Perché non deve far paura lo Stato responsabile che indaga su San Gimignano di David Allegranti Il Foglio, 28 settembre 2019 “Tra guardie e ladri io sto con le guardie”, ha detto giovedì scorso il senatore Matteo Salvini in un comizio a San Gimignano, solidarizzando con i 15 agenti di Polizia penitenziaria indagati per presunti maltrattamenti e torture nel carcere di Ranza nei confronti di un detenuto tunisino di 23 anni. I giornali hanno raccontato la vicenda con stupore, come se non fosse abbastanza chiaro che in carcere, purtroppo, la violenza non solo fisica abbonda. “Eppure, che esista una struttura organizzata anche attraverso spedizioni punitive e pestaggi è in realtà storia quotidiana delle istituzioni totali quale è il carcere, come ci hanno mostrato alcune vicende come quella della condanna per le violenze nel carcere di Sollicciano, confermata in appello l’anno scorso”, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttore del Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, “L’altro diritto”, garante dei diritti dei detenuti di San Gimignano che ha seguito molto bene la vicenda delle presunte violenze. “Le istituzioni totali hanno una caratteristica, quella di essere impermeabili all’occhio esterno. Il carcere nasce con l’intento di rinchiudere la devianza e nasconderla alla società esterna. Per questo il carcere è invisibile”. Quello di San Gimignano, peraltro, lo è particolarmente. Lontano dal centro abitato, per anni senza una direzione fissa a causa della posizione remota e delle difficoltà di trasporto pubblico (e il vuoto di potere creato dalla latenza di una direzione stabile è altro elemento essenziale per contestualizzare i fatti sotto inchiesta), denso di problemi visto che ospita detenuti ordinari insieme a detenuti di alta sicurezza. “Il carcere di Ranza è infossato in una conca, sepolto alla vista, quasi segreto, un luogo da nascondere e dimenticare. E quanto più invisibile è un carcere, tanto più sono difficili, eppure essenziali, le denunce e il monitoraggio esterno. Invece, sottolinea Ciuffoletti, “la situazione delle carceri andrebbe conosciuta a fondo, al di là degli allarmi dell’ultimo momento. È un lavoro che è poco interessante per la politica e l’opinione pubblica, qualunque cosa voglia questa parola voglia dire oggi. Di carcere si parla unicamente in termini allarmistici, emergenziali”. O in termini strumentali, come fa Salvini appunto quando dice che sta “con le guardie”. Le prime a ribellarsi dovrebbero essere anzitutto le “guardie”, dice Ciuffoletti. “Sono ancora in corso le indagini preliminari, non sappiamo ancora quali saranno le responsabilità. Ci sono però dei referti, che mostrano che delle violenze ci sono state. E l’idea di fare sicurezza attraverso il dispositivo della violenza è controproducente non solo per i detenuti ma anche per la stessa gestione del carcere. Nel momento in cui un carcere viene gestito attraverso dispositivi di violenza, significa che è sfuggito al controllo. Significa che non puoi governarlo”. Per questo le guardie dovrebbero ribellarsi di fronte alla strumentalizzazione a colpi di selfie di Salvini e non ci dovrebbe essere scandalo nel fatto che qualcuno indaghi su presunte torture. “In uno stato di diritto, infatti, proprio questa vicenda dovrebbe esorcizzare la paura, dovrebbe, insomma, rassicurare tutte e tutti noi che viviamo a vario titolo in questo paese, che lo stato, con i propri agenti e funzionari, è, può essere, responsabile delle proprie azioni. Accountability la chiamano nella tradizione giuridica di common law. I funzionari dello stato, insomma, pure all’interno di una istituzione totale, segreta e impermeabile come il carcere, non godono di immunità e anche in Italia, l’habeas corpus, pilastro della civiltà giuridica occidentale, che garantisce l’inviolabilità personale e ne sancisce le guarentigie, è fonte di diritti effettivi e traducibili in questioni pubbliche”. In Italia, invece, “l’impressione atavica e tradizionale della impossibilità di chiamare a responsabilità lo Stato e i suoi funzionari ha generato il pensiero magico secondo cui la richiesta di onestà e incorruttibilità ex ante di politici e funzionari pubblici garantisse una patente di innocenza vita natural durante. Se chiediamo a gran voce l’onestà, questa partorirà i suoi frutti per auto-generazione”. Il punto, invece, “non è tanto sfoggiare patenti di onestà, ma riuscire a far uscire una storia di quotidiana violenza all’interno delle patrie galere e trasformarla da guaio privato di qualche indifendibile criminale in una questione pubblica, attraverso la proceduralizzazione del conflitto e la riaffermazione dei diritti. Ciò che, invece, stupisce e mostra che la realtà, in una buona percentuale di casi, è controfattuale, è che a denunciare i fatti siano stati alcuni detenuti italiani, come nel caso di San Gimignano, e che la presunta vittima sia una persona straniera. Aiutata, a casa nostra”. Insomma, il fatto che lo Stato indaghi dovrebbe rassicurare non spaventare. “Salvini dice apoditticamente che fra guardie e ladri sta con le guardie. Ma qui lui deve scegliere casomai fra lo Stato e il non Stato, tra lo stato responsabile e quello immune da responsabilità. Io voglio stare in uno stato che è responsabile delle proprie azioni, anche penalmente”. Il problema del ragionamento di Salvini è che “egli stesso espone necessariamente a una gogna mediatica quelle stesse persone che a parole vorrebbe supportare. Quando ci sono 15 persone sotto inchiesta non le esponi alla gogna né offri alcun supporto ex ante come capo politico dell’opposizione. Il supporto lo puoi dare agli inquirenti, ai magistrati di sorveglianza, alla direzione e all’area educativa e sanitaria del carcere, ai garanti dei diritti dei detenuti. Insomma, in senso lato all’ organizzazione della giustizia. Altrimenti non fai alcuna differenza, in un corpo di polizia come quella penitenziaria, fra chi commette violenze - e ci sono - e chi non le commette - e sono la maggioranza”. Dove evadere non è un reato: Svizzera, Germania e tanti altri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2019 In Italia si è stabilito un inasprimento del controllo per chi ha “una spiccata tendenza all’evasione”. Nel 2016, dal carcere svizzero, ci fu la famosa evasione con fuga d’amore tra un detenuto e l’agente di polizia penitenziaria innamorata che lo ha aiutato fuggire. Ma si concluse a Romano di Lombardia, provincia di Bergamo. Lui, 27enne siriano, lei 32enne svizzera. Furono stati arrestati dai carabinieri con l’aiuto dei militari del Ros di Milano, rispettivamente per evasione e favoreggiamento dell’evasione. Entrambi ricercati, il 27enne evase dal carcere di Limmattal, vicino a Zurigo in Svizzera, e dove la donna lavorava: secondo l’accusa, quest’ultima avrebbe favorito l’evasione del suo amante la notte tra l’ 8 e il 9 febbraio del 2016. L’uomo rientrò quindi in carcere, ma per l’evasione non ottenne nessuna condanna. Perché? Presto, detto. In Svizzera, secondo l’articolo 310 del codice penale, è punibile chiunque libera detenuti o li aiuta nell’evasione. Non è tuttavia punibile con una pena aggiuntiva chi evade autonomamente da un istituto penitenziario. Una volta ricatturato, infatti, non deve temere alcuna sanzione penale. L’unico rischio che corre è quello di una sanzione disciplinare e la perdita dei benefici della pena. Questo perché viene rispettato il principio della loro Costituzione che sancisce l’irrinunciabile anelito umano alla libertà. Il carcere, infatti, rappresenta in ogni caso una violenza sull’individuo che, se ne ha la facoltà, è naturale tenti di sottrarsi ad una coercizione della sua libertà. Ma non è solo la Svizzera a sancire questo principio. Anche secondo la Germania l’essere umano, per natura, tenderà sempre alla libertà, proprio per questa ragione perfino in una situazione di costrizione prevista dalla legge sentirà sempre l’impulso della fuga. E, in qualche caso, cercherà di metterla in atto. L’autorità ha il dovere di riacciuffare gli evasi dal carcere, ma non di punirlo con una ulteriore pena. Così come l’Islanda e Danimarca, ma anche Paesi non europei come il Messico. In Italia invece, l’evasione è un reato contemplato dall’articolo 385 del codice penale con tanto di pena aggiuntiva da uno a tre anni. Lo stato di arresto o detenzione è presupposto del reato, si integra ogni volta che il soggetto evade da una struttura carceraria, dalla sua abitazione, o da qualsiasi altro luogo indicato nel provvedimento di restrizione. L’autore può essere la persona arrestata in flagranza di reato, chi è stato condannato in via definitiva all’arresto, alla reclusione o all’ergastolo, chi sconta una misura di custodia cautelare, agli arresti domiciliari o custodia in carcere o in casa di cura, i semiliberi che si assentino senza giustificato motivo per oltre dodici ore rispetto al momento del dovuto reingresso nel penitenziario e i detenuti che non rientrino da un permesso, che possono avere ottenuto per prendere parte a un’udienza, le persone fermate dalla polizia. Nelle carceri italiane, sempre più chiuse - mentre in realtà, secondo la Costituzione, devono avere anche il compito di proiettare verso la libertà chi ha commesso i reati - il gesto suicidario compiuto dal detenuto può essere considerato come l’estremo atto di libertà, l’ultima forma di evasione di fronte una potenza coercitiva e limitativa, l’ideale di una vita liberata da una sofferenza rivelatasi ingestibile e insostenibile per colui che la patisce, ma al contempo un atto che dichiara - senza ambiguità, senza alternative - che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione. Ora, in nome del pericolo di evasione, come riportato ieri da Il Dubbio, è stata ordinata una stretta, un ulteriore inasprimento del controllo con tanto di nuova categoria di detenuti, ovvero coloro che “hanno una spiccata tendenza all’evasione”. Ma in realtà, come viene riconosciuto dalla Costituzione di diversi Paesi europei e non, la voglia di libertà è insita naturalmente in ogni uomo. Nel passato, quando il Diritto era un’opinione, in nome del controllo vennero realizzate carceri stile Panopticon. Un tipo di sistema in cui un unico guardiano poteva osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non avendo la percezione di essere sorvegliati o meno, in virtù di questa “invisibile onniscienza”, avrebbero mantenuto una condotta retta e volta alla disciplina, nel rispetto delle regole previste dall’Amministrazione penitenziaria, proprio come se si trovassero sempre sotto osservazione, in ottemperanza al principio che “il potere doveva essere visibile e inverificabile”. Un ritorno a quei tempi, è sempre dietro l’angolo. Vita in carcere, studiare la tecnologia per un futuro migliore di Antonio Palmieri economyup.it, 28 settembre 2019 L’Italia è il primo Paese in cui Cisco ha sperimentato una speciale edizione della Networking Academy per i detenuti. “La certificazione che rilasciamo è complessa e vale in tutto il mondo”, spiega l’amministratore delegato Agostino Santoni. “Nessuno degli studenti che l’ha ottenuta è tornato in carcere”. La vita in carcere può essere qualcosa di diverso di una pena. E può diventare l’occasione di prepararsi alla vita dopo il carcere, grazie anche alla tecnologia. “Sperimentare in Italia, primi nel mondo, il programma nelle carceri è stata una scommessa che possiamo dire di aver vinto”. Agostino Santoni, amministratore delegato di Cisco Italia, così parla di una “speciale” declinazione del Programma Cisco Networking Academy. “La nostra Academy si rivolge al mondo della scuola ma anche a realtà di altro tipo, in cui ci sia la possibilità di fare la differenza”. E la differenza questa iniziativa l’ha fatta e la sta facendo per persone come Luigi Celeste. La sua è una storia di caduta e di redenzione, anche grazie alla possibilità avuta in carcere di imparare un lavoro tramite la Cisco Academy. Anche questa è tecnologia solidale, che ne dice, Santoni? Dico che siamo orgogliosi, in particolare io e Francesco Benvenuto che segue per noi questa iniziativa con tanta passione da anni e come volontario, nel vedere i risultati che stiamo ottenendo. Questo é un progetto condiviso con le Istituzioni e ha il supporto di partner come Fondazione Vodafone e Conf-professioni e con Fondazione di Comunità Monza Brianza (finanzia l’Academy del Carcere di Monza) e Unicredit. Tutti, come noi, credono nel valore della formazione per il reinserimento sociale. Infatti si sono anche impegnati a promuovere il lavoro di detenuti ed ex detenuti che avranno frequentato i corsi e ottenuto la certificazione Cisco. In concreto, come fate a operare nelle carceri? I corsi la formazione degli istruttori che vanno in carcere dai detenuti li gestisce la Cooperativa Universo, una Cisco Networking Academy attiva da quasi vent’anni negli istituti di pena. In quali carceri avete attivato il programma? Oggi operiamo presso le carceri di Bollate (Mi) con tre classi: maschile base, maschile avanzato, femminile base; e poi siamo a Monza, Opera, Regina Coeli, Secondigliano. Perché lo fate? Siamo convinti che tecnologia ed educazione siano gli strumenti più potenti per costruire una società più inclusiva. Questo vale anche per chi si trova in carcere. Si chiamano “istituti di pena”. Nei limiti delle nostre possibilità, vogliamo che non ci sia solo pena ma anche una possibilità di una vita nuova, di un futuro diverso. Niente come la tecnologia apre verso il futuro… Infatti. Così siamo utili sia a queste persone che all’intera società. Senza la pretesa di cambiare il mondo, ma di dare un nostro piccolo contribuito. Finora si sono certificati Cisco una decina di studenti. La certificazione è complessa e avviene in enti esterni, ma vale in tutto il mondo ed è uguale in tutti i Paesi. E queste persone sono poi davvero rimaste fuori dal carcere? Si! La recidiva di tutti gli studenti delle Academy in carcere è pari a zero. Inoltre ex detenuti, oggi persone libere, sono diventati docenti. Uno di loro, Lorenzo Lento, lo scorso 2 giugno é diventato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana! Rapporto Migrantes: oltre 20mila i detenuti stranieri in Italia migrantesonline.it, 28 settembre 2019 Al 31 dicembre 2018 i detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziari italiani sono 20.255, su un totale di 59.655 persone ristrette (33,9%). L’incidenza della componente straniera sulla popolazione carceraria totale appare sostanzialmente stabile. Pressoché immutata è anche la presenza femminile, con 962 donne recluse, pari al 4,5% dei detenuti di origine straniera. È quanto emerge dal Rapporto Immigrazione redatto da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes e presentato questa mattina a Roma. La nazione più rappresentata è il Marocco (3.751 detenuti). Seguono, distanziate, Albania (2.568) e Romania (2.561). Nelle sezioni femminili spiccano, invece, le detenute provenienti da Romania (227) e Nigeria (204), le quali, da sole, rappresentano il 44% delle recluse straniere. La componente straniera si colloca nelle fasce più giovani della popolazione carceraria. I dati evidenziano la maggiore presenza di detenuti con un’età compresa tra i 30 e i 34 anni e confermano che le porte dei penitenziari si aprono prima per gli stranieri rispetto che per gli italiani: basti dire che in carcere due ragazzi su tre con un’età compresa tra i 18 e i 20 anni non sono cittadini italiani (66%). Nel complesso, le pene inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati. Le statistiche relative alle tipologie di reato confermano quelli contro il patrimonio come la voce con il maggior numero di ristretti. Le più recenti emergenze investigative, però, evidenziano il carattere sempre più pervasivo delle organizzazioni criminali straniere che operano in Italia. Persiste il rischio di una sovra rappresentazione della popolazione carceraria straniera, con gli immigrati che beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative al carcere rispetto agli autoctoni, a cominciare dalla detenzione domiciliare. L’assistenza religiosa in carcere, infine, “contribuisce a prevenire fondamentalismi di matrice confessionale”. Sul fronte opposto, appaiono in sensibile aumento i reati di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale e religioso dei quali sono vittime i cittadini stranieri. Giustizia, alleati divisi su prescrizione e Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 settembre 2019 Primo vertice della nuova maggioranza con Conte. Il ministro grillino Bonafede e il vice segretario Pd Orlando trovano un’intesa solo su tempi: le riforme del processo penale e di quello civile in due disegni di legge delega da approvare entro dicembre. Ma per i dem il sorteggio per i togati “non esiste” e la norma dello “Spazza-corrotti” che rischia di allungare i tempi della giustizia va ripensata se non ci saranno da subito provvedimenti effettivi per velocizzare i giudizi. L’intesa c’è e ci sono anche i dissensi. La prima viene esibita alla stampa all’uscita del vertice di maggioranza sulla giustizia. I secondi ci mettono poco a emergere quando il ministro Alfonso Bonafede da una parte, il sottosegretario Andrea Giorgis e il vice segretario del Pd Andrea Orlando (ex guardasigilli) dall’altra, si allontanano da palazzo Chigi. Due i nodi principali da sciogliere: la prescrizione e la riforma del sistema di elezione dei togati del Csm. “Sono molto soddisfatto dell’incontro e molto contento di comunicare a tutti i cittadini che stiamo per rivoluzionare la giustizia italiana”, dichiara Bonafede. “L’obiettivo è quello di ridurre i tempi della giustizia civile e penale, dimezzandoli e arrivando a 4 anni al massimo per il processo penale e a una media di 4 anni per quello civile”, aggiunge. Orlando è più contenuto: “Abbiamo condiviso l’impianto e approfondito gli strumenti per un netto miglioramento dei tempi del processo”. E così Giorgis: “È stato un confronto costruttivo nel quale abbiamo condiviso l’esigenza di predisporre una serie di riforme dei processi civili e penali per rendere i riti più veloci ed efficienti”. Fino a qui sarebbe stato impossibile non essere d’accordo. I problemi sono venuti affrontando il merito delle questioni, davanti al presidente del Consiglio Conte che ha convocato il vertice ieri mattina a palazzo Chigi. Il Pd ha dato il via libera alla riproposizione, con poche modifiche, del testo presentato da Bonafede negli ultimi giorni del precedente governo, il testo che si arenò in un lunghissimo consiglio dei ministri di inizio agosto e che fu formalmente approvato “salvo intese”, esclusa la parte penale, ma in realtà respinto da Salvini. La nuova maggioranza ha deciso però di dividere il testo in due: un primo disegno di legge sul processo penale e il Csm, un secondo sul processo civile. Si tratta però di due disegni di legge delega che, ha annunciato ieri il ministro, saranno approvati “entro il 31 dicembre”. Ma avranno poi bisogno di tutto il tempo che servirà al governo per esercitare effettivamente la delega. “Andiamo avanti, portiamo in testi nelle commissioni, vediamo quali soluzioni efficaci possiamo effettivamente trovare per ridurre i tempi della giustizia”, si sono detti Pd e M5S ieri al tavolo di palazzo Chigi. Mettendosi d’accordo soprattutto sull’esigenza di non litigare subito. Le proposte di Bonafede non sono propriamente rivoluzionarie. Prevedono depenalizzazioni e più spazio ai riti alternativi, idee attorno alle quali si gira da anni - salvo che Lega e M5S hanno approvato l’esclusione del patteggiamento per i reati punibili con l’ergastolo che va pesantemente in direzione opposta. In più ci sarebbe un’ulteriore gerarchizzazione delle procure e soprattutto il famoso sorteggio per l’elezione dei togati nel Csm. Novità che con i tempi della giustizia non c’entra nulla ma che Bonafede vorrebbe per “spezzare i legami tra politica e magistratura ed estirpare tutte le degenerazioni delle correnti”. I magistrati sono contrarissimi, il progetto - malgrado preveda una prima fase elettiva - è probabilmente incostituzionale e per il Pd semplicemente “non esiste”. Il dissenso in questo caso è stato dichiarato. “È l’unico punto che dovrà essere approfondito”, ha concesso Bonafede. Orlando ha accettato di sottoscrivere la formula “radicale riforma del Csm”, quale è da vedere. L’ostacolo più grande e più urgente è però la prescrizione. Da gennaio sarà cancellata per tutti i processi dopo il primo grado di giudizio, condanna o assoluzione che sia. Il che rischia di allungare a dismisura i tempi dei processi e di tenere in un limbo eterno presunti innocenti e presunti colpevoli. Per il Pd questa scadenza può restare solo se si troveranno delle soluzioni tecniche per rendere effettivamente più rapidi i giudizi penali. Norme che dovrebbero entrare in vigore subito, entro fine anno, fuori dunque dalle deleghe. Bonafede non intende rinunciare in nessun caso allo stop alla prescrizione. Al tavolo si era deciso di accantonare l’argomento, ma all’uscita Bonafede ha dichiarato che “modificare la norma sulla prescrizione non è tra gli obiettivi”. Costringendo il sottosegretario Giorgis a precisare: “Sul tema della prescrizione in assenza di una certezza dei tempi del processo abbiamo opinioni diverse, la questione andrà approfondita e confidiamo di risolverla con un confronto serrato”. Giustizia, vertice a Palazzo Chigi: “Entro il 31 dicembre la riforma” La Repubblica, 28 settembre 2019 Vertice fra Conte, Bonafede e Orlando. Il Guardasigilli esulta: “Stiamo rivoluzionando la giustizia italiana”. Al centro del confronto il nuovo Csm e i tempi dei processi penali e civili. “Sono molto soddisfatto dell’incontro di questa mattina e di poter comunicare ai cittadini che “stiamo rivoluzionando la giustizia italiana”. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, si è appena alzato dal tavolo dove ha discusso dei progetti del governo con il premier Giuseppe Conte, un sottosegretario del suo ministero, il dem Andrea Giorgis e il vicesegretario del Pd, nonché suo predecessore a Via Arenula Andrea Orlando. Ed esulta. Anche perché ha già la data di scadenza della rivoluzione: il 31 dicembre. Il governo, infatti, ha intenzione di presentare un nuovo disegno di legge. E per quella data, dice il Guardasigilli, dovremmo avere una legge delega che permetterà al governo di procedere. Bonafede è confortato da Orlando che annuncia: “Abbiamo convenuto sulla necessità di una radicale riforma del Csm”. L’ex ministro continua: “Abbiamo condiviso l’impianto e gli strumenti per arrivare rapidamente ad un netto miglioramento del processo sia civile che penale anche sotto il profilo dei tempi”. Bonafede spiega che si discute di un dimezzamento dei tempi di tutti i processi con un tempo massimo per i processi penali di 4 anni ed uno medio, sempre di 4 anni, per quelli civili. Il ministro della Giustizia fa sapere che tra gli obiettivi “non c’è la modifica della legge sulla prescrizione. L’obiettivo è quello di approvare la riforma entro il 31 dicembre e di questo sono molto orgoglioso: quando si lavora nell’interesse dei cittadini si trova sempre una piattaforma comune, che chiaramente deve essere discussa con i parlamentari”. Da questa piattaforma comune, però. ed è sempre il ministro a farlo sapere non c’è il metodo di elezione del Csm. Posso, dire - dice - che il sorteggio per il Csm è l’unico punto di divergenza che dovrà essere approfondito”. “Per la riforma del Csm e su tutto quello che ne deriva in termini di incompatibilità” - continua Bonafede - “occorre spezzare i legami tra politica e magistratura e combatterli per estirpare tutte le degenerazioni delle correnti della magistratura. Ho già cominciato a lavorare per avere norme molto rigide che impediranno sia la degenerazione elle correnti sia i legami tra politica e magistratura”. Per il momento dagli accordi sulla giustizia resta fuori anche il carcere per i grandi evasori. Ma il Guardasigilli assicura che “sul carcere ai grandi evasori siamo d’accordo come forze di governo che sarà un obiettivo, ma oggi non è stato oggetto di trattazione specifica”. Naturalmente fioccano le domande sul nuovo governo, se è meglio lavorare con la Lega o il Pd. “Non mi interessa fare paragoni con una forza politica che oggi sta all’opposizione” - dice Bonafede. “Io sto parlando di quello che fa questo governo, ai cittadini non interessano i giochi politici. Io sono pagato per lavorare e oggi questo lavoro ha visto un’ottima convergenza con il Pd”. Bonafede-Orlando, intesa sulla giustizia. “Resta lo stop alla prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio, 28 settembre 2019 Sì del vicesegretario Pd al ddl su Csm e processi: “tempi dimezzati”. Tutto si poteva immaginare, nella partita fra 5 Stelle e Pd sulla giustizia, fuorché trovare “l’unico punto di divergenza”, come lo definisce Alfonso Bonafede, nel sorteggio per il Csm. Basta tornare allo scenario pre- voto, quando la sola cosa certa sembrava la fermezza del Movimento nel tutelare le aspettative dei magistrati. E invece al vertice “decisivo” sulla giustizia, celebrato ieri dal guardasigilli e da Andrea Orlando a Palazzo Chigi, alla presenza del premier Giuseppe Conte, a scartare la selezione random dei togati è il vicesegretario Pd. Sul resto l’intesa è fatta, e prevede un’altra sorpresa- non sorpresa: la non belligeranza sulla prescrizione. Orlando aveva anticipato anche questo, ma da ieri l’ipotesi è realtà: il Pd lascerà che il 1° gennaio 2020 entri in vigore l’abolizione dell’istituto dopo la sentenza di primo grado. Un via libera che, dal punto di vista del predecessore di Bonafede, si compenserebbe con il “netto miglioramento dei tempi dei processi”. In attesa di capire cosa ne dirà il terzo incomodo Matteo Renzi. Bonafede parla di “dimezzamento dei tempi nel penale, che durerà 4 anni” e di “durata media di 4 anni nel civile, il che vuol dire dimezzare i tempi anche lì”. Orlando conferma: “Abbiamo condiviso l’impianto e approfondito gli strumenti per raggiungere tale obiettivo, anche con certezze rispetto a questi tempi”. Fino al sigillo sull’accordo, impresso da Bonafede: “Non è tra gli obiettivi quello di modificare la norma sulla prescrizione”. Prescrizione, l’incognita Renzi - Eppure si tratta del vero nodo politico. Il Pd rinuncia a rivedere lo stop anche per le sentenze di assoluzione. Su questo, di sicuro, è pronta l’offensiva dei renziani. Pochi giorni fa uno dei più deputati di Italia viva più presenti sul dossier giustizia, l’ex sottosegretario Gennaro Migliore, aveva auspicato che fosse eliminato “il paradosso di un imputato dichiarato innocente in primo grado ma esposto a restare sotto processo a vita”. E dall’opposizione, a parte le previste contestazioni di Matteo Salvini, è forse l’azzurro Renato Schifani a cogliere di più nel segno: “Com’è possibile che un vertice sulla giustizia non abbia visto la presenza del partito di Renzi? Forse per un già aperto dissenso, peraltro condivisibile?”. Nonostante “lo spirito costruttivo” dell’incontro di ieri rilevato anche dal sottosegretario dem alla Giustizia Andrea Giorgis, che pure vi ha partecipato, resta dunque un’incognita notevole. Oltre a quella, meno minacciosa per la maggioranza, delle “intercettazioni” che, spiega Bonafede “sono rimaste fuori dal colloquio, così come il carcere per gli evasori, a cui però teniamo”. Le convergenze su Civile e Csm - Il resto sembra liscio. Sul processo civile, per esempio, alcune limitazioni imposte alle parti in fase istruttoria non sono troppo lontane da ipotesi che anche Orlando, da ministro, aveva provato a mettere sul tavolo, fermato anche dal dissenso degli avvocati. E sul Csm, lo stesso vicesegretario dem parla con decisione di “radicale riforma”, sulla quale “abbiamo condiviso l’idea di procedere”. Come? Con tutti gli altri vincoli di incompatibilità per l’elezione dei consiglieri - sia laici che togati - in parte anticipati da Bonafede: se appunto “il sorteggio è l’unico punto che andrà approfondito”, spiega il guardasigilli, “sulla riforma del Consiglio superiore e su tutto quello che ne deriva in termini di incompatibilità, di spezzare il legame tra politica e magistratura, di combattere le degenerazioni delle correnti, non ci sono dubbi e abbiamo già cominciato a lavorare, per avere norme molto rigide”. Rispunta il profilo spiazzante di un Movimento che, nella maggioranza, è il più fermo nell’intransigenza con le toghe. Ma Orlando non è da meno, non dimentica i propri tentativi di riformare il Csm, in parte dismessi quando era lui a via Arenula, ed è pronto a inserire nel ddl, che sarà “nuovo” rispetto a quello discusso da M5S e Lega, le ipotesi di sistema elettorale elaborate dalla “sua” commissione Scotti. Ddl delega “entro dicembre” - La tranquillità del vicesegretario Pd fa agio su un altro assioma pronunciato ieri dal successore Bonafede: “La riforma che dimezza i tempi nel penale e nel civile sarà approvata entro il 31 dicembre”. Prima che entri in vigore la “nuova” prescrizione, dunque. Certezza che potrebbe valere, però, al più per la legge delega da varare in Parlamento, ma certo non per i decreti legislativi che dovranno seguirla. Stessa dead-line “anche per la riforma del Csm” che, come il resto del pacchetto, “avrà forma di delega ma dovrà comunque essere discussa con i parlamentari”, assicura il guardasigilli. Il quale vede nel colloquio a quattro di Palazz Chigi “un passo fondamentale”, verso “una vera rivoluzione”. Dettagli da sistemare, anche a livello “apicale”, comunque ce ne sono. Non solo sul Csm, perché Orlando ribadisce che nel testo vecchio, quello dell’era gialloverde, “c’erano cose buone e altre che non condividiamo”. Alcune non c’erano affatto: per esempio l’estensione del patteggiamento, sgradita a Salvini e Bongiorno ma cara all’Anm e soprattutto all’avvocatura. Una modifica sulla quale il Pd è d’accordissimo. Chi da via Arenula se n’è andato, come l’ex sottosegretario leghista Jacopo Morrone, ricorda d’altra parte “la collaborazione costruttiva” con il ministro m5s e lo esorta: “Tutta quell’attività non vada perduta per compiacere un alleato che ha fallito su tutti i fronti”. Ma in realtà, come dice Schifani, a insidiare le certezze sarà Renzi. Sulla prescrizione innanzitutto. Anche se Bonafede e Orlando, da ieri, sembrano certi di aver disinnescato la bomba. Riforma dell’Ordinamento giudiziario, ecco gli “Stati generali” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 settembre 2019 Dalla riforma del Csm alle carriere separate: dialogo penalisti-toghe. La riforma della giustizia torna, per iniziativa dell’Unione delle camere penali, al centro del dibattito fra gli operatori del diritto con gli “Stati generali per la riforma dell’Ordinamento giudiziario”, convocati ieri e oggi a Roma. “I penalisti italiani, magistrati, politici, rappresentanti del Consiglio superiore della magistratura, discuteranno - anche da posizioni molto diverse - di sistema elettorale del Csm, delle competenze di tale organo, di carriere da separare o da mantenere unite, dei fuori ruolo, di obbligatorietà dell’azione penale, con uno sguardo anche a cosa accade nei sistemi giudiziari europei e democratici”, ha dichiarato il presidente delle Camere penali, l’avvocato Giandomenico Caiazza, presentando l’iniziativa. La due giorni delle Camere penali cade in un momento molto particolare, all’indomani delle polemiche che hanno travolto l’Organo di autogoverno delle toghe e con la riforma della giustizia, voluta e più volte annunciata dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, di prossima approvazione. “Su queste tematiche è calato il silenzio assoluto della politica. Da emergenza cruciale, dopo le note vicende emerse intorno alla nomina dei nuovi vertici di alcune importanti Procure tra cui quella capitolina, al silenzio. Nulla, nemmeno un chiarimento sul destino della proposta di riforma che Bonafede inserì in quattro e quattr’otto nella legge delega di riforma dei tempi del processo penale, ancora vigente il governo gialloverde”, ha puntualizzato Caizza. Fra i temi oggetto della discussione, un posto di rilievo merita certamente la separazione delle carriere, cavallo di battaglia dei penalisti che hanno al riguardo organizzato una raccolta di firme per un disegno di legge di iniziativa polare, la cui discussione alla Camera è in calendario per il mese prossimo. Senza dimenticare “i fuori ruolo”, i magistrati dedicati ad incarichi non giurisdizionali il cui numero è, comunque, stabilito per legge, e i criteri di priorità da parte dei procuratori nella trattazione dei fascicoli, un passo verso la discrezionalità dell’azione penale. “Il nodo cruciale della questione sta nel rapporto tra magistratura e politica”, aggiunge il presidente dei penalisti, invitando il Parlamento a prendere posizione sul punto. “Sul sorteggio come meccanismo di selezione dei consiglieri del Csm, ribadisco qui la mia contrarietà, perché il Consiglio rischierebbe di uscirne azzerato nella sua natura di organo di rappresentanza del pluralismo e ridotto a entità meramente burocratica ed esecutiva”, ha dichiarato David Ermini, vice presidente del Csm, rispondendo subito alle sollecitazioni dei penalisti. Dura la presa di posizione riguardo lo scandalo che ha coinvolto il Csm, determinando le dimissioni di cinque consiglieri togati: “La degenerazione delle correnti in correntismo è innegabile ed è un problema vero e grave. Da anni si assiste a una deriva carrierista, corporativa e clientelare delle correnti che va sicuramente affrontata”. “È in buona sostanza - prosegue Ermini - analoga alla parabola post- ideologica dei partiti, un tempo soggetti di passioni collettive, grandi idealità e progettualità del futuro e ora simili ad apparati autoreferenziali e di potere”. Infine una stoccata alle riforma giustizia targata Bonafede. A partire proprio dallo “Spazza-corrotti”. “Resta inaccettabile il fatto che le percentuali più alte per ciò che riguarda la prescrizione si registrino proprio nella fase delle indagini preliminari: il Csm, nel parere su questa legge, non ha mancato di evidenziare questo aspetto, sottolineando l’incongruenza di una riforma, per la quale dal prossimo anno il corso della prescrizione sarà sospeso dopo la sentenza di primo grado, che in effetti non incide minimamente sulla fase delle indagini preliminari. Quel parere del resto non lascia margini di dubbio sul forte rischio, in assenza di interventi organici e strutturali sul processo penale, di un effettivo allungamento dei tempi, con importanti ricadute sulla posizione delle vittime di reato e degli imputati”. “È chiaro che un processo tendenzialmente illimitato entra in piena rotta di collisione con il principio costituzionale della ragionevole durata e viene a ledere in modo insanabile il diritto di difesa”, ha aggiunto Ermini. “Le indagini preliminari non possono e non devono trasformarsi per l’indagato in una sorta di limbo infamante sottratto alle leggi del tempo: a indagini concluse, o si esercita l’azione penale o si chiede l’archiviazione”, il monito finale del vice presidente del Csm. Quelle leggi emergenziali nel Paese senza emergenze di Valentina Stella Il Dubbio, 28 settembre 2019 Avvocati e magistrati sono d’accordo: la legislazione dell’emergenza vive da oltre quaranta anni sotto varie forme ma oggi più di ieri si assiste alla compressione di diritti costituzionali e allo schiacciamento del diritto penale sulla vittima. È quanto emerso dalla tavola rotonda “Il diritto penale dell’emergenza: dalla legge reale ai decreti sicurezza”, organizzata dalla sezione romana di La. p.e.c. e dal Gruppo Giustizia Bruno Andreozzi, e moderata dall’avvocato Cataldo Intrieri che ha dato subito parola al professore Ennio Amodio, autore del “A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde”: “La degenerazione dell’emergenza - ha spiegato Amodio - si traduce nella trasformazione del provvisorio in ordinario, e della tavola dei valori costituzionali in un “fai da te punitivo” come è avvenuto per la legittima difesa domiciliare, fortemente voluta dalla Lega”. Sulla stessa lunghezza d’onda Margherita Cassano, Presidente Corte di Appello di Firenze, per la quale negli ultimi decenni abbiamo avuto delle modifiche non strutturali del diritto penale, ma solo su singoli provvedimenti, perdendo di vista il quadro generale: “Da Mani Pulite abbiamo assistito ad una delega all’autorità giudiziaria per forme di intervento che non le appartengono, all’inserimento delle aggravanti, all’innalzamento delle pene per diversi reati, ad un carattere simbolico delle norme per fornire un messaggio rassicurante al popolo, come il nuovo codice rosso”. L’onorevole Luciano Violante ha ravvisato invece come oggi “la magistratura senta in aula la pressione dei parenti delle vittime”, come vi abbiamo spesso raccontato su questo giornale. Concetto ribadito da Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, per cui “l’emozione pubblica e il privato hanno fatto irruzione nel diritto”, cambiamento a cui il legislatore si è adeguato, quando invece “è l’opinione pubblica che dovrebbe tener conto del Parlamento, non il contrario”. A dare una chiave storica ci ha pensato Armando Spataro, già procuratore della Repubblica: “Le leggi varate durante gli anni di piombo hanno sì fornito una risposta mirata anche sul piano processuale ma sono assolutamente convinto che rispettassero in pieno il sistema dei diritti su cui si fonda non solo il nostro ordinamento processual penalistico ma anche la nostra Costituzione”. La stessa impronta è stata data al campo dell’antimafia e dell’antiterrorismo, dove i “provvedimenti sono stati adottati dopo attentati gravissimi, ma ponderati anche da un ceto politico che era ben diverso dall’attuale. Se qualche norma - ha proseguito Spataro - poteva rischiare di ledere i diritti degli indagati, essa è stata totalmente disapplicata dalla magistratura e dalle forze di polizia. La sicurezza - ha terminato Spataro - è ormai un diritto che come tale non vince su tutti i diritti e io dal ceto politico mi augurerei una coerente difesa della propria identità che deve essere difesa e affermata persino a costo di perdere consensi. Non è accettabile che un partito per ottenere la maggioranza venga meno ai propri valori e non mi riferisco solo all’occhio chiuso o al volto girato rispetto alla normativa sull’immigrazione ma in relazione a tutti i diritti che la Costituzione prevede”. L’approccio storico lo ha portato avanti anche Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura democratica: “parlando di emergenze reali tra il 1970 e il 1975 gli omicidi passano da 1.328 a 1.759, i furti denunciati da 500mila a 1 milione527mila, le rapine, sequestri e le estorsioni da 3.170 a 11.447. Era una emergenza reale non un panico morale diffuso anche dalle agenzie di comunicazione. Ci sono tre grandi fattori che hanno contenuto la stagione dell’emergenza nei limiti della Costituzione: una magistratura dalla schiena dritta, una Costituzione che con lungimiranza non aveva previsto lo stato di emergenza come meccanismo costituzionale di deroga, e una sana cultura democratica, un sano operare della magistratura, che come riconosceva il carattere simbolico di alcune leggi allo stesso tempo ha fatto sì che la repressione del fenomeno terroristico rimanesse sempre all’interno della magistratura ordinaria e non fosse affidata a giudici speciali. Nel 1975 mentre veniva approvata in Parlamento la Legge Reale, contemporaneamente si approvava la riforma dell’ordinamento penitenziario”. Oggi invece “se leggo il preambolo del sicurezza bis trovo “norme di straordinaria urgenza per contrastare i flussi migratori, per creare nuovi strumenti per tutelare la sicurezza pubblica” e immagino la fotografia di un Paese in preda a pericolosi ribelli anarchici, insurrezionalisti con bombe in mano e colmo di migranti che sbarcano da tutte le parti. Ma la verità dice il contrario”. L’avvocato Luca Petrucci ha concluso il dibattito dunque proponendo “il nostro proposito a stimolare le forze progressiste affinché la giustizia non sia considerato un tema residuale”. La pazzia di uno Stato che accusa di mafiosità lo Stato che ha sconfitto la mafia di Annalisa Chirico Il Foglio, 28 settembre 2019 Emanuele Macaluso è riformista, migliorista, garantista. Un comunista eretico, attaccato più da sinistra che da destra. Un sentimentale, finito coi ceppi ai polsi per amore ai tempi del reato di adulterio. “Nicola Zingaretti deve dire chiaro e tondo a questi grillini che o si sospende la sciagurata riforma della prescrizione oppure non si va da nessuna parte”, dichiara al Foglio con tono battagliero Em.Ma., come da nom de plume in calce ai corsivi sull’Unità e sul Riformista. Dal primo gennaio entra in vigore la normativa Bonafede che di fatto abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, anche in caso di assoluzione. “Così, seppure scagionato da ogni accusa, potrai essere processato a vita, come se il processo non fosse in sé una pena. Soprattutto in Italia dove l’indagato è già condannato”. E dire che il segretario del Pd aveva invocato “discontinuità”. “Senza discontinuità sulla giustizia il governo non può andare avanti. Zingaretti non era contrario al voto anticipato, anzi. Io ho cercato di spiegare che era meglio confrontarsi con gli elettori piuttosto che formare un governo con il M5S. Alla fine la discontinuità non c’è stata né sul premier né su un ministero chiave come la giustizia. Hanno riconfermato a capo di via Arenula un modesto avvocato che si vanta di essere giustizialista e che ha bollato come “svuota carceri” la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando. La sinistra o è garantista o non è. Garantismo significa agire “in nome della legge”, lo spiegava bene Leonardo Sciascia. Il giustizialismo asseconda la forzatura della legge. La prescrizione sembra esser diventata un privilegio, invece è un diritto: se lo stato non mi assicura una risposta entro termini decenti, la mia vita è letteralmente finita”. Uno degli ultimi consigli dei ministri gialloverdi è durato nove ore proprio per l’opposizione di Matteo Salvini, che lei detesta, alla “riforma Bonafede”. “Il Pd non può farsi dettare la linea su questa materia, né può incaricarsi di terminare il lavoro che Salvini non ha voluto intestarsi. Ripeto: la prescrizione di Bonafede va bloccata, di corsa. Il governo s’impegni piuttosto a varare un piano per accelerare i tempi del processo intervenendo sulle strutture obsolete degli uffici giudiziari. Serve un salto tecnologico che richiede tempo, sennò si raccontano solo balle”. Che deve fare Zingaretti? “Ponga la questione con forza: discontinuità. Nessuna sospensione della prescrizione fin quando l’accorciamento dei processi sarà mera enunciazione”. Intanto sul taglio dei parlamentari il M5S va veloce: il 7 ottobre il Pd, dopo tre voti contrari, si esprimerà a favore. “Se tu tagli i parlamentari e basta, fai un atto puramente demagogico e non risolvi nulla. Il fatto che Luigi Di Maio ne esalti l’aspetto economico, il presunto risparmio di 500 milioni di euro, la dice lunga sui tempi che viviamo”. Una cifra che equivale allo 0,0007 percento della spesa pubblica. “La democrazia costa. Se tagli 345 parlamentari mantenendo regole e procedure immutate, non aumenti l’efficienza della macchina legislativa. La verità è che i 5 Stelle vogliono piantare la loro bandierina, il rischio vero è che qualcuno assecondi progetti così stupidi”. Qualcuno tipo il Pd. “Io credo che questa alleanza sia una cosa transitoria”. In Umbria si inaugura un connubio regionale. “Il governo è nato in uno stato di necessità per sbarrare la strada a Salvini. Dopodiché se fai le alleanze governative, qual è la ratio di escluderle a livello locale? Nel M5S c’è gente che si ribella, che non coglie il senso di certe posizioni. È un ribollire di malumori attorno a questo Di Maio che si fa chiamare “capo”, non è chiaro di cosa. Pure il Pd deve cambiare”. Marco Minniti ha fatto notare che tre dei quattro segretari eletti con le primarie hanno lasciato il partito. “È venuto il momento di un congresso vero, mai celebrato finora. In tutto il mondo le primarie servono a individuare i candidati per le istituzioni, non i dirigenti del partito. Il partito appartiene agli iscritti, le istituzioni ai cittadini”. Data di scadenza del Conte-bis? “Il governo dura se il movimento di Beppe Grillo non si sfascia prima”. Giuseppe Conte sarà il prossimo candidato premier pentastellato? “È probabile, il premier è l’ultimo uomo che gli è rimasto”. A Bruxelles i Verdi hanno contestato ai grillini l’assenza di democrazia interna: “Non abbiamo a che fare con un partito - ha detto il copresidente degli ambientalisti, Philippe Lamberts - ma con un’azienda in mano a una persona, Davide Casaleggio”. “I Verdi hanno ragione - prosegue Macaluso - I 5 Stelle dipendono da una struttura privata, adesso pensano a un direttorio allargato per contenere le spinte centrifughe”. Accantonata la tassa sulle merendine, il governo, concepito per scongiurare l’innalzamento dell’Iva, valuta aumenti selettivi dell’Iva. La coperta è corta. “Questa storia dell’Iva è stata buttata lì per trovare un senso a un’alleanza che nasce, ripeto, in uno stato di necessità”. Renzi, neoleader di Italia Viva, è diventato il quarto azionista dell’esecutivo. “Dopo averci raccontato il suo rifiuto delle correnti, si è fatto il suo partitino, a conferma che la sua corrente esisteva eccome. Lui, essendo un personalista, ritiene che se non sei il capo non esisti. Eppure, provenendo dalla Dc, dovrebbe sapere che Aldo Moro, dopo aver governato per quattro anni, fu estromesso dalla sua corrente, i dorotei, e al congresso si presentò con una sua lista che ottenne il 7 percento. Tuttavia, Moro non sbatté la porta né lasciò il partito di cui successivamente divenne di nuovo segretario”. Lei l’ha sempre mal sopportato, eppure Renzi ha impresso una svolta garantista al partito. “Non scherziamo: lui è stato giustizialista e garantista a giorni alterni. Da premier incaricato propose per via Arenula un magistrato come Nicola Gratteri”. Esperto di contrasto alla ‘ndrangheta, certo. “Ma non un campione di garantismo, anzi”. Ieri il leader di IV ha contestato l’ipotesi della procura di Firenze che vedrebbe in Berlusconi il presunto responsabile delle stragi mafiose e dell’attentato a Maurizio Costanzo. “Berlusconi ha molte responsabilità nella sua vita politica ma dipingerlo come uno stragista mafioso mi pare un’assurdità, com’è assurdo il processo palermitano sulla trattativa stato-mafia. Ci vuole una mente deviata per pensare che nel momento in cui lo stato, per la prima volta nella storia d’Italia, vinceva contro Cosa nostra, mandando dietro le sbarre il suo gotha, negoziava un accordo con i Riina e i Provenzano. I due boss sono morti mentre erano agli arresti, quelli sopravvissuti si apprestano a morire in cella. Il sacrificio di Falcone, di Borsellino e di migliaia di vittime innocenti nella società civile, dai carabinieri ai giornalisti, ha permesso di smantellare la mafia siciliana, oggi rimpiazzata dalla ‘ndrangheta”. Il presidente emerito Napolitano ha più volte richiamato il tema del sovraffollamento carcerario, rimasto fuori dall’agenda politica odierna. “Si sfornano solo leggi per riempire le celle sul falso presupposto che l’unica pena possibile sia quella detentiva. Il numero dei detenuti suicidi è una vergogna. La qualità di una democrazia si misura dalla qualità della giustizia”. Si torna così al tema di partenza: le leggi carcerogene sono un totem dei Cinque stelle. “Senza discontinuità sulla giustizia è meglio fermarsi”. Suicidi tra le forze di polizia. Una vittima alla settimana di Massimiliano Peggio La Stampa, 28 settembre 2019 Né mafia né criminalità comune. La prima causa di morte violenta tra le forze di polizia è il suicidio. Strisciante e imprevedibile, la belva dell’anima azzanna nel silenzio e non molla la presa. Dall’inizio dell’anno sono 44 gli appartenenti alle forze dell’ordine che si sono tolti la vita. Per lo più con l’arma di ordinanza. “Un morto a settimana. È un dato impressionate che dovrebbe indurre i vertici delle varie amministrazioni a riflettere. Non cerchiamo colpevoli, ma antidoti. Se non iniziamo a interrogarci sul fenomeno, rischiamo di piangere altri morti” dice Roberto Loiacono, della Funzione Pubblica della Cgil di Torino. Un dibattito organizzato presso la Camera del lavoro di Torino, rivolto agli operatori del settore, ha delineato un quadro inquietante. E sono soprattutto i dati raccolti a livello nazionale dall’associazione Cerchio Blu, che da anni si occupa di sostegno psicologico per le forze di polizia, a rappresentare la gravità del fenomeno. L’86% di chi si toglie la vita, tra carabinieri, polizia, finanza, penitenziaria e polizie locali, lo fa utilizzando la pistola d’ordinanza. La maggiore concentrazione di casi si registra nel Nord: 42% contro il 31,4% di eventi avvenuti nel Sud e nelle isole. La fascia di età a “rischio” va dai 45 e ai 64 anni, che racchiude il 58,13% di suicidi. Segue la fascia tra i 25 e i 44 anni, con il 34,48%. I picchi si sono registrati tra i 43 e 44 anni, e tra 52 e i 49 anni. Il 30,7 % lo ha fatto in un luogo privato, il 27,9% sul posto di posto di lavoro. Il 31% dei casi in estate, il 24% inverno. “Il problema va affrontato con estrema cautela perché i casi sono in aumento - spiega Graziano Lori, presidente dell’associazione Cerchio blu - Ci sono paesi, come la Francia, dove la situazione è addirittura più drammatica della nostra”. Nel 2014 i suicidi erano stati 43; 34 nel 2015 e nel 2016; 28 nel 2017 e 29 nel 2018. Le polizie locali o municipali, ex vigili urbani, registrano il più alto tasso di suicidi femminili: il 52,6%. I corpi di polizia locale accolgono il 36% di donne in divisa, percentuale più alta rispetto alle altre forze dell’ordine. A livello nazionale ci sono stati 5 episodi, di cui 2 in un arco temporale di 5 mesi nella sola provincia di Torino. “Spesso i comandanti o i funzionari apicali - spiega Emiliano Bezzon, comandante della polizia municipale di Torino - affrontano il problema da un punto di vista di puro rispetto delle norme per evitare ripercussioni sul piano della responsabilità. Non basta togliere l’arma d’ordinanza quando si manifesta un disagio. Io la vedo diversamente. Bisogna andare al di là della semplice gestione del personale. Bisogna prendersi cura delle persone, occuparsi delle criticità individuali”. Quali sono i fattori che incidono di più? I contesti lavorativi o le dinamiche personali? Il fenomeno è seguito da un osservatorio nazionale ma i correttivi “andrebbero affrontati con maggior coraggio dalle amministrazioni centrali, che invece preferiscono nascondere il problema”, dicono i sindacati. “Tra le valutazioni del rischio lavorativo non è compresa quella dello stress correlato - afferma Nicola Rossiello segretario regionale del Silp Cgil della polizia e coordinatore nazionale sicurezza sul lavoro - Dobbiamo obbligare le nostre amministrazioni a confrontarsi con la tragicità del fenomeno. A discutere apertamente dei rischi psicosociali che affliggono tutti gli operatori di polizia, qualunque sia la loro divisa”. San Gimignano (Si). Protesta in carcere dopo la visita di Matteo Salvini di Luca Serranò La Repubblica, 28 settembre 2019 Resta teso il clima nel carcere di San Gimignano, nel Senese dopo l’inchiesta della magistratura che ha portato ad indagare per tortura 15 agenti della polizia penitenziaria di cui 4 sospesi dal servizio per quattro mesi. Dopo la visita del leader della Lega Matteo Salvini che ha incontrato soltanto gli agenti, è scoppiata la protesta di un gruppo di detenuti della media sicurezza. Verso le 21 di giovedì hanno cominciato la battitura delle sbarre, hanno incendiato delle lenzuola, lanciato oggetti dalle finestre e danneggiato suppellettili all’interno delle celle. “La situazione è stata gestita con grande professionalità e responsabilità dal personale penitenziario che ha evitato conseguenze più gravi” riferisce in una nota il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo. “Quanto accaduto è molto significativo del clima che si sta creando nelle carceri del Paese alimentato dalla destabilizzazione del sistema carcerario e dalla delegittimazione del personale penitenziario” prosegue Di Giacomo. Del resto aggiunge “spostare tutta l’attenzione mediatica sui presunti pestaggi di detenuti che sarebbero avvenuti nel carcere di San Gimignano è un’operazione che contiene il rischio di delegittimare tutto il personale di polizia penitenziaria degli istituti italiani che è già costretto a difendersi da mille attacchi dentro e fuori il carcere. Siamo dunque dalla parte degli agenti e prima di esprimere condanne pesanti e definitive attendiamo il procedimento giudiziario”. Il direttore del carcere, Giuseppe Renna, conferma che vi sia stata una protesta dopo la partenza di Salvini (il senatore leghista ha invitato la magistratura a mostrare il video delle presunte torture e si è schierato con le guardie), ma spiega che i detenuti non hanno messo in relazione la loro protesta con la visita del leader leghista. “Quel video io l’ho visto - spiega l’avvocato Sergio Delli, difensore di un poliziotto - ma non mostra nemmeno uno schiaffo”. Monza. Quel pestaggio segnalato da “Antigone” al Dap e alla Procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2019 Il Ministero ha disposto l’allontanamento degli agenti coinvolti. “Risale al 13 agosto scorso la comunicazione con la quale l’Amministrazione penitenziaria informava la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza di “comportamenti non consoni di alcuni Operatori di Polizia Penitenziaria”“. Lo si legge in una nota il ministero della Giustizia che fa riferimento a un pestaggio che sarebbe avvenuto il 3 agosto 2019 a un detenuto ristretto nell’istituto lombardo. È stata l’associazione Antigone, che si occupa per i diritti dei detenuti, a segnalare il caso al Dap tramite Pietro Buffa, il provveditorato della regione Lombardia. Nell’esposto presentato alla Procura, il presidente di Antigone Patrizio Gonnella riferisce che il detenuto sostiene che gli sia stato fatto firmare un foglio in cui dichiarava di essersi fatto male da solo. “Il medico che lo ha visitato non ha refertato alcuna lesione”, spiega Gonnella. Inutile far notare, che, a differenza di Monza, la dottoressa del carcere di San Gimignano ha invece evidenziato le lesioni del detenuto che sarebbe stato pestato e segnalato alla Asl locale che, a sua volta, ha inoltratato il tutto, come notizia di reato, alla procura competente. In seguito all’aggressione a Monza, il detenuto è stato messo in isolamento per quindici giorni e, durante questo periodo, è stato visto dalla suora che frequenta il carcere. L’uomo, che sostiene di essere in grado di riconoscere gli autori delle violenze, a dieci giorni dal fatto è stato trasferito presso la casa circondariale di Modena. Qui al momento dell’ingresso in carcere a seguito di visita medica gli sono state riscontrate le lesioni ancora presenti e gli sono stati dati sette giorni di prognosi. Si è attivata, come di consueto in questi casi, anche l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà. “Sono stati messi a nostra disposizione i filmati registrati dalle videocamere interne all’Istituto che - spiega il Garante Mauro Palma - abbiamo subito trasmesso alla Procura”. Inoltre, “precauzionalmente - aggiunge sempre il Garante - abbiamo chiesto l’apertura della procedura disciplinare nei confronti delle persone sospettate dei reati, eventualmente da sospendere in attesa degli esiti della procedura penale”. Come ha precisato il ministero della Giustizia, in seguito alla segnalazione, l’Amministrazione penitenziaria disponeva la sospensione del procedimento disciplinare e della sanzione dell’esclusione dalle attività in comune. Al tempo stesso procedeva ad assegnare “il personale coinvolto in diversa misura nella vicenda in posti di servizio non a contatto con la popolazione detenuta, in attesa delle valutazioni dell’Autorità giudiziaria”. Infine “successivamente alla segnalazione alla Procura e al Provveditorato regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, gli atti venivano inviati alla Direzione generale del personale del Dap, per le valutazioni disciplinari di competenza in merito a “comportamento delle unità di Polizia Penitenziaria nominate in oggetto non in linea con i doveri istituzionali”. Salerno. Detenuti tossicodipendenti, sos dal carcere di Fuorni di Marcella Cavaliere La Città di Salerno, 28 settembre 2019 La direttrice Romano chiede fondi per i lavori urgenti. Parte il progetto per i detenuti-addestratori. Ventiquattro detenuti della casa circondariale di Fuorni, con alle spalle un passato da tossicodipendenti, addestreranno cani randagi provenienti dai canili della cooperativa Dog Park di Ottaviano, Monte di Eboli e Salerno. Parte dunque il progetto promosso dalla direttrice della casa circondariale di Salerno, Rita Romano, che prevede il futuro inserimento lavorativo dei detenuti che impareranno in carcere un nuovo mestiere. Sarà consegnato un attestato a fine corso e se l’esperienza progettuale avrà continuità, la direttrice pensa già “all’eventualità futura di costruire un canile nel carcere”. Gianluigi Lancellotta, comandante del reparto polizia penitenziaria, ha spiegato come sono stati scelti i detenuti che diventeranno addestratori di cani. “Sono soggetti che hanno fatto un percorso regolare, privo di sanzioni disciplinari e meritevoli”. Sono 82 i tossicodipendenti nel carcere di Salerno e il progetto ne coinvolgerà 24. Michele Visone, presidente della cooperativa Dog Park di Ottaviano, promotrice del progetto, ha spiegato che la valenza dell’iniziativa è duplice “promuovere l’autostima e il controllo dell’ impulsività dei detenuti e l’adottabilità dei cani. Ne impiegheremo 7, incluso tre randagi di riserva”. Daniela D’Angelo, professoressa della Federico II di Napoli ha ribadito che sarà monitorato il benessere dei cani, “tramite il prelievo di campioni salivari per valutare l’aumento del cortisolo e quindi il loro grado di stress, oltre a valutare l’impulsività e l’emotività degli addestratori”. Per l’assessore comunale Angelo Caramanno “il recupero e l’inserimento, oltre all’addestramento in sé, sono una grande scommessa e rappresentano per i detenuti la possibilità di dare continuità all’esperienza fatta in carcere una volta concluso il periodo di reclusione”. Per quanto riguarda l’iniziativa la direttrice del penitenziario ha detto che “il progetto può servire da crescita sia per i detenuti sia per i cani e avrà valenza scientifica curata dalla facoltà di Veterinaria dell’Università di Napoli. I risultati di fatto saranno oggetto di una pubblicazione scientifica”. Invece per quanto riguarda i fondi Romano ha precisato che “il progetto è stato approvato e la ditta che sarà incaricata di eseguire i lavori impiegherà anche 5 detenuti, ma sapremo quando si procederà con l’erogazione il prossimo 13 ottobre”. Sos dalle celle. Le condizioni del penitenziario non sono ottimali dal punto di vista strutturale in alcuni reparti, tant’è che Romano ha chiesto 480mila euro per eseguire i lavori più importanti, a partire dalla sezione dedicata ai tossicodipendenti. È tornato sulle condizioni poco decorose del carcere anche il garante dei detenuti per la Regione Campania, Samuele Ciambriello: “La squadra impegnata nel progetto, incluso Asl e Sed (servizi dipendenza, ndr), sta facendo un lavoro ottimo e la direttrice Romano ha tutto il mio appoggio, ma dopo un’ispezione nel padiglione dei detenuti abbiamo notato che era allagato, c’erano problemi igienici e sanitari, non funzionano al meglio i servizi igienici, non ci sono le docce e si vedono fili appesi con il rischio che possa accadere qualcosa”. A suo avviso l’amministrazione penitenziaria dovrebbe contribuire a migliorare “la vita poco decorosa dei detenuti anche nel carcere di Salerno”. Trento. Cinque medici di notte per i detenuti Corriere del Trentino, 28 settembre 2019 Nelle carceri sovraffollate di Spini di Gardolo arriveranno 5 medici, in modo tale da garantire, ai 322 detenuti, la presenza medica continuativa 24 ore al giorno 7 giorni su 7. Attualmente l’assistenza è garantita solo di giorno e nelle ore notturne solo su chiamata. L’accordo siglato con l’Azienda sanitaria ha carattere transitorio in attesa di una specifica regolamentazione nazionale del rapporto di lavoro dei medici del settore penitenziario. Sempre “per promuovere la salute e il benessere dei detenuti e l’umanizzazione della pena” è stato proposto dall’assessora Stefania Segnana e varato dalla giunta uno schema di protocollo tra Ministero della giustizia, Provincia e Regione. Il protocollo prevede l’istituzione di una commissione tecnica con rappresentanti degli enti pubblici ma anche dei servizi sociali e delle organizzazioni di volontariato. Garantire il trattamento rieducativo e il reinserimento sociale e lavorativo è tanto più cruciale in vista del fatto che - come ha detto Segnana - “dei 322 detenuti, a breve 100 torneranno nella società”. Sempre su proposta di Segnana è stato presentato il bando di concorso per 25 posti per il corso triennale 2019-2022 in medicina generale. In virtù delle novità apportate dal decreto Calabria, al corso saranno ammessi anche 7 medici idonei in precedenti concorsi. Brindisi. Accordo tra Comune e carcere: detenuti al lavoro nel verde pubblico di Stefania De Cristofaro brindisireport.it, 28 settembre 2019 Nuovo accordo con la direzione del carcere: anche giardinaggio, in aggiunta al riordino degli archivi e mansioni compatibili con il curriculum scolastico. Il Comune di Brindisi (ri)apre ai detenuti del carcere di via Appia e offre la possibilità di lavorare per l’Amministrazione e, quindi, per la città, dando priorità al verde pubblico: gli ospiti del penitenziario si occuperanno, per quattro ore al giorno, di giardinaggio, in aggiunta alla sistemazione dell’archivio, già sperimentata negli ultimi tre anni. La convenzione - L’Ente ha rinnovato la convenzione con la direzione del penitenziario, ampliando le offerte rivolte ai detenuti, dopo aver sperimentato progetti di pubblica utilità dalla primavera del 2016. La prima versione dell’accordo, infatti, risale al mese di maggio 2016, quando a reggere le sorti di Palazzo di città c’era la gestione commissariale. Con delibera di Cesare Castelli venne dato il via libera allo svolgimento di “lavori in favore della collettività”, per la durata di un anno, poi prorogata nei 24 mesi successivi. I lavori di pubblica utilità - L’Amministrazione Rossi, su richiesta della direzione del carcere, ha voluto ampliare le possibilità di reinserimento in ambito lavorativo e, quindi sociali, offerte ai detenuti prevedendo l’impiego nel settore del verde pubblico. Nel giardinaggio, in particolare. Settore sul quale il Comune sta puntando, con l’obiettivo di restituire a Brindisi il decoro che merita. È stata anche sottolineata la necessità di prevedere mansioni compatibili con il profilo professionale in precedenza svolte dai detenuti e con la preparazione scolastica. La delibera di Giunta - Per questo motivo il contenuto dell’accordo con il carcere è stato modificato e aggiornato. La delibera di Giunta, su proposta dello stesso sindaco Riccardo Rossi, è stata approvata lo scorso 24 settembre. L’esecutivo ha anche deciso di modificare l’accordo sul fronte del numero dei detenuti da impiegare nei lavori: non più un solo, ma più di uno, sempre sulla base delle effettive esigenze dell’Amministrazione. Più esattamente, stando alla nuova versione del testo della convenzione, “il Comune di Brindisi si impegna ad accogliere nei suoi uffici un numero di detenuti concordato di volta in volta con la casa circondariale, per un periodo non superiore a 12 mesi ciascuno, per lo svolgimento per quattro ore giornaliere - dalle ore 9 sino alle 13 - di lavori di giardinaggio, piccoli lavori di facchinaggio e riordino degli archivi e altri locali, oltre a mansioni compatibili e coerenti con il profilo professionale, la formazione e il curriculum scolastico del detenuto”. La finalità - L’Amministrazione comunale “mira a dare concreta attuazione ai principi costituzionali volti a favorire le sanzioni alternative rispetto alla detenzione carceraria, quali l’obbligo a svolgere lavori socialmente utili, in quanto più efficaci rispetto alla funzione rieducativa che ispira la carta costituzionale e i principi del nostro Stato”, si legge nella relazione firmata dal dirigente responsabile dei progetti speciali, Angelo Roma, in risposta alla richiesta della direzione della casa circondariale di Brindisi, pervenuta a Palazzo di città lo scorso 16 luglio. Tutti d’accordo gli assessori. Imperia. “S.B.A.R.R.E.”, un progetto per migliorare la vita dei detenuti di Giuditta Nelli imperiapost.it, 28 settembre 2019 Il progetto nasce dall’incontro fra la Direzione del carcere di Imperia, Arci e Uisp, per rispondere a esigenze individuate presso l’Istituto penitenziario. È stato presentato ieri mattina, venerdì 27 settembre, in biblioteca a Imperia il progetto “S.B.A.R.R.E.”. “Solidarietà - Benessere - Accoglienza - Rispetto - Responsabilità - Empatia”. Il progetto si fonda su diverse attività in carcere, per i detenuti, e si pone l’obiettivo di “portare fuori” una buona pratica che possa essere riproposta in altri contesti detentivi per il miglioramento del benessere fisico e psichico delle persone detenute. Frutto del lavoro congiunto dei tre enti promotori, il progetto realizza attività intra moenia e extra moenia, con la fondamentale collaborazione delle realtà territoriali, da tempo attive in carcere: Arci Imperia e UISP Imperia. Il progetto S.B.A.R.R.E. è realizzato con il sostegno di Compagnia di San Paolo e della Fondazione Carige, Bando Libero Reload 2018. “Sbarre è un acronimo, lascia già intuire che si tratta di un progetto legato al carcere, ai detenuti e ha un ampio respiro. Tra le parole ci sono solidarietà, benessere, empatia e responsabilità. Con questo progetto, che ha come capofila Arci Liguria e come partner Uisp Liguria e la casa circondariale di Imperia. È finanziato da Carige e compagnia Sanpaolo. Desidera innanzitutto lavorare per i detenuti, realizzando attività ludico motorie e mediazione interculturale. Attraverso queste attività andare a delineare quelle che sono le buone pratiche per la scrittura di linee guida che possono essere rese accessibili anche da altri volessero ripetere il nostro progetto. Abbiamo pensato a uno strumento utile a migliorare la vita dei detenuti, a dare una diversa responsabilizzazione e questo chiaramente stimolandoli al dialogo, al superamento dei conflitti, alla gestione delle proprie relazioni, al miglioramento delle relazione con i propri affetti, con la finalità di un maggior benessere dentro, ma di curare anche i propri legami al di fuori”. Milano. Ciclo di incontri su presa in carico autori di reato con patologie psichiatriche sestaopera.it, 28 settembre 2019 Fragilità psichiche e carcere: imparare ad avvicinare e accompagnare autori di reato con patologie psichiatriche. Da sabato 12 ottobre (ore 9, piazza San Fedele 4) il corso per volontari penitenziari promosso da Sesta Opera San Fedele Onlus. È dedicato al trattamento delle fragilità psichiche in carcere il ciclo di incontri che Sesta Opera San Fedele Onlus, associazione di volontariato penitenziario, promuove in collaborazione con l’Area Carcere e Giustizia di Caritas Ambrosiana e Seac (Coordinamento nazionale enti e associazioni di volontariato penitenziario). Gli incontri si terranno a partire da sabato 12 ottobre fino a sabato 16 novembre (Sala Ricci, piazza San Fedele 4, dalle ore 9-12.30) con l’intervento di esperti, magistrati, psicologi e responsabili delle attività di volontariato. Un’occasione aperta a tutti, per approfondire i temi dell’amministrazione della giustizia e del disagio in carcere. “Un tema spinoso ma purtroppo sempre più diffuso negli istituti penitenziari”, ha sottolineato il Presidente di Sesta Opera, Guido Chiaretti. Il quadro della situazione verrà presentato sabato 12 ottobre da Pietro Buffa, Direttore del Prap Lombardia, e da Tiziana Valentini, coordinatrice degli psicologi che operano nelle carceri milanesi dell’Uos Psicologia Settore Penitenziario dell’Ospedale Santi Paolo e Carlo. Il trattamento e la presa in carico delle persone con fragilità in carcere e nelle misure alternative saranno illustrati sabato 19 ottobre da Giovanna Di Rosa, Presidente Tribunale di Sorveglianza di Milano, insieme a Cosima Buccoliero, Direttore del Carcere di Bollate e del Beccaria, e da Severina Panarello, Direttore Uiepe Lombardia. Sabato 26 ottobre le esperienze di disagio e rischio suicidario e i diritti alle cure saranno al centro degli interventi di Elisabetta Palù, Vice Direttore carcere di San Vittore, di Roberto Bezzi, Responsabile Area educativa del carcere di Bollate, e di Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano. Modalità di accompagnamento e di inclusione sociale di detenuti con problemi psichiatrici e il ruolo del Terzo settore saranno invece illustrati sabato 9 novembre, con la partecipazione di Luca Mauri della Cooperativa A&I, responsabile del progetto “Sulla Soglia” che da anni si avvale di un team multidisciplinare, e di vari responsabili delle attività di Sesta Opera. Infine, sabato 16 novembre verranno proposti criteri, atteggiamenti, metodi e strumenti per avvicinare, incontrare e accompagnare i detenuti. L’iscrizione al corso (50 euro) potrà essere effettuata direttamente sabato 12 ottobre, prima dell’inizio dell’incontro. Per ulteriori informazioni è possibile contattare, da lunedì a venerdì (ore 9.30- 12.30) Sesta Opera San Fedele (tel. 02 863521) oppure scrivere a: sestaopera@gesuiti.it. Bolzano. Detenute e agenti si raccontano, storie al femminile di Silvia M. C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 28 settembre 2019 La scrittrice Monica Lanfranco indaga il mondo femminile nella realtà carceraria italiana Tra chi sorveglia e chi è punito. Al mondo del carcere sono stati dedicati secoli di studi e ne è nata una fiorente narrativa spesso tradotta in film. Ma l’universo della detenzione femminile è sempre rimasto territorio insondato. A fare luce su questo cono d’ombra è stata la giornalista e scrittrice Monica Lanfranco con “Donne dentro. Detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano”, presentato ieri sera alle 18 alla Biblioteca Civica di Bolzano. Un’iniziativa promossa dal Centro per la Pace della Caritas diocesana che, in occasione della riedizione del libro, ha ospitato l’autrice di questo toccante - e a tratti brutale diario di viaggio compiuto nel 1997 tra le carceri di Genova, Milano, Pozzuoli, Roma, Sollicciano, Venezia e Verona. “Un unicum nel suo genere che non trova paragoni nella letteratura italiana”, ammette la scrittrice. Monica Lanfranco, da anni formatrice sui temi della differenza di genere, sarà protagonista oggi di un corso intensivo dedicato ad assistenti sociali e operatori dei centri antiviolenza altoatesini per fare il punto sugli stereotipi di genere, sull’origine della violenza e sulle strategie per affrontarla. Un aspetto che riecheggia sottotraccia nelle storie di cui è stata depositaria, affiancando per mesi dietro le sbarre “donne detenute e donne agenti di polizia penitenziaria accomunate dall’esperienza del vivere, per motivi diversi, all’interno di un istituto carcerario”. Un’interazione obbligata, non sempre facile e non prova di conflitti, che talvolta rivela spaccati di sorprendente dolcezza. Un aspetto più che umano di una realtà spesso disumana. “Nel carcere pur fatiscente di Venezia, alla Giudecca, sono rimasta senza parole: appena varchi il portone ti appare un orto, coltivato dalle ospiti della struttura che con i frutti del loro lavoro gestiscono un mercato contadino - riferisce la scrittrice. Alcune, dopo aver pulito la cella, camminano con le “pattine”; altre ancora abbelliscono la loro “stanza” con tende o fiori, ricreando un loro piccolo angolo di dignità, bellezza, una sorta di intimità che non si trova nelle carceri maschili. Dietro quelle mura cinte da filo spinato si celano cose estremamente interessanti, ma mai reputate tali perché eclissate da storie clamorose come quella della madre che trucida i suoi bambini o della brigatista”. Lanfranco è entrata in molte carceri, sempre in punta di piedi. “L’assunto di partenza era verificare se ci potesse essere un intreccio tra le donne del carcere e di che tipo”. Un approccio che l’ha fatta rapidamente entrare in confidenza con molte vite. “Quando ho iniziato la mia avventura, alcune delle operatrici non erano ancora neppure poliziotte - ricorda -. È da meno di due decenni che il loro lavoro è equiparato a quello degli uomini: alcune avevano ricevuto in mano le chiavi del carcere dallo zio che faceva l’agente penitenziario e si sono ritrovate a gestire, senza formazione né qualifica, la sezione femminile solo perché serviva una donna”. Il filo conduttore nelle relazione femminile, però, c’è. “Ci sono punti di incontro anche in queste due figure apparentemente opposte, l’una specchio della giustizia e l’altra della criminalità. Non voglio esagerare nella poesia, perché ce n’è molto poca, ma la rintracci nel lavoro di alcune poliziotte penitenziarie che vogliono trovare ogni giorno un senso che vada al di là dell’aprire e chiudere le celle e punta davvero al dare una seconda possibilità”. Tra tutte, c’è una storia che Monica Lanfranco non ha mai dimenticato. “Un incontro che mi turbò moltissimo avvenuto nel bunker di cemento nel nulla assoluto che è il carcere di Verona - rammenta. Mi trovai a colloquio con una coetanea, sui 45 anni, a cui era morto il marito lasciandola piena di debiti. Un buco gigantesco che lei non aveva saputo colmare e, probabilmente malconsigliata, nonostante i due figli adolescenti si era trovata costretta a scontare otto mesi dietro le sbarre per chiudere i conti con la giustizia. Tra le altre, si riteneva fortunata. Io, invece, non ho potuto non pensare a quanto la sua vicenda ci rendesse simili e a quanto quello che era capitato all’improvviso a lei sarebbe potuto succedere anche a me o a chiunque di noi. E mi sono venuti i brividi, allora come oggi”. Roma. Bambini in carcere, l’incontro all’Ordine degli Avvocati eventiculturalimagazine.com, 28 settembre 2019 48 madri detenute nelle carceri italiane con 52 figli al seguito, prigionieri anche loro senza colpe, quasi per una sorta di responsabilità oggettiva derivante dal solo fatto d’esser nati in determinati contesti. Per contro, figli, specialmente quelli piccolissimi, che sarebbe ingiusto separare dalle madri. E centomila bambini figli di detenuti costretti a relazionarsi con il carcere. Un tema delicato, difficilissimo. È ancora fresca nella memoria l’atroce vicenda di Alice Sebesta, la detenuta tedesca che il 18 settembre dello scorso anno uccise i due figli nel reparto nido del carcere romano di Rebibbia a Roma. Nei giorni scorsi è stato il pm Eleonora Fini a chiedere l’assoluzione della donna, per vizio totale di mente. La sentenza del Gup è attesa per dicembre, subordinata alla valutazione da parte dello psichiatra Fabrizio Iecher che incontrerà la Sebesta nel Rems di Castiglione delle Stiviere. Un caso limite che però mostra la delicatezza della questione, la genitorialità in carcere e la complessità del rapporto madre-figli o padre-figli durante la detenzione. Se ne discuterà nel seminario “Il cuore oltre le sbarre”, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati martedì 1 ottobre dalle 15.30 nell’Aula Avvocati della Corte di Cassazione, in piazza Cavour. Gli ultimi dati sono aggiornati al 31 agosto 2019 e come detto vedono in carcere la presenza di 48 donne con 52 figli al seguito. L’istituto Le vallette di Torino, con 10 recluse e 13 bambini, peraltro istituto di custodia attenuata (Icam), guida la classifica del maggior numero di presenze, seguito da Rebibbia Femminile (11 donne e 11 bimbi), dall’ICAM San Vittore di Milano (9 donne e 9 bambini) e dall’Icam di Lauro in Campania (8 madri e 8 figli). “Troppo spesso il carcere viene inteso come un tappeto sotto il quale nascondere la polvere della società civile - il commento del Presidente del Coa Roma, Antonino Galletti - mentre è bene, anche attraverso questi eventi e queste giornate di studio, accendere un riflettore su realtà dure come la genitorialità nelle carceri, proprio per evitare che tragedie come quella di Rebibbia possano ripetersi. Qualcosa allora non ha funzionato nel sistema, il nostro obiettivo è far si che l’argomento diventi d’attualità”. Un tema che riguarda non solo i figli che convivono con la madre dietro le sbarre, ma anche quell’enorme numero di bambini che entrano in carcere per incontrare il detenuto, circa 100 mila. “La Costituzione tutela il diritto all’affettività e quando il genitore è detenuto, questo diritto deve essere preso in considerazione e tutelato sotto un duplice aspetto - spiega il Consigliere Saveria Mobrici, moderatore del convegno - precisamente il diritto per l’internato di esercitare la propria genitorialità ed il diritto del figlio minore di veder riconosciuto la continuità del legame affettivo con il proprio genitore con una tutela massima anche sotto il profilo psicologico salvaguardando la dignità di questi bambini, come il non subire la perquisizione, la spoliazione degli oggetti personali e non subire i rimproveri da parte dei soggetti che sono adibiti al controllo del detenuto”. Sarà possibile seguire l’evento in diretta sulla pagina Facebook del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e la registrazione dell’evento sarà poi pubblicata sul canale Youtube del Coa Roma. Orvieto (Pg). “A pranzo con papà”, il carcere apre le porte e la città partecipa di Monica Riccio orvietolife.it, 28 settembre 2019 “A pranzo con papà” è l’iniziativa che oggi la Casa di Reclusione di Orvieto ha organizzato a beneficio dei detenuti che attualmente sono associati alla struttura diretta da Paolo Basco. Un pranzo tutti insieme, detenuti e famiglie, mogli e soprattutto bambini, per affermare sempre e comunque la persona, prima del recluso. “I detenuti che si trovano presso la nostra struttura - ha spiegato il direttore - ricevono le proprie famiglie tre volte a settimana. Con questo momento conviviale vogliamo fare in modo che tutti si sentano sereni, facendo entrare luce laddove c’è il buio”. Il pranzo, a cui oggi parteciperà anche il sindaco di Orvieto, Roberta Tardani, è offerto da numerose attività della ristorazione cittadina che, coinvolte nel progetto da Alessandra Taddei, presidente della Cooperativa Mir che da tempo si occupa di reinserimento sociale dei detenuti, hanno sposato senza alcun indugio la causa. “Noi di Mir siamo onorati di poter collaborare a queste iniziative - spiega Taddei - il nostro obiettivo è proprio la costruzione di percorsi educativi o rieducativi per persone in difficoltà, in stato di fragilità, e il lavoro e l’impegno in iniziative è sicuramente un ottimo strumento per avviare queste azioni sulla persona”. Una occasione, il pranzo di oggi, fortemente orientata a offrire un momento di serenità familiare laddove le circostanze negative di una reclusione hanno interrotto forzatamente rapporti e genitorialità. “Il carcere non può e non deve essere fuori della città - ha spiegato Basco - e questa interazione che questa iniziativa propone è una occasione importante. La realtà educativa del carcere va fatta conoscere così come le ragioni del torto, vanno capiti gli errori e comprese le situazioni che hanno portato una persona a commettere un reato. Il nostro lavoro è basato sulla umanità e sulla legalità, non può esistere recupero se non agiscono insieme tutte le realtà che compongono la vita del carcere.” Il prossimo progetto che la direzione del carcere di Orvieto ha in programma è la creazione di una ludoteca che possa accogliere i bambini mentre attendono di poter vedere i propri padri. Attualmente la Casa di Reclusione di Orvieto, struttura di tipo Ica Istituto a Custodia Attenuata, ospita 90 detenuti che vengono impegnati quotidianamente in lavori socialmente utili all’esterno, quando la condizione giudiziaria del recluso lo permette, e all’interno con lavori di manifattura varia. A vigilare sulla sicurezza ci sono 59 agenti di Polizia Penitenziaria sotto la guida del comandante Enrico Gregori e dal vicecomandante Alessandra Onofri. Ambiente. A Milano una marea umana per dire che: “Un altro mondo è possibile” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 28 settembre 2019 Forse per la prima volta a Milano una manifestazione è partita in orario. Scelta obbligata perché alle 9.30 la piazza di Largo Cairoli era già piena di ragazzi e ragazze, ma anche adulti, insegnanti, genitori e persone di ogni età che hanno sentito di doverci essere. È questa è la prima novità della giornata: tanti adulti sono andati a guardare da vicino questo movimento giovane. “O ci salviamo tutti o non si salva nessuno” dice facendo sintesi una signora. Mentre la testa del corteo si avviava lungo il percorso in altre zone della città i pre-concentramenti aspettavano ancora studenti dalle scuole: a Porta Venezia oltre 5 mila persone riempivano le strade attorno ai Bastoni proprio nei minuti in cui il corteo partiva da Cairoli. Chilometro dopo chilometro la manifestazione si è gonfiata e a fine mattinata gli attivisti di Fridays For Future hanno potuto dire “siamo in 200 mila, inarrestabili. Un altro mondo è possibile”. 250 mila sommati a quelli della sera, perché Milano anche in questo terzo global strike for future ha raddoppiato con un corteo serale per chi non aveva potuto partecipare la mattina. Ad aprire la manifestazione l’ormai immancabile risciò a pedali spinto a turno dagli studenti. Tra gli striscioni in prima fila uno con sopra scritto “stop speaking, start doing” sintetizzava il senso di questo terzo global strike. Dopo aver portato il tema della crisi climatica causata dall’uomo sulla bocca di tutti, ora il movimento chiede a tutti, e soprattutto alla politica, di fare azioni concrete e passare dalle parole ai fatti: “stop speaking, start doing”. Pochi giorni fa Greta Thunberg aveva detto in faccia ai potenti dell’Onu “non fate abbastanza” e questa piazza milanese non ha voluto fare sconti a nessuno. “Spesso usiamo lo slogan “salviamo il Pianeta” ma in realtà dovremmo cambiarlo in ‘salviamo l’umanità’” dice Sergio Marchese. “Siamo noi il problema, la Terra c’era prima di noi e ci sarà anche dopo senza di noi”. A differenza di quanto pensano alcuni adulti distratti come il filosofo Massimo Cacciari che ieri al Corriere ha detto che questi ragazzi sarebbe meglio stessero in classe ad ascoltare gli scienziati, uno dei tratti salienti di questo movimento è proprio quello di parlare direttamente con gli scienziati bypassando politici e adulti distratti. Basterebbe fare una veloce ricerca per vedere la quantità di convegni organizzati dai nodi locali di Fridays For Future insieme agli scienziati per non dire sciocchezze simili. Tra gli striscioni in piazza ce n’era uno molto grosso scritto in inglese sorretto da sei studenti che riportava dati e grafici presi proprio dai rapporti scientifici. “Noi siamo quelli che dicono ai politici che devono ascoltare gli scienziati e agire. Noi quei rapporti li abbiamo letti e abbiamo capito che non era più tempo di starcene da soli a casa ad aspettare che qualcuno facesse qualcosa” dice il gruppetto che sorregge il cartello “agire subito!”. Alcuni cartelli riprendono le grafiche dei meme che vediamo online, un altro aspetto interessante del rapporto reale-virtuale che la generazione post 1998 sta portando con se. Ci sono l’ironia e la leggerezza “No more toxic air, no more toxic waste. Only toxic by Britney Spears” ma anche la giusta pretesa che si parli in modo serio e rigoroso del cambiamento climatico e che si agisca. “Pretendi il futuro”. Fuori dalla sede dell’Agenzia delle Entrate gli attivisti lasciano appesi alcuni striscioni: “Il Governo finanzia il fossile per 18 miliardi l’anno. Investiamoli in salute, trasporti, istruzione, territorio”. E ancora “Basta incentivi al fossile. Giustizia climatica: chi si è arricchito inquinando deve pagare la riconversione”. Dal megafono qualcuno urla “è troppo comodo essere dalla parte dei giovani con quattro post su Facebook”. Dopo averlo anticipato con un’intervista a Repubblica a un certo punto del corteo arriva anche il sindaco di Milano Beppe Sala. “Se scende in piazza ci deve dimostrare di fare qualcosa sennò nessuno gli darà mai retta” dice Miriam Martinelli ai giornalisti. Miriam ha 16 anni, studia all’Istituto agrario di Milano e fin dall’anno scorso è stata ribattezzata “la Greta di Milano” perché il venerdì salta la scuola. “Non lo fischieremo Sala” dice Miriam “ma vogliamo vedere i fatti”. Conviene le ascolti queste parole il sindaco se non vuole restare vittima del proprio story-telling. I giovani non lo contestano ma chiedono scelte adeguate all’emergenza sanitaria e ambientale che Milano vive da anni. Lungo il corteo piantano un albero contro la cementificazione, un’azione simbolica, un acero in piazza Baiamonti al centro di un’area verde di proprietà del Comune su cui è prevista la realizzazione di un nuovo edificio-piramide firmato dall’architetto Jacques Herzog. “È il simbolo della Milano che continua a cementificare, l’amministrazione potrebbe lasciare verde quest’area”. La manifestazione si chiude in una piazza Duomo piena. Gli studenti mettono la struttura sferica di un pianeta Terra di carta in mezzo alla piazza e gli danno fuoco. La foto della Terra che brucia davanti alla cattedrale di Milano è di quelle che resteranno nella storia. Migranti. Ius culturae, il 3 ottobre riparte il dibattito alla Camera di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 settembre 2019 L’iter riprende dalla Commissione affari costituzionali. Il relatore Brescia (M5S): “Basta propaganda, cittadinanza a chi completa positivamente un ciclo di studi. Cittadini italiani appena completato positivamente un ciclo di studi. Riparte alla Camera, su impulso del M5S, la discussione sullo ius culturae. La commissione Affari costituzionali discuterà giovedì prossimo i testi di modifica della legge di cittadinanza. Lo ha annunciato ieri il presidente della commissione Giuseppe Brescia (M5S), spiegando: “Serve una discussione che metta all’angolo propaganda e falsi miti, guardi in faccia la realtà e dia un segnale positivo a chi si vuole integrare”. Immediati i consensi da parte del Pd. E la replica del leader leghista, Matteo Salvini: “La Lega si batterà contro loius soli, comunque lo chiamino, contro la cittadinanza facile, senza se e senza ma. Se questa è la priorità del governo, povera Italia...”. Il sì della Cei - Proprio ieri il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, aveva lanciato un appello. “Lo ius culturae è da promuovere perché l’integrazione, senza il riconoscimento da un punto di vista normativo, sarebbe un contenitore vuoto. Accogliere è un dovere fondamentale ma se poi non si integra, non si forma, e non si porta una persona anche alla cittadinanza, resta un guscio vuoto. Non basta essere nati in un suolo. La cittadinanza va costruita, è frutto di integrazione, di un accompagnamento”. E l’appello è stato colto al volo. “Siamo ancora all’inizio”, ha dichiarato Brescia - grillino molto vicino al presidente della Camera Roberto Fico - ricordando che oltre al testo a prima firma di Laura Boldrini (Leu all’epoca della stesura, ora passata al Pd) ne sono stati depositati anche altri tra cui uno della Polverini (FI) che introduce proprio lo ius culturae. “Naturalmente arriverà anche un testo M5S”, annuncia Brescia. Di Maio: “Blocchiamo le partenze” - Concorda con la necessità dello ius culturae l’ex segretario dem, Maurizio Martina. Sottolineando che “occorrono tempi certi per portare a casa il risultato”. Soddisfatto anche il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci: “Giusto portare finalmente all’approvazione lo ius culturae”. Di ritorno da New York, Luigi Di Maio, riprende in mano la questione immigrazione. Anticipa a ministri e viceministri che lunedì arriveranno importanti novità sul tema. “Non potevamo fermarci alla redistribuzione”, è il suo ragionamento. “Dobbiamo andare oltre bloccando le partenze. Dobbiamo lavorare in loco”, dice. La sua idea è quella di creare una “sinergia” tra Farnesina, ministero dei Trasporti e Viminale “che ci permetta di lavorare al meglio, trovando le giuste soluzioni”. E per questo chiede il “supporto” al sottosegretario alla presidenza Crimi e al sottosegretario ai Trasporti Cancelleri. Poi, con inguaribile ottimismo, annuncia: “La soluzione è vicina”. Che cos’è lo “ius culturae”? - La “ius culturae” è un istituto giuridico inedito per l’Italia. Si riferisce all’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri minorenni nati in Italia o che siano arrivati nel nostro paese prima dei 12 anni di età. L’intenzione è quella di far diventare cittadini italiani gli immigrati che abbiano completato positivamente almeno un ciclo di studi. Altra condizione indispensabile è che almeno uno dei genitori sia regolarmente residente in Italia. Lo “ius culturae” si distingue dallo “ius soli”: quest’ultimo principio prevede che per acquisire la cittadinanza basta essere nati in un determinato paese. In un Egitto blindato si manifesta lo stesso contro al-Sisi di Pino Dragoni Il Manifesto, 28 settembre 2019 Il regime tenta di camuffare la mobilitazione e fa sfilare al Cairo i propri sostenitori, portati nella capitale con i bus. Minacce “velate” ai reporter stranieri e arresti eccellenti. Ieri un altro venerdì di proteste e repressione ha attraversato l’Egitto, dopo che la scorsa settimana alcune migliaia di persone erano scese in strada in alcune delle maggiori città del paese chiedendo le dimissioni di al-Sisi. Anche stavolta Mohammed Ali, l’imprenditore in esilio che denunciando gli scandali di corruzione ha dato l’innesco A questa nuova ondata di agitazione, ha lanciato da internet il suo appello a manifestare per un secondo “venerdì della rabbia”. Ma se le manifestazioni della scorsa settimana avevano colto di sorpresa molti (comprese le forze di sicurezza) stavolta il regime non si è fatto trovare impreparato. Il dispositivo di sicurezza schierato al Cairo ha impedito fisicamente l’accesso a Tahrir e a tutte le zone circostanti chiudendo una decina di strade e tutte le fermate metro della zona. L’area vista dalle rare immagini circolate e dalle testimonianze di chi si trovava nel centro città aveva un aspetto surreale per chi è abituato al traffico chiassoso di quei luoghi. Sospeso anche il campionato di calcio. Il corrispondente del Washington Post al Cairo in un tweet ha raccontato di aver visto decine di uomini a volto coperto e pesantemente armati trasportati su dei pick-up nei dintorni di una delle piazze principali della città. Ma mentre il centro veniva occupato militarmente, alcune proteste sparse si sono verificate nei quartieri popolari ai margini della metropoli (a Giza e a Helwan) e sull’isola di al-Warraq, ancora protagonista con massicce manifestazioni degli abitanti mobilitati da anni contro lo sgombero. Le manifestazioni sono state rapidamente attaccate con violenza dalle forze di sicurezza con lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. È ancora incerto il bilancio degli arresti della giornata. Secondo fonti vicine al governo citate da MadaMasr l’ordine per le forze di polizia è impiegare “ogni mezzo disponibile” se in pochi minuti l’assembramento non si disperde “con le buone”. Altre manifestazioni in alcune province dell’Alto Egitto, compresa la città di Luxor. Finora si contano più di 2mila persone arrestate in tutto il paese in relazione alle manifestazioni dei giorni scorsi, tra questi noti avvocati, diversi attivisti (spesso non coinvolti nelle proteste), docenti universitari e dirigenti di partiti islamisti e di sinistra. Scomparso da giovedì sera anche lo scrittore Muhammad Aladdin (ospite più volte anche di festival letterari in Italia). Decine di avvocati lavorano incessantemente per individuare gli arrestati, pubblicarne i nomi e offrire difesa legale. Intanto gli apparati dello Stato hanno messo in campo tutti i mezzi a disposizione per dimostrare di godere ancora del consenso della maggioranza degli egiziani. I media ufficiali ieri hanno diffuso le immagini di un’imponente manifestazione “per la stabilità del paese” che ha avuto luogo nella famigerata piazza Rabea al-Adawiya (dove oltre mille oppositori islamisti furono trucidati in pochi giorni nell’agosto 2013) con tanto di mega-palco, canzoni patriottiche e sventolio di bandiere egiziane. Secondo MadaMasr e altre fonti locali, molti dei manifestanti pro-regime sarebbero stati trasportati in autobus da diverse province in cambio di un pasto gratuito (pratica largamente in uso sotto Mubarak e tra i Fratelli musulmani). E cresce la pressione anche nei confronti dei corrispondenti stranieri (in molti arrivati nel paese nell’ultima settimana). Il Servizio informazioni di Stato ha diramato una serie di comunicati in cui - senza mai usare la parola proteste - invita la stampa estera a “non esagerare” la situazione e a non dare credito alle notizie raccolte sui social. I loro articoli e i loro servizi, spiega l’autorità governativa, sono “attentamente monitorati”. Turchia. Terrore di stato ad Afrin di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2019 Da Afrin invasa e occupata dall’esercito turco e dalle milizie mercenarie giungono notizie di sequestri, maltrattamenti e torture ai danni della popolazione curda. Altre informazioni provengono dai racconti di coloro che sono riusciti a fuggire raggiungendo qualche campo profughi. Il 24 settembre è avvenuto l’ennesimo inquietante episodio, quando il gruppo islamico “Sultan Murad”, legato allo Stato turco, ha prelevato sei civili dal villaggio di Qurt Qilad (distretto di Shera). Questi i loro nomi: Mihemed Quma Ehmed, Mihemed Ehmed Reso, Omer Sahin Moso, Mustafa Abdulqadir Sex Ehmed, Issam Menam Moso e Henan Mihemed Muslin. Sempre il giorno 24 si registravano due rapimenti di studenti (Leyal Deri e Beyan Hemo). In questo caso potrebbe trattarsi dell’opera di una delle bande criminali che imperversano, con il consenso delle forze di occupazione, nella città martoriata. Tra agosto e settembre sono state oltre 140 le persone rapite, tra cui una trentina di donne. Ovviamente non di tutti i casi si viene a conoscenza, soprattutto quando i sequestri sono opera dei servizi segreti turchi. In particolare le bande jihadiste usano il sequestro per ricattare le famiglie chiedendo un riscatto, ma in molti casi la persona rapita resta desaparecida anche a pagamento avvenuto. Da parte sua la “polizia militare” si dedica al sequestro di denaro, beni e mezzi di trasporto della popolazione che viene fermata ai posti di blocco. Recentemente “Rete Kurdistan” ha pubblicato l’ennesima testimonianza raccolta dall’agenzia Anha. Ebdo Omer, sequestrato dai miliziani, ha raccontato di essere stato a lungo torturato e di aver assistito alle torture inflitte ad altri civili imprigionati. Ha inoltre voluto testimoniare in merito alla morte di alcuni prigionieri - rinchiusi nelle stesse prigioni, prima di Kefer Zité, poi di al-Rai - sia per tortura che per fame. Torturato già in strada al momento della cattura (al punto di provocarne lo svenimento) Ebdo Omer venne successivamente appeso ad un gancio e picchiato con un grosso tubo. Dato che non poteva, anche se avesse voluto, fornire ai suoi carcerieri le informazioni richieste (le posizioni della guerriglia) sulle sue ferite venne versato sale. Come conseguenza delle botte ora non è più in grado di utilizzare il braccio sinistro. E comunque gli è andata ancora bene (visto che ha potuto raccontarla). Perlomeno rispetto ad altri prigionieri deceduti a causa delle torture, assassinati o semplicemente scomparsi senza lasciare traccia. Un quadro generale che la politologa tedesca, specialista in Turchia, Elke Dangeleit ha interpretato come una “pulizia etnica pianificata contro i curdi in Siria”. Prosegue intanto anche l’opera di devastazione ambientale per mano dell’esercito turco con l’incendio delle foreste, in particolare nel distretto di Mabata. Le bande integraliste invece hanno abbattuto decine e decine di alberi in quello di Rajo. Ma, va detto, i curdi non si limitano a subire. Anche in agosto le Forze di Liberazione di Afrin (Fla) avevano attaccato le truppe di occupazione nel villaggio di Kirame (distretto di Sherawa) uccidendo due soldati. Altri due militari sono stati uccisi nel distretto di Shera. Questo per quanto riguarda i territori curdi all’interno dello stato siriano, al momento invasi e occupati da Ankara. In Rojhilat (territori curdi sotto l’amministrazione iraniana), sempre in questi giorni, sono state eseguite altre condanne a morte contro persone curde. Il 26 settembre, nella prigione di Sanandaj (Sine) è stata impiccata, dopo aver trascorso cinque anni nel braccio della morte, Leyla Zarafshan. Stando a quanto comunicato da Zarafshan (Organizzazione per i diritti umani) la donna sarebbe stata condannata in quanto ritenuta responsabile della morte del marito. Sempre in Iran, altri quattro detenuti curdi, in carcere per reati comuni, sarebbero stati impiccati il 25 settembre a Urmia (Azerbajan occidentale). Cina. Le morti sospette fra i detenuti diventano una triste regola di Lu Xiaojing bitterwinter.org, 28 settembre 2019 Il numero crescente di decessi di persone in prigione o detenute in custodia dalla polizia crea preoccupazione sullo stato dei diritti umani in Cina. La testimonianza di due famiglie. Lunedì l’organizzazione Chinese Human Rights Defenders (Chrd) ha riportato che Wang Meiyu, un attivista della provincia centrale dell’Hunan, è morto improvvisamente in un centro di detenzione per cause sconosciute. Sua moglie, Cao Shuxia, ha affermato che il governo non ha spiegato alla famiglia cosa sia accaduto. “Non hanno detto come è morto. Siamo anche stati minacciati quando ci trovavamo lì che se avessimo scattato foto ne avremmo pagato il prezzo”, ha aggiunto. Wang Meiyu è stato arrestato nella stazione ferroviaria di Changsha nell’Hunan l’8 luglio a causa dei ripetuti richiami pubblici a dimettersi che aveva rivolto al presidente Xi Jinping e ad altri funzionari governativi. Il 10 luglio l’uomo è stato inviato al centro di detenzione della città di Hengyang, sempre nell’Henan, e arrestato per “aver attaccato briga e provocato problemi”. Purtroppo le morti per cause non naturali avvenute durante la detenzione sono casi frequenti in Cina. Dal momento che il governo minaccia i familiari e ne ostacola le indagini, molti di questi decessi restano sconosciuti al pubblico e le loro vere cause rimangono misteri irrisolvibili. Le autorità se ne escono con una varietà di ragioni assurde per coprire le cause reali (in molti casi, si tratta di tortura o abusi ai danni dei detenuti) per le quali le persone sono decedute mentre si trovavano sotto custodia, per esempio che sono morti “mentre giocavano a nascondino”, “lavandosi la faccia”, “inciampando e cadendo”, “soffocandosi con degli ossi di pollo”. Poiché rapporti di questo tipo sono stati resi pubblici, ora questi termini sono usati spesso dalla gente per deridere l’abuso di potere da parte del governo, che provoca i decessi. Due persone hanno condiviso con Bitter Winter le storie tragiche che hanno vissuto con la perdita di familiari che si trovavano in stato di detenzione. Per timore di essere perseguitati, hanno chiesto di rimanere anonimi. Un giovane muore il giorno stesso del suo arresto - Attorno alle 11 del mattino del 14 luglio 2016, un giovane della provincia sudorientale del Fujian, che stava attraversando la rottura di una relazione sentimentale, ha colpito con il pugno un veicolo parcheggiato in una strada del villaggio. Qualcuno che ha assistito alla scena ha chiamato la polizia e l’uomo è stato condotto alla stazione di polizia locale. Verso le 5 del pomeriggio, il padre è stato avvisato che suo figlio era morto e che il cadavere era stato inviato per la cremazione. Gli amici e i parenti hanno chiesto di vedere il corpo. Hanno avuto il permesso di andare al crematorio ma è stato detto loro di lasciare fuori i telefoni, pertanto non hanno potuto scattare fotografie. Dopo aver visto molti ematomi sul cadavere, i suoi cari hanno concluso che molto probabilmente era stato picchiato a morte. “Aveva tre ematomi a forma di quadrato sul torace e lividi neri su braccia e gambe”, ha raccontato uno dei parenti. “Tutto il corpo era ricoperto da tagli ed ematomi. Sicuramente è stato picchiato a morte”. Benché su richiesta della famiglia sia stata condotta un’autopsia da parte di un centro forense, i risultati sono stati celati e non divulgati ai parenti in lutto. Poi, il governo ha dato incarico a un altro laboratorio di polizia scientifica di eseguire una nuova autopsia. I parenti del giovane deceduto hanno sfruttato alcune conoscenze per ottenere i risultati del laboratorio, che indicavano che la causa degli ematomi su numerose parti del corpo erano stati dei colpi inflitti dall’esterno mentre era ancora vivo. Aspetto ancora più importante, c’erano numerose linee di frattura sul cranio, la cui base aveva subito una frattura che aveva generato numerosi frammenti ossei e riportava una ammaccatura a forma di anello. La famiglia ha consultato uno specialista in ortopedia, che ha confermato che la frattura e l’ammaccatura alla base del cranio erano compatibili con i colpi inferti verticalmente con un bastone elettrificato. In ogni caso, il governo ha rifiutato di indagare sul caso e la famiglia ha intrapreso l’iniziativa di difendere i propri diritti e chiedere giustizia. Invano. Sono stati intercettati quattro volte di seguito mentre cercavano di presentare le proprie istanze al governo, sono stati arrestati, minacciati, intimoriti. Nessuno si assume la responsabilità della morte di un uomo - Un giovane della provincia centrale dell’Henan è morto in circostanze sospette mentre scontava in prigione la pena per aver causato ferite accidentali a una persona che in seguito era morta. Quando i suoi familiari si sono recati a trovarlo, nel marzo 2015, hanno scoperto che era delirante e non riconosceva neppure i parenti. Tremava e si contraeva senza sosta, il suo corpo era rigido, con le spalle sollevate molto in alto, pugni e denti serrati, e camminava in modo instabile. La sua famiglia non riusciva a capire come fosse potuto cambiare tanto radicalmente dopo soli pochi mesi dall’ultima visita. Attraverso mazzette e conoscenze, sono riusciti a vederlo ancora il giorno successivo. La situazione era peggiorata: non riusciva più a camminare e doveva essere sorretto da altri due detenuti. Teneva la testa bassa, l’occhio destro sporgeva all’infuori e la sua faccia era piena di lividi. Si strofinava le braccia con le mani e ripeteva ossessivamente “Batteri… Son tutti batteri…”. Quando i familiari gli hanno chiesto cosa non andasse ha scosso la testa e ha replicato: “Non lo so… Non so cosa mi abbiano iniettato. Non riesco a ricordare niente”. In seguito, la famiglia ha sfruttato di nuovo le sue conoscenze per far sì che fosse rilasciato su parere del medico, ma l’amministrazione della prigione ha affermato che egli stesse fingendo di essere malato e che la sua pena sarebbe raddoppiata se l’ospedale avesse scoperto la sua reale condizione. I parenti sono stati costretti a rinunciare. Più di un mese dopo, i genitori hanno ricevuto una telefonata dalla prigione che li informava che il figlio era stato pestato a morte da altri prigionieri. La famiglia era distrutta. Dopo aver visto il corpo, si sono resi conto che era coperto di ferite, nessuna parte era indenne. Aveva anche numerose bruciature di sigarette e segni di punture di ago. Non solo la prigione non si è assunta la responsabilità della morte del giovane, ma ha anche minacciato i familiari affinché non presentassero istanze alle autorità di livello superiore. Temendo ritorsioni, sono stati costretti ad accettare il compromesso. Pakistan. Dopo 18 anni di carcere la Corte suprema assolve un uomo accusato di blasfemia di Shafique Khokhar La Repubblica, 28 settembre 2019 Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002. La sentenza è stata poi confermata dall’Alta corte di Lahore. Le prigioni pullulano di innocenti. La Corte suprema del Pakistan - riferisce Asianews - ha assolto un uomo accusato di blasfemia che ha trascorso 18 anni in carcere. Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002 da un tribunale di Lahore per oltraggio al profeta Maometto secondo la sezione 295C del Codice penale pakistano. Alcuni attivisti laici hanno espresso soddisfazione per l’assoluzione e dispiacere per Hassan, rinchiuso per tanti anni per un fatto non commesso. Hamza Arshad, educatore e giornalista, ha detto: “L’omicidio è il crimine più grave, ma è persino peggio detenere una persona innocente dietro le sbarre per 18 anni”. La “prova maestra? Una presunta lettera blasfema. Il 25 settembre il tribunale composto da tre giudici, guidati da Sajjad Ali Shah, ha stabilito che le prove presentate contro il condannato non sono sufficienti per mandarlo al patibolo e ne ha stabilito il rilascio. Al momento l’uomo si trova ancora nel carcere di Kot Lakhpath. I giudici hanno ribadito che in casi così controversi, dove la prova “maestra” era una presunta lettera blasfema, deve prevalere “la presunzione d’innocenza”. Hashir Ibne Irshad, direttore di Exist Communications, sottolinea: “Dopo Rimsha Masih e Asia Bibi, Wajih ul Hassan è la terza vittima prosciolta dall’accusa di blasfemia da una corte superiore. Di rado i tribunali di grado inferiore assolvono le vittime. I processi sono molto costosi e i familiari degli accusati arrivano a vendere tutto ciò che hanno, vivendo nell’indigenza e nel dolore costante”. Un sistema giudiziario che fa acqua dappertutto. Lo scrittore lancia una provocazione: “Deve essere riformato il sistema procedurale dei casi di blasfemia e stabilito che entrambi - accusato e accusatore - devono rimanere in carcere durante il processo. A quel punto credo che nessuno più farebbe false denunce”. In Pakistan, sottolinea, “il sistema giudiziario fa acqua da tutte le parti, dal basso al vertice. I tribunali non sono trasparenti e equi. Le leggi sulla blasfemia sono applicate per risolvere dispute personali. Ci sono decine di esempi che lo provano. Addirittura a volte i tribunali superiori stabiliscono la liberazione dopo vari anni di carcere, senza nemmeno sapere che il presunto colpevole è già morto mentre era in prigione”. Destinati a marcire in galera o linciati a morte. Secondo Bilal Warraich, attivista e difensore d’ufficio, “in Pakistan le leggi sulla blasfemia sono così draconiane nella natura che le folle prendono la legge nelle loro mani e gli accusati sono linciati a morte, oppure costretti a languire in prigione per anni senza poter fare ricorso alla giustizia. Wajih ul Hassan e Asia Bibi sono solo due esempi: ci sono centinaia di cittadini innocenti in prigione, i loro casi sono in sospeso, gli avvocati sono costretti a fuggire per salvarsi la vita, fin dall’omicidio dell’avvocato e attivista Rashid Rehman. Prima di lui, il governatore del Punjab Salman Taseer è stato assassinato dalla sua guardia del corpo perché chiedeva la riforma delle leggi sulla blasfemia”. L’avvocato ritiene che sia “interessante sottolineare che la ‘spada’ della blasfemia non colpisce solo le minoranze, ma anche i musulmani. Controversie sui terreni, i soldi e l”onorè diventano proiettili d’argento per le leggi sulla blasfemia. Come avvocato, ritengo che queste norme siano ripugnanti per il vero spirito della Costituzione che sostiene l’uguaglianza all’art. 10A del capitolo 2”. Prigioni che pullulano di innocenti. L’educatore Hamza Arshad è disilluso: “Potrebbe essere scioccante per il mondo civilizzato, ma nel nostro Paese è la routine. Le nostre prigioni pullulano di innocenti rinchiusi a causa di un sistema giudiziario penoso. La lunga e dolorosa prigionia di Wajih ul Hassan ci ricorda che la legge viene usata per perseguitare i cittadini. Si può solo immaginare l’orrore provato da quest’uomo, ciò che egli deve aver pensato all’ombra del cappio che incombeva, lo spasimo senza fine della famiglia, l’umiliazione e la minaccia provate dalla comunità. Ora che la Corte suprema lo ha assolto, chi gli ridarà 18 anni di vita? Gli consentiranno di vivere una vita normale in mezzo alla gente? L’avvocato che ha sporto denuncia sarà arrestato o processato? La società e lo Stato riformuleranno le leggi? La risposta è no. Per questo imploriamo il perdono della famiglia di Wajih ul Hassan, perché lo Stato e la società non faranno nulla per riscattarli”. Brasile. Lula a un passo dalla semilibertà. I pm: “Può tornare a casa” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 28 settembre 2019 Ma lui si oppone: “Non riconosco questo processo e questa sentenza, se esco devo uscire totalmente scagionato”. Lula potrebbe lasciare presto il carcere. Sin da lunedì prossimo. Ha scontato già parte della pena, quella che gli consentirebbe di godere della semilibertà. Ci sono i termini per uscire di giorno e rientrare in cella la sera. In alternativa può restare ai domiciliari con la cavigliera. Lo ha ribadito la Procura di Curitiba titolare dell’inchiesta Lava Jato. Quindici pm del pool hanno sottoscritto una lettera con la quale danno parere positivo. In testa la firma del capo del pool Deltan Dallagnol. “Questo ufficio ha constatato”, scrivono in procuratori, “la buona condotta in carcere di Lula da Silva e a questo punto si richiede al Pubblico ministero federale di rinviare Luiz Lula da Silva al regime di semilibertà”. “L’esecuzione della pena detentiva presuppone la sua esecuzione in modo progressivo”, ricordano, “mirando al graduale reinserimento del prigioniero nella vita sociale”. Lula potrebbe uscire già tra tre giorni. Ma non è disposto a farlo. La sua difensiva di attacco alla Procura e a tutta la indagine che lo ha portato al processo e alla condanna, lo hanno sempre spinto ad escludere questa possibilità. Vuole uscire a testa alta, non riconosce il verdetto. Quindi, neanche tutte le misure che lo accompagnano anche nella fase della sua esecuzione. Gli avvocati della difesa lo incontreranno lunedì stesso e vedranno con lui la strategia che intende adottare. “Lula vuole ripristinare la sua piena libertà”, ha commentato l’avvocato Cristiano Zanin, “perché non ha commesso alcun crimine ed è stato condannato attraverso un processo illegittimo e corrotto da nullità”.