Guardare oltre le sbarre di Adriano Sofri Il Foglio, 26 settembre 2019 La visita di Salvini al carcere di San Gimignano sottende l’ostilità delle istituzioni nei confronti dei detenuti. Oggi, giovedì, Matteo Salvini visita il carcere di San Gimignano per portare la propria solidarietà agli agenti della Polizia penitenziaria. Non è una cattiva idea solidarizzare con la Polizia penitenziaria. Salvini lo fa a ridosso dell’imputazione a 15 agenti, di cui 4 sospesi dal servizio, del reato di cui all’art. 613 bis, quello fresco e controverso sulla tortura, aggravata per essere stata compiuta da pubblici ufficiali e procurando lesioni, a loro volta aggravate dalla crudeltà. Dunque non è difficile riconoscere l’essenza di questa solidarietà in una - come chiamare il contrario della solidarietà? Dissociazione, avversione, ostilità, bene che vada menefreghismo - in un menefreghismo o un’ostilità ai detenuti presunti oggetto di violenze, agli operatori del carcere che le hanno certificate, al procuratore e al giudice che le hanno indagate, agli stessi agenti penitenziari che le detestano e personalmente se ne guardano, e specialmente alle telecamere che le hanno riprese. E alla gente, o almeno a quella parte della gente che vorrebbe che le persone in divisa che tutelano la legge e la sua sicurezza non cedessero alla violenza, aggravata dal fatto di rivolgersi contro corpi umani spogliati di ogni tutela. È da notare che l’indagine di polizia giudiziaria è stata condotta dallo stesso corpo della polizia penitenziaria, e chissà che Salvini voglia solidarizzare anche con questa parte. Il carcere di Ranza, isolato a 8 chilometri in un cupo fondovalle dalla meravigliosa San Gimignano, privo di relazioni con un contesto cittadino, difficilmente raggiungibile dai famigliari e dai visitatori, è un famigerato “carcere senza”. Per più di due anni senza un direttore, senza un comandante degli agenti, senza un vicecomandante. Senza acqua potabile, spesso, soprattutto d’estate. Senza. Quando, esploso il bubbone, il Dipartimento inviò finalmente una direttrice, costei si comportò immediatamente in modo tale da far rimpiangere il tempo in cui non c’era, e il ministero dovette affrettarsi a rimuoverla, trasferendola a far da vice alla direzione di Livorno, e Dio la mandi buona a quei livornesi. I pestaggi, ripetutamente denunciati, risalgono all’ottobre del 2018 e coinvolgono due ispettori capo, le autorità maggiori nella latitanza di governo del carcere. Il quale ha, per giunta, una sezione di alta sicurezza con la più alta proporzione di detenuti, e una di media sicurezza, dunque un bisogno ufficiale di attenzioni maggiore di quello di una casa di reclusione ordinaria. Il tunisino trentenne all’origine dell’inchiesta - che ha avuto fino all’ultimo paura di denunciare - era peraltro in galera per scontare un anno. I detenuti sono 358 su 250 posti teorici, ma mentre alcuni reparti sono semivuoti - il transito, la semilibertà - nelle sezioni più delicate il sovraffollamento è ancora più grave: 250 detenuti su 150 posti nell’alta sicurezza. Gli atti dell’indagine sono contenuti in ben 500 pagine di ordinanza, con riferimenti molteplici ai filmati delle telecamere e alle intercettazioni telefoniche e alla loro discrepanze dalle deposizioni, che hanno fatto ipotizzare anche l’accusa di falso per procurarsi l’impunità. Ora, la discussione se il caso di San Gimignano sia un’eccezione o una condizione diffusa è pura retorica. Si tratta di imporre quanto più è possibile condizioni, materiali oltre che educative, che rendano sempre più difficile compiere abusi e brutalità. L’ufficio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà ha fornito, a ridosso del caso di San Gimignano, un elenco di altre situazioni in cui si è reso necessario il ricorso alle procure, e un’esemplificazione di raccapriccianti casi singoli. La figura del garante è, può essere, molto importante. Incombe, in Toscana, la nomina del garante regionale, per la scadenza dell’impegno di Franco Corleone. Ci sono delle autocandidature presentate alla commissione pertinente del Consiglio regionale. Conosco meglio due nomi, i più titolati, se non sbaglio: mi scusino gli altri eventuali. Uno è quello di Giuseppe Fanfani, il cui curriculum è ingente e illustre: già deputato nazionale, sindaco di Arezzo, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, sottosegretario, titolare di uno studio forense prestigioso nella sua città, perfino romanziere. L’altro è quello di Francesco Ceraudo, oggi in pensione dopo aver trascorso tutta la vita in galera come medico penitenziario e direttore del Centro clinico pisano. Mi chiedo perché una personalità come Fanfani aspiri a un tale incarico. Immagino che ritenga di poter mettere a frutto la conoscenza e l’esperienza di avvocato e di politico sensibile alle questioni dei diritti e delle pene. Di Ceraudo so perché ci tiene: per ambizione personale, perché rugge di non poter fare, perché non immagina per sé una realizzazione migliore di quella che lo ha sempre tenuto dalla parte dei detenuti e dei diritti, a cominciare da quello alla salute. Se il garante regionale dovesse essere una prestigiosa figura di giurisperito, Fanfani sarebbe l’ideale. Se dovesse essere uno intenzionato ad andare ad auscultare le pareti sudate e i pavimenti macchiati delle celle nude, uno capace di presentarsi all’improvviso a San Gimignano, così da essere temuto all’inizio, amato poi, allora quello buono è Ceraudo. Questa è solo una mia opinione, però anche lei fondata sull’esperienza, di sotto in su, per così dire. Bonafede: più collaborazione con il Garante dei detenuti Agenpress.it, 26 settembre 2019 “I fatti recentemente emersi dalle cronache, qualora confermati, sono gravi. Anche per questo abbiamo deciso di stabilire una collaborazione ancora più stabile e assidua con il Garante dei diritti delle persone private della libertà”. Così il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha incontrato oggi Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. “L’obiettivo comune - aggiunge il Guardasigilli - è ribadire con forza la funzione rieducativa delle pena nel pieno rispetto della dignità dei detenuti. Così come concordiamo sull’importanza fondamentale del ruolo della Polizia e di tutto il personale penitenziario e proprio per il rispetto per il grande lavoro di squadra compiuto da tutti, eventuali comportamenti sbagliati saranno adeguatamente sanzionati”. Ferraresi: con l’inclusione sociale si rafforza sicurezza territori gnewsonline.it, 26 settembre 2019 Il sottosegretario alla Giustizia è intervenuto all’incontro promosso da Cassa delle Ammende sul tema dei servizi di inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale. “La sfida che ci vede coprotagonisti è quella di promuovere interventi per migliorare l’efficienza e l’efficacia dei servizi di inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale in modo da rafforzare la sicurezza dei territori”. Così il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi è intervenuto all’Info day, il seminario inter-istituzionale organizzato da Cassa delle Ammende e svoltosi a Roma, nella sede della Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”. Durante l’incontro, che ha visto la partecipazione del presidente di Cassa delle Ammende Gherardo Colombo, di Luigi Mazzuto, coordinatore della Commissione Politiche sociali della Conferenza delle Regioni, e di rappresentanti degli enti territoriali, si è discusso della strategia da adottare per rendere sempre più proficue le iniziative per l’inclusione sociale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Ferraresi, ricordando l’Accordo stipulato il 26 luglio 2018 tra la Cassa delle Ammende e la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, ha fatto riferimento “all’importanza di una cooperazione tra i diversi livelli di governance, nazionale, regionale e locale, per promuovere una programmazione condivisa, ed evitare un’inutile quanto dannosa parcellizzazione degli interventi”. Il sottosegretario ha concluso sottolineando “l’attenzione e l’impegno del Ministero della Giustizia a sostegno delle politiche di inclusione, di contrasto ai fenomeni di discriminazione sociale e lavorativa di inserimento sociale, formativo e lavorativo delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale”. La Consulta ammette il suicidio assistito e chiede una legge di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2019 La Corte costituzionale limita la punibilità del suicidio assistito. E, dopo una tormentata camera di consiglio, con un comunicato diffuso in serata, torna a chiedere con forza una legge che viene ritenuta “indispensabile”. Nello stesso tempo, dopo un anno trascorso nell’attesa di un intervento del Parlamento, la Consulta mette nero su bianco le condizioni cui subordinare la non punibilità. Una determinazione che è resa necessaria, come peraltro già scritto nell’ordinanza n. 207 del 2018, per evitare abusi nei confronti di persone particolarmente vulnerabili. E proprio sulle caratteristiche della persona che intende porre fine alla propria vita si sofferma una parte del comunicato della Corte. Perché si dovrà trattare di un paziente tenuto in vita “da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. E poi, la decisione, le cui motivazioni saranno depositate solo tra qualche tempo, condiziona la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato sulle cure palliative e sulla sedazione profonda, la legge n. 219 del 2017, con particolare riferimento agli articoli 1 e 2. Verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione che andranno effettuate da una struttura pubblica, del Servizio sanitario, dopo avere sentito il parere del comitato etico competente per territorio. “Da oggi in Italia siamo tutti più liberi, anche quelli che non sono d’accordo. Ho aiutato Fabiano perché ho considerato un mio dovere farlo. La Corte costituzionale ha chiarito che era anche un suo diritto costituzionale per non dover subire sofferenze atroci. È una vittoria di Fabo e della disobbedienza civile, ottenuta mentre la politica ufficiale girava la testa dall’altra parte. Ora è necessaria una legge”, questo il commento di Marco Cappato, che prima agevolò il suicidio di Dj Fabo e poi, autodenunciandosi, ha determinato il caso sul quale ieri si è pronunciata la Corte costituzionale. Conta la volontà di chi soffre Non trattiene la soddisfazione Vittorio Manes, legale di Marco Cappato davanti alla Corte costituzionale e docente di Diritto penale a Bologna, alla notizia della decisione della Consulta: “si tratta di una tappa storica per la civilità del diritto e per i diritti dei malati”. La Cei esprime sconcerto e distanza dalla scelta della Corte, soprattutto per la spinta culturale che potrà spingere chi soffre a considerare scelta di dignità quella di mettere fine alla propria vita. Le pare una soluzione equilibrata quella per ora solo annunciata dal comunicato? Senz’altro sì. Anche se naturalmente bisognerà leggere le motivazioni. Va detto già da ora e con forza che con questa sentenza non è riconosciuto il diritto al suicidio e, tantomeno, un diritto illimitato di morire. Emerge invece un diritto penale illuminato, che si ritrae, in questo senso liberale: si individua un’area di non punibilità per chi invece decide di raccogliere la richiesta di solidarietà da parte di una persona che soffre, ma tuttavia è in grado di autodeterminarsi. Ecco, a questo proposito, la decisione fa riferimento alle garanzie assicurate dalla legge sul consenso informato. Le pare sufficiente? Si tratta di una normativa cui la stessa Corte faceva riferimento nella sua ordinanza di un anno fa e che ora è riconosciuta idonea a garantire la tassatività della nuova area di non punibilità. Una legge che riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se necessario alla propria sopravvivenza, con forme di manifestazione della volontà chiare e documentate. Una procedura medicalizzata. Mi sembra un richiamo opportuno, anche per evitare distorsioni e abusi. A questo punto però cosa succederà a Marco Cappato, che ha agito quando queste condizioni non erano state formalizzate? È da vedere. Tuttavia le righe finali del comunicato della Corte costituzionale lasciano espressamente capire che, con riferimento alle condotte già realizzate, starà all’autorità giudiziaria valutare l’esistenza di condizioni in sostanza equivalenti a quelle ora delineate. La Consulta sul caso dj Fabo: “Non punibile chi agevola il suicidio, a certe condizioni” di Giulia Merlo Il Dubbio, 26 settembre 2019 È “non punibile”, a “determinate condizioni”, chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Con queste parole la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità dell’articolo 580 del codice penale sollevata nell’ambito del processo a Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo. In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte “ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/ 2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Ssn, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”. La Corte ha infine sottolineato che “l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate”. La decisione è arrivata nella serata di ieri, dopo due giorni di lunga camera di consiglio e anche un retroscena polemico, in cui si ipotizzavano pressioni sui giudici per lasciare al Parlamento altro tempo per legiferare in materia. Ieri sera alle otto, infine, è arrivata la decisione sulla punibilità dell’aiuto al suicidio. I giudici si sono pronunciati, stabilendo la parziale illegittimità dell’articolo 580 del Codice penale - che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio con pene tra i 5 e i 12 anni di carcere - nella parte in cui disciplina l’aiuto al suicidio, in risposta della questione sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del processo a Marco Cappato, che ha accompagnato Dj Fabo nel suo ultimo viaggio in Svizzera. Secondo i giudici lombardi, l’articolo del codice penale sarebbe in conflitto con gli articoli gli articoli 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in forza dei quali il diritto a porre fine alla propria esistenza costituirebbe una libertà della persona, facendo ritenere quindi “non lesiva di tale bene” la “condotta di partecipazione al suicidio che però non pregiudichi la decisione di chi eserciti questa libertà”. La Corte Costituzionale, nell’ordinanza del 24 ottobre 2018 sulla questione di legittimità sollevata nel processo milanese a Cappato, aveva definito “doveroso” consentire al Parlamento ogni “opportuna riflessione e iniziativa” sul fine vita “laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta e immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso - in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale - consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare per un verso che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale”. Il legislatore, tuttavia, è rimasto inerte in questi undici mesi, con iniziative tutte ancora nella fase preliminare dell’iter di approvazione (le Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera il 31 luglio scorso, dopo un dibattito durato 2 mesi, hanno alzato bandiera bianca, alla luce dell’impossibilità di arrivare all’elaborazione di un testo base che unificasse le proposte in discussione: uno di iniziativa popolare, le altre presentate da Andrea Cecconi del Gruppo Misto, Michela Rostan di Liberi e uguali, Doriana Sarli del Movimento 5 Stelle e Alessandro Pagano della Lega. Al Senato invece non è iniziato l’esame dei due disegni di legge presentati da Tommaso Cerno del Pd e da Matteo Mantero di M5S). Dunque i giudici delle leggi sono intervenuti autonomamente. La decisione, come mostra il dispositivo, non ha riguardato la costituzionalità e dunque non punibilità della condotta di Cappato, in quanto l’ordinanza del 2018 aveva già indicato come “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione”. I giudici hanno invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, limitatamente all’ipotesi di aiuto al suicidio, nella parte in cui non consente che il giudice possa escludere la punibilità del fatto, ove sia accertato che l’aiuto al suicidio è prestato in presenza di quattro requisiti: la capacità del malato di prendere decisioni libere e consapevoli; la presenza di una patologia irreversibile; sofferenze fisiche e psicologiche ritenute assolutamente intollerabili e il fatto che la persona debba essere mantenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Se, in presenza di queste condizioni, il malato abbia inequivocabilmente manifestato la volontà informata di porre fine alla propria vita in modo rapido e indolore e abbia bisogno dell’ausilio di un soggetto terzo, quest’ultimo non è punibile. Dopo che è stato reso noto il dispositivo, immediata è arrivata la reazione di Marco Cappato: “Oggi siamo tutti un po’ più liberi, anche chi non è d’accordo. Non si obbliga nessuno, ma è una libertà in più. È un passo avanti importante per la libertà e laicità del nostro Paese”, e ha poi aggiunto che continuerà “a battersi per una buona legge sull’eutanasia legale”. Fine vita, i richiami alle leggi esistenti per dare una scossa alla politica di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 settembre 2019 I giudici, dopo aver sciolto il nodo del radicale Marco Cappato imputato per la morte di dj Fab, hanno ribadito di non potersi avventurare oltre su un terreno denso di implicazioni etico-sociali, che va regolato con una normativa organica e adeguata. L’incostituzionalità accertata - o anche solo prospettata - un anno fa, è stata dichiarata ufficialmente ieri sera, dopo due giorni di camera di consiglio. Ma il “giudice delle leggi” ha sciolto il nodo di un singolo processo, quello in cui l’esponente radicale Marco Cappato è imputato per la morte di Dj Fabo, ribadendo però di non potersi avventurare oltre su un terreno denso di implicazioni etico-sociali, che va regolato con una normativa organica e adeguata. Compito esclusivo del Parlamento. Ecco perché la Corte ha definito “indispensabile l’intervento del legislatore”. Una messa in mora più incalzante della volta scorsa, quando fu accordato il rinvio del verdetto. Dopo un anno di attesa, i quindici giudici della Consulta non potevano esimersi dal prendere una decisione che, rispetto all’ordinanza del 2018 con cui avevano già diagnosticato l’incompatibilità di una parte dell’articolo 580 del codice penale con alcuni diritti costituzionali, inserisce qualche limite in più al “suicidio assistito”. Il punto di partenza restano le quattro condizioni necessarie per la “non punibilità”, che poi sono quelle del caso concreto arrivato sul tavolo della Corte: l’aiuto fornito a una persona “affetta da patologia irreversibile”, alla quale la malattia provoca “sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili”, tenuta in vita da sostegni artificiali e però in grado di compiere scelte “libere e consapevoli”. Dunque per dirimere la vicenda di Dj Fabo la corte d’assise di Milano ha ora gli strumenti per disapplicare l’antica formulazione della norma che equiparava l’istigazione con l’assistenza al suicidio, e comportarsi di conseguenza. Per il resto, nella consapevolezza che nel perdurante vuoto legislativo altri giudici sono già stati o saranno chiamati a decidere su casi simili, la Corte ha introdotto ulteriori limiti alla “non punibilità”. Richiamandosi alla legge del 2017 sul “fine vita”, è stato stabilito che bisogna rispettare “le modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”. Inoltre, tutte le verifiche sulle “condizioni richieste” e sulle “modalità di esecuzione” dovranno essere fatte da una struttura del Servizio sanitario pubblico. E dopo avere raccolto il parere del comitato etico territoriale, come avviene nei Paesi europei che hanno una legislazione in materia. Non è una corsa a ostacoli, bensì un modo per restringere il più possibile gli spazi d’azione spalancati dalla medicina e dalla tecnologia e lasciati vuoti dall’inerzia del Parlamento. Per evitare invasioni di campo e sconfinamenti in responsabilità altrui, ma anche per scongiurare il rischio di “abusi nei confronti di persone specialmente vulnerabili”. Di qui la necessità di ancorarsi il più possibile a una legge già esistente - quella sul “consenso informato”, appunto - individuando al suo interno gli strumenti per impedire che la norma riscritta apra la strada a situazioni del tutto diverse da quelle come il caso approdato alla Consulta. Il divieto al suicidio assistito, infatti, ha un senso soprattutto per salvaguardare “persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane o in solitudine, che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita”. Così avevano scritto i giudici nell’ordinanza dell’anno scorso, ed è il motivo per cui la norma non è stata dichiarata incostituzionale nel suo complesso, bensì solo in presenza di quelle precise condizioni ora divenute ancor più stringenti. In particolare per ciò che riguarda accertamenti preventivi e procedure. Per arrivare al verdetto la Corte ha forse impiegato più tempo di quanto preventivato; non a causa di divisioni interne, ma per cercare di riempire ogni vuoto che rischiava di aprirsi anche volendosi limitare al singolo caso in esame. Facendo ricorso, per quanto possibile, alla legislazione esistente, applicandola per analogia o logica conseguenza. Un metodo che diventa un richiamo in più al Parlamento, che dopo questa doppia pronuncia - l’ordinanza del 2018 e la sentenza di ieri, che sarà motivata nelle prossime settimane - non ha più alibi per non intervenire. Effetto Bonafede di Giuseppe Sottile Il Foglio, 26 settembre 2019 Ha abolito la prescrizione, ecco gli effetti collaterali. Che cosa ci insegnano le leggi antimafia. Lui, Alfonso Bonafede, ministro di Giustizia, sa quali splendori albergano nella sua Sicilia. Ha memoria dei capricci barocchi, delle delizie arabe, delle meraviglie normanne. E sa pure che in questa terra di lava e di miele la mafia ha perso mentre lo Stato ha vinto. Un miracolo. Che si deve anche al fatto che qui la prescrizione - quella che lui, il Guardasigilli, ha abolito erga omnes - era stata spazzata via già negli anni Novanta dalle leggi d’emergenza approvate dal Parlamento per fronteggiare le stragi mafiose e per piegare l’arroganza sanguinaria di boss che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano, di Michele Greco e Pippo Calò, di Luciano Liggio e Leoluca Bagarella. Furono leggi necessarie. Sacrosante, si stava per dire. Le propose Giovanni Falcone, il giudice che portò il gotha di Cosa nostra dietro le sbarre del maxi processo e fu poi ammazzato da una spaventosa esplosione di tritolo lungo l’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi. E le pretese anche Paolo Borsellino, pure lui giudice di grande coraggio, massacrato cinquanta giorni dopo nell’attentato di Via D’Amelio. Senza quelle leggi, boss e picciotti sarebbero ancora in giro per città e campagne a spartirsi gli appalti e i traffici di droga, a devastare la politica e la vita della gente, a spargere sangue e a seminare terrore. Ora però quell’emergenza si è attenuata: i terribili “corleonesi” sono quasi tutti morti e i pochi che sopravvivono sono murati vivi in un carcere di massima sicurezza. Resta in piedi la mafia dei rimasugli: quella che non trova altro capo della cupola se non un vecchio di 80 anni, Settimo Mineo, un boss di mezza tacca già bruciato da un’antica condanna e dagli sfregi che le cosche rivali hanno assestato al suo prestigio e alla sua carriera. O quella, un po’ smarrita e un po’ stracciona, che cerca di sopravvivere taglieggiando fiorai e salumieri, imponendo guardianie ai cantieri di lavoro, oppure raccogliendo cinquanta o cento voti per i candidati più spericolati, ai quali nessuno ha detto che prima o poi arriverà l’avviso di garanzia per voto di scambio o, peggio, per traffico di influenze. È la mafia raccontata da Franco Maresco nel film che tanto ha entusiasmato la critica al Festival di Venezia; una mafia inzeppata manco a dirlo di omertà e canzoni neomelodiche, di cinismo e disincanto; e che si trascina, spacciando e rubacchiando, tra lo Zen e Passo di Rigano, tra Ballarò e la Vucciria. Debbono valere anche per questi combattenti e reduci le leggi d’emergenza inventate trent’anni fa per sradicare la mafia tentacolare, quella che non dava scampo a niente e a nessuno? Il dibattito, come si suole dire, è aperto. E quasi certamente resterà tale per molti anni a venire. Intanto però - e Bonafede sa pure questo - alcuni dispositivi previsti dalle leggi eccezionali, come quello che raddoppia i tempi della prescrizione, sono stati trasformati in strumenti buoni per ogni populismo giudiziario: se ne servono i pubblici ministeri che vogliono a tutti i costi riscrivere la storia d’Italia; se ne servono i cosiddetti magistrati d’assalto: quelli inviati da Dio in terra per rovesciare il mondo come un calzino e trascinare in giudizio tutti i presunti colpevoli che ancora credono nella presunzione di innocenza; e se ne servono tutti quegli inquirenti e inquisitori che presi dal sacro fuoco del moralismo vedono la mafia anche dove non c’è e montano inchieste da talk-show, utili soprattutto a quelle forze politiche che da sempre conquistano i consensi con la cultura del sospetto e lo sputtanamento dell’avversario. La norma sulla prescrizione inserita in tutta fretta dal ministro di Giustizia nel decreto “Spazza-corrotti” ha proprio questo scopo: ridurre ulteriormente le garanzie per ogni povero cristo che si trovi impigliato nella rete maledetta di una inchiesta. Prima succedeva che se un processo - in tutti i gradi di giudizio - andava oltre un determinato limite di tempo, il reato automaticamente decadeva. La prescrizione accettava la non verità e l’imputato si liberava delle sue angosce senza che nessuno lo dichiarasse colpevole o innocente. Bonafede ha eliminato questa possibilità. O meglio: i termini della prescrizione dal primo gennaio in poi varranno fino al primo grado di giudizio; ma se la giustizia sarà così veloce da scavalcare la prima sentenza tutto il resto - dall’appello fino alla Cassazione - potrà andare avanti per anni e anni, fino alla morte dell’imputato. Con la conseguenza che i rappresentanti dell’accusa non avranno più una scadenza da rincorrere, i collegi giudicanti terranno un’udienza ogni due o tre mesi, e l’imputato non vedrà mai la luce del sole. Anzi, proprio perché la vicenda non si chiude, sarà costretto a pagare ancora gli avvocati, a vivere ancora come un appestato e a non avere una banca che gli apra una linea di credito o un’amministrazione che gli rilasci la licenza per una lavanderia o una pizzeria. Ma gli effetti collaterali - fine gogna mai - non sembrano preoccupare più di tanto il ministro della Giustizia. Il quale è convinto che nel giro di pochi mesi riuscirà anche, con un magheggio politico, a riformare sia il Consiglio superiore della magistratura che l’ordinamento giudiziario, sia il codice di procedura penale che il codice penale. “Un processo durerà al massimo cinque anni”, annuncia. Ma la Sicilia - dove basta ancora un vago e presunto odore di mafia per eliminare di fatto la prescrizione - dimostra esattamente il contrario: Calogero Mannino, ex ministro democristiano, è stato costretto a salire e scendere dalle scale dei tribunali per venticinque anni, e ancora non è finita; il generale Mario Mori, l’ufficiale dei carabinieri che nel gennaio del 1993 fece scattare le manette ai polsi di Totò Riina, torvo padrino di tutte le mafie e di tutte le stragi, è sotto accusa da vent’anni: si è liberato di alcune infamie ma è ancora intrappolato nel mastodontico processo della Trattativa; un processo lungo e impervio: dopo un dibattimento durato cinque anni è arrivato appena a una sentenza di primo grado che intanto ha inflitto a Mori una condanna a dodici anni di carcere. Inutile ricordare che né Mannino né Mori sono imputati di omicidio o di altre nefandezze. L’ex ministro democristiano era partito nel ‘95 con il concorso esterno - otto mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari - ed è finito pure lui nel calderone della fantomatica Trattativa. Come Mori. Lui però, avendo scelto il rito abbreviato, ha superato con una assoluzione pure il secondo grado di giudizio ma non è detto che i pubblici ministeri non impugnino la sentenza davanti alla Cassazione: lasciarla correre sarebbe un pessimo segnale per la Corte di assise d’appello che ha appena aperto il dibattimento di rito ordinario per tutti gli altri imputati - da Mori, a Di Donno, a Subranni - condannati in primo grado, assieme a due boss e all’ex senatore Marcello Dell’Utri, a pene severissime. Lo strumento che tanto affascina il moralismo giudiziario dei grillini, e che di sicuro avrà ispirato la legge voluta da Bonafede, è l’aggravante prevista dall’articolo 7 di un decreto varato nel ‘91 dal ministro Claudio Martelli. È la norma che di fatto sancisce l’onnipotenza del pubblico ministero. Se tu vieni accusato di peculato, dopo dodici anni hai diritto alla prescrizione. Ma se il pm ti contesta l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 7 gli anni necessari per la prescrizione automaticamente raddoppiano: ne serviranno 24. Lo stesso vale per l’abuso di ufficio: in via ordinaria il reato viene prescritto dopo cinque anni, ma con l’aggravante mafiosa di anni ne servono dieci. E così per ogni accusa, per ogni imputazione. Non decide il tribunale o la Corte d’assise. Basta la semplice contestazione. Che può essere sottoscritta dalla procura in un avviso di garanzia; ma, se il processo è già cominciato, può anche essere comunicata alla Corte nel corso di una qualsiasi udienza. Se questo avviene, l’indiziato può mettersi il cuore in pace perché non avrà salvezza: il processo viene assoggettato da quel momento al cosiddetto “regime del doppio binario”. La procura non avrà più sei mesi per chiudere l’indagine, ma potrà dilatare i tempi fino a due anni. Le intercettazioni telefoniche e ambientali non avranno né limiti né confini: il pm potrà utilizzare il trojan e ogni altro apparecchio invasivo anche per catturare conversazioni con persone del tutto estranee all’inchiesta. Non solo. L’articolo 7, oltre ai tempi della prescrizione, raddoppia anche i tempi della custodia cautelare. E, come se non bastasse, finisce non solo per dimezzare, dopo la condanna, i benefici carcerari, ma anche per avviare un processo suppletivo: quello per le misure di prevenzione che, come si sa, possono comprendere sia il sequestro che la confisca dei beni. Si dirà: ma è la mafia, bellezza! E davanti alla mafia non c’è garantismo che tenga. Ma c’è un però: come spesso succede, anche le buone battaglie possono nascondere l’abuso. Pensate che l’articolo 7 è stato contestato persino a un cronista, Franco Viviano, accusato di violazione del segreto istruttorio per avere pubblicato su Repubblica i “pizzini” del mafioso Salvatore Lo Piccolo, detto “il Barone”. Pensate che l’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, accusato di avere traccheggiato con le tariffe della sanità per favorire i ras delle cliniche private, era stato assolto in primo grado; ma quando cominciò l’appello e il reato stava per cadere in prescrizione, la Corte resuscitò l’aggravante dell’articolo 7 - motivato dal fatto che l’ex presidente della regione aveva anche incontrato un medico mafioso - e tanto bastò perché “Totò vasa-vasa” venisse rinchiuso per cinque anni nel carcere di Rebibbia. Oppure pensate a quello che è successo ai tre poliziotti finiti sotto processo a Caltanissetta per avere gestito - male, malissimo - il falso pentito Vincenzo Scarantino. Siamo negli anni compresi tra il 1992 e il 1997. Procura e forze dell’ordine cercano con ogni mezzo i responsabili della strage di Via D’Amelio, dove hanno trovato la morte Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. S’avanza un balordo palermitano, quartiere Guadagna, che dice di sapere tutto. È Scarantino. Che, manco a dirlo, viene preso in carico e bene “impupato” da magistrati che lo accolgono a braccia aperte e da un alto funzionario di polizia, Arnaldo La Barbera, che si intesta l’intera responsabilità dell’operazione. Si scoprirà molti anni dopo, grazie alle rivelazioni di un pentito autentico, Gaspare Spatuzza, che c’era stato un colossale depistaggio e che la malagiustizia di quel primo processo aveva comportato condanne all’ergastolo per sette poveri innocenti. Qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto. Ma La Barbera è morto; e dei magistrati che pure coccolarono Scarantino, non se n’è saputo più niente: ognuno ha scaricato le colpe sull’altro e tutti hanno avuto la possibilità di dire che le decisioni più importanti erano state prese dal procuratore capo, Giovanni Tinebra, morto anche lui ormai da qualche anno. Del giro dei presunti depistatori sono rimasti solo i tre poliziotti: Michele Ribaudo, Mario Bo, Fabrizio Mattei. Sono accusati di calunnia aggravata. La condotta delittuosa, come si legge nel capo d’accusa, si sarebbe conclusa nel 1997 e la prescrizione sarebbe scattata quindi nel 2017, dopo vent’anni. Ma i pubblici ministeri hanno contestato l’aggravante dell’articolo 7 e l’incubo che sembrava vicino alla fine affliggerà gli imputati fino al 2027. Quando dalla morte di Borsellino saranno passati 35 anni. Per carità, potrà anche succedere che i tre poliziotti vengano assolti in primo grado e poi in appello; e che l’assoluzione venga anche confermata dalla Cassazione. E potrà anche succedere che la Suprema corte dica espressamente che la contestazione dell’articolo 7 è stata una mossa azzardata e inopportuna. A quel punto chi risarcirà gli imputati? Il loro calvario poteva concludersi in dieci anni e invece si è protratto per vent’anni. Pagheranno i pubblici ministeri? Pagherà il giudice per le indagini preliminari, pagheranno i giudici del tribunale del riesame che magari avrebbero potuto dire ai pm: no, non c’è motivo? Tranquilli: non pagherà nessuno. E Bonafede sa pure questo. Sa che i magistrati hanno nella giustizia la stessa fede che il prete riversa nella consacrazione eucaristica e nella sua personalissima sacra dote, sacer dos, di trasformare il pane e il vino nel corpo, nel sangue e nell’anima di Cristo. Ricordate Il contesto di Leonardo Sciascia? Lì c’è un giudice, un supremo giudice, che spiega all’investigatore Rogas perché una sentenza non gli provocherà mai un rimorso: “Lo vede lei un prete che dopo avere celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente. E direi anche: inevitabilmente. Pensi a quel prete che, dubitando al momento della consacrazione si ebbe sangue sulle vesti. E io posso dire: nessuna sentenza mi ha sanguinato tra le mani, ha macchiato la mia toga”. Svolta sul patrocinio a spese dello Stato: parte l’esame del ddl di Errico Novi Il Dubbio, 26 settembre 2019 Detto fatto. In pochi giorni. Venerdì scorso i deputati che rappresentano il Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia avevano assicurato, in una nota, il loro impegno per “incardinare il prima possibile” il ddl sul patrocinio a spese dello Stato, in modo da “entrare nel vivo dell’esame del testo”. Ieri l’ufficio di presidenza della stessa commissione ha deciso di calendarizzarlo già per domani. Un segnale forte che arriva sulla giustizia, tema ritenuto convenzionalmente tra i più divisivi all’interno della neonata maggioranza. E invece, sul provvedimento messo a punto dal guardasigilli Alfonso Bonafede a partire dalle indicazioni del Consiglio nazionale forense, si verifica subito una netta condivisione tra 5 Stelle e Pd. Da una parte la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Francesca Businarolo, del Movimento, definisce “molto importante l’avvio dell’esame del ddl Bonafede”. Dall’altra il vicepresidente dell’organismo, il dem Franco Vazio, riconduce la scelta di “dare priorità” al patrocinio a spese dello Stato “in ragione della sua importanza anche sotto il profilo di una maggiore equità sociale”. Il Cnf: “soddisfatti per la condivisione” - Ma si tratta anche di un segnale per l’avvocatura. Perché appunto è stato il Cnf a indicare per primo le criticità nella disciplina vigente e perché tra le modifiche in arrivo ci sono anche norme che assicurano maggiore tempestività e adeguatezza nella retribuzione del difensore. E certo va considerata la capacità del Movimento e dei democratici di ritrovarsi attorno a una comune idea di giustizia come servizio ai cittadini. Lo apprezza anche il presidente del Cnf Andrea Mascherin. “Siamo soddisfatti di questa accelerazione e della volontà della attuale maggioranza e, ritengo, di tutte le altre forze parlamentari, di perfezionare in tempi rapidi il disegno di legge Bonafede sul patrocinio a spese dello Stato”, dichiara il vertice della massima istituzione forense. Che appunto indica nel testo definito con Bonafede innanzitutto uno “strumento di tutela del diritto alla difesa dei più deboli”. E aggiunge: “Naturalmente il Cnf non mancherà di fornire il proprio contributo per ulteriori migliorie durante il percorso parlamentare”. Anche Businarolo tiene a indicare, nel ddl, “una riforma molto attesa” in quanto “attua il principio costituzionale sul diritto di difesa dei non abbienti, e rende il nostro sistema giudiziario più equo visto che consente a più persone di accedere alla giustizia a spese dello Stato”. Vazio, che ieri ha materialmente guidato i lavori dell’ufficio di presidenza, ricorda come il provvedimento preveda, tra l’altro “il patrocinio a spese dello Stato anche nelle procedure di negoziazione assistita”. E nota come la commissione abbia “inteso dare la dovuta prorità” al ddl e “avviare il suo esame” anche in vista di una “maggiore efficienza e tutela degli operatori della Giustizia”. E qui il vicepresidente pd della commissione si riferisce per esempio alle norme che vincolano l’entità del compenso per il difensore ai parametri forensi, in modo che l’onorario corrisponda al loro valore medio. Previsione che assicura certezza in virtù delle modifich dei parametri introdotte dall’ex guardasigilli Andrea Orlando, ora vicesegretario dem. Il M5S: “attuato così l’articolo 24” - Si traduce in atto dunque l’impegno assunto dai deputati 5 Stelle della commissione Giiustizia, che venerdì avevano sollecitato “la massima collaborazione di tutte le forze politiche” giacché “in situazioni come questa si deve prescindere dal colore e dall’appartenenza”. Idea coerente con il passaggio della nota diffusa dai parlamentari del Movimento in cui si richiama l’estensione del patrocinio a spese dello Stato a una platea più ampia di beneficiari: le “vittime di maltrattamenti in famiglia e di violazione degli obblighi di assistenza familiare, a prescindere dai limiti di reddito” nonché “le vittime del reato di tortura, in recepimento della Convenzione di New York del 1984” ; tutele che, secondo i 5 Stelle, danno “piena attuazione al principio costituzionale del diritto di difesa, espresso nell’articolo 24 della nostra Carta Fondamentale”. Una priorità riconosciuta ora dall’intera maggioranza e su cui si segnala la sintonia anche tra la politica e l’avvocatura. Contro il giudice-icona di Enrico Bucci Il Foglio, 26 settembre 2019 “Sì all’autonomia e indipendenza del magistrato, ma non si può dare l’idea di impunità”. Parla Antonio Leone. “Ormai in questa nostra povera patria può accadere di tutto: anche che un magistrato accusi il proprio organo di autogoverno, presieduto dal capo dello stato, di usare “metodi mafiosi” nella gestione delle nomine, dimenticando di aver fatto parte di correnti e associazioni fino all’altro ieri. Se tale accostamento lo avesse fatto un normale cittadino cosa sarebbe successo? Nel recente passato si è ipotizzato il vilipendio. E non potrebbe configurarsi l’ipotesi di colpa disciplinare?”. Intervistato dal Foglio, Antonio Leone (ex vicepresidente vicario della Camera ed ex membro laico del Csm, oggi a capo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria) non va per il sottile nel commentare le parole del pm antimafia Nino Di Matteo sui “metodi mafiosi” che sarebbero utilizzati dalle correnti nel Csm. Un paragone spropositato che ha fatto storcere il naso a molte toghe, provenendo da un collega in campagna elettorale per le suppletive del Csm e che ha ricoperto incarichi associativi, come la presidenza dell’Anm palermitana. Al di là delle ipocrisie, Leone riconosce che lo scandalo sulle nomine pilotate, con gli incontri notturni tra membri del Csm e politici, ha contribuito ad aggravare la crisi di legittimazione della magistratura: “È innegabile che tali fatti, oltre ad aver scoperto l’acqua calda, abbiano compromesso, più di quanto già non lo fosse, l’immagine della magistratura. Vale però la pena ricordare che le condotte contestate all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara erano note già da un anno. In un articolo del Fatto quotidiano di settembre 2018, dal titolo “Fascicolo a Perugia che imbarazza il leader di Unicost”, venne riportata tutta la vicenda extra Csm che lo interessava: ma non mi sembra che allora abbia avuto grande attenzione e tanto meno mi sembra d’aver sentito parlare di fughe di notizie, di rivelazioni di segreto d’ufficio o altro”. “La delegittimazione del Csm - prosegue Leone - è partita da qualche tempo dall’interno stesso della magistratura, così come accaduto per la politica”. Si è appreso ieri che il ministro Lorenzo Fioramonti avrebbe chiamato Vandana Shiva, icona globale di un certo ambientalismo cialtrone, come consulente in un “consiglio scientifico sullo sviluppo sostenibile”. Il nostro paese non è nuovo ad assegnare funzioni di prestigio alla Shiva, amica di Carlo Petrini: si ricorda per esempio la consulenza a lei concessa nel 2015, in occasione dell’Expo di Milano. Malgrado si conoscano le numerosissime bugie della pseudo-scienziata, che da taluni è non a caso malignamente soprannominata “Panzana Shiva”. Ecco un piccolo florilegio, un “panzanario” che aiuta a inquadrare il personaggio. La Shiva ha all’attivo un dottorato in filosofia. Siccome questo titolo è privo di “allure” scientifico e siccome il termine “quantistico” esercita fascino sulle vittime di fuffe di ogni tipo, ecco che si è vantata in una celebre risposta alla rivista Nature di essere un “fisico quantistico”. Nei suoi libri ha più volte scritto frasi come “prima di diventare un’attivista, Vandana Shiva è stata uno dei fisici più importanti dell’India”. Ancora: come spiegava il professor Dario Bressanini svariati anni fa, la Shiva mentì attribuendo all’introduzione del cotone Ogm Bt il suicidio di centinaia di migliaia di contadini indiani. In realtà, la crescita dei suicidi tra gli agricoltori in India è precedente all’introduzione di quella coltura Ogm. I suicidi, dovuti principalmente alle perdite di raccolti causate da fattori climatici raggiunsero l’apice quando il cotone Bt non era coltivato che marginalmente, mentre quando successivamente i campi coltivati con questo Ogm aumentarono, i suicidi diminuirono. Anche analizzando i trend delle aree più intensamente coltivate a cotone, grazie al report “Accidental deaths and suicides in india-2010”, non emerge alcuna correlazione fra aumento del cotone Bt e suicidi. Anzi, si osserverebbe una correlazione inversa. Sempre per demonizzare gli Ogm, la Shiva e altri hanno per anni sostenuto che le piante geneticamente modificate sarebbero sterili, così che per questo motivo ad ogni nuova semina gli agricoltori sarebbero costretti ad acquistare nuovi semi dalle cattivissime industrie sementiere. Anche questa una bugia: le piante Ogm non sono più sterili di tutte le altre, tanto che gli ambientalisti temono che esse possano incrociarsi con piante spontanee invadendo l’ambiente; ma l’immagine potente dei coltivatori ridotti in catene dalla Monsanto non ha più abbandonato la sfera della comunicazione. Per supportare poi le sue campagne contro il glifosate, la Shiva ha prodotto per anni grafici che correlavano l’aumentato utilizzo di glifosate a malattie renali, diabete, Alzheimer e all’immancabile autismo; naturalmente, si tratta di correlazioni spurie, buone solo a eccitare gli animi di chi è già prevenuto. La Shiva ha persino sentenziato che non è Xylella a far morire gli ulivi in Puglia, ma la “chimica” dell’homo tecnologicus, raccomandando di abbracciare gli alberi per fermare l’epidemia. L’elenco potrebbe continuare, includendo le balle raccontate per screditare Norman Borlaug, Nobel e padre della rivoluzione verde - uno che il mondo lo ha sfamato davvero, e non a chiacchiere; ma è più interessante rimarcare un punto fondamentale. Come potrebbe una persona che ha mentito così tante volte essere utile come consulente presso il ministero dell’università e della ricerca scientifica? L’atto annunziato dal ministro Fioramonti, che ha aderito a suo tempo al Patto per la Scienza, potrebbe avere senso in una sola ed unica ipotesi: che Vandana Shiva, rinunciando a propagandare le sue bugie, si ravvedesse e cominciasse a mediare verso quel mondo ambientalista sensibile al suo richiamo, per recuperarlo a strade più ragionevoli e concordi con le migliori evidenze scientifiche. Concorrendo a una visione eco-modernista, consapevole dei gravi problemi ambientali e dei limiti del nostro modello di sviluppo, ma che non abbia bisogno di costruire un falso passato e dei falsi miti, i quali aggravano, non risolvono, i nostri problemi. Divieto di emettere assegni: non c’è reato se alla firma del titolo la sanzione non era effettiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 25 settembre 2019 n. 39353. Non commette reato il destinatario della sanzione accessoria del divieto di emettere assegni, se nel momento in cui ha firmato il titolo bancario, il decreto prefettizio che gli impediva di farlo non era ancora stato emesso. La Cassazione, 39371, accoglie il ricorso dell’imputato, condannato per il reato che scatta in caso di mancato rispetto della sanzione accessoria (articolo 7 della legge 386/1990). Il ricorrente aveva fatto presente ai giudici di aver firmato l’assegno, senza data e luogo, prima che il decreto fosse effettivo, e lo aveva consegnato al creditore a titolo di garanzia, confidando che questo non lo incassasse completando le parti mancanti. Ma anche se così non era andata, perché il titolo era stato prontamente “monetizzato”, la cassazione esclude che la condotta del ricorrente integrasse il fatto tipico e annulla la sentenza impugnata. La violazione dell’articolo 7 richiede, infatti, espressamente, la trasgressione di un divieto dopo che sia stato adottato e notificato il provvedimento che applica la sanzione accessoria amministrativa. In assenza di questi elementi, che servono a rendere operativo il divieto, “non è possibile individuare, già sul piano strutturale, la lesione del bene giuridico che rende penalmente rilevante la condotta secondo la tipicità del fatto descritto”. Per i giudici di legittimità quello che si può riscontrare nel caso esaminato è solo “la ragionevole previsione di un certo succedersi di eventi prescrittivi”. Ma non basta per affermare il reato. Lottizzazione abusiva, la prescrizione del reato non travolge la confisca di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 25 settembre 2019 n. 39317. La prescrizione in appello del reato di lottizzazione abusiva non fa venir meno i presupposti per l’adozione della confisca. Pertanto, se nonostante l’estinzione del reato vi siano gli elementi oggettivi e soggettivi che consentono al giudice di verificare l’effettiva sussistenza della lottizzazione abusiva, deve essere disposta la confisca urbanistica, in maniera proporzionale alle parti del territorio interessate e senza tener conto dell’attuale offensività della condotta. Questo è quanto afferma la Cassazione nella sentenza n. 39320, depositata ieri. Il caso - La questione si inserisce all’interno di un processo per il reato di lottizzazione abusiva materiale intentato nei confronti di diversi imputati, accusati di aver trasformato fisicamente e in maniera permanente un terreno a scopo edificatorio, in sostanza attraverso la realizzazione di un campo roulottes. Condannati in primo grado, tutti gli imputati venivano assolti per dichiarata prescrizione del reato dai giudici di appello, i quali revocavano altresì la già disposta confisca, in quanto “le opere abusive erano state rimosse” e “l’attuale assetto del territorio era conforme alla legge”. La Procura generale contestava però quest’ultima statuizione, sostenendo l’incongruenza delle motivazioni adottate dalla corte territoriale per giustificare la revoca della misura ablatoria. Irrilevanza della cattiva condotta - Per la confisca non rileva l’attuale offensività della condotta. La Cassazione condivide la tesi dell’accusa e ritiene che revocare il provvedimento ablatorio, sulla scorta della rimozione dell’insediamento, della cessazione dell’offensività della condotta e dell’attuale conformità del territorio alla legge, “non sia giuridicamente corretto”. Ebbene, i giudici di legittimità ricordano innanzitutto che l’estinzione per prescrizione “non è fattore di per sé ostativo all’applicazione della sanzione della confisca”, in base all’articolo 44, comma 2, del Dpr 380/2001 (testo unico). Ciò posto, la confisca in questione ha natura di sanzione amministrativa accessoria e non di misura di sicurezza, la cui adozione, pertanto, si verifica ogni volta il giudice accerti che vi sia stata una lottizzazione abusiva, senza che vi sia la necessità di verifica dell’”attuale perdurante offensività della condotta”. Ad ogni modo, prosegue il Collegio, nel rispetto del diritto di proprietà di cui all’articolo 1 del protocollo n. 1 Cedu, la misura sanzionatoria non dovrà essere applicata indiscriminatamente, “dovendo la sua ampiezza essere, in ogni caso, commisurata, con un criterio di proporzionalità, alle parti del terreno che siano state effettivamente interessate dalla attività lottizzatoria”. Appropriazione indebita se la relazione si interrompe e denaro per nozze non viene restituito di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2019 È configurabile il reato di appropriazione indebita quando un soggetto consegni una somma di denaro con specifica destinazione di scopo ad un altro soggetto, il quale fa dei soldi ricevuti un utilizzo differente e del tutto personale. La violazione della fiducia, infatti, integra una condotta appropriativa sanzionabile penalmente. Questo è quanto si afferma nella sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 2092/2019, relativa alla vicenda che ha coinvolto una coppia di fidanzati. Il caso - Al centro di una particolare vicenda c’è un uomo, promesso sposo di una donna dalla quale aveva ricevuto più di 200 mila euro, tra assegni e bonifici, destinati all’organizzazione del proprio matrimonio e ad un investimento presso una banca svizzera. Poco prima delle nozze, i due interrompevano la loro relazione sentimentale, sicché la donna chiedeva al suo ex fidanzato di restituirle tutto il denaro corrisposto. L’uomo, tuttavia, rifiutava nettamente di corrispondere tale somma, ritenendo di non aver assunto in riferimento agli importi ricevuti alcun obbligo di impiego o destinazione a specifiche attività. Per costui, i soldi sarebbero serviti, infatti, a consentire alla coppia un alto tenore di vita e a titolo di retribuzione per le lezioni di tennis da lui stesso impartite alla ex fidanzata. La questione finiva così nelle aule di giustizia, dove l’uomo veniva tratto a giudizio per rispondere dell’accusa di appropriazione indebita. La decisione - Dopo la condanna in primo grado, l’imputato si difendeva in appello sottolineando il suo compito all’interno della coppia di provvedere ad una “migliore gestione patrimoniale” delle risorse, essendo del tutto vaghi i riferimenti alla celebrazione delle nozze e all’investimento bancario, invocati dalla sua ex. Anche la Corte d’appello, tuttavia, ritiene che sussistano tutti gli elementi che integrano il delitto ex articolo 646 cod. pen. Ebbene, spiegano i giudici, una volta riscontrata la “fondatezza delle dichiarazioni della persona offesa circa la destinazione del denaro, che doveva essere impiegato nell’organizzazione del matrimonio e ai fini dell’investimento”, risulta evidente che l’uomo ha disposto del denaro “in modo autonomo, al di fuori della sfera di vigilanza della proprietaria”, dimostrando altresì “coscienza e la volontà di appropriarsi definitivamente delle somme”, sapendo di agire senza averne diritto. In sostanza, evidenzia il Collegio, ciò che determina la responsabilità penale è proprio la “violazione della fiducia riposta dalla vittima nei confronti del compagno”. Tolmezzo (Ud). Palma: “Il racconto fatto dalla direttrice del carcere è riduttivo e omissivo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2019 Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, critica il comportamento della dirigente sul caso dell’uso degli idranti. Dopo la ricostruzione dei fatti di Tolmezzo, pubblicati su Il Dubbio il 28 maggio scorso, la direttrice aveva replicato con una lettera su gnewsonline.it, il quotidiano del ministero della Giustizia, smentendo in qualche modo la ricostruzione. Ma ora è il Garante nazionale delle persone private della libertà a rendere pubblico, tramite il suo rapporto, la sua posizione. Innanzitutto sottolinea che la direttrice ha rivelato in una lettera aperta al giornale on line, di conseguenza, a un pubblico illimitato, il nome della persona detenuta interessata ai fatti, con corredo di particolari sui reati per cui è in carcere e sul regime detentivo a cui è sottoposta. Il Garante, stigmatizza tale iniziativa, perché “si tratta - si legge nel rapporto relativo alla visita effettuata al carcere di Tolmezzo - di propalazioni che, per un verso, integrano la violazione del diritto alla riservatezza che le persone private della libertà non perdono a ragione dello stato di detenzione e, per altro verso, possono anche minare ragioni di sicurezza o di indagine connesse alla tipologia di reati attribuiti a S.H. (inziali del detenuto colpito dal getto d’acqua degli idranti, ndr)”. Sempre nella stessa lettera, la direttrice ha dichiarato che l’uso degli idranti è un “mezzo ordinario” di contenimento nell’Istituto di Tolmezzo e, ancor più, che nel caso specifico, vi sarebbe stato fatto ricorso “ottenute le necessarie autorizzazioni”. Per questo motivo, il Garante nazionale raccomanda alle Autorità responsabili, a livello centrale e locale, di inviare con sollecitudine specifici ed esaustivi chiarimenti in ordine a: quali Autorità all’interno degli Istituti e in particolare della Casa circondariale di Tolmezzo sono legittimate a rendere autorizzazione all’uso di idranti a scopo di contenimento; quale Autorità abbia effettivamente rilasciato la “necessaria autorizzazione” nel caso di specie; da quale annotazione nei registri dell’Istituto risulti detta autorizzazione e se esistono norme regolamentari o ordini di servizio che prevedano il ricorso agli idranti per azioni di contenimento e nel caso si chiede di renderne documentazione. Ma non finisce qui. Il Garante fa notare che, nonostante la direttrice abbia visionato il video del sistema di sorveglianza insieme alla delegazione, “ne ha fornito, nella sua dichiarazione giornalistica, una rappresentazione diversa e riduttiva (nei tempi, nelle modalità dell’azione, compresa l’apposizione di una coperta a chiusura della porta per ridurre al minimo il defluire dell’acqua dall’interno, negli effetti di tutta l’azione), rispetto a quanto constatato da tutti i presenti”. Inoltre il Garante ha aggiunto che la direttrice “ha omesso, per altro verso, di rendere pubblica informazione del fatto che la mattina di martedì 21 maggio, a quasi due giorni di distanza dall’accaduto, la stanza di S. H. aveva ancora il pavimento bagnato, con visibili pozze d’acqua negli angoli e nel bagno, che era ancora bagnata ogni altra suppellettile, che il materasso era appoggiato al muro e carico di acqua, come il cuscino, che i suoi vestiti, le scarpe, i libri e tutti gli oggetti erano impregnati di acqua”. Tutti elementi, questi, di cui la delegazione in visita ha preso direttamente atto e ha portato innanzitutto alla conoscenza della stesa direttrice. Oltre a ciò il Garante ha rilevato come il tenore giustificatorio della ricostruzione pubblica dei fatti “appaia in contraddizione con l’iniziativa giudiziaria che la direttrice ha dichiarato aver assunto, oltretutto nei confronti del personale che, come lei stessa afferma, è stato autorizzato a mettere in atto tali comportamenti”. Il Garante, nel contempo, auspica quindi che l’Amministrazione penitenziaria avvii una indagine interna per fare chiarezza su quanto accaduto, su eventuali responsabilità, a ogni livello. “La violenza si fonda su una cultura diffusa che va combattuta con ogni mezzo, anche attraverso segnali inequivocabili che comportamenti in tale senso non sono accettabili e comportano conseguenze sul piano disciplinare”, conclude. Roma. Ponte Galeria: spazi inagibili, 28 migranti lasciano il Cpr di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2019 La decisione della prefetta dopo il colloquio con il garante. Chiusi quattro settori del centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria e liberati 28 migranti in seguito all’incontro che il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha avuto con la prefetta Gerarda Pantaleone. Sono quindi ventotto, su ottantacinque trattenuti nel settore maschile del Cpr di Ponte Galeria, le persone che sono stati liberate dopo le denunce delle pesanti condizioni che vivono i migranti all’interno. Il Garante nazionale si è attivato su indicazione della clinica legale dell’immigrazione dell’università Roma Tre e a seguito dei sopralluoghi del garante regionale Stefano Anastasìa e dei consiglieri regionali Marta Bonafoni (lista Civica Zingaretti) e Alessandro Capriccioli (+Europa). In questi giorni la Clinica Legale è stata in contatto costante con alcuni dei trattenuti che, dal 19 settembre, sono stati costretti a dormire all’addiaccio negli spazi esterni del Cpr, dopo che la notizia di un rimpatrio verso la Nigeria, paese di cui sono note le problematiche condizioni di vita e le lacune del sistema di giustizia, ha scatenato una rivolta. In seguito all’ingresso del delegato del Garante, si sono potute documentare le situazioni all’interno. Le condizioni di vita sono risultate allo stremo. Dormivano su pochi materassi gettati in terra: bagni, spazi comuni e camerate nelle sezioni coinvolte sono inutilizzabili. Tutto è buio e coperto di fuliggine, l’aria all’interno risultava irrespirabile e i pochi oggetti che accompagnano la vita quotidiana in questo luogo di sospensione delle vite dei reclusi erano sparsi per i cortili. I migranti trattenuti si lamentano in particolare modo della mancanza di cure mediche adeguate vista che da un anno non era più operativo il protocollo con l’Asl che consentiva cure e controlli più celeri. Da ricordare che nel corso dei disordini che si sono verificati venerdì scorso nel Cpr di Ponte Galeria di Roma, il Garante nazionale è stato costantemente in contatto con la Prefettura della Capitale sull’evolversi degli eventi. Per questo motivo, il giorno dopo, il Garante ha inviato un proprio delegato a verificare direttamente la situazione. I danni risultavano importanti: due settori completamente danneggiati e resi inutilizzabili dalle fiamme appiccate da alcuni ospiti, mentre in altri tre settori sono inagibili solo le aree destinate alla socialità. I posti letto compromessi sono in tutto fra i 16 e i 20. I vigili del fuoco hanno dichiarato agibili i restanti ambienti del Centro. Per tale motivo, alcuni ospiti sono stati spostati: in parte sono stati alloggiati in altri settori del Cpr laddove vi erano posti disponibili, mentre altri sono stati trasferiti nel Cpr di Palazzo San Gervasio in Basilicata. A causa del forte odore di bruciato, che persisteva, alcuni dei migranti trattenuti nel Centro hanno trascorso la notte all’aperto. In quella stessa mattinata, il Garante nazionale ha congiuntamente monitorato un’operazione di rimpatrio forzato verso la Nigeria, già da tempo in programma, che partiva proprio dal Cpr di Roma. Tale operazione, realizzata con un volo charter, era stata proprio all’origine dei disordini, con un’aggressione a un operatore e l’incendio che ha danneggiato il Centro. Infine, come detto, dopo l’incontro tra la prefetta e il Garante, è stato svuotato un settore del Cpr che inizialmente era stato considerato agibile. Nel frattempo, nella giornata di ieri, su sollecitazione del garante regionale Anastasìa è stato rinnovato il protocollo d’intesa tra la Asl competente e la Prefettura, per la riattivazione dei servizi sanitari pubblici nel Centro. “Resta attivo - fa sapere però Anastasìa - tra le cause della protesta, l’ingiustificato divieto di uso dei telefoni personali, con le conseguenti difficoltà di comunicazione con l’esterno delle persone trattenute che speriamo la prefettura voglia finalmente superare”. Ascoli. Festa al carcere di Marino per l’anniversario della Polizia penitenziaria di Valeria Eufemia Il Resto del Carlino, 26 settembre 2019 “Grave carenza di personale”, la direttrice Eleonora Consoli coglie l’occasione per far presente il problema. “Un altro anno si aggiunge al glorioso e nobile passato della nostra storia”, con queste parole il comandante di reparto, commissario coordinatore Pio Mancini, ha aperto la cerimonia del 202esimo anniversario dalla fondazione del Corpo di polizia penitenziaria che si è tenuta questa mattina alla Casa Circondariale di Marino del Tronto. Alla presenza delle più alte autorità civili e militari della provincia - tra i quali il prefetto Rita Stentella, il questore Luigi De Angelis, il vescovo Monsignor Giovanni D’Ercole, il vice sindaco Giovanni Silvestri, e i comandanti e rappresentanti delle forze dell’ordine - il comandate ha espresso sincera gratitudine nei confronti di tutti gli agenti. “Quest’anno pagine esaltanti di silenziosa dedizione e professionalità - ha detto - hanno visto la polizia penitenziaria di Ascoli Piceno impegnata con consolidata esperienza operativa nell’attività istituzionale. Celebriamo oggi l’annuale del Corpo, coscienti dell’importante lavoro svolto al servizio della collettività e pronti a continuare ad offrire entusiasmo, professionalità ed efficienza, con sempre maggiore senso del dovere e grande umanità. La polizia penitenziaria è consapevole delle sue potenzialità e del compito istituzionale affidatogli che è più di ogni altro complesso, insidioso, rischioso, ricco di problemi e di asperità, anche se il più delle volte, purtroppo, non è riconosciuto”. Il comandante ha poi voluto ricordare tutti i caduti della polizia “i quali non hanno esitato a sacrificare con silenzioso eroismo la loro vita, difendendo dagli attacchi della criminalità organizzata e dal terrorismo i più alti principi di giustizia”. Sulmona (Aq). Detenuti volontari per la città, in arrivo la convenzione di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 26 settembre 2019 Una convenzione fra il Comune di Sulmona e la Direzione del carcere di via Lamaccio per il volontariato attivo dei detenuti a beneficio della città. È quanto ha annunciato il sindaco, Annamaria Casini, nel corso della cerimonia del 202esimo anniversario della fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria che si è svolta nella struttura carceraria alla presenza del Direttore, Sergio Romice, del Comandante di reparto della Scuola di Polizia Penitenziaria Sarah Brunetti, del rappresentante della Prefettura dell’Aquila e delle altre cariche dello stato. Una festa che guarda al futuro, all’ampliamento della struttura carceraria, che sarà portato a compimento per la primavera del 2020 con il nuovo padiglione che potrebbe entrare in funzione per dicembre 2020. Ma le difficoltà sono concrete e dietro l’angolo. “Il carcere di Sulmona”- come ha rilevato il Segretario Confederale Uil Mauro Nardella- “proprio per la carente presenza di baschi blu che dalle 310 unità del 2010 si ritrova ad operare con poco più di 250 persone e per di più in un contesto che, contrariamente a dieci anni fa, conta al suo interno 420 detenuti tutti di elevata caratura criminale, si ritrova a vivere in sofferenza il lavoro dei suoi uomini”. “È una situazione che andrebbe constatata. Mi auguro che nei posti giusti e nei tavoli giusti ci sia questa possibilità per ottenere i giusti rinforzi”- ha esordito il Direttore Romice che auspica un carcere sempre più collegato con le realtà sociali del territorio, alla luce dell’ampliamento della struttura. Nasce proprio per perseguire questo obiettivo il progetto “Mi riscatto per Sulmona” che vedrà i detenuti impegnati come volontari in lavori socialmente utili come accadde nell’era Federico quando alcuni reclusi coadiuvarono il Comune nelle operazioni di sgombero della neve in piazza Capograssi. “Con questa convenzione l’apporto delle nostre risorse si struttura meglio”- ha concluso Romice mentre il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, ha ribadito che la convenzione che sarà sottoscritta a breve mira ad agevolare “sia la rieducazione del detenuto ma anche la società stessa che ospita l’istituto e quindi anche queste persone”. La Casini ha ricordato che la presenza del carcere di massima sicurezza è fondamentale anche per la battaglia tesa a salvaguardare il Palazzo di Giustizia. Padova. Imbianchini-detenuti premiati al liceo Fermi Il Gazzettino, 26 settembre 2019 Si sono commossi Salvo e Nic i due detenuti che hanno trascorso l’estate tinteggiando aule e laboratori del liceo scientifico Fermi, durante la cerimonia per la fine dei lavori di ieri. “Sono felice di questa esperienza, ho dei figli della vostra età e anche loro vanno a scuola - ha detto Salvo - quanto ho fatto mi ha riempito di gioia e soddisfazione. Grazie a tutti coloro che si sono impegnati per darci questa grande opportunità di riscatto con la società”. “Siamo arrivati nella scuola un po’ spaesati, ma abbiamo iniziato subito a lavorare - ha aggiunto emozionato Nic - più che un lavoro per noi è stato un divertimento, lavorando fuori dal carcere le giornate passavano più velocemente e abbiamo ottenuto il risultato”. Ai due imbianchini è stato quindi consegnato dai rappresentanti di classe, un attestato per il lavoro svolto. Il progetto di lavoro socialmente utile per i detenuti è stato creato dalla Onlus Ocv (Operatori Carcerari Volontari), finanziato dalla Fondazione Cariparo in collaborazione con la Casa di Reclusione. Si tratta del secondo anno di vita dell’iniziativa, l’estate del 2018 ha visto i detenuti tinteggiare l’istituto Belzoni. “I nostri 970 studenti al rientro hanno trovato un liceo più pulito e luminoso - ha detto la dirigente Alberta Angelini - grazie a tutti quelli che hanno contribuito”. Presenti il presidente della Provincia, proprietaria dello stabile del Fermi, Fabio Bui e il consigliere delegato Luigi Bisato. “Ognuno di noi nella vita può avere dei problemi - ha detto Bui - ma questi non cancella la persona che resta al centro e progetti come questo diventano un’opportunità per ricostruire una vita”. “Un progetto importante perché non è simbolico ma pratico - ha aggiunto Bisato - questi signori lavorando tutta l’estate hanno migliorato la scuola”. “La pena deve tendere alla riabilitazione - ha sottolineato il direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo - il lavoro all’esterno è un’offerta aggiuntiva al lavoro interno, dal forte valore perché unisce il carcere alla società e auspico che il progetto si ripeta”. Saluzzo e Matera “con lo sguardo di dentro” per scoprire la realtà del carcere di Vilma Brignone targatocn.it, 26 settembre 2019 Da domani fino al 29 settembre Saluzzo con il progetto “Un viaggio la città scopre il carcere” è sede della rassegna che ha come obiettivo il diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità. Nel programma la prima dello spettacolo teatrale “Scusate il disturbo” nel carcere Morandi, seminari formativi, il convegno “il valore della scuola in carcere”, una mostra alla Croce Nera e visita guidata al museo della Memoria carceraria. Un singolare “matrimonio” tra Matera 2019 e Saluzzo è quanto si concretizza nella capitale del Marchesato da domani giovedì 26 al 29 settembre prossimo. La città è infatti una delle sedi della rassegna “Con lo Sguardo Dentro, Matera 2019 capitale europea della cultura. Diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità” grazie alla presenza di una “scuola ristretta” nel penitenziario Morandi: il corso carcerario dell’ Istituto Soleri Bertoni. Legato a questo è nato il progetto “Un viaggio: la città scopre il carcere” (che ha come punto nodale il convegno “Il valore della scuola in carcere” venerdì 27 settembre) ed frutto della collaborazione tra il Soleri-Bertoni, le Associazioni Voci Erranti Onlus, Liberi Dentro Odv e Cascina Macondo Aps e la Casa di reclusione “Rodolfo Morandi”, con il patrocinio del Comune. Obiettivi dell’iniziativa, che presenta un programma fatto di teatro, seminari, convegno, mostre, film e una visita guidata al museo della Memoria carceraria in Castiglia, sono garantire il diritto dei detenuti a partecipare alla vita culturale della comunità e far conoscere ai cittadini le attività formative realizzate nell’ambiente carcerario. Info 0175 46662. Il programma Giovedì 26 settembre ore 17 Carcere Rodolfo Morandi, Sala Polivalente “Prima” cittadina dello spettacolo “Scusate l’attesa” Il teatro dei ristretti incontra la città (26-29 settembre 2019) 27 Settembre Ore 10.30-12.30 Casa di Reclusione Rodolfo Morandi, Sala Polivalente Seminario di formazione “Cittadinanza e Inclusione” per studenti del territorio e studenti ristretti. Ore 14.30-17.30 La Castiglia, Sala Rovasenda Seminario di aggiornamento/formazione “Il valore della scuola in carcere” aperto ai docenti e ai cittadini del territorio. Ore 17.45 Confraternita della Misericordia-Croce Nera Inaugurazione di Opere Libere mostra dei laboratori artistici della scuola in carcere con interventi musicali del Coro della scuola cittadina. 28 Settembre Ore 9.30-12.30 Multisala Italia Proiezione del film La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi incontro di Educazione alla legalità proposto agli studenti della città. 29 Settembre Ore 15-17 La Castiglia Visita guidata al Museo della memoria carceraria. Perugia. La mostra Fotografica “Scatti in Libertà” di Luca Verdolini lavoce.it, 26 settembre 2019 Si inaugurerà il prossimo 3 ottobre, presso il “Centro Servizi Camerali Galeazzo Alessi”, la mostra fotografica “Scatti in Libertà”, patrocinata dal Comune di Perugia, che resterà aperta fino a domenica 6. L’esposizione propone 25 scatti d’autore realizzati sia durante le lezioni del corso per “Addetto alla cucina”, svolte dai rinomati chef “Moschettieri del Gusto” Catia Ciofo, Andrea Mastriforti, Antonella Pagoni e Cristiano Venturi, sia in occasione della cena di gala “Golose Evasioni”, giunta alla sua quinta edizione. Eventi promossi e gestiti dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia. Si tratta di un’esperienza raccontata con bravura e delicatezza da quattro straordinari fotografi, Martina Mencarelli, Luca Michetti, Rita Paltracca e Matteo Vicarelli. Il loro reportage coglie i diversi aspetti “degli attori” di un istituto di pena: insieme ai detenuti, che sono comunque, il soggetto predominante, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori e i volontari. Il percorso fotografico descrive le numerose iniziative che tali soggetti hanno posto in essere per riempire di contenuto il transito verso il pieno reinserimento nella società. Un passaggio che non è un privilegio, ma al contrario una doppia fatica: quella di condividere con gli altri, nel reciproco rispetto, luoghi, spazi, regole, insieme a quella di fare i conti con il proprio passato e con la possibilità di un cambiamento. Per arrivare a crederci. Fino in fondo. La fotografia riesce così a rendere percepibile, al di là della retorica e del pregiudizio, qualcosa di intangibile, stimolando uno sguardo diverso su uno spaccato di realtà tanto complesso da decifrare per chi non vi è mai entrato in contatto. Nella splendida cornice dell’ex Borsa Merci nel cuore storico della città, si apre, quindi, per il visitatore un mondo apparentemente lontano che l’esperienza della mostra “Scatti in Libertà” può contribuire a rendere più vicino. I quattro fotografi hanno frequentato la struttura penitenziaria, hanno conosciuto i detenuti, si sono confrontati con loro e li hanno fotografati, immortalandone la volontà e la speranza di un passaggio verso una vita migliore per sé e per la società che saprà accoglierli. “Ci siamo avvicinati con grande discrezione al mondo penitenziario, dichiarano i quattro fotografi, e abbiamo lentamente maturato il desiderio di realizzare un percorso fotografico che raccontasse quello che avviene dentro. Ci hanno colpito molto questi percorsi in transito, verso una nuova vita. Ragazzi disposti a metterci la faccia. A ripartire dai propri errori. Siamo rimasti colpiti molto dalla disponibilità di questi allievi speciali. In un tempo in cui la gente si fotografa per spirito puramente edonistico, loro hanno accettato di comunicare la loro vita in transito, cogliendo in questo un sincero amore per il lavoro che viene fatto all’interno del laboratorio di cucina del carcere perugino”. Guardando le foto esposte nella mostra si avverte la serenità dei semplici momenti di vita quotidiana, si respirano la sofferenza, la speranza di chi è costretto a vivere in quella dimensione, il rispetto di chi prova a rinascere e a riscattarsi. “Scatti in Libertà” è un’occasione per conoscere il carcere, capirlo, guardarlo con occhi diversi, lontano da pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. Le porte del carcere si aprono. La speranza viaggia sulle immagini. Lanciano (Ch). I detenuti mettono in scena “L’avaro” di Moliere per beneficenza chietitoday.it, 26 settembre 2019 Venerdì 27 settembre, alle ore 16, i cancelli del carcere di Lanciano si apriranno per accogliere la comunità esterna. Infatti, esperite tutte le necessarie procedure autorizzative, ospiti esterni potranno partecipare a un evento a carattere culturale ed artistico, ma soprattutto di grande spessore umano e per finalità di solidarietà sociale. All’interno del teatro del carcere “Il Piccolo Fenaroli”, la compagnia teatrale di detenuti “Il Ponte per la Libertà”, condotta dal produttore e regista Carmine Marino, interpreterà “L’Avaro” di Moliere nella libera rivisitazione di Carmine Marino. I detenuti hanno scelto e voluto far dono del loro lavoro artistico alla comunità esterna ed all’associazione “Alliance for stroke unit”, che col suo presidente Gabriele Lombardozzi, dirigente medico della omonima unità ospedaliera di Pescara, si pone al servizio del reparto e della cittadinanza tutta. Gli ospiti esterni hanno scelto di versare un libero contributo e l’intero generoso incasso verrà devoluto dal carcere all’associazione per l’acquisto di strumentazione utile alla cura dell’ictus cerebrale. Lombardizzi, da parte sua, farà precedere alla rappresentazione un suo intervento formativo sul tema dell’ictus, della sua notevole diffusione, della prevenzione e cura, con un approccio incentrato sulla centralità della persona e della sua dignità in ogni fase e tempo della sua esistenza. Ascoli Piceno. “Ora d’aria”, la poesia incontra il carcere cronachepicene.it, 26 settembre 2019 Il garante dei diritti della persona della Regione Marche Andrea Nobili sarà in città il 27 settembre per un incontro con lo scrittore Franco Arminio, previsto nell’ambito del progetto “Ora d’aria” che riguarda le attività trattamentali della Casa circondariale di Marino del Tronto. Il progetto prevede alcuni laboratori e la partecipazione diretta di importanti poeti italiani. Nella stessa giornata Arminio si confronterà con i detenuti anche nella casa di reclusione di Fermo. “Sarà una nuova occasione per monitorare ulteriormente la situazione e per confermare l’importanza delle attività trattamentali che hanno l’obiettivo di dare una nuova dimensione alla permanenza in carcere” spiega Nobili. Il quale coglie l’occasione per esprimere vicinanza agli agenti di polizia penitenziaria. “Abbiamo evidenziato più volte le numerose difficoltà che incontrano nell’espletare il loro lavoro, rappresentandole nella loro complessità alle autorità competenti per un sollecito intervento. Anche sul versante penitenziario le Marche hanno la necessità di una maggiore attenzione e di una diversa progettualità”. “Nell’ambito di una visione a tutto campo del nostro sistema penitenziario - conclude - non possono essere più trascurate le questioni legate alle carenze di organico; alla complessità delle mansioni che riguardano sicurezza, trattamento e percorso di reinserimento dei detenuti; alla mancanza di operatori ed educatori, nonché di adeguate e costanti attività trattamentali. È l’intera organizzazione che va rivista”. Diritto all’oblio, per Google una vittoria di Pirro di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 26 settembre 2019 Il diritto all’oblio, cioè la cancellazione ogni cinque anni dei dati raccolti su un singolo utente, era stato voluto inizialmente dalla Spagna e poi accolto dall’intera Ue, grazie all’attivismo dei movimenti sociali e al paziente, sensibile e accorto lavoro di tessitura di studiosi e giuristi, tra i quali va ricordato Stefano Rodotà. È stata considerata una vittoria di Google, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha accolto il ricorso della società americana contro la multa inflitta da un tribunale francese per non avere applicato la normativa del diritto all’oblio su dati di utenti memorizzati nei server del motore di ricerca al di fuori del territorio europeo. Sentenza anacronistica, ha commentato il Garante per la privacy italiano Antonello Soro, in quanto la riservatezza e l’integrità dei dati personali sono un diritto universale che ignora i confini nazionali, o continentali. La vicenda del ricorso di Google apre tuttavia una ulteriore porta su un continente - quello della gestione economica e politica dei dati - diventato una componente centrale, essenziale nel business dentro e fuori la Rete. Le imprese raccolgono informazioni individuali e collettive, le elaborano, le impacchettano, le vendono al miglior offerente, sia che si tratti di società pubblicitarie che altre imprese dei Big Data. Si può chiamare capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza, ma al di là della terminologia la sentenza europea ha quindi un valore politico altissimo. Il diritto all’oblio, cioè la cancellazione ogni cinque anni dei dati raccolti su un singolo utente, era stato voluto inizialmente dalla Spagna e poi accolto dall’intera Ue, grazie all’attivismo dei movimenti sociali e al paziente, sensibile e accorto lavoro di tessitura di studiosi e giuristi, tra i quali va ricordato Stefano Rodotà. Il diritto all’oblio era stato voluto perché appunto la privacy non solo era ed è violata sistematicamente dalle piattaforme digitali, ma proprio perché i dati stavano diventando una merce pregiata per fare profitti. Il motore di ricerca di Larry Page e Sergej Brin è finito sotto accusa più volte. È stato multato per aver violato leggi nazionali e norme europee. Ha dovuto in alcuni paesi del vecchio continente, ma anche in alcuni stati degli Stati uniti, ridimensionare i progetti di accumulo dei propri Big Data. Street View, cioè l’uso di foto e informazioni a scopo promozionale di angoli di città, di paesi, e di paesaggio “postati” dagli utenti, è vietato ad esempio in Germania per violazione della privacy, ritenuta una materia politica e economica “sensibile” proprio perché ibrido di diritto individuale e materia prima economica. Del rischio politico di finire nel tritatutto delle polemiche e degli j’accuse ne sono consapevoli a Mountain View. Non vogliono certo finire come i “cugini” amati-odiati di Facebook, considerati oramai dopo la vicenda di Cambridge Analytica, la bestia nera della violazione della privacy in tutto il mondo. Per questo sono intervenuti con solerzia, mobilitando eserciti di avvocati e puntando moltissimo su questa sentenza. La posta in gioco, infatti, è un modello di business e delle sue prospettive. Gratuità di alcuni servizi in cambio della cessione della proprietà dei propri dati personali: è questo il canone dominante, che ha reso Google uno dei Big Five della Rete. Ma quello che preme ora agli strateghi di Mountain View è il futuro, cioè machine learning, predittività, intelligenza artificiale, sistemi esperti nella gestione dei Big Data cioè quell’evoluzione del proprio modello di business a portata di click che fa sì che l’insieme della infrastruttura tecnologica e del software sia piegata non solo a prevedere i comportamenti futuri degli utenti, ma a plasmarli, modificarli, condizionarli a proprio piacimento all’interno di un dispositivo di soft power. In altri termini, acquisterai una certa merce, aprirai un certo sito internet con la sensazione di aver agito in libertà e con il proprio libero arbitrio, mentre le strategie di “accompagnamento” alla scelta sono state una costante sia quando si è connessi o si è logout dalla Rete. È questo futuro che Google vuol affermare. C’è però la possibilità che la vittoria di Google si risolva in una vittoria di Pirro. Il motore di ricerca ha fatto leva su un tronfio sovranismo digitale tornato in auge dopo la grande sbronza globalista dei decenni passati. In punta di diritto la Corte di giustizia europea ha ragione quando afferma che ciò che è fuori dall’Unione europea non è sottoposto alle leggi continentali. Ma è difficile tracciare confini per affari che prosperano solo senza frontiere. La privacy è certo un diritto individuale ma funziona solo su base universale. E globale. Lo stesso vale per i Big Data. Così Google può aver vinto una battaglia, ma rischia di perdere la guerra globale del capitalismo della sorveglianza per aver rinunciato a dare un contentino alla vecchia Europa. Migranti. Sbarchi, ong e Libia, in bilico l’accordo di Malta di Carlo Lania Il Manifesto, 26 settembre 2019 “La Francia non può accogliere tutti se non può accogliere bene”. Lunedì prossimo l’Assemblea nazionale francese discuterà il nuovo piano del governo sull’Immigrazione e da New York, dove si trova per l’assemblea dell’Onu, Emmanuele Macron anticipa la linea scelta dal governo. Ma le parole del presidente francese si allungano inevitabilmente anche sulla bozza di accordo per il ricollocamento dei migranti siglata alla Valletta tra i ministri dell’Interno di Malta, Italia Francia e Germania, e finiscono con alimentare le perplessità che, a poco più di 48 ore dalla firma, già sono state espresse da più parti sulla reale fattibilità degli impegni presi. Sarà il vertice dei ministri dell’Interno dell’Ue, fissato per il 7 e 8 ottobre a Lussemburgo, a sciogliere gli ultimi dubbi. Nel frattempo a Bruxelles più di una fonte diplomatica mette in fila tutte le difficoltà presenti nel documento di 5 pagine e 15 articoli siglato sull’isola Stato. A partire proprio dal fatto che tutto il meccanismo di distribuzione dei migranti tratti in salvo nel Mediterraneo si basa sulla volontarietà dei Paesi che decideranno di aderire, volontarietà che però può interrompersi in qualsiasi momento se il flusso degli arrivi dovesse aumentare in maniera decisiva o se le vicende interne di uno Stato - vedi elezioni - dovessero suggerire di farlo. Altro punto sul quale è facile ipotizzare uno scontro tra i 28 riguarda l’obbligo per uno Stato di far sbarcare i migranti salvati da una propria nave militare. Condizione che sembra pensata apposta in vista di un possibile ritorno all’impiego delle navi da parte della missione europea Sophia, sospeso alla fine dello scorso anno per il rifiuto del governo gialloverde di far arrivare nei porti italiani tutti i naufraghi soccorsi da EuNavFor Med. Dopo mesi passati a litigare su dove far sbarcare i naufraghi, non è scontato che adesso i 28 possano trovarsi improvvisamente d’accordo. Le parole pronunciate a New York da Macron fanno poi dubitare della reale volontà di Parigi di prendere tutti i migranti che, dopo essere stati salvati da una nave militare, di una ong o da un mercantile, faranno richiesta di asilo, come invece ipotizzato a Malta. Ma l’ostacolo principale potrebbe riguardare la decisione di intervenire solo in aiuto di Italia e Malta privilegiando la rotta del Mediterraneo centrale. Scelta che non è piaciuta a Spagna e Grecia che, al contrario di quanto successo da noi, hanno visto aumentare il numero degli sbarchi: secondo uno studio dell’Ispi, dei 67 mila migranti irregolari arrivati in Europa nell’ultimo anno solo il 13% è sbarcato in Italia, contro il 57% della Grecia e il 29% della Spagna (dove tra un mese e mezzo si vota). A Bruxelles fanno inoltre notare come aver scelto di intervenire solo sulla Mediterraneo centrale rischia di frammentare ulteriormente il sistema di gestione degli arrivi dei migranti n Europa. Vista dall’altra parte della barricata, dalla parte cioè di chi salva i migranti, nel documento sono stati inseriti una serie di paletti per le ong. Le quali dovranno impegnarsi a “rispettare le istruzioni impartite dal competente Centro di coordinamento di salvataggio, non spegnere i transponder di bordo, il sistema di informazione automatizzato (Ais) per non inviare segnali luminosi o qualsiasi altra forma di comunicazione” che possa “agevolare la partenza” dei barconi. Ma anche a “non ostacolare le operazioni di ricerca e salvataggio da parte delle navi ufficiali della Guardia costiera, compresa la Guardia costiera libica”. Impegni che per l’avvocato Alessandro Gamberini, difensore di molte ong, non rappresentano un problema: “Tutti i controlli vanno bene, perché non faranno altro che confermare la regolarità del lavoro svolto dalle ong”, spiega il legale. Per il quale il problema vero è un altro: “Riproporre un ruolo alla Guardia costiera libica, perché tutti sanno che è fortemente inquinata da milizie in combutta con i trafficanti e perché riporta i migranti nei centri di detenzione”. Migranti. Se aumentano i flussi, l’accordo di spartizione sarà sospeso Corriere della Sera, 26 settembre 2019 Hanno già aderito Italia, Malta, Francia, Germania e Finlandia e la clausola inserita rischia di penalizzare il nostro Paese. L’accordo sulla distribuzione dei migranti potrà essere sospeso se i flussi migratori dovessero aumentare in maniera considerevole. È una delle clausole inserite nel documento sottoscritto a Malta che potrebbe trasformarsi in una penalizzazione per l’Italia. Nella bozza si specifica che l’eventuale stop dovrà essere discusso dagli Stati che hanno firmato l’accordo, ma rimane comunque un punto controverso. Testualmente nell’intesa è scritto: “Il meccanismo per il ricollocamento dei richiedenti asilo sarà valido per almeno sei mesi, e potrà essere rinnovato”, ma nel frattempo occorrerà “andare avanti sulla riforma del Sistema comune d’asilo, sulla base di un’iniziativa della Commissione”. Se “nei sei mesi il numero dei ricollocati dovesse aumentare in modo sostanziale, gli Stati che partecipano si riuniranno per consultazioni. Durante le consultazioni il meccanismo potrà essere sospeso”. Oltre all’Italia hanno già aderito all’accordo Malta, Germania, Francia e Finlandia. La Commissione europea avrebbe però già ricevuto rassicurazioni sulla partecipazione di Portogallo, Belgio, Irlanda e Lussemburgo. Nel testo di cinque pagine si sottolinea che “ogni Stato membro può sempre offrire un posto alternativo di sicurezza su base volontaria. Nel caso di uno sproporzionato aumento della pressione migratoria in uno degli Stati partecipanti, calcolato in relazione ai limiti delle capacità di accoglienza, o ad un alto numero di richieste per la protezione internazionale, un posto di sicurezza alternativo sarà proposto su base volontaria”. E ancora: “I Paesi che aderiscono all’accordo “si impegnano a rafforzare le capacità dei Guardacoste dei Paesi Terzi del Mediterraneo meridionale, incoraggiando Unhcr e Iom a sostenere modalità di sbarco in quei Paesi”. C’è poi la parte dedicata alle Ong: “Occorre assicurare che questo meccanismo temporaneo per la ripartizione dei richiedenti asilo non apra nuove strade irregolari verso le coste europee ed eviti la creazione di nuovi fattori di attrazione”. E dunque “tutte le navi devono essere registrate secondo la legge nazionale dello Stato di bandiera. Dove possibile, le imbarcazioni per il salvataggio saranno registrate come tali. L’amministrazione dello stato di bandiera assicurerà che tali imbarcazioni siano qualificate in modo adeguato ed equipaggiate per condurre tali operazioni”. Ieri è stata decisa la ripartizione dei 182 migranti sbarcati dalla Ocean Viking: a Francia e Germania andranno 50 ciascuno, 20 al Portogallo, 2 all’Irlanda, 2 al Lussemburgo, i restanti 58 saranno presi in carico dalle strutture della Cei. Libia. Serraj all’Onu: “Haftar criminale assetato di sangue” di Alberto Custodero La Repubblica, 26 settembre 2019 Poi denuncia “interferenze” di Francia, Emirati, Egitto. L’intervento del leader di Tripoli alle Nazioni Unite: è la prima volta che attacca apertamente i tre Paesi. Il premier del governo libico di unità nazionale (Gna), Fayez al-Serraj, ha denunciato alle Nazioni Unite “l’interferenza” di Paesi stranieri in Libia e ha definito il suo avversario Khalifa Haftar un “criminale assetato di sangue”. “È deplorevole che altri Paesi continuino a interferire” in Libia, ha detto Serraj all’Assemblea generale, citando Emirati Arabi Uniti, Francia ed Egitto. Appena quattro giorni fa il comando generale del sedicente esercito nazionale libico (Lna), guidato da Haftar, aveva dichiarato “che tutte le sue forze di terra, navali e aeree stanno partecipando a un grande attacco contro le milizie nei pressi di Tripoli”. Il giorno prima intensi combattimenti erano scoppiati anche a sud di Tripoli, con le forze fedeli al maresciallo Haftar che hanno lanciato una nuova offensiva verso la Capitale - con la copertura di bombardamenti aerei - denominata Martire Mohsen al Kani. La crisi libica è al centro dei pensieri del premier italiano Giuseppe Conte. Nel suo discorso di ieri notte alle Nazioni Unite il presidente del Consiglio aveva manifestato tutta la sua preoccupazione per una escalation militare che sta destabilizzando la Regione ogni giorno di più. “È arrivato il momento della pacificazione - aveva affermato il premier - e tutti dobbiamo agire a sostegno dell’azione delle Nazioni Unite. Il primo passo indietro è un cessate il fuoco credibile”. Tutti gli Stati membri delle Nazioni Uniti devono rispettare l’embargo delle armi, prevenendo un’escalation dei conflitti in Libia”, aveva poi ammonito, cercando l’appoggio del presidente Usa Donald Trump per il raggiungimento dei due obiettivi, il cessate il fuoco e l’embargo della fornitura di armamenti. Messico. Cinque anni fa la sparizione degli studenti di Ayotzinapa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 settembre 2019 Sono passati cinque anni dalla sparizione forzata, in Messico, dei 43 studenti dell’istituto magistrale di Ayotzinapa: 43 di oltre 40.000 scomparsi nel paese centroamericano di cui non si hanno più notizie. Dopo quattro anni trascorsi tra coperture, insabbiamenti, arresti basati su prove raccolte illegalmente (tanto che alcuni di loro sono stati rilasciati), il nuovo governo del presidente López Obrador ha preso qualche impegno. Nei primi 10 mesi in carica, il governo ha creato una commissione speciale e un’unità speciale all’interno della procura generale. Inoltre, il sottosegretario per i Diritti umani ha annunciato che il Messico accetterà la competenza del Comitato sulle sparizioni forzate delle Nazioni Unite che potrà dunque esaminare casi di sparizione nel paese. Inoltre, in un recente incontro coi familiari dei 43 studenti scomparsi, il presidente Obrador e il suo governo si sono impegnati a chiedere a tutte le istituzioni di collaborare alle indagini e ad avere incontri regolari di aggiornamento tanto con le famiglie quanto con l’ufficio della procura generale. Naturalmente, non basta e non tutto ciò che è stato fatto è stato di segno positivo. Le indagini continuano a mancare di trasparenza e l’attività degli organismi di nuova istituzione non ha ancora prodotto risultati. Due cose sono certe. La prima è che cinque anni dopo la sparizione forzata dei 43 studenti di Ayotzinapa, le autorità messicane sono ancora in enorme debito con le vittime, le loro famiglie e la società nel suo complesso. La seconda è che non vi sarà giustizia fino quando coloro che hanno ostacolato la ricerca della verità non saranno indagati. Queste persone sono responsabili del fatto che la sorte degli studenti non sia tuttora chiarita. In occasione di questo triste anniversario, le organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno ribadito che resteranno al fianco delle famiglie degli scomparsi fino a quando non si arriverà alla verità e alla giustizia.