Il Dap ora “attenziona” i detenuti con “spiccata tendenza all’evasione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2019 Identificare i detenuti che abbiano dato prova di una “spiccata tendenza all’evasione” tenendo conto anche delle sue caratteristiche fisiche, intensificare le battiture serali delle inferiate e le perquisizioni nelle celle, non far sostare per troppo tempo i detenuti attenzionati nella stessa cella. Sono alcune delle predisposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emanate tramite la Circolare che ha come oggetto “ordine e sicurezza”, a causa dei “recenti - così si legge - gravi episodi di evasione da Istituti penitenziari della Repubblica”. Pur tenendo conto delle difficoltà conseguenti all’aumento della popolazione detenuta, alla carenza di personale, alla presenza di situazioni di disagio di taluni ristretti che spesso sfocia in forme di protesta e condotte auto ed etero aggressive, anche ai danni degli operatori, le recenti evasioni “impongono - continua la lettera della circolare - una attenta riflessione sulla gestione delle dinamiche interne nonché sulla necessaria modulazione operativa delle attività di servizio che imponga di affinare e mirare i controlli e soprattutto di sostenere il livello di attenzione del personale in modo da evitare quanto più possibile la percezione di solitudine operativa”. Diverse, quindi, sono le disposizioni del Dap. Tra quelle inizialmente elencate, si sottolinea la necessità che “le camere di pernottamento siano prive di accumuli di generi alimentari, materiale di pulizia, vestiario e da tutto quanto sia di ostacolo alle ordinarie e/o straordinarie attività di perquisizione da parte del personale di polizia penitenziaria”. Ma la parte più importante riguarda l’identificazione di una nuova categoria di detenuti. Quelli con “spiccata tendenza all’evasione”, tanto da applicargli “un’attività di vigilanza attenta e mirata, che tenga conto non solo delle caratteristiche fisiche, del tipo di reato e dei precedenti penitenziari, ma che sia finalizzata anche a individuare atteggiamenti ambigui tenuti da singoli o in gruppo”. Il Dap predispone che “tali detenuti dovranno essere allocati in camere di pernottamento lontane dal muro di cinta, non dovranno permanere a lungo nella medesima stanza e dovrà evitarsi, per quanto possibile, la coabitazione con ristretti di medesima caratura delinquenziale e medesima provenienza geografica”. Le evasioni, o tentate, sono ovviamente numeri da percentuale da prefisso telefonico. Non sono numeri che generano allarmismo, però hanno una loro importanza. Nel 2018, 44 sono quelle tentate, mentre 110 sono le evasioni riuscite. Da osservare però che le tentate evasioni sono prevalentemente da istituto o da ospedale. Mentre quelle riuscite sono per lo più avvenute durante i permessi premio o lavoro esterno. Parliamo sempre di numeri insignificanti rispetto alle migliaia di persone che ottengono i giusti benefici. Le evasioni riuscite nel 2018 da istituto si contano sulle dita di una mano. Nel 2019 c’è una inversione di tendenza: 84 sono le evasioni riuscite, tra le quali, rispetto al 2018, quelle da istituto sono di più. Raggiunta da Il Dubbio, Rita Bernardini del Partito Radicale, commentando la circolare, spiega che “si ammettono tutta una serie di responsabilità che contribuiscono a fare delle nostre carceri dei luoghi di illegalità: sovraffollamento, carenza del personale, fatiscenza dei luoghi, nulli stanziamenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria”, ma, sottolinea l’esponente del Partito Radicale, “anziché agire a monte, si interviene a valle con un’impronta sempre più securitaria (vedi i massicci trasferimenti per ordine e sicurezza divenuti ormai sistematici) che rivela più l’arroganza dell’impotenza che un intelligente sforzo riformatore che, invece, dovrebbe essere immediatamente ripreso, ripescando la necessaria mancata riforma dell’ordinamento penitenziario”. Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo: concluso il progetto sulla deradicalizzazione ravennatoday.it, 27 settembre 2019 Nei giorni scorsi la Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo, capofila del progetto europeo Fair, ha organizzato a Roma a Palazzo Giustiniani, con il patrocinio del Senato della Repubblica, la conferenza finale intitolata “Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei sistemi penitenziari e di esecuzione penale esterna europei”. Fair è un progetto finanziato dal programma “Justice” della Commissione europea e focalizzato sul fenomeno della radicalizzazione violenta dei detenuti, che ha coinvolto 10 partner europei da 9 paesi (Italia, Finlandia, Portogallo, Olanda, Ungheria, Lituania, Slovenia, Romania, Malta), e che, dopo due anni di lavoro, ha presentato a Roma i risultati delle sue attività: che hanno coinvolto 170 operatori del sistema penitenziario (Polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, operatori sanitari, volontari, rappresentanti religiosi, avvocati e garanti dei diritti dei detenuti) coinvolti in corsi di formazione su prevenzione e contrasto dell’estremismo violento; 50 detenuti vulnerabili al reclutamento o al estremismo coinvolti nel nostro programma di riabilitazione; 162 stakeholder, rappresentanti di istituzioni, sistemi giudiziari e decisori politici, coinvolti nello studio di fattibilità di un centro alternativo alla detenzione per la riabilitazione dei detenuti radicalizzati. Alla conferenza hanno partecipato, oltre alle delegazioni e agli ospiti dei partner del progetto, rappresentanti italiani dell’amministrazione penitenziaria, dell’associazionismo, dell’accademia e di altri progetti e reti europee in materia di radicalizzazione violenta”. “Giustizia aperta a tutti con il ddl sul patrocino a spese dello Stato” di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2019 Businarolo (M5S) sul via libera al testo bonafede-Cnf. Equità sociale non è solo tutela del reddito. È anche accesso ai diritti. Effettivo. Diritti che sono spesso oggetto di rinuncia, come le cure sanitarie. “Ma anche la tutela in giudizio è un diritto di cittadinanza”, rivendica Francesca Businarolo, deputata 5 Stelle eletta in Veneto e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. Insieme con gli altri rappresentanti del Movimento in commissione e con il Pd, ha costruito una rapida intesa per calendarizzare subito il ddl sul patrocinio a spese dello Stato, proposto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un provvedimento fortemente voluto dal guardasigilli, definito a partire dalle indicazioni del Consiglio nazionale forense e presto assunto come una priorità, in materia di giustizia, dai deputati M5S. “Sarà esaminato da giovedì prossimo. Si tratta di un passo importante che estende la platea di cittadini ai quali può essere riconosciuta la difesa a spese dello Stato”, ricorda Businarolo. “Potranno accedervi i minori vittime di maltrattamenti in famiglia, a prescindere dal reddito, e le vittime del reato di tortura, in base a quanto previsto dalla Convenzione di New York. E poi per noi l’accesso alla giurisdizione esiste davvero se i processi si celebrano in tempi rapidi”, aggiunge la presidente della commissione Giustizia della Camera, “cosa che sarà agevolata dall’espansione del patrocinio a spese dello Stato alla negoziazione assistita, ma a condizione che l’esito sia positivo. Vincolo che il ministro Bonafede ha voluto proprio per incentivare il positivo ricorso a questi strumenti alternativi e deflazionare così il contenzioso”. Il M5S ha messo la tutela delle fasce più deboli in cima alla propria agenda: il patrocinio a spese dello Stato si inserisce in tale prospettiva? Certamente. La ragione per la quale teniamo molto a questo provvedimento riguarda proprio la maggiore equità sociale che può assicurare. La difesa rientra tra i diritti di cittadinanza e nessuno può rimanerne privo in uno stato di Diritto. È un primo passo ma la proposta avanzata da tempo dal ministro Bonafede va in questa direzione. Il dibattito sui diritti, almeno sui media, è tutto sul penale. La giustizia come servizio ai cittadini è quasi ignorata. Rafforzare tale aspetto, come il ddl Bonafede punta a fare, può anche sdrammatizzare le tensioni sul penale? È un buon auspicio, lo spero davvero perché l’efficienza del sistema giudiziario non si misura certo solo sulla base di alcune grandi inchieste o alcuni dei grandi processi ma sulla capacità di dare risposte a ogni singolo cittadino che si rivolge al giudice per questioni che riguardano il proprio lavoro, la propria azienda, le proprie relazioni sociali o private: è qui che il sistema nel suo complesso è in grado di assicurare giustizia ed è qui che abbiamo un gran lavoro da fare. Nel ddl sul patrocinio a spese dello Stato ci sono misure che tutelano l’avvocato rispetto alla adeguatezza e alla tempestività del compenso: sono misure coerenti con il sostegno ai professionisti richiamato nel programma di governo? Senz’altro sono coerenti con gli impegni di governo. Si tratta di misure che intendono dare sostegno ai professionisti soprattutto i più giovani che sono quelli più impegnati a svolgere il patrocinio a spese dello Stato. Il testo sarà discusso a partire da giovedì prossimo: scommette su un rapido via libera in commissione? Mi pare assolutamente che si possa essere ottimisti sui tempi. Non ci sono resistenze da parte delle altre forze politiche, anzi faccio appello perché si collabori per dare il via libera molto rapidamente. Il ministro Patuanelli, da capogruppo del M5S al Senato, ha depositato il ddl sull’avvocato in Costituzione: crede sia una modifica in grado di richiamare anche la centralità dei diritti nella democrazia? È una questione dibattuta da tempo e mi pare ci siano le condizioni per andare avanti. Nonostante forti resistenze è maturata l’idea che l’avvocatura abbia diritto ad un riconoscimento formale della sua funzione di garanzia all’interno del sistema dei principi costituzionali. Come tutte le novità dirompenti anche questa troverà ostacoli e dubbi ma ormai i tempi sono cambiati rispetto a quando il sistema giudiziario era visto solo nella sua funzione inquirente e giudicante. La difesa è parte integrante di esso. Ma anche sull’avvocato in Costituzione si potrà trovare piena convergenza con il Pd? Appunto, lo spero ma qui sarà una battaglia di principi più complicata. Noi, però, la porteremo avanti. Lei è un evasore fiscale? Non andrà in carcere di Cesare Romano Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2019 Premessa, il contrasto all’evasione fiscale non è semplicemente cosa buona e giusta ma persino fonte di sviluppo, progresso e risorse da impiegare nell’educazione, nella ricerca, nella salute, nei servizi sociali. Ciò detto, la vera questione dirimente è come ridurre l’ossigeno e gli spazi, anche sociali e culturali, di cui l’evasione si nutre da decenni nel nostro Paese. Ecco, giunti a questo punto il tema si complica e sbrogliarlo non è più così chiaro come sembrava all’inizio. Certo, sei un evasore fiscale, bè sarai condannato e passerai del tempo come recluso in una cella. Ricorrendo all’immagine della prigione si può pensare di iniziare almeno a disseccare la malapianta dell’evasione che, in Italia, interessa milioni di nostri concittadini. Eppure fino ad oggi lo spettro delle sbarre viste da dietro non ha sortito alcun effetto. Sì, perché in Italia esiste già il reato di evasione fiscale, anzi, non soltanto occupa uno spazio esteso in termini di diritto ma altrettanto ampio in termini di giudizi dato che 3mila l’anno vedono un termine definitivo, mentre quasi 23mila se ne avviano nel medesimo periodo. Ma 15mila finiscono archiviati e solo qualche decina di contribuenti riluttanti ogni anno mirano le patrie galere, generalmente per reati correlati all’evasione fiscale più che per la semplice evasione in sé. Ma dov’è che si registra il maggior numero di condanne? Salerno, Milano e Ancona. E se vogliamo sprofondare ancor più dentro l’evasione fiscale, bè allora è corretto sapere che i reati tributari non hanno età, dato che si può ricevere una condanna a 40 anni, 50 ma anche se ultrasettantacinquenni. Insomma, l’evasione non ha età. Più di 3mila italiani ogni anno ricevono una condanna penale per aver evaso il fisco, ma solo pochi casi isolati finiscono dietro le sbarre - Scorrendo le tabelle dell’Istat, relative alle condanne definitive formulate nel corso del 2017, si scorge che su 207.000 mila casi, poco più di 3mila, 3.222 per l’esattezza, ovvero, all’incirca il 1,5per cento del totale, si riferiscono a reati di evasione fiscale, imposte dirette e indirette, e contributiva. Se poi si passano a considerare altri reati di natura economica, bancarotta fraudolenta e riciclaggio, si aggiungono ulteriori 4mila condanne. In sostanza, le indagini si avviano così come processi e procedimenti, tanto da giungere anche ad un giudizio finale, definitivo, non più appellabile. Eppure, il passo successivo, cioè varcare la soglia della prigione resta un lusso riservato a pochi. Se infatti si analizza il numero totale dei reclusi nelle patrie galere, meno di 70mila secondo gli ultimi dati disponibili, la quota di coloro che vi alloggiano per reati correlati all’evasione fiscale superano a stento i 200, una micro-percentuale, a fronte di milioni di evasori e di più di 3mila condanne definitive. Giudizi che, in media, distribuiscono periodi detentivi che oscillano tra i 4 e i 6 mesi di reclusione. In un Paese in cui la giustizia collassa è difficile promettere la prigione a chi evade - Una pena modesta? Eccessiva? Inconsistente? È imbarazzante rispondere per dure ragioni: la prima, i tempi del giudizio, più di 4 anni dal momento in cui si apre il dibattimento senza contare l’avvio e la conclusione delle indagini. Come dire, la giustizia fiscale segue da presso forme e sostanza, e criticità, della giustizia ordinaria. La seconda ragione, pur disponendo di un impianto gius-normativo efficace nella teoria, nella pratica la via che conduce l’evasore verso un periodo di effettiva reclusione è talmente stretta da risultare impraticabile, se non accessoriata da altri reati connessi. In sostanza, non riformare ma ricostruire la giustizia e, a seguire, dare sostanza alla pena per il reato fiscale. Non vi sono vie d’uscita. I proclami fanno più male che bene se restano inattuati, vuoti. Soprattutto se si osservano i numeri. Innanzitutto, nel 2014 sono stati archiviati, quindi inceneriti, quasi 15mila casi di evasione fiscale. Nello stesso anno ne sono stati aperti quasi 23mila. E, come detto prima, più o meno ogni anno le sentenze definitive che arrivano al termine del giudizio sono solo 3mila. Tradotto, ecco come costruisco una mole indifferibile di contenziosi e di cause che finiranno senza esito il loro percorso. Dove si evade di più? Salerno, Ancona, Milano - Sempre le tavole dell’Ista ci sono di aiuto per dare forma geografica all’evasione. In testa c’è Salerno, con 97 casi l’anno di condanne definitive per evasione ogni 100mila adulti. A seguire, Milano, 94 giudizi finali, ed Ancona, 92. Dove si evade meno? Indovinate, a Trento e a Bolzano, rispettivamente 49 e 35 casi di condanne definitive, sempre ogni 100mila adulti. Riguardo all’omesso versamento delle ritenute previdenziali la geografia del reato si capovolge. Infatti, in testa c’è Sassari, con 582 condanne definitive l’anno ogni 100mila abitanti. Al secondo posto Catanzaro, con 554 condanne, seguito da Caltanissetta, 553. Seguono Catania, Campobasso e Potenza per arrivare ai 399 casi di Brescia con cui si esce dal Mezzogiorno fiscale. Trento e Taranto le più immuni dall’ommesso pagamento dei contributi. Naturalmente, su questa geografia minima dell’evasione pesa l’efficienza di chi, nelle singole aree conduce le indagini e dei giudici che sono chiamati a intervenire. L’età fa la differenza o l’evasione non età - Nel 2014, i condannati in via definitiva per evasione fiscale si concentravano maggiormente nella fascia di età tra i 45 e i 49 anni. Ciò però non ha impedito che 11 ultrasettantacinquenni abbiano anch’essi ricevuto la loro condanna. Lo stesso si riscontra per gli omessi versamenti previdenziali. In questo caso, il picco dei condannati è tra i 40 e i 44 anni. Tuttavia, gli ultrasettantacinquenni con sentenza di condanna finale sono stati 22, sempre nel 2014. Come dire, l’evasione non ha età. Almeno, non ne ha una predefinita. Evasori, in galera. Le norme già ci sono, ma nessuno se n’è accorto - Per prima cosa, il carcere per i reati fiscali è già largamente previsto nell’ordinamento italiano. Ad oggi, la norma fondante per la repressione dei reati tributari è il D.lgs. 74 del 2000, modificato dal D.l. 138 del 2011 e ulteriormente ritoccato dal D.lgs. n. 158/2015, che per ultimo ha reso più severe le pene per i reati tributari. Come si transita dal penale alla mera sanzione? La distinzione tra condotte che vengono sanzionate penalmente, cioè i reati, e quelle che comportano solo una sanzione amministrativa è nella maggior parte dei casi legata a una valutazione quantitativa di quel che è stato evaso. Il caso tipo è quello della dichiarazione infedele, cioè non fraudolenta ma comunque con dolo del dichiarante. In questo caso, la pena può variare da 1 a 3 anni, se l’imposta evasa è superiore a 150mila euro e se i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque i 3 milioni di euro. Allo stesso modo costituiscono reato, sanzionabile penalmente: la dichiarazione omessa, da 1 a 3 anni se l’imposta evasa è superiore ai 50 mila euro; l’omesso versamento IVA e ritenute certificate con soglia di punibilità a 250 mila euro; l’emissione di fatture false, da 18 mesi a 6 anni; e ancora, l’occultamento o distruzione di documenti contabili, da 18 mesi a 5 anni. Tradotto, l’equazione evasione fiscale = carcere è già incagliata nel nostro ordinamento. Purtroppo, non ha efficacia e urlarla a fasi alterne non costituisce un grande aiuto. Quando l’evasione fiscale diventa penale - La legge ha fissato delle soglie di evasione oltre le quali le sanzioni, da amministrative, diventano penali. Al di sotto di queste, quindi, si rischia di pagare solo una sovrattassa e gli interessi, senza alcuna ripercussione di carattere personale o sul casellario giudiziario. Al di sopra, invece, scatta la contestazione del reato con tutto ciò che ne deriva, sia in termini economici che giudiziari: la fedina penale si macchia, si subisce un processo per evasione e, infine, i beni che risultino acquistati coi proventi dell’evasione possono essere sequestrati. La soglia oltre la quale l’evasione fiscale diventa penale cambia a seconda del tipo di imposta e di illecito. In sostanza, l’evasione fiscale costituisce dunque reato quando la legge, considerandola di particolare gravità, per il danno nei confronti dell’erario e per il dolo dell’autore, non ritiene sufficienti le sanzioni amministrative e quindi applica quelle più severe previste dal codice penale. Attenzione però: fanno scattare il reato solo le omissioni di pagamento o le violazioni relative alle imposte sui redditi (Irpef, Ires) e Iva. Invece, non c’è alcuna rilevanza penale - e quindi non si rischia il reato di evasione fiscale - in caso di evasione di tutte le altre imposte come Irap, imposta di bollo, imposta ipotecaria, Imu, Tasi, Tari, bollo auto, ecc. In particolare, vengono considerati illeciti penali i seguenti comportamenti: dichiarazione fraudolenta; dichiarazione infedele; dichiarazione omessa; omesso versamento Iva e ritenute certificate; emissione di fatture false; occultamento e distruzione di documenti contabili. Negli Usa si arresta sul serio, ma l’evasione dilaga - Un ultimo accenno. Negli States ogni anno 3mila cittadini/contribuenti entrano in carceri speciali riservate agli evasori fiscali, dove in media trascorrono tra i 2 e i 3 anni di reclusione. In questo caso, il sistema di giudizio è rapido, 1 solo anno tra il reato accertato e la condanna. Tuttavia, nonostante il sistema repressivo funzioni, ciò che non funziona affatto è l’impatto che ha sul fenomeno dell’evasione. Infatti, il tax-gap, o evasione fiscale, negli Usa continua a crescere e oggi ha raggiunto i 500mld di dollari l’anno che invece che tramutarsi in imposte, tasse e tributi si volatilizzano. Se poi aggiungiamo all’evasione anche l’elusione fiscale, bè allora si arriva a quasi 700-800mld di dollari perduti. Fatte le debite proporzioni rispetto agli abitanti (ma non certo al Pil), non molto meglio che in Italia. Eppure, le pene ci sono e, a differenza del nostro Paese, si applicano in modo cinico e chirurgico. Dunque, cosa significa il caso americano? Semplice, la repressione non è sufficiente. L’evasione è una distorsione culturale, sociale, quindi va curata con la cultura, l’educazione e costruendo una società migliore, più equa. Un cane che si morde la coda? Chissà. Il carcere ai giornalisti non va applicato. L’ultimo “richiamo” della Cassazione di Graziella Di Mambro articolo21.org, 27 settembre 2019 Ancora una volta una sentenza invita i giudici italiani a non applicare il carcere ai giornalisti perché ciò lede la libertà di espressione. Si conferma quindi la necessità di una celere abrogazione della norma tuttora vigente nel nostro sistema in base alla quale al giornalista ritenuto responsabile di diffamazione a mezzo stampa può essere comminata la pena del carcere. L’ultima sentenza che valuta questa grave anomalia è stata emessa il 19 settembre dalla quinta sezione della Corte di Cassazione e ribadisce un netto no al carcere per i giornalisti, anche quando la pena è sospesa. Dunque nel caso di specie oggetto di valutazione la legge italiana verrà disapplicata poiché incompatibile con quanto stabilito dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Sono fatte salve poche e gravissime eccezioni, quali i casi in cui gli articoli oggetto di giudizio abbiano leso gravemente diritti fondamentali, come i discorsi d’odio o di istigazione alla violenza. Questo importante verdetto precede di poco un altro, determinante, appuntamento giudiziario. A breve infatti la Corte Costituzionale sarà chiamata ad esprimersi sulla legittimità del carcere per i giornalisti, applicato per il reato di diffamazione a mezzo stampa, su sollecitazione del Tribunale di Salerno che ha sollevato, appunto, l’eccezione di legittimità circa l’applicazione della pena del carcere, che è contraria sia alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che a quanto stabilito dalla Costituzione Italiana agli articoli 3, 21, 25, 27 e 117. L’ordinanza contenente l’eccezione si riferisce ad un processo in corso a carico di un giornalista del “Il Roma”. Il nodo del carcere ai giornalisti, peraltro, è stato già affrontato due volte dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo nelle cause “Sallusti contro Italia” e “Belpietro contro Italia” e in entrambi i casi è stato affermato che la pena della detenzione comminata al giornalista condannato per diffamazione è sproporzionata rispetto allo scopo di proteggere l’altrui reputazione, in quanto viola la libertà di espressione che un “bene” superiore. Sul piano giurisdizionale si va profilando un orientamento netto e ineludibile di abolizione del carcere per i giornalisti, non altrettanto succede in ambito legislativo dove le proposte sono ferme da troppi anni. L’applicabilità della pena del carcere rende debole il ruolo di “controllo” della stampa e dunque lede il diritto ad essere informati, in definitiva indebolisce una democrazia. Per l’ennesima volta i giudici lo ricordano a tutti noi e al Parlamento. Adesso è il momento per capire chi vuole rispettare l’articolo 21 della Costituzione, fino in fondo. Giudici di pace, norme alla Corte costituzionale: “Diritto di difesa violato” Il Dubbio, 27 settembre 2019 Giusto processo violato. A sollevare dubbi la mancata previsione della presenza dell’indagato o del difensore nell’opposizione alla richiesta di archiviazione. Potrebbe essere in parte incostituzionale la norma che regolamenta i processi penali davanti al giudice di pace. A sollevare la questione l’avvocato di un imputato in un procedimento per lesioni personali, che ha contestato la mancata previsione della presenza dell’indagato o dell’avvocato nell’opposizione alla richiesta di archiviazione. Secondo il legale Francesco Colonna Venisti, tale norma violerebbe almeno tre articoli della Costituzione, il 3, il 24 e il 111: “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”, “la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti”. A pronunciarsi, ora, dovrà essere la Consulta, alla quale un giudice di pace di Bari, Loreto Domenico De Stefano, ha trasmesso gli atti, accogliendo l’eccezione di Colonna Venisti. La vicenda nasce da una presunta aggressione, avvenuta tre anni fa, ad un bidello di una scuola di Bitonto da parte di un avvocato, intervenuto stando alla denuncia - in difesa della madre, dipendente dell’istituto scolastico. L’avvocato ha a sua volta denunciato il bidello che risulta attualmente indagato per lesioni. Nei confronti dell’avvocato, invece, la Procura aveva chiesto l’archiviazione. La parte offesa aveva proposto opposizione e il giudice ha disposto l’imputazione coatta, senza che l’indagato fosse convocato per difendersi, in quanto non previsto dalla norma, diversamente da quanto avviene nei procedimenti di competenza del giudice ordinario, dove l’opposizione viene discussa nel contraddittorio tra le parti. Il giudice di pace parla di “contrasto con il principio di giusto processo”, spiegando che “la rilevanza della questione di legittimità costituzionale deriva” proprio dal “non aver consentito all’indagato la formulazione delle proprie ragioni e difese rispetto alla posizione della parte offesa”, violando gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione”. Il carcere non è quello dei film di Vincenzo Andraous L’Opinione, 27 settembre 2019 Ciò che conferisce autorevolezza a un’istituzione cosa altro è se non la sua capacità di non perdere il proprio ruolo e la propria funzione. Anche quando questa sua radice viene messa a dura prova dalla privazione non della libertà ma della dignità degli uomini ristretti. Sono di questi giorni le notizie riportate da alcuni quotidiani nazionali, in cui vengono raccontate le sequenze drammatiche dentro il carcere, accadimenti che vengono inquadrati addirittura nel reato di tortura nei riguardi di cittadini detenuti inermi. Qui non si tratta di fare processi mediatici, tanto meno di dare giudizi senza conoscere la storia nella sua sostanza, però di fronte a chi è già privato della libertà, degli affetti, costretto a un tempo bloccato, se fosse provata questa accusa nei riguardi di operatori del comparto sicurezza, forse occorrerà domandarsi come sia possibile attuare legalità e giustizia, rimanendo deprivati di qualsiasi senso di umanità e compassione. Quando fatti di questa portata emergono e vengono messi di lato, in sordina, silenziati, forse è anche il caso di non rimanere schiacciati dall’indifferenza trattandosi di galera e di persone che hanno sbagliato, perché allora si tratta di sopravvivere dentro e fuori un mondo non soltanto scandaloso ma sicuramente aberrante. Il carcere, questo carcere che ritengo ancora assente ingiustificato, non è accettabile né pensabile come luogo di morte, bensì come spazio di sosta, per comprendere e oltrepassare la colpa nella ritrovata responsabilità. La pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma deve tendere alla rieducazione del condannato. Non è certo la violenza insita nel sistema carcere che può stupire, infatti non si tratta di fare le educande, in carcere si sconta la pena anche con una certa durezza a causa degli errori commessi, ma fosse vera la notizia in questione “tortura”, vorrebbe dire che da una situazione di ingiustizia, ci si è trasferiti armi e bagagli in una dimensione di gesti quotidianamente ripetuti di feroce inumanità. Se così fosse, se fosse provata questa pratica occorrerebbe riconsiderare quella recidiva esponenziale che mina la società, perché torturare una persona significa ridurlo a un corpo estraneo, parassitario, costringendolo a una parte di futuro opposto e contrario, ciò non credo faccia parte neppure lontanamente di un preciso interesse collettivo. No, non citerò Voltaire, ma la dignità di una persona non è pensabile si possa sminuire o annientare con la forza o con la galera, perché vorrebbe significare che il carcere non solo non rieduca ma addirittura è prerequisito per accantonare il valore stesso della vita umana. Se risultasse veritiero questo andazzo, penso davvero che non soltanto il carcere ma anche il processo penale rischierebbe di issare bandiera bianca: la giusta pena da scontare nel carcere dell’ingiustizia. Emilia Romagna. Papa Giovanni XXIII: Regione una guida su alternative a detenzione agensir.it, 27 settembre 2019 “Con l’approvazione di una risoluzione per la promozione delle pene alternative al carcere, la Regione Emilia-Romagna ha dimostrato di essere una guida a livello internazionale”. È quanto dichiara Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito all’approvazione stamane della risoluzione a favore del potenziamento delle misure di sostegno ai progetti innovativi rivolti a detenuti a fine pena e al loro reinserimento sociale, approvata in seno alla Commissione Lavoro e Legalità della Regione Emilia-Romagna. “È necessario passare da una giusta certezza della pena alla certezza del recupero, poiché una persona recuperata non è più pericolosa per la società - continua Ramonda. Le carceri devono promuovere la rieducazione del detenuto e non continuare a puntare solo all’aspetto repressivo. Le nostre comunità per carcerati sono importanti in quanto sono luoghi in cui le persone possono ricominciare una nuova vita dopo aver sbagliato”. Le Comunità per Carcerati. La Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce in Italia 7 Comunità Educanti con i Carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli. Quattro strutture sono in Emilia Romagna. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 87 detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 736 persone. Nell’ultimo anno le giornate di presenza sono state 12.199 Toscana. Adizione in Commissione Sanità sui fatti di San Gimignano met.cittametropolitana.fi.it, 27 settembre 2019 Lo ha annunciato il presidente Stefano Scaramelli (Pd). Il 16 ottobre saranno ascoltati il Garante dei diritti dei detenuti, il sindaco di San Gimignano, il direttore della struttura e i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. La commissione regionale Sanità e politiche sociali ha messo in calendario un’audizione per il prossimo mercoledì 16 ottobre in merito a quanto accaduto nel carcere di San Gimignano (Siena), dove, lo ricordiamo, un detenuto sarebbe stato sottoposto a un pestaggio da parte di 15 agenti della polizia penitenziaria. Sul caso la procura di Siena ha aperto un’inchiesta e formulato accuse che vanno dalle minacce alle lesioni aggravate, al falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale, fino alla tortura. Il presidente della Commissione Stefano Scaramelli (Pd) ha annunciato che sul caso ha deciso di ascoltare il sindaco di San Gimignano Andrea Marrucci, il Garante regionale dei Diritti ai detenuti Franco Corleone, il direttore del carcere e i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. La commissione, nella seduta di stamani, ha inoltre licenziato alcuni atti, approvando a fini dell’acquisizione del parere del Consiglio regionale il nuovo regolamento generale dell’Agenzia regionale di sanità (Ars) e dando parere positivo al regolamento per il funzionamento del registro Tumori della Regione Toscana. San Gimignano (Si). Torture in carcere, manifestazione con Salvini di Pino Di Blasio La Nazione, 27 settembre 2019 Intanto il Dap rimanda a Firenze l’ex provveditore regionale Fullone. Non si parla più dell’inchiesta per tortura. Quelle 500 pagine di intercettazioni, verbali e lettere sui pestaggi brutali all’interno del carcere di Ranza a San Gimignano, restano confinate sullo sfondo, sommerse da un diluvio di dichiarazioni dei sindacati della Polizia penitenziaria, dei vertici del Dap e di altri politici. Dopo lo sdegno dei primi giorni, è arrivata la risacca della difesa dei 15 agenti di Polizia penitenziaria indagati per tortura, lesioni, minacce e falso ideologico, anche se ognuno con accuse e responsabilità diverse. Oggi sarà il giorno dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini: è atteso alle 15 davanti al carcere di Ranza, accompagnato dai parlamentari toscani della Lega, con la senatrice Tiziana Nisini in testa e il commissario facente funzioni Riccardo Galligani. Toccherà a Salvini dare la ribalta nazionale alle denunce dei giorni scorsi su un penitenziario di Ranza fatiscente, con un sovraffollamento di detenuti e con spazi angusti e inadeguati per tentativi di rieducazione. Cifre già snocciolate da tutti gli intervenuti, a partire dal garante nazionale Palma. Contro la visita di Salvini si sono scagliati gli esponenti del Pd. Prima la segretaria toscana e parlamentare europea Simona Bonafè: “Anche stavolta Salvini approfitta di una delicata inchiesta per ritagliarsi un momento di visibilità in Toscana. Noi invece, nel respingere qualsiasi strumentalizzazione, non cambiamo le nostre posizioni. Per quanto ci riguarda sta alla magistratura fare chiarezza sui fatti di San Gimignano”. Rincara la dose l’onorevole del Pd, Susanna Cenni sul tempismo della visita: “Faccio molta fatica a capire come può oggi intervenire chi sino a un mese fa aveva strumenti, risorse, ruolo e poteri per intervenire su Ranza visto che si occupava di tutto, e non ha alzato un dito ne speso mezza parola”. Per le risposte dell’ex ministro basterà attendere oggi il suo arrivo a San Gimignano. Potrebbero esserci anche alcuni degli agenti di Polizia penitenziaria indagati, e dei quattro sospesi dal servizio. Visto che non si parla dell’inchiesta, in attesa delle decisioni del gip Buccino Grimaldi e di altri stralci delle 500 pagine dell’ordinanza della procura, almeno il caso delle torture in carcere è servito per tappare dei buchi cronici ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. Così, dopo l’arrivo del direttore a mezzo servizio del carcere, Giuseppe Renna, che farà la spola con Arezzo dal primo ottobre, e l’inizio del servizio del commissario Giardina, 38 anni, nuovo comandante degli agenti di polizia penitenziaria, si copre anche il buco del provveditore regionale di Toscana e Umbria del Dap. E anche per questa poltrona, che si è scoperto fosse vuota dal sito del Dap regionale, si è pensato a una soluzione tampone. Dopo essere stato provveditore dal 2017 fino a primavera inoltrata, nominato dall’ex ministro Orlando, Antonio Fullone era diventato il provveditore in Campania da quest’estate. Siccome il Dap soffre di carenze croniche, è stato deciso che dovrà occuparsi, a mezzo servizio, anche di Toscana e Umbria, da Sollicciano a Capanne di Perugia. E ovviamente anche di Ranza. San Gimignano (Si). Inchiesta sulla tortura, Salvini assolve gli agenti di Laura Montanari La Repubblica, 27 settembre 2019 Il senatore esce dal carcere di San Gimignano a piedi e va incontro a telecamere e microfoni: “Qualcuno è stato condannato ancor prima del processo - attacca Matteo Salvini - ci sono torturatori senza torturati, aggressori senza aggrediti, denunciati senza denuncianti, c’è qualcosa che non funziona”. Applaudono da dietro una trentina di leghisti arrivati a Ranza, sul piazzale di asfalto con vista sui palazzoni color crema pieni di grate e di panni stesi. “Gli uomini e le donne in divisa di polizia penitenziaria non meritano di esser trattati come delinquenti, assassini o torturatori” è la linea di Salvini che aggiunge: “Io, tra guardie e ladri scelgo sempre le guardie, ma certo se qualcuno sbaglia deve pagare”. Ha appena incontrato gli agenti della polizia penitenziaria all’interno del carcere, fra loro ci sono anche alcuni dei 15 indagati per tortura (di cui 4 sospesi per 4 mesi dal servizio). Salvini si schiera senza indugi dalla parte di quelli che sono accusati dall’inchiesta della procura di Siena per il pestaggio di un cittadino tunisino e per l’aggressione di un altro detenuto della sezione massima sicurezza e lancia la sfida: “Mostrate il video, se le presunte torture dipendono da un video fatelo vedere agli italiani. Perché qui ci sono 15 lavoratori accusati di tutti i mali del mondo, senza traccia di un processo, perché in quel video non è volato nemmeno uno schiaffo”. Per il detenuto tunisino, nemmeno una parola. L’inchiesta, partita un anno fa non è conclusa. “Spero che quei 15 ragazzi vengano prosciolti e i 4 sospesi dal servizio possano tornare al lavoro. Sospesi dal servizio vuol dire non pagare il mutuo, né le bollette... mi fa piacere la solidarietà che ho visto fra i colleghi”. Il capo della Lega promette di tornare in visita a questo carcere-isola in mezzo al niente, calato nel verde delle colline del vermentino e gli agriturismi. Un carcere in cui come spiegano quelli del sindacato Uspp le aggressioni agli agenti sono raddoppiate (“da 133 del 2018 a 266 fino al settembre 2019 e gli atti di autolesionismo sono passati da 36 a 61” dice Giuseppe Moretti). Salvini dice che più che il Garante dei detenuti dovrebbe esserci il garante degli agenti, poi se la prende col ministro della giustizia Bonafede: “Se il ministro della giustizia, almeno a parole, è più vicino ai detenuti che ai suoi lavoratori, che a volte vivono peggio dei detenuti, è un problema”. Invita la magistratura senese a fare presto “perché qui ci sono padri di famiglia che hanno addosso il cartello del torturatore”, “che dimostrino le accuse, ma se non riusciranno a dimostrarle... non basteranno le scuse”. Bravo, bravo gli gridano i leghisti, poco prima dall’interno del carcere si è sentito l’applauso delle guardie: “Vorrei che qualche benpensante di sinistra che sta condannando questi ragazzi passasse una giornata di lavoro qui dentro e si mettesse nei loro panni”. Tolmezzo (Ud). Internati solo in teoria ma di fatto reclusi senza benefici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2019 Se finora tutta la giusta attenzione da parte dei mass- media si è concertata sui presunti episodi di abusi nei confronti dei detenuti da parte degli agenti penitenziari, altre violenze vengono perpetuate nei confronti di alcune categorie di detenuti. Violenze però che consistono nelle misure afflittive che sulla carta non vengono contemplate. Parliamo ancora del carcere di Tolmezzo, ma questa volta sulla figura degli internati, criticità che Il Dubbio ha esposto più volte. Ancora una volta è il rapporto dell’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà a mettere nero su bianco le numerose problematiche che affliggono gli internati al 41bis. Parliamo della visita da parte della delegazione composta dall’intero Collegio del Garante, Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, e da un membro dell’Ufficio, Alessandro Albano. Una visita finalizzata a verificare alcune specifiche situazioni, con particolare riferimento alle condizioni di effettività della misura di sicurezza di “assegnazione a Casa di lavoro” relativamente a persone internate al 41bis. Ricordiamo che in teoria l’internato non è un detenuto, ma è colui che ha finito di scontare la pena, ma per motivi di sicurezza non viene rimesso in libertà e, nonostante abbia finito di scontare il regime duro, di fatto, ci rimane. Gli internati devono, quindi, scontare la misura di sicurezza in una “casa lavoro”. Come dovrebbe essere in teoria il carcere di Tolmezzo. Tale situazione è stata già oggetto di attenzione da parte del Garante nazionale. Il Garante ritiene infatti, come ha espresso anche nella Relazione al Parlamento 2019, che è “l’istituto in sé della misura di sicurezza detentiva in regime ex articolo 41bis - in particolare l’assegnazione alla “Casa di lavoro” - a suscitare dubbi sulla sua realizzabilità e sensatezza. Rischia, infatti, di configurarsi come un prolungamento anomalo del regime detentivo speciale, la cui incisività sul principio costituzionale della finalità risocializzante della pena acquisisce ulteriore peso negativo nei casi in cui essa si colloca temporalmente al termine di pene temporanee già scontate in tale regime”. Nell’Istituto di Tolmezzo le sette persone internate sono allocate in una sezione all’interno del Reparto del 41bis. Teoricamente è anche una casa lavoro, fondamentale per gli internati, in maniera tale che il magistrato di sorveglianza possa decidere o meno la cessata pericolosità. Il lavoro, infatti, è un elemento utile per la valutazione. Però, come scrive il Garante nel rapporto, c’è uno sviluppo, in negativo, della situazione all’interno dell’Istituto, con una Casa di lavoro che non è in grado di garantire né il lavoro, né una prospettiva di reinserimento. A seguito del nubifragio che ha devastato la serra e la riduzione delle mercedi, le attività lavorative si sono notevolmente ridotte. “Una situazione - scrive il Garante nel rapporto - in cui la misura di sicurezza incentrata sul lavoro viene svolta di fatto senza attività lavorativa è inaccettabile e rende la condizione delle persone internate del tutto analoga a quella del persone detenute in regime detentivo del 41bis”. In questo modo risulta quindi difficile capire quale sia la differenza tra le persone detenute e quelle in misura di sicurezza. Una sovrapposizione che si evidenzia maggiormente anche per l’impossibilità, da parte degli internati, di accedere alle licenze. “Si traduce così - scrive il Garante - in una falsificazione linguistica per cui le persone sono definite come internate, ma sostanzialmente restano nelle stesse condizioni di quando erano detenute, essendo sottoposte allo stesso regime e alle stesse regole, con l’esclusione da ogni beneficio penitenziario”. Genova. Uccise un giovane durante un Tso, assolto il poliziotto, insorge la famiglia di Marco Lignana La Repubblica, 27 settembre 2019 Quei sei colpi esplosi da pochi metri di distanza non furono un eccesso di legittima difesa. Perché mentre l’agente di polizia Luca Pedemonte sparava, il 20enne Jefferson Tomalà stava accoltellando un altro poliziotto, e avrebbe potuto ucciderlo. La decisione del gip Silvia Carpanini ha ribaltato quanto stabilito da un altro giudice, che aveva respinto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero e imposto il rinvio a giudizio del poliziotto. Il sostituto procuratore Walter Cotugno, però, è sempre stato dello stesso avviso: per lui l’agente non poteva fare altrimenti. La sua richiesta di assoluzione infine è stata accolta. La sentenza di ieri ha scatenato la rabbia dei familiari della vittima, che fuori dall’aula hanno parlato di “un assassino in libertà”. Mentre il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi ha ricordato quella che “resta una tragedia umana. Non siamo contenti per l’assoluzione in sé”. Il 10 giugno 2018 era stata proprio la madre di Jefferson a chiamare il numero unico di emergenza: “Mio figlio minaccia di suicidarsi, ha un coltello in mano, mandate un’ambulanza”. Data la situazione, l’operatore aveva chiamato la polizia. Ancora prima di iniziare le procedure per un trattamento sanitario obbligatorio, vista la mancanza di collaborazione del ragazzo, un agente aveva sparato lo spray al peperoncino nella piccola stanza dove era sdraiato Jefferson. A quel punto il 20enne aveva reagito, colpendo con il coltello uno dei poliziotti: Pedemonte aveva sparato sei colpi fra petto e schiena, tutti verso organi vitali. Per i parenti del giovane ucciso “senza l’uso dello spray Jefferson non avrebbe fatto male a nessuno”. Per il legale dell’agente, invece, “in quel momento non si trattava nemmeno più di un Tso, ma di un problema di sicurezza e ordine pubblico”. A far discutere è stata anche una consulenza del pm che ha stabilito come “Jefferson Tomalà andava fermato istantaneamente a tutti i costi e l’unico modo per farlo, in tali circostanze, era ucciderlo immediatamente”. Salerno. Pizzeria sociale in carcere: tutto pronto per l’inaugurazione di Sara Botte ottopagine.it, 27 settembre 2019 Sarà inaugurata venerdì 4 ottobre 2019 alle ore 10,30, all’interno della Casa Circondariale “A. Caputo” di Salerno, la Pizzeria Sociale “La Pizza Buona Dentro e Fuori”. Interverranno Rita Romano, direttrice della Casa Circondariale di Salerno, Carmen Guarino, Presidente della Fondazione Casamica, Antonia Autuori, Presidente della Fondazione Comunità Salernitana e Paola De Roberto, Consigliere Comunale di Salerno. Il progetto, che mira a facilitare il reinserimento dei detenuti, è portato avanti anche dalle donazioni che hanno permesso di effettuare i lavori edili e acquistare le attrezzature utili. Vede coinvolti anche dieci operatori della ristorazione tra pizzerie e ristoranti del territorio che hanno dato la propria disponibilità ad “ospitare” serate finalizzate a sostenere il progetto sociale per l’inserimento lavorativo dei giovani detenuti. Le cene di solidarietà sono state promosse da Fondazione Casamica insieme ai partners Fondazione Comunità Salernitana, Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Salerno, Casa Circondariale, con la collaborazione di Fondazione Carisal e Camera di Commercio di Salerno. Roma. Alla manutenzione dei parchi ci pensano i detenuti di Anna Grazia Concilio romatoday.it, 27 settembre 2019 Prosegue il lavoro dei detenuti per la manutenzione del verde e il ripristino del decoro nei quartieri del sesto municipio. Sono tornati tra le strade del Municipio VI i detenuti delle carceri di Roma che grazie a un protocollo d’intesa tra Roma Capitale, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Società Autostrade per L’Italia, dedicano parte del loro tempo alla manutenzione del verde. Sfalcio dell’erba e pulizia delle caditoie - Non solo sfalcio, ma anche ripristino del decoro delle parti pubbliche. I detenuti delle carceri romane già durante lo scorso mese di luglio, muniti di guanti e ramazze avevano lavorato, coadiuvati anche dagli operatori del servizio giardini e dell’azienda Ama, a Tor Bella Monaca e Torre Angela e nello specifico tra via Siculiana, Marelli e via Aspertini, ripulendo anche le caditoie. A distanza di qualche mese, ai detenuti sono stati affidati nuovi compiti: per l’intera settimana concentreranno i loro sforzi per restituire decoro ai parchi di Giardinetti. Saranno infatti impegnati, oltre ai soliti lavori di manutenzione del verde, anche all’interno del parco Landini e del parco Duprè. “Auspichiamo una collaborazione sempre maggiore con l’ente decentrato per programmare insieme gli interventi sul territorio” ha detto soddisfatta Katia Ziantoni, assessora all’ambiente. Chieti. Festa nelle Terme riaperte grazie al lavoro dei detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 settembre 2019 Oggi pomeriggio dalle 17:30 nel giardino delle Terme romane di Chieti si svolgerà una serata speciale per presentare i risultati del protocollo siglato tra l’associazione di volontariato Voci di dentro e la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio dell’Abruzzo. Un progetto che ha consentito per tutta l’estate di visitare le Terme grazie al lavoro di persone in pena alternativa, messe alla prova o semilibere, che hanno gestito gratuitamente l’apertura del sito archeologico e l’afflusso del pubblico per l’intera stagione. “L’arte e la cultura diventano veicolo per il recupero di carcerati e persone in difficoltà” ha dichiarato ieri nel corso della conferenza stampa la soprintendente Rosaria Mencarelli, promotrice del progetto. In programma oggi un confronto-dibattito tra i volontari dell’associazione Voci di dentro e i detenuti che hanno contribuito a tenere aperte le Terme. Oltre a fare un bilancio sul progetto, si parlerà di esecuzione penale esterna e di programmi di reinserimento attraverso le attività di volontariato. L’iniziativa non si esaurisce, infatti, nella sola riapertura delle Terme ma “in prospettiva - ha annunciato la soprintendente - riguarderà anche il teatro e i tempietti. Si tratterà cioè di un recupero strutturale, architettonico e archeologico, per creare un vero e proprio parco teatino che comprenderà anche i musei”. L’incontro, a cui saranno presenti Rosaria Mencarelli e il direttore della casa circondariale di Chieti Franco Pettinelli, si concluderà con l’esibizione del gruppo musicale Save the groovin people. Rimini. Ogni 8 ore finisce in carcere un innocente. Un convegno sull’errore giudiziario newsrimini.it, 27 settembre 2019 In Italia ogni otto ore finisce in carcere un innocente. Il calcolo deriva dai numeri diffusi dal ministero della Giustizia sulle istanze di riparazione presentate nell’ultimo anno, poco meno di mille, con una spesa complessiva di 23 milioni di euro. I dati saranno illustrati nel corso del convegno “L’errore giudiziario e l’ingiusta detenzione: il rovescio del diritto”, organizzato dalla Camera penale e dall’Ordine degli avvocati di Rimini, in programma domani, venerdì 27 settembre (dalle 14.30 alle 18.30), al Teatro degli Atti (Rimini, via Cairoli, 42). Nel corso dell’incontro, a ingresso libero, verrà proiettato il film documentario “Non voltarti indietro”, promosso dall’associazione ErroriGiudiziari.com. Interverrà, tra gli altri, uno degli autori, il giornalista Valentino Maimone. Con lui anche la co-responsabile dell’Osservatorio sull’errore giudiziario dell’Unione delle Camere penali italiane, Alessandra Palma; il dirigente d’azienda Mario Rossetti, vittima innocente - da incensurato - di un calvario durato più di cento giorni nelle celle di San Vittore prima e Rebibbia poi e proseguito per altri otto mesi ai domiciliari per una vicenda alla quale era completamente estraneo. Animeranno il dibattito, aperto al contributo dei presenti, Giovanni Rossi, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, il giornalista di cronaca giudiziaria Andrea Rossini, gli avvocati Roberto Brancaleoni, presidente dell’Ordine degli avvocati di Rimini, Alessandro Sarti, presidente della Camera penale di Rimini, Luigi Renni, responsabile della formazione della Camera penale di Rimini. L’Unione delle camere penali attraverso l’osservatorio sull’errore giudiziario ha in progetto di procedere alla creazione di una vera e propria banca dati dei casi di mala-giustizia. Perugia. “Scatti in libertà”, la mostra sui progetti per i detenuti di Capanne di Sandro Francesco Allegrini perugiatoday.it, 27 settembre 2019 Si chiama “Scatti in libertà” l’iniziativa proposta dalla Cooperativa sociale Frontiera Lavoro. Si tratta di una mostra fotografica che si aprirà giovedì 3 ottobre alle ore 18 presso il Centro Servizi Camerali Galeazzo Alessi di via Mazzini, 10. “Il lavoro rende liberi”… non è la tragica scritta di hitleriana memoria, ma la filosofia che ispira un evento fortemente voluto dalla direzione del Carcere di Capanne. È la documentazione fotografica, attraverso immagini d’autore, di due iniziative che hanno avuto vasta eco nei media, con ampio coinvolgimento di cittadini. Le foto raccontano il corso per Addetto di cucina, tenuto presso il nuovo complesso penitenziario di Perugia. La storia prosegue con gli scatti che immortalano la cena evento “Golose Evasioni”. Avremo modo di documentare la mostra che intano segnaliamo ai lettori interessati. Trieste. Libere evasioni. “Soma”, una recensione dall’interno corrieredellospettacolo.net, 27 settembre 2019 Casa Circondariale di Trieste - Percorso di scrittura giornalistica. A cura del “Gruppo Noi?! - Giornalisti per caso”. Gli autori dell’articolo che segue sono persone attualmente ristrette all’interno della Casa Circondariale di Trieste. Qualche mese fa, negli spazi in cui si svolgono corsi, lezioni, presentazioni di libri e di film, e altre attività educative, è stato messo in scena uno spettacolo di fortissimo impatto emotivo. A seguito di ciò è stato avviato un percorso finalizzato alla scrittura di recensioni di carattere culturale, cui partecipano “figli di diverse lingue”; ci sono infatti italiani, albanesi, sloveni, rumeni e altri ancora. In qualche modo rappresentano una parte di ognuno di noi, quella che in un momento qualsiasi della vita può portare chiunque alla scelta di una strada diretta verso conseguenze non considerate e, in seguito a ciò, a oltrepassare le porte di un penitenziario. Questo è il nostro primo risultato. Cosa le è rimasto dallo spettacolo cui ha partecipato? A.L. (corso audio-video): Il mio cuore va a insegnanti e colleghi. È grazie a tutti se tante piccole parti sono state capaci di creare un assieme carico di sensibilità e bellezza. Aveva mai partecipato a esperienze teatrali prima di “Soma”? M.C. (attore): In realtà ho avuto la mia prima occasione durante la mia permanenza nel penitenziario di Gorizia, prima di essere trasferito a Trieste e già allora mi aveva molto aiutato, rafforzando la fiducia nelle istituzioni dello Stato e aumentando in me la speranza di ulteriori occasioni in cui sia la solidarietà tra le persone a prevalere, anche dietro le sbarre. Secondo lei, qual è stato l’elemento più significativo di quest’esperienza? M.M. (riprese e registrazione del suono alle prove dello spettacolo): All’inizio c’erano due corsi, quello di teatro condotto da Elisa Menon e quello di audio-visivi guidato da Erika Rossi; per un caso fortuito hanno avuto occasione di incontrarsi e da lì è nata l’idea di collaborare assieme. Le prove e lo spettacolo sono state così il soggetto delle nostre registrazioni e del montaggio, con un risultato per entrambi davvero sorprendente. Partecipare a un’attività teatrale o cinematografica all’interno di un carcere può avere delle conseguenze sulle convinzioni di chi ne sia coinvolto? S.P. (audioregistrazione delle riprese nel corso della rappresentazione): Cerco di partecipare con costanza alle attività culturali organizzate all’interno del carcere. I detenuti sono generalmente considerati rifiuti della società, ma l’aver collaborato a questo progetto mi ha colpito per come le persone coinvolte siano riuscite a trasmettere, nelle persone direttamente coinvolte e nel pubblico presente, emozioni dotate di tale forza e intensità da muovere il cuore della persona più scettica; devo dire che, nonostante la mia fiducia nella società contemporanea non sia alta, in questa occasione ho imparato che anche oggi possono realizzarsi cose meravigliose; l’esempio della collaborazione tra Elisa Menon ed Erika Rossi ne è la conferma. Il pubblico era costituito da ospiti esterni e da detenuti. Quali sono state le sue impressioni? L.B. (spettatore): Mi stavo dirigendo nello spazio adibito alla palestra e, invitato a entrare nella sala in cui si sarebbe svolto lo spettacolo, ho deciso di restare pur essendo un po’ scettico e senza avere grosse aspettative. Sono stato invece davvero sorpreso dall’intensità delle emozioni provate non soltanto da me o dagli altri detenuti; anche il pubblico esterno era visibilmente colpito e mi sono reso conto che l’intera messinscena è stata seguita da tutti con grande partecipazione. Spero che lo spettacolo possa continuare a “parlare” anche ad altri, rivelando la sua bellezza al mondo esterno. Essere parte attiva in entrambi i corsi le ha permesso di cogliere diversi aspetti del progetto.. S.D.R. (attore, addetto alle riprese e all’editing): Ciò che forse mi ha colpito di più è stata la forza evocativa e simbolica degli oggetti e delle azioni più semplici, a partire dalle battute, capaci di generare emozioni molto intense e durature e di creare un legame forte e saldo tra sentimenti universali: amicizia, possibilità, ribellione, tentazione. La possibilità di svolgere un doppio ruolo mi ha permesso di osservare quanto avveniva da diversi punti di vista e di comprendere meglio l’importanza di ogni dettaglio. Quali sono state, a suo avviso, le principali difficoltà affrontate nella realizzazione del progetto? L.N. (cameraman e montaggio): Il problema principale per la regista Elisa Menon è stato senz’altro la costante variabilità nella presenza degli attori coinvolti: la fine della pena o il trasferimento comportano inevitabilmente il dover trovare un sostituto per il ruolo rimasto vacante e ciò è avvenuto molte volte nel corso della preparazione. Non bisogna dimenticare poi la presenza di persone parlanti lingue diverse, con la conseguente difficoltà di suscitare nel pubblico emozioni esprimendosi in una lingua di cui non si ha totale padronanza, da parte di persone spesso senza alcuna esperienza di recitazione pregressa. Nonostante ciò, il successo è stato evidente e sarebbe importante che iniziative come questa continuassero ad essere sostenute. Ci sono elementi dello spettacolo che l’hanno colpita più di altri? G.C. (cameraman, redattore e dramaturg): Per me è stato davvero notevole osservare nel pubblico la forza delle metafore inserite nell’azione scenica, come il momento in cui una delle attrici coinvolte nel progetto, in scena assieme ai detenuti, è passata sotto un tavolo per simboleggiare la nascita di un bambino. Di certo lo spettacolo ha dimostrato che la bellezza della poesia può essere suscitata nei luoghi più impensati. Fine vita. Ora in Italia siamo tutti più liberi di Francesco Di Paola* e Matteo Mainardi** Il Manifesto, 27 settembre 2019 La forza della decisione della Consulta sta, tra le altre, nell’essersi preoccupata di tutelare la persona malata, in un momento di possibile vulnerabilità anche psicologica, da rischi di abusi. Escludendo così, nel rispetto del controllo pubblicistico, ciò che impropriamente viene definito “pendio scivoloso”. L’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio così come costruito nel 1930, accertata un anno fa dalla Consulta e dichiarata ufficiale nella giornata di ieri, è arrivata dopo due giorni di camera di consiglio. La sentenza, così come preannunciata attraverso un comunicato stampa della Corte costituzionale, segna la storia dei diritti della persona malata nel nostro Paese. Grazie a Fabiano Antoniani (Dj Fabo) che decise di rendere pubblica la sua storia e alla disobbedienza civile attivata dall’autodenuncia di Marco Cappato dopo averlo accompagnato in Svizzera, con l’ordinanza 207/2018 dell’ottobre scorso, i giudici costituzionali sospesero per 11 mesi il giudizio sull’articolo 580 del codice penale, al fine di “consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina”. Di fronte a un Parlamento che a luglio di quest’anno osservò come “non sussistono le condizioni per addivenire all’adozione di un testo base”, la sentenza di ieri è intervenuta per porre fuori dal nostro ordinamento il reato tassativo, in ogni circostanza, di aiuto al suicidio per chi agevola l’esecuzione del proposito, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili nella piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. La forza della decisione dei giudici della Consulta sta, tra le altre, nell’essersi preoccupata di tutelare la persona malata, in un momento di possibile vulnerabilità anche psicologica, da rischi di abusi. Escludendo così, nel rispetto del controllo pubblicistico, ciò che impropriamente viene definito “pendio scivoloso”. Tutto ciò, viene ribadito, “in attesa di un indispensabile intervento del legislatore”. Nel frattempo, la non punibilità viene subordinata al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda, rimettendo al Servizio Sanitario Nazionale sia la verifica delle condizioni previste, sia delle modalità di esecuzione, sentito il parere del comitato etico competente. Sono dunque accolte le richieste pubbliche di Fabiano Antoniani che, attraverso la disobbedienza civile di Marco Cappato, si era prefissato sin dal suo inizio la tutela delle persone deboli, il rispetto del loro diritto alla vita combinato con il rispetto del loro diritto di autodeterminazione, nonché l’emersione della clandestinità che fino ad oggi il silenzio del legislatore ha avallato. Con una siffatta decisione, la Corte non ha in alcun modo evidenziato nel nostro ordinamento un “diritto alla morte”, ma si è occupata, dal punto di vista penalistico, di chi aiuta altre persone - nelle indicate e circoscritte condizioni - che decidono di porre fine alla propria vita, nel rispetto del proprio concetto di dignità. Il divieto di istigazione al suicidio e di assistenza al suicidio al di fuori delle condizioni prefissate, rimangono dunque reato per salvaguardare “persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita”, come scrissero i giudici nell’ordinanza dello scorso anno. Da oggi in Italia siamo tutti più liberi, anche coloro che non sono d’accordo. Nessun diritto già riconosciuto è stato scalfito. *Avvocato del collegio di difesa di Marco Cappato **Coordinatore campagna Eutanasia Legale; membro Giunta Associazione Luca Coscioni Fine vita. Monica Cirinnà: “Il Parlamento deve trovare il coraggio. Sono fiduciosa” di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 settembre 2019 Le proposte sul tavolo sono diverse, l’ultima arrivata è della senatrice Pd: “Bisogna vedere come si comporterà quello che io chiamo “il partito cattolico trasversale” che è presente in tutti gli schieramenti. Ma voglio essere ottimista”. Le sfumature sono molte, ma tutti sono d’accordo su un fatto: la strada aperta dalla Corte costituzionale sul fine vita va parlamentarizzata al più presto. Le proposte sul tavolo sono diverse, l’ultima arrivata in ordine di tempo è quella che porta come prima firma il nome della senatrice Monica Cirinnà (Pd), che già negli anni passati ha combattuto (e vinto) la battaglia sulle unioni civili. La sua proposta, sottoscritta per ora da un pugno di altri senatori di vari schieramenti, prevede la possibilità di accedere all’eutanasia per le persone affette da malattie incurabili e in fase terminale. Dall’altro ramo del parlamento, tuttavia, Riccardo Magi di Più Europa ha già fatto presente che c’è già un dibattito avviato alla Camera e che da lì bisognerebbe ripartire. Sfumature, appunto: il punto fondamentale è che tra Camera e Senato si sta muovendo qualcosa. Senatrice Cirinnà, qual è il suo giudizio sulla sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo? Il giudizio è senza dubbio positivo: quando il parlamento decide di non decidere, almeno i giudici danno seguito a un’esigenza che proviene dai cittadini. È stato un bene anche che la Corte non abbia portato la questione troppo per le lunghe ma si sia espressa in maniera veloce e chiara: su questi temi serve la certezza del diritto, è il paese che lo chiede. Bisogna portare il tema in parlamento. Cosa teme di questo passaggio? Temo soprattutto la grande banalizzazione, non bisogna nascondersi dietro parole sbagliate. Noi parliamo di aiuto medico a persone affette da malattie inguaribili e già in fase terminale. È molto importante che non si faccia disinformazione su questa faccenda. Il parlamento deve trovare il coraggio di discutere e di decidere. Sono fiduciosa, comunque, il paese è molto più avanti dei suoi rappresentanti politici. Crede questo sia un parlamento maturo per discutere di fine vita e di eutanasia? In questo parlamento c’è una forza retriva e oscurantista che dimora tra la Lega e Fratelli d’Italia. Per fortuna parliamo di due partiti che stanno all’opposizione. Bisogna vedere come si comporterà quello che io chiamo “il partito cattolico trasversale” che è presente in tutti gli schieramenti. Ma, ripeto, voglio essere ottimista: li ho già visti in azione ai tempi della legge sulle unioni civili e devo dire che i “cattolici maturi”, come diceva Prodi, sanno bene da che parte stare. D’altra parte parliamo di misericordia. Però la stampa e i movimenti cattolici si sono già espressi in maniera piuttosto critica sulla sentenza della Corte e sul dibattito che sta nascendo... Vorrei ricordare che esiste l’articolo 7 della Costituzione e che in questo paese lo stato fa lo stato e la chiesa fa la chiesa. Noi non apriamo bocca sulle encicliche, il rispetto deve dunque essere reciproco. Come diceva Spadolini: servono le giuste distanze tra le sponde del Tevere. La cosa che più mi ha inquietato è la dichiarazione del presidente della Cei Gualtiero Bassetti, persona che peraltro stimo. Lui dice che vivere è un dovere. Ma io credo sia un dovere vivere rettamente, nel rispetto degli altri, con carità, solidarietà e misericordia. Perché non lasciare spazio alla dignità negli ultimi momenti della vita? Quindi non teme che in parlamento i cattolici possano bloccare tutto... Io non ho problemi con i cattolici. Li rispetto e mi aspetto che la loro frangia più estremista verrà messa in minoranza. Siamo parlamentari e dobbiamo rispettare la Costituzione, poi a casa ognuno tenga il suo Vangelo, il suo Corano, il suo Confucio. Ci mancherebbe altro, ma in parlamento dobbiamo obbedire alle leggi dello stato. Migranti. Nel Cpr di Ponte Galeria. Dopo la rivolta, notti all’addiaccio e rilasci di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 settembre 2019 Una trentina di uomini rilasciati dopo gli incendi di venerdì scorso nella sezione maschile. Delegazione visita il Centro di permanenza e rimpatrio alle porte di Roma. “Caro ospite, al momento sei trattenuto nel Cie di Ponte Galeria. Ti sarà assegnata una card e un numero”. Le regole sono stampate in tante lingue diverse e appese nella prima stanza che si incontra nel Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr, ex-Cie). Per leggerle bisogna oltrepassare il grande cancello che interrompe il muro di cinta esterno e le grate grigie interne che per prime danno il “benvenuto”. Il Cpr situato alle porte di Roma ha una capienza di 250 posti, oltre un terzo dei 715 effettivamente disponibili (su 1.035 complessivi) nelle sette strutture simili attualmente in funzione in Italia. Tra queste, Ponte Galeria è l’unica ad avere una sezione femminile che può ospitare fino a 125 donne. “Ospitare”, però, non è il verbo giusto. Chi finisce tra mura, sbarre e grate dei Cpr è un recluso a tutti gli effetti. Con una specificità: non ha commesso alcun reato. Ieri a Ponte Galeria erano detenuti circa 50 uomini e 39 donne. Sono stati visitati da una delegazione promossa dalla campagna LasciateCIEentrare e resa possibile dall’onorevole Nicola Fratoianni (Liberi e uguali). È la seconda ispezione in pochi giorni, dopo che venerdì scorso alcuni migranti destinati al rimpatrio hanno dato fuoco ai letti di alcune unità della sezione maschile. Da materassi e coperte non si sono sollevate fiamme (sono ignifughi), ma un fumo denso e tossico che ha reso inagibili diverse stanze. Ancora ieri la puzza rendeva impossibile la permanenza, anche solo per pochi minuti, negli spazi interessati. Per questo diverse persone dormono all’addiaccio e, soprattutto, una trentina di reclusi sono stati liberati per “alleggerire” la pressione. “La rivolta paga”, scrivono in un comunicato congiunto LasciateCIEentrare e una rete di associazioni. I letti incendiati - Chi è rimasto dietro le sbarre chiede perché. Tra loro c’è qualcuno che ha finito di scontare la sua pena in carcere e qualcun altro ritenuto socialmente pericoloso. Lo Stato li vorrebbe rimpatriare. Tanti sono stati semplicemente trovati senza permesso di soggiorno. “Ero pizzaiolo in un locale - racconta un uomo nato in India - Un giorno il proprietario ha litigato con un collega. Ha chiamato la polizia che mi ha trovato senza documenti. Così due settimane fa sono stato portato qui. Lavoro in Italia da nove anni, ho provato a regolarizzarmi con la sanatoria del 2012 ma il datore di lavoro mi ha truffato non pagando i contributi”. “Sono in Italia dal 2009 e ho sempre avuto il permesso di soggiorno, fino a febbraio di quest’anno - dice una donna boliviana - È scaduto prima che la signora da cui lavoravo mi facesse il contratto, come aveva promesso. Un giorno ho provato a sedare una rissa per strada, è arrivata la polizia e mi ha portato qui”. Nella sezione femminile le grate, cresciute in tutta la struttura dopo ogni fuga e rivolta, sono puntellate da asciugamani colorati e vestiti stesi al sole. I muri sono disegnati e ci sono delle scritte. Dietro due ragazze cinesi che giocano a carte si legge: “La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto”. Come a ricordare che il problema non sono le condizioni di detenzione o i colori che mascherano il grigio, ma l’esistenza stessa di luoghi simili. La detenzione amministrativa dei migranti, introdotta nel 1998 dalla Turco-Napolitano, ha una storia segnata da sofferenze, episodi di autolesionismo, suicidi, diritti fondamentali negati. Una storia su cui andrebbe solo messa la parola fine. Il 12 ottobre a Milano ci sarà una manifestazione per chiedere la chiusura di tutti i Cpr e la non riapertura di quello di via Corelli. Turchia. Ihd: 23 prigionieri hanno malattie per le quali rischiano la vita retekurdistan.it, 27 settembre 2019 Nuray Çevirmen dell’Associazione per i Diritti Umani Ihd a Ankara riferisce della situazione dei prigionieri malati nelle carceri turche. 23 prigionieri in Anatolia centrale sono malati in modo così grave che non devono assolutamente restare in carcere. La co-Presidente della sede Ihd a Ankara, Nuray Çevirmen, riferisce a Anf della difficile situazione dei prigionieri malati nelle carceri turche. L’attivista per i diritti umani spiega che l’Ihd cerca di ottenere più informazioni possibili sulla situazione dei prigionieri malati. “Il numero dei malati nel 2017 era 137. Oggi per via di rilasci e trasferimenti in Anatolia centrale i prigionieri malati sono 116. Ma questo è solo il numero di prigionieri malati che hanno preso contatto con noi. Il problema dei prigionieri malati nelle carceri della Turchia è enorme. Il Ministero della Giustizia non rilascia dati in merito. Solo in Anatolia centrale 23 prigionieri sono malati così gravemente che in nessuno caso devono restare in carcere”, ha dichiarato. Diritto a cure sanitarie - L’Ihd si è rivolto a molte istituzioni per garantire il diritta cure mediche ai prigionieri malati. Questi sforzi però sarebbero rimasti senza risultati, riferisce Nuray Çevirmen: “Nel 2018 abbiamo pubblicato un rapporto e lo abbiamo trasmesso alla Commissione Parlamentare per i Diritti Umani, al Ministero della Giustizia, alla direzione generale delle carceri e al Ministero della Salute. L’ultima risposta ci è arrivata dopo un mese. Che ci si prendesse così poco tempo per occuparsi di un tema così importante, mostra quante poche indagini siano state fatte in proposito. Noi abbiamo visto quanti prigionieri sono morti perché è stato loro negato il diritto a cure mediche. Sono morti di malattie cardiache, cancro e molte altre malattie. Per esempio nel carcere di Menemen a Izmir sono morti a causa delle condizioni igieniche”. 290.000 prigionieri nelle carceri turche - Çevirmen continua: “La capacità delle carceri attualmente ammonta a 194.000. Nel maggio 2019 il numero dei prigionieri era a 280.000, oggi sono 290.000. Nelle carceri ci sono molti più casi di morte di quelli di cui veniamo a conoscenza. Del tema non si tiene conto neanche sulla stampa. Viene accettato come un fatto normale. Ma i casi morte nelle carceri possono essere impediti. Ci siamo rivolti più volte alle istituzioni rilevanti. Noi scriviamo articoli approfonditi per ogni singolo caso. Purtroppo non viene fatto niente. Attualmente la situazione dei prigionieri malati nelle carceri continua a essere un problema enorme”. Messico. I 43 studenti spariti e la scoperta della violenza di stato di Andrea Cegna Il Manifesto, 27 settembre 2019 24 degli arrestati sono già liberi. Cinque anni fa la scomparsa dei ragazzi di Ayotzinapa. Inchieste indipendenti hanno dimostrato le responsabilità delle autorità. “Fu lo Stato” è ciò che resta, 1.826 giorni dopo il 26 settembre del 2014, dei fatti di Iguala, stato del Guerrero, quando furono uccise 6 persone e 43 studenti della Scuola Normale Rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa sparirono nel nulla. Ad oggi la determinazione degli studenti sopravvissuti e dei genitori dei morti e degli scomparsi non ha portato alla verità, non ha portato ancora alla luce che fine hanno abbiano i 43, ma ha cambiato per sempre la percezione della violenza politica in Messico. Per il docente universitario e giornalista Oswaldo Zavala “per la prima volta si è rifiutato il discorso ufficiale sulla sicurezza nazionale secondo il quale i principali responsabili della violenza fossero i trafficanti di droga. Da allora la società ha potuto esaminare la violenza di stato perpetrata dalle forze armate. Nessun altro crimine ha ricevuto tanta attenzione e nessun altro crimine ha consolidato il reclamo collettivo contro i governi assassini di Calderon e Peña Nieto”. Per, John Gibler, autore del libro Storia orale di una infamia: gli attacchi contro i normalisti di Ayotzinapa, i fatti di Iguala “risuonano, simultaneamente, nella società come atrocità dolorosissima e come simbolo della macchinazione della violenza e impunità esercitata attraverso la fusione tra l’industria illecita della droga e gli apparati di sicurezza dello stato”. La “verità storica” dettata dalla Procura Generale della Repubblica il 27 gennaio 2015 sostiene che gli studenti furono attaccati dalla polizia municipale di Iguala, per conto del gruppo del narco traffico “Guerrero Unidos”, e poi portati nella vicina discarica di Cocula e quindi bruciati. Tutte le indagini indipendenti, però, negano scientificamente e storicamente tale ricostruzione. L’ultima è stata presentata il 28 novembre del 2018 dalla Commissione Nazionale dei diritti umani del Messico e si può riassumere con le parole del suo presidente Luis Raul Gonzales Perez: “a Iguala diverse autorità, a livello federale come locale e municipale, sapevano che l’indagine era stata modificata e contaminata, però nessuno ha fatto nulla per evitare il disastro che si è presentato come verità storica”. Per poi aggiungere che “diverse autorità hanno violentato il diritto alla verità delle vittime e della società, in molte occasioni”. “Oggi sappiamo che tutte le strutture dello stato messicano dalla Presidenza della Repubblica fino alla Procura Generale e la Segreteria della Difesa collaborarono nell’invenzione di uno scenario falso e torturarono decine di arrestati affinché producessero un discorso falso. L’operazione di copertura da parte dello stato era, ed è, una parte integrante dell’atrocità della sparizione forzata” ricorda Gibler. Ventiquattro tra i carcerati per il crimine del 26 settembre sono stati liberati ad inizio settembre. Secondo Zavala “il caso ha rappresentato lo spazio dove si sono confrontati potere, gruppi politici, militanti, attivisti e ovviamente le famiglie direttamente interessate. Si è così scoperto che i 43 furono attaccati da forze statali: polizia municipale e federale, così come soldati dell’esercito messicano”. La notte del 26 settembre 2014 è, drammaticamente, solo uno dei tanti fatti atroci che hanno segnato gli ultimi 13 anni di storia del Messico, marchiati dalla mal chiamata “Guerra al Narcotraffico” che ad oggi ha generato quasi 200mila morti e 40mila desaparecidos oltre alla retorica complice secondo cui ogni violenza è solo responsabilità dei trafficanti di droga. A differenza degli altri casi, però, l’estensione dell’attacco e la tipologia del gruppo colpito ha scoperchiato il vaso e rotto la norma. Le scuole Normali Rurali nascono negli anni ‘20 per garantire le rivendicazioni della rivoluzione anche nelle aree rurali, e sono presto diventate un presidio di radicalità politica. Dopo la mattanza di Piazza Tlatelonco, il 2 ottobre ‘68, circa la metà delle Scuole Rurali furono chiuse. La particolare natura del gruppo ha generato l’immediata risposta e le denuncia pubblica delle compromissioni e responsabilità delle diverse parti dello stato. È nato così un movimento che per mesi ha riempito le piazze messicane sostenendo che per trovare i desaparecidos e combattere l’orrore di tale violenza si sarebbe dovuto smantellare l’apparato burocratico dello Stato che permette, protegge, copre, e amministra le sparizioni. Il governo di Pena Nieto entrò in una crisi politica irreversibile che obbligo l’ex presidente a spendere tutte le sue energie nel tentativo di contenere, senza riuscirci, la condanna nazionale. Anche a questo si deve la sconfitta elettorale del Pri alle presidenziali del 2018. Zavala osserva che “Lopez Obrador ha volontà politica di portare avanti le indagini”. Il nuovo presidente ha creato una commissione d’inchiesta parlamentare in dicembre, e ha forzato la Fiscalia Generale, la scorsa settimana, ad incontrare i genitori e riaprire il caso, ma per ora non ci sono reali passi in avanti nella ricerca della verità che trasformerebbe, davvero, il paese. Sierra Leone. “L’inferno” di Chennu, nel carcere di Freetown, in 22 minuti di pellicola infoans.org, 27 settembre 2019 “Kanaki Films”, è il produttore di Raúl de la Fuente e Amaia Remírez, che ha realizzato un cortometraggio sulla vita di un giovane della Sierra Leone che riesce a cambiare la sua vita: dall’essere carcerato ad essere sostegno per i giovani carcerati. Il cortometraggio-documentario è stato proiettato per la prima volta nel programma “Kimuak” del Festival Internazionale del Cinema di San Sebastián, Spagna. “L’inferno”, racconta la storia di Chennu, un bambino di strada di Freetown in Sierra Leone. A 15 anni è entrato nel carcere per adulti di Pademba Road, nella capitale del Paese africano. È un film che vuole mettere in primo piano “le storie di quelle persone che stanno morendo dimenticate in prigione in condizioni disumane”, denuncia Amaia Remírez. Inoltre, è una storia di superamento personale incentrata sul protagonista, Chennu. Un personaggio “potentissimo”, puntualizza Remírez. Dopo aver trascorso quattro anni in carcere, riesce a cambiare la sua vita e “Ora si dedicata ad aiutare i carcerati”. “È una redenzione completa e un superamento totale delle difficoltà vissute in carcere”. Il cortometraggio è stato prodotto grazie al sostegno del “Centro Don Bosco Fambul” di Freetown in Sierra Leone e di “Misiones Salesianas” di Madrid. Uno dei gruppi che si assistono al “Don Bosco Fambul”, è quello dei detenuti che si trovano nel carcere per adulti, dove hanno incontrato Chennu. “Con questo cortometraggio vogliamo dare visibilità al lavoro nel carcere che stanno facendo i salesiani, specialmente con i minori e i più malati”. “Kanaki Films” da alcuni anni si occupa di documentari che prepara la procura “Misiones Salesianas” per dare visibilità al lavoro svolto nei Paesi in via di sviluppo. L’ultimo lavoro è stato “Love”, in Sierra Leone, ma anche “30.000” in Costa d’Avorio, e quello che sarà presto pubblicato su “Palabek. Rifugio di Speranza”, in Uganda. La prima nazionale de “L’inferno”, si svolgerà alla fine di ottobre al “Seminci” (Settimana Internazionale del Cinema), di Valladolid, nella sezione competitiva dei cortometraggi “Tempo di storia”. “Per noi è un obbiettivo esserci”, ha detto Amaia.