto in piedi. E lei rispose: “No”. Fu arrestata, licenziata. La comunità nera di Montgomery indisse il boicottaggio degli autobus, cosa mai vista prima. Durò per mesi. Nel frattempo, la comunità elesse come capo il giovane Martin Luther King. Nel 1956 prima la Corte per l’Alabama e poi la Corte Suprema confermarono l’incostituzionalità della segregazione razziale sugli autobus. Rosa morì a 92 anni, prima donna americana a ricevere onoranze funebri nel Campidoglio. Saigon, il monaco che si diede fuoco Nel 1963, il Vietnam del Sud buddista era governato da un aristocratico della minoranza cattolica, Ngô Dình Diem, finanziato dagli americani. La guerra civile tra il governo e i vietcong comunisti era già iniziata. E i monaci buddhisti, che guidavano la cultura del Paese ma erano seguaci della non violenza, pregavano e stavano a guardare. Finché uno di loro, l’abate Thích Quang Dúc, capo della principale pagoda di Saigon, non si immolò per protesta contro la repressione anti-buddhista, la corruzione e l’asservimento del Paese agli Usa. Aveva 66 anni, apparteneva alla corrente Mahayana che vieta il suicidio. Ma si sedette ugualmente su un cuscino nel centro di Saigon, lasciò che due confratelli gli versassero sul corpo un bidone di benzina, e poi accese da solo il fiammifero. Impiegò 10 minuti a morire, immobile, senza un lamento. L’immagine del suo saio arancione in fiamme fece il giro del mondo, e milioni di persone divennero consapevoli di una guerra e una repressione fino al quel momento pressoché ignorate. Era l’11 giugno ‘63. La guerra del Vietnam si sarebbe chiusa solo nel ‘75, ma la sua fine simbolica era cominciata con il suicidio del bonzo. “Come un solo fiammifero può accendere una rivoluzione”, titolò anni dopo il “New York Times”. Praga, la spallata nel nome di Jan Palach Sei anni dopo, da questa parte del mondo, qualcun altro scelse il fuoco per rivendicare la libertà del suo popolo. “Io sono la torcia numero uno”, scrisse a 19 anni Jan Palach, nella lettera che lasciò agli amici. Fino ad allora era stato uno studente universitario timido, appartato. Il 16 gennaio 1969, in piazza San Venceslao nel centro di Praga, si versò addosso un bidone di benzina per protestare contro l’occupazione militare sovietica del 1968. Sembrò un sacrificio inutile, il suo, il regime ne occultò persino la tomba. Ma vent’anni dopo, il 17 novembre 1989, mezzo milione di persone riempì la piazza san Venceslao, là dove la torcia si era accesa. Gridavano: “Svoboda”, libertà. E: “Palach! Palach!”. Non avevano dimenticato quel nome. Lo stesso che, nell’estate del 1969, l’astronomo Luboš Kohoutek - in esilio dopo l’invasione sovietica - aveva attribuito a un asteroide che aveva appena scoperto: Palach 1834. Poche settimane dopo la manifestazione di piazza San Venceslao, lo scrittore dissidente Vaclav Havel, appena reduce dal carcere, fu eletto presidente. A Est il mondo stava cambiando e la Cecoslovacchia era tornata nell’Europa libera. Anche nel nome di Jan. Quando il digiuno di Sands sostituì il mitra Non voleva indossare l’uniforme del detenuto, Bobby Sands. Voleva che il Regno Unito lo rispettasse come prigioniero politico, patriota della “sua” Irlanda repubblicana. Aveva 27 anni, militava nel gruppo armato dell’Ira. “Armato”, appunto, e infatti Sands fu imprigionato per detenzione illegale di 4 pistole. Ma nel 1981, lui (e altri 9 compagni detenuti) divenne veramente pericoloso per Londra quando scelse un’arma più potente, la stessa di Gandhi: sciopero della fame. Proprio come con Gandhi, molti militanti non li capirono, li criticarono. Sands morì dopo 66 giorni di digiuno. Margaret Thatcher rifiutò di negoziare con lui. Però, nel 1998, Londra e Dublino firmarono l’accordo del Venerdì Santo. E le due Irlande hanno avuto vent’anni di pace. Forse, la morte di Bobby non era stata inutile. Anche se ora, con la Brexit che incombe, tutto potrebbe tornare tragicamente in gioco. Lech Walesa, il coraggio di un elettricista Secondo molti storici, l’uomo che diede il primo scossone al blocco comunista sovietico fu Lech Walesa. Un giorno sarebbe diventato Nobel per la Pace e capo dello Stato. Ma all’inizio era solo un elettricista nato in un minuscolo villaggio polacco. Da ragazzo Walesa aveva visto la gente schiacciata dai carri armati a Poznan, nel 1956. Nel 1980, con pochi amici fondò Solidarnosc, primo sindacato libero del mondo comunista. Fu licenziato, arrestato. Guidò gli altri allo sciopero generale, contro l’aumento dei prezzi alimentari, a mani alzate, fermando chi cercava la violenza. Diceva: “Temo solo Dio. E mia moglie… qualche volta”. Avevano 8 figli ma lui non disse mai: “Tengo famiglia”. Rischiò tutto. E convinse milioni di altri, né eroi né santi, a rischiare con lui. Certo, c’era il papa polacco e il vento stava cambiando, ma senza il suo coraggio la storia europea avrebbe avuto un altro corso e altri tempi. Oggi è un pensionato qualsiasi. Scrisse una volta: “Chiunque cerca di fermare con le mani le ruote della storia avrà le dita spezzate”. Hong Kong, l’ombra del ragazzo che sfidò i tank Queste persone hanno avuto in comune tre cose: coraggio, sguardo visionario oltre il quotidiano, volontà di assumersi una responsabilità personale incondizionata. La stessa che spinse quel ragazzo cinese a fermare il carro armato vicino a piazza Tienanmen nel giugno 1989. Nessuno sa che fine abbia fatto né dove sia finito il soldato che si rifiutò di “tirare dritto”. Ma il governo cinese non è riuscito a seppellirne la portata simbolica, che oggi potrebbe materializzarsi fra i milioni di manifestanti di Hong Kong. E l’esito stavolta potrebbe essere diverso. Afghanistan. Elezioni tra bombe e seggi chiusi, l’affluenza è scarsa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 settembre 2019 “Elettori demotivati, ma soprattutto spaventati”. I dati ufficiali sull’affluenza non sono ancora disponibili e lo spoglio richiederà settimane. L’esito più probabile resta un ballottaggio tra i due candidati maggiori. Alla fine il “bagno di sangue” minacciato apertamente dai Talebani ieri non c’è stato. Il ministero degli Interni riporta il dato ufficioso di 5 morti e una quarantina di feriti in tutta la giornata elettorale. Nelle ultime ore tuttavia sono comparsi dati ufficiosi per cui i morti potrebbero anche essere una ventina. E gli attentati più numerosi. Ancora poco, se si pensa che la media quotidiana dei morti per sparatorie e attentati si aggira ormai sul centinaio. Ma paura e conseguente astensionismo generalizzato hanno caratterizzato le quarte elezioni presidenziali afghane dalla caduta del regime del Mullah Omar nel 2001. I candidati - I dati definitivi si conosceranno soltanto tra due o tre settimane e forse più, anche se già emergono virulente le consuete accuse di broglio. E quasi certamente si dovrà andare al ballottaggio tra i due candidati maggiori. I quali per ora restano gli stessi che si sfidarono nel 2014: il presidente oggi in carica Ashraf Ghani e il suo vicario operativo Abdullah Abdullah, la cui posizione di compromesso fu allora faticosamente raggiunta dalla mediazione americana per evitare un’impasse catastrofica. Nessuno è ancora in grado di fornire alcuna indicazione sul tasso di partecipazione. Un dato importante alla luce della politica talebana e dei gruppi jihadisti di delegittimare qualsiasi governo del Paese che non sia sotto il loro controllo. Nella regione di Kabul, paralizzata da centinaia di posti di blocco e pattuglie militari volanti, è comunque emersa evidente la mancanza di elettori. Strade vuote, urne disertate. Nella decina di seggi che abbiamo visitato tra il centro e le periferie abbiamo incontrato per lo più funzionari sfaccendati e sale silenziose. In quello di Charkalà Wazirabat, uno dei quartieri poveri e molto popolati, pochi minuti prima della chiusura alle 17 su circa 3.200 registrati solo 1.500 avevano votato. Alle parlamentari dell’anno scorso erano stati 2.500. “Molti sono demotivati, temono i brogli. Ma soprattutto la gente ha avuto paura”, dichiara il presidente delle seggio, il 37enne Obaidallah Amiri. Poco lontano, nel seggio posto nella scuola di Khalilullah Khalili, i timori si erano concretizzati nello scoppio di due bombe, che hanno ferito tra ragazzini. La seconda verso le dieci della mattina. A metà pomeriggio l’affluenza era di 500 rispetto a 3.600 iscritti. Qui il sospetto era però che le bombe fossero state messe dai sostenitori di Ghani, visto che la zona è massicciamente pro-Abdullah. Il voto femminile - Pochissime le donne. Nel seggio di Khalifa Fatullah su 500 iscritte a mezzogiorno si erano presentate una trentina. Ma quelle che votano lo fanno con entusiasmo. “È un voto per la democrazia contro i Talebani, contro il ritorno della persecuzione delle donne”, affermano. Nell’incertezza generale anche i dati della violenza vanno presi con circospezione. Larghe aree del Paese (forse sino al 70 percento) sono in modo più o meno diretto controllate dai Talebani. Molti seggi non sono neppure stati aperti. Secondo Dejan Panic, Coordinatore dei Programmi dell’ospedale dell’organizzazione umanitaria italiana Emergency a Kabul, la maggioranza delle vittime per attentati ieri veniva dalle regioni del Logar, Paktia, Wardak e Lagman. Spiega: “Abbiamo ricoverato in tutto una trentina di persone. Solo tre di Kabul. Ma è stata per noi una situazione di routine. Ci sono giornate che siamo costretti ad accettare molti più feriti”. La furia di Duterte inguaia le Filippine di Francesco Montessoro La Lettura - Corriere della Sera, 29 settembre 2019 Con Trump, Orbán e Bolsonaro, Rodrigo Duterte può essere ritenuto l’esponente più significativo del populismo mondiale. Propugnatore di metodi spicci e autoritari, il presidente filippino è stato in grado di affascinare vasti strati della popolazione adottando atteggiamenti provocatori e talvolta inconsulti, e un linguaggio violento e scurrile che non ha risparmiato neppure la Chiesa cattolica e Papa Francesco. L’indiscutibile successo mediatico di Duterte è frutto, come accade in altri Paesi, soprattutto di un uso demagogico della paura, agitata di fronte a ceti resi sempre più fragili dall’incertezza economica e dalle difficili condizioni di vita nelle aree metropolitane. E saranno proprio le pur fallimentari campagne per estirpare in pochi mesi la criminalità urbana e piegare il traffico di droga a consolidare l’immagine di Duterte come salvifico “uomo forte”. La sua improvvisa ascesa nella vita politica nazionale, nel 2016, dopo una controversa carriera nella periferica città di Davao, si spiega con la delusione provocata dall’incapacità delle tradizionali élite liberal- democratiche di garantire sviluppo e prosperità: le Filippine, infatti, si sono rivelate un caso fallimentare in termini di crescita economica, soprattutto rispetto ad altri Paesi dell’Asia orientale. Una via, comunque, che non sembra essere stata intrapresa neppure da Duterte, poiché l’attuale presidenza ha introdotto ulteriori elementi di instabilità economica e sociale oltre ad aver minato uno dei pilastri delle relazioni internazionali del Paese. Gravi le implicazioni della sua strategia: il tentativo di mantenere una sorta di equidistanza tra Cina e Stati Uniti non ha costituito affatto, come in altri contesti, una scelta realistica ma ha determinato una rottura drammatica dei decennali rapporti “speciali” tra Washington e Manila. L’allentamento dei legami storici con gli Usa sembra destinata a erodere i vantaggi di cui le Filippine hanno goduto in passato, in cambio di un rapporto con Pechino all’insegna della precarietà e di un problematico condizionamento a lungo termine.