Una vita in sei metri quadrati, lettera sul carcere di Roberto Palomba La Repubblica, 25 settembre 2019 Un noto architetto, giurato di un concorso per la progettazione degli spazi interni dei penitenziari, si interroga sul valore del design per la qualità della vita, soprattutto dove è spesso quotidianamente negata. Come rendere umano, quanto più umano possibile, lo spazio di una cella carceraria? Come restituire a un luogo di pochi metri quadrati la qualità riconoscibile di spazio della vita umana, di luogo dell’intimità? Queste sono state le sfide concettuali e tecniche che si è posto il contest “Six Square Meters”, dove ho fatto parte della giuria, un concorso internazionale per la progettazione di arredi d’interni destinati agli spazi vissuti quotidianamente dalle detenute e dai detenuti dei penitenziari. Il concorso è nato con un duplice obiettivo: selezionare i progetti più adatti a migliorare la qualità della vita dei detenuti e degli spazi detentivi, e in secondo luogo sviluppare la proposta vincitrice fino a realizzarla in prototipo. Al centro di tutto, il design e l’architettura, considerati come snodi strategici attorno ai quali definire un intervento per il miglioramento della qualità della vita delle persone detenute grazie alla loro capacità di dare nuovo valore agli interni che devono vivere. Infatti la qualità degli spazi, soprattutto quelli così intimi, è fondamentale per la vita stessa di chi li abita e concorre in maniera significativa a umanizzare il tempo e lo spazio del vissuto carcerario. Dobbiamo però ribadire una drammatica constatazione: la crisi, se non l’eclissi dell’architettura e in particolare dell’architettura pubblica, soprattutto in Italia. Possiamo quindi immaginare la situazione quando parliamo di architetture carcerarie, luoghi per lo più fatiscenti, sovrappopolati, dove non si capisce perché le persone, benché abbiano un debito nei confronti della società, debbano essere trattate peggio degli animali. Questo concorso ha avuto un merito importante: invitare gli architetti e i designer a misurarsi con un tema delicato e complesso come quello dell’ecosistema in cui è costretta la quasi totalità delle persone in stato detentivo. Persone che arrivano da situazioni di degrado e continuano a vivere il modello degradante come l’unico possibile. Un’occasione rara, che consente di sottolineare il ruolo chiave dei concorsi di architettura, in genere pochi nel nostro Paese perché manca la coscienza del ruolo sociale della disciplina. Nel caso specifico delle carceri, abbiamo lavorato sull’umanità mettendo da parte il tema della bellezza, evitando quindi ogni riferimento al mondo dell’estetica per porre al centro il fattore umano. In giuria abbiamo sempre tenuto a mente che le carceri non sono luoghi che ospitano delle persone ma strutture che detengono carcerati. La cella per loro rappresenta l’inizio di un percorso che, ai miei occhi di architetto, deve condurli a ritrovare una dimensione umana, anche attraverso una spazialità corretta, fino a tornare a cercare proprio quella bellezza bandita dal loro orizzonte. Questo concorso è stato l’inizio di una riflessione profonda che parte da una situazione specifica ma che riporta nuovamente a sottolineare il senso del design quando si confronta con i bisogni primari e la privazione della libertà personale, e l’importanza del ruolo dell’architetto nella città. Questione che può essere anche vista dall’altro punto di vista: infatti se spesso governo e amministrazioni ignorano la funzione sociale dell’architettura, d’altra parte l’architetto non di rado è restio a mettersi al servizio del pubblico per un bene comune da cercare insieme. “Six Square Meter. Persone, luoghi, dignità” - Il concorso nazionale d’idee per la progettazione degli arredi destinati agli istituti penitenziari è promosso da Ordine degli Architetti Ppc della Provincia di Lecce, casa circondariale Borgo San Nicola, Università del Salento, patrocinato da Consiglio nazionale Architetti Ppc e sostenuto da Fondazione Bpp, Ance Lecce. Com’è facile la giustizia di piazza fatta sui social di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 25 settembre 2019 “Quei ragazzi vanno puniti”, ha scritto sui social il senatore Matteo Renzi. Si riferiva agli otto giovani che l’altro giorno, a Roma, avrebbero pestato l’autista di un autobus. Non è certo il primo che si lascia andare a simili iniziative, ed è anzi praticamente quotidiano il caso del politico che ritiene di dover pubblicamente reclamare “punizione” per questo o quel presunto responsabile di un illecito. Valgono i precedenti di Salvini (“Devono marcire in galera”) o di Di Maio contro i magistrati per il presunto stupro della Circumvesuviana. Resta che non si capisce a quale ufficio adempia un parlamentare trasformando il suo profilo “social” in una specie di mattinale, in una tribuna da cui distribuire pretese di sanzioni a carico di persone che - non farebbe male ricordarlo - possono essere punite all’esito di un processo fatto da chi ha il potere di indagare e giudicare. Un processo (anche questo, forse, bisognerebbe tenere a mente) garantito almeno da una punta di diritto alla difesa. E invece no. Come se non esistesse una legge che punisce chi delinque. Come se non esistesse, appunto, un giudice incaricato di accertare le responsabilità e di emettere provvedimenti di sanzione se e quando le accerta. Ma tutto questo fino a prova contraria esiste. Esistono le leggi ed esiste chi deve applicarle. E allora perché in tanti non resistono al prurito di moraleggiare sulla necessità di punire il responsabile di un comportamento illecito prima e al di fuori del processo? Dice: ma no, chiedono semplicemente che a quel responsabile sia aggiudicata la pena che merita: che c’è di male? C’è di male che non bisognerebbe mai invocare giustizia dalla piazza, perché invocarla da lì è la premessa che sia fatta lì. E se il girotondo forcaiolo ha almeno la giustificazione dell’irresponsabilità, chi lo istiga ha invece la responsabilità doppia di far discendere l’ingiustizia dai lombi dello Stato che rappresenta. Anche qui da noi, sia pure in altri tempi, capitava che il potere politico intervenisse pubblicamente affinché fosse fatta giustizia esemplare su casi, diciamo così, socialmente sensibili. Qualche lettura decente farebbe comprendere che non erano bei tempi. E che non sarà un bene per nessuno se “punire” quei ragazzi significherà affidarli al nostro sistema penal-carcerario. Una giustizia spietata contro i poveri di Sebastiano Zinna Città Nuova, 25 settembre 2019 La violenza del sistema carcerario e l’indifferenza della macchina amministrativa verso la vita di un anziano lasciato morire in cella a oltre 80 anni di età per un reato minore. Il caso di Egidio T. La legge, quando vuole, sa essere dura, anzi molto dura. L’ha sperimentato sulla sua pelle Egidio, morto a 82 anni in carcere il giorno prima di poter essere ammesso alla detenzione domiciliare. La notizia l’ha data Nello Scavo il 12 settembre sulle pagine dell’Avvenire. Il fatto nella sua nuda essenzialità: “Nel 2012 avevano trovato un uomo dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. Dopo essere stato denunciato, Egidio non ha più ricevuto notizie di quel procedimento perché, come spiega il suo avvocato, ha cambiato domicilio dimenticandosi di comunicarlo alla magistratura”. L’uomo era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona. Erano passati cinque anni dal 2012 ed Egidio non ricordava più quella pendenza giudiziaria. Non essendo persona “esperta” di illegalità aveva dimenticato. E quando le forze dell’ordine gli hanno notificato la condanna esecutiva, ha scoperto tutto quello che lo aspettava: il carcere, solo il carcere perché, fra l’altro, il reato contestatogli era ostativo: non consente alternative alla detenzione in cella. A nulla sono valse l’avanzata età, né il suo stato grave di salute. Nel frattempo anche l’assegno assistenziale, che integrava la sua povera pensione, era stato perso a causa della condanna. Questo fatto aggravava la situazione perché senza un minimo supporto per l’assistenza l’unica certezza rimane il carcere. Quando il 5 settembre il magistrato di sorveglianza ha autorizzato finalmente la detenzione domiciliare in ospedale, il tempo di Egidio si era tutto consumato: finito in galera a oltre 80 anni è deceduto il sei settembre non per la sua avanzata età ma di tumore e altri malanni. È vero sembra incredibile ma il tristissimo auspicio di un ex ministro (“devono marcire in galera!) diventa raccapricciante realtà nel caso di Egidio. E non perché il suo reato fosse particolarmente grave o perché egli fosse un habitué della galera, ma per concause specifiche. Egidio non conosceva i tempi della giustizia italiana che rifila sonori ceffoni non nell’immediatezza dei fatti ma a distanza e nel rispetto dei suoi lunghi tempi. Tu hai tutto il tempo di dimenticare ma poi arriva il conto da pagare che non hai saputo nemmeno “contrattare” con un appello, un ricorso, un avvocato … un’assistente sociale. Punire i poveri è facile! Non si sanno difendere e non hanno soldi per le spese legali, nessuno spiega accuratamente che esiste, per esempio, il gratuito patrocinio. E siccome i vari apparati dello Stato sono indipendenti e ci tengono alle proprie competenze sono efficaci contro chi non sa come difendersi. Sei condannato? Via l’assegno di sostegno alla pensione! La legge è salva! Vuoi la detenzione domiciliare? Ma se non hai un domicilio dove ti mando? In realtà, i servizi sociali dovrebbero intervenire proprio in questi casi per assicurare una possibilità alternativa alla pena che la legge prevede anche per chi una casa sua non l’ha. E ciò proprio in ossequio alla Costituzione (art. 3) che assegna alla Repubblica il “compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta ` e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Perché questo compito vale sempre. Non c’è scritto, che, se sei detenuto, quest’articolo non si applica. Ora noi non sappiamo tutti i dettagli della storia di Egidio e quindi forse non siamo del tutto sereni nelle nostre valutazioni. Ma abbiamo il sospetto che situazioni analoghe a quella di Egidio ve ne siano e non poche. È sotto gi occhi di tutti che l’esercizio dei diritti per difendersi nel processo non segue lo stesso percorso se non puoi disporre di buone risorse economiche, sociali e familiari. Certo fa pensare, e molto, il fatto che un imputato su tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico (così presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario). Come non può lasciare indifferenti, afferma Alessandro Barbano, su Il Foglio, l’ipotizzata cifra di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, che, pur essendo innocenti, attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che in concreto sembra coincidere con una persecuzione. Di fronte alla storia di Egidio e a questi dati rimaniamo interdetti sul senso comune di giustizia giusta che ognuno coltiva e auspica. Ma non possiamo coltivare il senso di giustizia solo se siamo implicati in prima persona. Abbiamo bisogno di una giustizia forte ma non vessatoria specialmente con i poveri che rischiano più di altri di essere puniti doppiamente. Egidio è stato in carcere e già questa struttura ha gli strumenti idonei e gli operatori competenti per attivare risorse sul territorio (Asl, servizi sociali comunali, associazioni di volontariato …) per assicurare a lui e a detenuti nelle sue stesse condizioni una rete di protezione sociale che gli consenta di poter scontare la sua pena non in totale abbandono ma in piena dignità. Riforma della giustizia, servono tempi certi per garantire turn over e organici di Emanuela Coronica* Il Dubbio, 25 settembre 2019 Atre settimane dalla sua nascita, il Conte bis è già alle prese con una delle sue sfide più importanti, quella legata alla riforma della giustizia. Le condizioni in cui versa il nostro sistema giudiziario rappresentano, da sempre, un nervo scoperto per qualunque governo perché affrontare il tema della giustizia in tutte le sue declinazioni significa garantire ai cittadini la certezza del diritto mentre le lungaggini dei procedimenti civili e penali, si ripercuotono sull’intero sistema economico di un Paese. Un sistema sull’orlo di una crisi di nervi, soprattutto a causa delle gravi scoperture e carenze di organico negli uffici giudiziari. Anni di spending review, hanno contribuito a debilitare ulteriormente la giustizia italiana e che è necessario investire su personale qualificato, oltre che ridurre i tempi dei processi, ce lo dice anche la Commissione Europea. Sul fronte degli investimenti, però, da qualche anno si registra un’inversione di tendenza. L’indizione del concorso ad 800 posti per il profilo di assistente giudiziario, nel novembre 2016, ha rappresentato un drastico cambio di rotta rispetto al passato. Dalla procedura concorsuale è scaturita una graduatoria composta da 4.915 persone, 3.386 delle quali già entrate in servizio tra gennaio 2018 e luglio di quest’anno. Il Comitato Idonei Assistenti Giudiziari, si è costituito il 21 ottobre 2017 con l’obiettivo dello scorrimento totale della graduatoria soprattutto in considerazione dell’importanza di tale profilo professionale. La figura di assistente giudiziario, infatti, è assolutamente necessaria poiché provvede a compiti di assistenza in udienza e di assistenza amministrativa burocratica ma anche a mansioni che implicano l’utilizzo delle moderne tecnologie. In quasi due anni di attività, il Ciag ha portato le sue istanze all’attenzione di rappresentanti delle forze politiche e sindacali, ottenendo il sostegno di vertici delle istituzioni giudiziarie come l’Associazione Nazionale Magistrati, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense. Ad oggi, in graduatoria restano circa 1.300 idonei, un numero esiguo che, in realtà, è ancora più modesto al netto di rinunce e dimissioni. L’esaurimento della graduatoria risulta già finanziato e autorizzato dal Piano Triennale del Fabbisogno del Personale, sottoscritto dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede, il 13 giugno scorso e che mette nero su bianco le azioni realizzate in tema di politiche assunzionali del personale amministrativo nonché la sua futura programmazione attraverso gli opportuni strumenti normativi e amministrativi. Un percorso già segnato dall’articolo 1, comma 307 della legge di Bilancio 2019, che ha disposto l’assunzione di 903 unità, dal decreto “Quota 100” del 28.01.2019 n. 4, coordinato con la legge di conversione 28 marzo 2019 n. 26, che ha stabilito l’utilizzo anticipato per il Ministero della Giustizia di parte delle capacità assunzionali da turn-over procedendo, così, al reclutamento di 1.300 unità di personale di cui 300 di Area III e 1.000 di Area II, 600 dei quali assistenti giudiziari. La legge Genova autorizza il Ministero ad assumere, in via straordinaria, nell’ambito dell’attuale dotazione organica, un contingente massimo di 50 unità di personale amministrativo non dirigenziale. Infine, il Dpcm del 20 giugno autorizza l’assunzione delle ultime 297 unità. L’ultimo scorrimento risale a luglio quando, delle 903 unità previste dalle legge di Bilancio, 503, divenute poi 414 a seguito di rinunce e dimissioni, hanno preso servizio. Resta un secondo blocco da 400 unità che ancora attende indicazioni ma, finora, nessuna tempistica. Il nostro sistema giudiziario è chiamato a misurarsi con scoperture e vuoti di organico che rallentano il suo funzionamento e mettono a dura prova la sua efficienza. Ogni giorno presidenti di tribunali e corti d’appello consegnano alla stampa le inefficienze di una giustizia lenta denunciando non solo carenze di personale ma anche l’inadeguatezza delle piante organiche rispetto ai bacini di utenza. È un dato oggettivo che un sistema che non fornisce certezze nelle decisioni danneggia la credibilità delle istituzioni senza contare la costante crescita della sfiducia da parte dei cittadini per il quali il nostro sistema giudiziario non è idoneo a garantire pienamente la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Il Ministro della Giustizia si è sempre espresso in favore di una giustizia efficiente, diffusa sul territorio e tesa a garantire i diritti di tutti i cittadini, ribadendo più volte che il nostro sistema giudiziario rappresenta uno dei pilastri più importanti per un ordinamento giuridico che ambisca a definirsi democratico e che influenzi in maniera decisa altri settori strategici, come quello sociale ed economico. Un pilastro, però, che somiglia ad un gigante con i piedi di argilla e il fiato corto. Per questo, vorremmo conoscere le tempistiche delle nostre assunzioni che, finora, sono state alquanto vaghe e approssimative. Siamo convinti che una giustizia equa ed efficiente passi soprattutto attraverso le persone che sono quelle che la rendono tale con le loro competenze e le loro professionalità. Il nostro sistema giudiziario esige personale qualificato e il Ministero della Giustizia dispone di un’unica graduatoria, quella per il profilo di assistente giudiziario, programmata, finanziata, autorizzata e formata da giovani brillanti e preparati. Il Comitato Idonei Assistenti Giudiziari chiede che si proceda allo scorrimento della graduatoria in tempi rapidi e certi, non fosse altro che per attuare anche quel ricambio generazionale del quale si avverte sempre di più l’urgenza, non soltanto per migliorare l’efficienza del nostro sistema giudiziario ma anche quella del nostro Paese. *Comitato Idonei Assistenti Giudiziari Il suicidio assistito divide la Consulta di Valentina Errante Il Messaggero, 25 settembre 2019 La camera di consiglio va avanti per ore. E alla fine i giudici della Corte costituzionale non trovano un accordo. Si dividono e non decidono. Si pronunceranno con ogni probabilità oggi su una delle questioni più delicate, dopo l’anno concesso invano al Parlamento per legiferare sul fine vita e sul cosiddetto “suicidio assistito”. Esclusa l’ipotesi che possa essere dato altro tempo al legislatore, come lo scorso anno, quando la Consulta aveva deciso di sospendere tutto, “congelando” la posizione di Marco Cappato, imputato per istigazione al suicidio davanti alla corte d’Assise di Milano. Sulle accuse al tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, responsabile di avere accompagnato a morire in Svizzera dj Fabo, cieco e immobilizzato, si aprono ora due possibili scenari. La Corte aveva già tracciato un perimetro con l’ordinanza che rinviava alle Camere la decisione: “Le norme attuali lasciano prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Ieri in udienza gli avvocati di Cappato, Filomena Gallo e Vittorio Manes, in un appello ai giudici, li hanno invitati a non fare un passo indietro. E a non dimenticare chi si trovi in una “notte senza fine”. A margine è stato lo stesso Cappato a fare un appello: “Il compito della Consulta è un compito difficile e importante” e attendiamo col massimo rispetto questa decisione qualunque sia. Ho aiutato Fabiano perché l’ho ritenuto un mio dovere morale, ora dovremo sapere se può essere riconosciuto come un diritto”. E già L’Associazione medici cattolici si mobilita. Annuncia che se la Consulta si pronuncerà per la legalità del suicidio assistito, i quattromila aderenti saranno pronti all’obiezione di coscienza. Oggi i 15 giudici potrebbero cassare definitivamente l’articolo 580 del codice penale, che prevede pene da cinque a dodici anni, chiarendo però che l’aiuto al suicidio non è reato quando riguardi una persona “affetta da una patologia irreversibile”, “fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, che sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. Il punto fondamentale è che il soggetto sia “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Oppure, come chiede, l’avvocato dello Stato Marina Palmieri, la Corte potrebbe non pronunciarsi, dichiarando inammissibile la questione e rimettendola ai giudici milanesi di non pronunciarsi, cioè di dichiarare inammissibile la questione posta dai giudici milanesi, che hanno già gli elementi per un sentenza orientata costituzionalmente. Consulta. Oggi la decisione sulla legittimità del suicidio assistito di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019 Ieri l’udienza: a confronto i legali di Cappato e l’Avvocatura dello Stato. attesa per oggi, al termine della camera di consiglio, la decisione della Corte costituzionale sulla legittimità del reato di assistenza al suicidio. Ieri nell’udienza pubblica si sono confrontate ancora una volta le tesi delle parti coinvolte. Innanzitutto i difensori di Marco Cappato, gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes; la condotta di Cappato, esponente radicale, ha fatto esplodere il caso, con la scelta prima di aiutare Fabiano Antoniano (Dj Fabo) nel togliersi la vita in Svizzera nel 2017 e dopo di autodenunciarsi davanti ai giudici di Milano. Ed è stata la Corte d’appello di Milano a chiamare in causa la Consulta per verificare la fondatezza dell’esistenza nel nostro Codice penale di una norma che punisce, tra l’altro, allo stesso modo chi istiga al suicidio e chi presta “solo” un aiuto. La Consulta a ottobre 2018 aveva scelto di prendere tempo in una questione tanto delicata, chiedendo al Parlamento, con u mesi di tempo, dibattere almeno un colpo. Così non è stato e ora sembrano essere maturi i tempi di una sentenza destinata certo a rappresentare un punto di riferimento non solo giuridico. Tanto da far già scendere in campo, preventivamente, l’Associazione dei medici cattolici italiani: “Almeno mila medici cattolici sono pronti a fare obiezione di coscienza nel caso in cui, a seguito della pronuncia della Consulta, il Parlamento italiano legiferasse a favore del suicidio medicalmente assistito”. I legali di Cappato, preso atto del fallimento delle forze politiche nell’individuare una soluzione, hanno chiesto di dichiarare l’incostituzionalità della norma “anche in nome della tante persone che si trovano nelle condizioni di Fabiano e si recano all’estero per congedarsi dalla vita”. Numeri in aumento, visto che sono 761 le persone che, dal 2015, si sono rivolte all’Associazione Luca Coscioni per chiedere informazioni su come ottenere il suicidio assistito all’estero: di queste, almeno 115 si sono poi effettivamente rivolte a cliniche in Svizzera, ma alcuni di questi malati hanno successivamente cambiato idea. Per l’Avvocatura dello Stato, invece, la questione di incostituzionalità sollevata dalla Corte d’Assise di Milano va giudicata inammissibile perché, come messo in evidenza già un anno fa, spetta al Parlamento trovare un punto di equilibrio tra i tanti interessi in gioco. E anche ieri ha sottolineato l’esigenza di arrivare “a una disciplina generale della materia”. La stessa Consulta, peraltro, nell’ordinanza 207 del 2018 riconobbe l’esemplarità del giudizio: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma del Codice penale fu introdotta, “ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”. Il riferimento era (ed è), più in particolare, alle ipotesi in cui la persona interessata è, chiarì la Corte, “a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Suicidio assistito, l’ora di decidere di Michele Ainis La Repubblica, 25 settembre 2019 Suicidio assistito, il giorno del giudizio. Quello che oggi spetta alla Consulta, convocata in camera di consiglio sul caso Cappato, dopo oltre due mesi di sospensione dei lavori (l’ultima seduta cadde il 16 luglio). Evidentemente i giudici costituzionali avevano bisogno di riposo. Mai quanto il Parlamento, tuttavia. Ha avuto un anno di tempo per decidere (così l’ordinanza scritta l’ottobre scorso dalla Corte), e non ha deciso un fico secco. Sicché la questione non tocca solo l’etica, bensì i rapporti fra legislativo e giudiziario, i loro reciproci confini. Investe la separazione dei poteri, o forse il concetto stesso di potere. Esiste un potere doveroso, una facoltà che non può ma deve venire esercitata? E in caso di rifiuto, è altrettanto doverosa l’azione del supplente? La vicenda che rimbalza fra il Parlamento e la Consulta sta tutta in questi termini. C’è un reato - il suicidio assistito - punito dal “fascistissimo” codice Rocco del 1930: da 5 a 12 anni di galera. Non è eutanasia, come impropriamente si ripete. La differenza tra il primo e la seconda sta nella persona che esegue l’ultima azione: nel caso del suicidio assistito è il suicida medesimo, sia pure con un aiuto esterno; nel caso dell’eutanasia è sempre qualcun altro, generalmente un medico. Sta di fatto però che il suicidio assistito apre una contraddizione nel nostro sistema normativo. Perché il suicidio di per sé non è un reato, come accadeva un tempo in Gran Bretagna, dove venivano confiscate le terre del suicida. In Italia nessuno va alla sbarra per aver tentato d’uccidersi. E anzi una legge dello Stato (n. 219 del 2017) consente ai malati terminali di lasciarsi morire, rifiutando i trattamenti sanitari. Allora perché punire chi t’aiuta in questa decisione, quando le tue forze non sono sufficienti? Da qui una risposta a rime obbligate: l’incostituzionalità del reato. Perlomeno se ricorrono le quattro condizioni già messe nero su bianco dalla Corte, nell’ordinanza n. 207 del 2018: che il soggetto in questione soffra d’una malattia incurabile; che sopravviva solo attraverso trattamenti di sostegno; che subisca tormenti insopportabili; che sia in grado di decidere liberamente del proprio destino. Stabilito il principio, resta però da precisarne la concreta applicazione. Come accertare la volontà del paziente? Gli verranno offerte cure palliative? Quanto tempo dovrà intercorrere fra la richiesta di suicidio assistito e il suo compimento? E ai medici, verrà garantita l’obiezione di coscienza? Per questi dettagli, tuttavia, serve la penna del legislatore. Così disse l’anno scorso la Consulta, rinviando la propria decisione. Sottinteso: se poi il Parlamento non legifera, ci penseremo noi. Ma allora perché non farlo subito? Perché adottare una decisione senza precedenti, anzi una non decisione? Risposta: probabilmente perché la Corte costituzionale era spaccata, divisa in fronti contrapposti. Sicché ha preso tempo, anche se chi giunge all’ultima curva della vita non ha tempo, non più. E ha chiesto alle assemblee legislative di toglierle le castagne dal fuoco. Ma successivamente pure il Parlamento è rimasto vittima della sindrome di Ponzio Pilato. La Camera ha traccheggiato fino al 1° agosto, con audizioni, interrogazioni, contorsioni; dopo di che s’è arresa, gettando la palla nel campo del Senato. Dove tutti i capigruppo, a mani giunte, hanno chiesto alla presidente Casellati di chiamare qualcuno alla Consulta, per chiedere altro tempo. E infatti, a metà settembre, il telefono squillò. Diciamolo: l’ennesimo rinvio sarebbe un’indecenza. Perché questo diritto sta a cuore agli italiani (il 93%, stando a un sondaggio Swg), così come ai loro grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. Perché la dolce morte viene già praticata da medici pietosi nel buio degli ospedali (20 mila casi l’anno, stimò nel 2007 l’Istituto Negri), però di nascosto, come fosse un furto. Perché la giurisprudenza è sempre stata un avamposto dei diritti, garantendo la privacy (nel 1975) con 21 anni d’anticipo rispetto alla legge votata dalle Camere, o la tutela del convivente more uxorio (ne11988) 28 anni prima. E perché i poteri dello Stato vanno esercitati. Altrimenti non c’è più il potere, e non c’è nemmeno lo Stato. Finisce nel casellario l’archiviazione per tenuità del fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 38954/2019. L’archiviazione per particolare tenuità del fatto va scritta nel casellario giudiziale. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 38954, prendono le distanze dall’orientamento consolidato, secondo il quale dell’archiviazione in base all’articolo 131-bis del Codice penale non deve restare traccia nel casellario, trattandosi di un provvedimento non definitivo. Ad avviso del Supremo collegio, c’è più di una buona ragione per discostarsi dalla tesi più restrittiva e nessuna controindicazione. I giudici escludono che la memorizzazione del provvedimento leda i diritti dell’ interessato. L’iscrizione costituisce, infatti, l’esito della procedura speciale (articolo 411, comma 1-bis del codice di rito penale) che assicura il contradditorio, blindando il diritto di difesa. Inoltre ha il solo scopo di “documentare” l’archiviazione con effetto limitato all’ambito del circuito giudiziario. Nessuna menzione dell’archiviazione deve, infatti, comparire nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del suo datore di lavoro o della pubblica amministrazione. Una certezza sulla quale non incide la modifica apportata al Testo unico del casellario giudiziale con il Dlgs 122/18, che avrà effetto dal 26 ottobre prossimo, con la quale è stata eliminata la tradizionale divisione tra certificato generale e certificato penale del casellario. La previsione non incide sul contenuto del certificato unico - che dovrà essere rilasciato dal prossimo 26 ottobre al datore di lavoro - che resta quello stabilito dal Testo unico per il certificato generale, con esclusione di qualunque riferimento ai provvedimenti adottati secondo l’articolo 131-bis. Spazzato il campo dai dubbi sui pregiudizi, le Sezioni unite chiariscono che l’iscrizione è invece in linea con gli obiettivi della legge. La necessità di lasciare una traccia di tutti i provvedimenti ispirati all’articolo 131-bis del Codice penale consente, infatti, al giudice, eventualmente, di valutare in futuro l’abitualità del reato attribuito all’indagato o all’imputato: una condizione che sarebbe di ostacolo a una nuova applicazione dell’istituto. Il giudice non è così costretto ad affidarsi solo alle categorie tradizionali della condanna e della recidiva, con un criterio non esauriente per stabilire quanto il comportamento sia abituale. In quest’ottica va considerato fondamentale il riferimento che il terzo comma dell’articolo 131-bis fa alla commissione “di più reati della stessa indole”. L’abitualità che farebbe scattare il semaforo rosso al “beneficio” si può concretizzare “non solo in presenza di più condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza”. L’assenza dell’annotazione determinerebbe, quindi, la possibilità di ottenere molte volte un verdetto di non punibilità nei confronti della stessa persona. L’iscrizione diventa così un antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto. Giudice di pace, per le pronunce secondo equità appello a maglie strette di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 24 settembre 2019 n. 23623. Le sentenze del giudice di pace, pronunciate secondo equità, sono appellabili solo per i motivi strettamente indicati nel codice di rito civile. La Corte di cassazione (sentenza 23623) pur giudicando inammissibile il ricorso esaminato, detta un principio di diritto, “nell’interesse della legge”, per fare chiarezza sulla possibilità di “contestare” una decisione del giudice di pace considerata “equa” dal Tribunale. Esattamente quanto accaduto nel caso esaminato, in cui il giudice di pace aveva dichiarato inefficace l’ordinanza con la quale al ricorrente era stato dato il via libera per un pignoramento presso terzi delle somme dovute dal Banco di Napoli, terzo pignorato in quanto tesoriere dell’Inps. Per il tribunale il ricorso doveva essere considerato inammissibile perché, essendo la somma precettata inferiore a 1 e 100 euro, la sentenza impugnata si doveva considerare pronunciata secondo equità. Ad avviso del ricorrente però il Tribunale non aveva tenuto conto della legge 69/2009 che - abrogando la parte finale dell’articolo 616 del codice di rito civile che prevedeva che l’opposizione all’esecuzione fosse decisa con sentenza non impugnabile - aveva di fatto aperto, con il “nuovo” articolo 616, all’appellabilità a critica libera della sentenza che definisce l’opposizione all’esecuzione: di fatto una norma speciale e derogativa rispetto all’articolo 339 terzo comma del Codice di procedura civile, che regola l’appellabilità delle sentenze del giudice di pace. Per la Cassazione non è così. Abrogando la regola della non impugnabilità, che era stata introdotta nel 2006, la norma del 2009 ha semplicemente rispristinato la regola generale dettata dall’articolo 339 che indica le sole ragioni che giustificano l’appello in caso di pronunce “eque” del giudice di pace. E dunque appello possibile in caso di violazione delle norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie o dei principi regolatori della materia. Un campo chiaramente limitato. Cgue: Google, diritto all’oblio limitato alla Ue di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019 Cgue - Sentenza del 24 settembre 2019 - Cause C 507/17. Google non è tenuto a effettuare la deindicizzazione in tutte le versioni del suo motore di ricerca ma soltanto in quelle corrispondenti agli Stati membri dell’Unione europea. Deve tuttavia attuare misure che scoraggino gli utenti di Internet dall’avere accesso, a partire da uno degli Stati membri, ai link contenuti nelle versioni extra Ue. Lo ha stabilito la Corte di Lussemburgo, con la sentenza nella causa C-507/17. Con un’altra decisione sempre di ieri, causa C-136/17, la Cgue, affrontando un altro caso francese, ha affermato che il divieto di trattare categorie di “dati personali sensibili” si applica anche ai gestori di motori di ricerca. Per cui nell’ambito di una domanda di deindicizzazione, dev’essere effettuato un bilanciamento tra i diritti fondamentali del richiedente la deindicizzazione e quelli degli utenti di Internet potenzialmente interessati a tali informazioni. Tornando al primo caso, nel marzo 2016 la presidente della “Commission nationale de l’informatique et des libertés” (Cnil) ha irrogato una sanzione di 100mila euro a Google Inc. in conseguenza del suo rifiuto, quando accoglie una domanda di deindicizzazione, di applicare la deindicizzazione a tutte le estensioni del nome di dominio del suo motore di ricerca. Google, infatti, si era limitata a sopprimere i link dai soli risultati visualizzati in esito a ricerche effettuate in uno Stato membro. L’azienda ha poi chiesto al Consiglio di Stato di annullare la decisione ritenendo che il diritto alla deindicizzazione non comporti necessariamente che i link controversi debbano essere soppressi, senza limitazioni geografiche, in tutti i nomi di dominio del suo motore di ricerca. Investita della questione, la Corte Ue sottolinea che una protezione globale benché in teoria meritevole di tutela si scontra col fatto che molti Stati terzi non riconoscono il diritto alla deindicizzazione. Il diritto alla protezione dei dati personali infatti non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Fatte queste premesse, la decisione rileva che il legislatore dell’Unione non ha proceduto a tale bilanciamento per quanto riguarda la portata di una deindicizzazione al di fuori dell’Unione, né ha attribuito ai diritti dei singoli una portata che vada oltre il territorio degli Stati membri. La Corte conclude quindi che, allo stato attuale, non sussiste, per il gestore di un motore di ricerca che accoglie una richiesta di deindicizzazione presentata dall’interessato, eventualmente a seguito di un’ingiunzione di un’autorità di controllo o giudiziaria, un obbligo, derivante dal diritto dell’Unione, di effettuare tale deindicizzazione su tutte le versioni del suo motore. Il diritto dell’Unione obbliga tuttavia il gestore di un motore di ricerca a effettuare tale deindicizzazione nelle versioni del suo motore di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri e ad adottare misure sufficientemente efficaci per garantire una tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona interessata. Il giudice nazionale dovrà verificare che le misure attuate dalla Google Inc. soddisfino tali esigenze. Infine, la Corte osserva che il diritto dell’Unione, pur non imponendo, allo stato attuale, che la deindicizzazione verta su tutte le versioni del motore di ricerca, neppure lo vieta. Pertanto, le autorità degli Stati membri restano competenti. La Causa C-136/17 invece parte dal rifiuto del Cnil di imporre a Google la rimozione di link che rinviano a pagine Internet pubblicate da terzi che contengono un fotomontaggio satirico, articoli che menzionano la qualità di Pr Scientology, l’indagine giudiziaria a carico di un esponente politico e la condanna di un altro interessato per violenza sessuale su minore. La Corte ricorda che, nei limiti in cui l’attività di un motore di ricerca può incidere, in modo significativo e in aggiunta all’attività degli editori di siti Internet, sui diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, il gestore deve garantire il rispetto delle prescrizioni del diritto dell’Unione. Per cui il gestore di un motore di ricerca, quando riceve una richiesta di deindicizzazione riguardante un link verso una pagina Internet nella quale sono pubblicati dati sensibili, deve - sulla base di tutte le circostanze pertinenti della fattispecie e tenuto conto della gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali della persona interessata al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali - verificare se l’inserimento di detto link nell’elenco dei risultati, visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome della persona in questione, si riveli strettamente necessario per proteggere la libertà di informazione degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina Internet mediante una ricerca siffatta. Inoltre per quanto riguarda pagine Internet contenenti dati relativi a un procedimento penale a carico di una persona specifica, che si riferiscono a una fase precedente di tale procedimento e non corrispondono più alla situazione attuale, incombe al gestore del motore di ricerca valutare se detta persona abbia diritto a che le informazioni di cui trattasi non siano più, allo stato attuale, collegate al suo nome mediante un elenco dei risultati, visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire da tale nome. Per valutare tale diritto, il gestore del motore di ricerca deve tener conto di tutte le circostanze del caso di specie, quali, in particolare, la natura e la gravità dell’infrazione di cui trattasi, lo svolgimento e l’esito di tale procedura, il tempo trascorso, il ruolo rivestito da tale persona nella vita pubblica e il suo comportamento in passato, l’interesse del pubblico al momento della richiesta, il contenuto e la forma della pubblicazione nonché le ripercussioni della pubblicazione per tale persona. Infine, quand’anche il gestore di un motore di ricerca dovesse constatare che la persona interessata non ha diritto alla deindicizzazione è in ogni caso tenuto a sistemare l’elenco dei risultati in modo tale che l’immagine globale che ne risulta per l’utente di Internet rifletta la situazione giudiziaria attuale, il che necessita, in particolare, che compaiano per primi, nel suddetto elenco, i link verso pagine Internet contenenti informazioni a tal proposito. Sardegna. Fns Cisl: “Nelle carceri è emergenza, solo 4 direttori per 10 istituti” cagliaripad.it, 25 settembre 2019 Ancora gravi disagi per le carceri sarde. “In questi giorni Caterina Sergio, direttrice dell’istituto di Tempio-Nuchis e della Colonia di Mamone, come avvenuto prima per la Simona Mellozzi, entrambe in distacco dalla penisola, lascia la Regione in quanto assegnata ad altra sede”. Lo comunica la segretaria regionale della Fns Cisl Sardegna. “Nel Distretto Sardegna - spiega la Fns Cisl con una nota - la situazione si aggrava : rimangono infatti solo 4 direttori per gestire i 10 penitenziari isolani. Pierluigi Farci, già Provveditore vicario e responsabile dell’Ufficio della Formazione del Provveditorato, si occuperà degli Istituti di Massama e Is Arenas, Patrizia Incollu, già responsabile della Commissione Disciplina del Provveditorato, si occuperà degli Istituti di Nuoro, Tempio Pausania e Mamone, Elisa Milanesi si occuperà degli Istituti di Sassari e Alghero e infine Marco Porcu si occuperà degli Istituti di Uta, Isili e Lanusei. “Questa è una situazione non più sostenibile”, spiega Giovanni Villa, segretario regionale aggiunto della Fns Cisl. “Il sistema penitenziario isolano rischia il collasso. Abbiamo scritto al provveditore affinché in tempi brevi si intervenga per stabilizzare una situazione che sta andando avanti da ormai troppo tempo. Confidiamo, e su questo siamo certi - prosegue Villa -, anche nell’intervento della segreteria nazionale che da sempre sostiene le nostre denunce. La questione della carenza dei direttori in Sardegna è ormai improcrastinabile. L’Amministrazione non tratti il sistema penitenziario sardo come figlio di un dio minore. A rischio le relazioni sindacali, senza di esse si innesca una guerra tra poveri che gli operatori del comparto sicurezza non meritano così come tutti coloro i quali vi lavorano. Il nostro fare e quindi l’azione sindacale sarà consequenziale al fare del dipartimento”, conclude Villa. San Gimignano (Si). Basentini: “Nel carcere situazione tutto sommato accettabile” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 settembre 2019 Il Capo del Dap ha visitato l’Istituto penitenziario. A pochi giorni dalla vicenda che ha coinvolto il carcere toscano di San Gimignano per il presunto caso di tortura perpetrato da alcuni agenti nei confronti di un detenuto tunisino, il Capo del Dap Francesco Basentini si è recato ieri in visita presso la Casa di reclusione per verificare di persona il morale del corpo di polizia penitenziaria e per far sentire la vicinanza dell’Amministrazione da lui presieduta: “A San Gimignano ho trovato una situazione tutto sommato accettabile - ha dichiarato al termine Basentini - nella misura in cui da parte della Polizia penitenziaria ho visto la massima consapevolezza, pur nella criticità del momento. Ho trovato un corpo molto compatto. Ho visto veramente un ambiente molto unito. In generale, si vede uno stato d’animo piuttosto colpito da ciò che è successo”. A chi in questi giorni, come questo giornale, ha parlato di un carcere abbandonato a sé stesso, Basentini ha replicato così, rispondendo a un giornalista dell’Ansa: “Non mi sento di concordare con questa affermazione. Nei mesi precedenti all’episodio, quando la realtà di San Gimignano è stata prospettata criticamente, il Dap è intervenuto. Qui sono stato un anno fa per incontrare i direttori e i comandanti di tutti gli istituti del Provveditorato della Toscana; quando nel febbraio scorso sono stati evidenziati i problemi nella direzione dell’istituto penitenziario, è stata inviata una ispezione per capire quali fossero le criticità e le esigenze e all’esito di quella ispezione sono stati poi adottati dei provvedimenti; il Dipartimento ha poi risposto rispetto alla mancanza del comandante con la nomina di un comandante che proprio ieri ha preso servizio”. Sull’inchiesta in corso, il capo del Dap ha precisato: “Dall’inchiesta ci aspettiamo che, come è giusto e sarà sicuramente così, la magistratura di Siena effettuerà tutti gli approfondimenti investigativi che sono necessari per fare chiarezza. Sono certo che si giungerà alla ricostruzione dei fatti così come sono avvenuti. Ci tengo però a dire che è troppo frettoloso e facile il giudizio di chi vuole avvicinare o sovrapporre questo episodio con quello che invece è il lavoro coraggioso ed eccezionale che fa la Polizia Penitenziaria tutti i giorni a San Gimignano come in tutti gli istituti penitenziari. Si deve difendere il lavoro prezioso che fa la Polizia Penitenziaria, che è una risorsa dello Stato civile, ricordiamocelo. Il lavoro della Polizia Penitenziaria non ha nulla a che fare con l’episodio accaduto”. Dell’accaduto non hanno parlato i detenuti che hanno incontrato Basentini nelle sezioni di media sicurezza, quelle con maggiore criticità dovute al sovraffollamento, e nelle sezioni con quelli in isolamento. I reclusi hanno invece espresso “carenza di lavoro e una inadeguata assistenza sanitaria. Il clima tra i reclusi era buono e di piena collaborazione e rispetto nei confronti del lavoro degli agenti penitenziari”. Domani, come si legge sul profilo Facebook della Lega di Poggibonsi, è atteso nel carcere di San Gimignano anche l’ex ministro Salvini. San Gimignano (Si). Il ministro Bonafede deve intervenire di Fabio Galati La Repubblica, 25 settembre 2019 I doverosi richiami garantisti alla conclusione del lavoro della magistratura sui presunti casi di tortura all’interno del carcere di San Gimignano non possono esimere il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dal prendere posizione e intervenire. E non sugli eventuali reati commessi da agenti di custodia. Per quelli, appunto, la parola è ai magistrati. Piuttosto sulla condizione stessa del carcere di San Gimignano. In questi giorni Repubblica ha scritto che il garante regionale dei detenuti Corleone giudicava la struttura “un bubbone che doveva scoppiare”. Il sindaco Marrucci ha spiegato di aver più volte comunicato al ministero stesso che il carcere era “abbandonato a se stesso”. Ora si scopre che la direzione è affidata a mezzo servizio a un reggente che deve dividersi con Arezzo. Al netto dell’inchiesta che ha, appunto, fatto scoppiare il bubbone, il ministro dovrebbe ora prendere la parola e annunciare interventi immediati. La visita del Capo del Dap organizzata in tutta fretta ieri non può ovviamente bastare. Tanto più che all’uscita le parole sono sembrate di tono assai diverso rispetto alle critiche riportate prima. E se è per questo (leggete tutto nell’articolo accanto) a quelle del magistrato di sorveglianza Venturini. Il sovraffollamento, le tensioni evidenziate e addirittura la mancanza d’acqua d’estate necessitano di un piglio decisamente più incisivo. Tanto più che le massicce richieste di trasferimento da parte degli agenti che storicamente segnano la storia della struttura sono un’altra evidente spia che si debba trattare di un luogo decisamente poco ospitale. Pensare di lasciare la soluzione di problemi di questa portata ad un dirigente che deve dividersi tra due carceri distanti 110 chilometri di strada (o 66 in linea d’aria) assomiglia troppo ad una scelta pilatesca. Busto Arsizio. “Carcere sovraffollato e niente lavoro ai detenuti”, l’allarme del Garante di Andrea Aliverti malpensa24.it, 25 settembre 2019 “Non lasciamo i detenuti chiusi nelle celle a far niente”. Altrimenti il sovraffollamento rischia di trasformare il carcere in una vera e propria polveriera. È un allarme quello che ha lanciato lunedì, nel corso della sua audizione in commissione speciale carceri al Pirellone, il Garante dei Detenuti della Casa circondariale di via per Cassano Matteo Tosi. Rivolgendo un accorato appello ai rappresentanti politici a “sollecitare l’attivazione di borse lavoro per i detenuti e in generale più attenzione” per le condizioni di chi vive e lavora dietro ai e degli cancelli di via per Cassano, a partire dagli “agenti di polizia penitenziaria”, che per primi subiscono gli effetti di “una situazione che si sta aggravando”. In 450 in una struttura da 300 posti - I numeri che il Garante ha dato ai consiglieri regionali rimandano ad un’epoca che sembrava ormai superata, quella del sovraffollamento record di qualche anno fa: attorno ai 450 detenuti presenti, contro una capienza di circa 300, il 50% in più di quanto la struttura di via per Cassano potrebbe, e dovrebbe, ospitare. “Ma non è quello il problema più urgente - ammette paradossalmente Matteo Tosi - oltre ad essere sfibrata dagli spazi ristretti, la popolazione carceraria è in gran parte lì a far niente. Avrebbero diritto a compiere delle attività, come corsi, laboratori, lavoretti, misure alternative, ma l’assenza di un ufficio trattamentale realmente costituito paralizza tutto”. Da più di un anno, infatti, da quando la storica responsabile Rita Gaeta è andata in pensione, il settore che sovrintende alle attività educative, lavorative e ricreative è affidato a figure part time in missione a tempo determinato “che fanno quello che possono”, con il risultato che “non si riescono più a programmare iniziative, se non interne ed estemporanee, o ad organizzare qualcosa di nuovo, ma nemmeno a ripetere iniziative che si sono sempre fatte, come le visite delle scuole”. Meno attività si fanno, è la sintesi del ragionamento del Garante, più tensioni e frustrazioni si accumulano nelle celle. “Ritardi sulle misure alternative” - Ma, ancor più grave, si accumulano “ritardi sulle misure alternative”, il che rappresenta per i detenuti un problema di “diritti calpestati”, come fa notare Matteo Tosi, facendo il paragone con la nota vicenda dell’ex governatore lombardo Roberto Formigoni. “Nel suo caso la relazione di sintesi (il documento redatto dall’area trattamentale che serve per “aprire le porte” alle misure alternative alla detenzione, ndr) è stata aperta e chiusa in sei mesi, mentre qui ci sono detenuti per i quali dopo un anno nemmeno si è aperta” afferma l’ex consigliere comunale bustocco. Quadro impietoso: serve “un segnale” - Se a questo problema si aggiungono quelli strutturali della Casa circondariale, come le carenze di organico (personale di polizia, educatori, assistenti sociali e medici), la presenza di una maggioranza di detenuti stranieri e provvedimenti che tardano a concretizzarsi come l’arrivo di un mediatore in lingua araba o l’attivazione dei colloqui via Skype, la fotografia della situazione in via per Cassano è tutt’altro che rassicurante. Ecco perché alla politica regionale Matteo Tosi ha chiesto qualche “segnale” di inversione di tendenza, che restituisca speranza ai detenuti: non solo “attivarsi per sollecitare la nomina di un responsabile per l’area trattamentale”, ma anche “sollecitare le amministrazioni locali del territorio a mettere a disposizione dei detenuti qualche borsa lavoro, che dia occasione di uscire dalla cella per fare qualche lavoretto, imbiancature, manutenzioni, giardinaggio”. In fondo, un appello a rivolgere un po’ di attenzione, con un pizzico di buona volontà, a quel che succede dietro le sbarre del carcere di Busto Arsizio. Roma. Uccise i figli in carcere a Rebibbia, il pm chiede assoluzione per “vizio di mente” Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2019 Bisognerà attendere il prossimo 17 dicembre per conoscere le sorti della detenuta tedesca. Era il 18 settembre 2018 attorno a mezzogiorno quando la detenuta compì il gesto: la detenuta scaraventò giù dalle scale i suoi due figli: una bimba di quattro mesi e il fratellino di due anni. Alice Sebesta, la detenuta che uccise i suoi due figli scaraventandoli dalle scale della sezione “nido” di Rebibbia, deve essere assolta per “vizio di mente”. È questa la richiesta del pm Eleonora Fini presentata al giudice per le indagini preliminari capitolino Anna Maria Govone. Bisognerà attendere il prossimo 17 dicembre, però, per conoscere le sorti della detenuta tedesca. Il giudice, infatti, prima di decidere ha deciso di far valutare al perito Fabrizio Iecher lo stato permanente - o meno - della condizione di pericolosità sociale della donna. Sarà lo psichiatra a recarsi al Rems di Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove la Sebesta è ospite, per una visita. Lo specialista ritornerà poi a metà novembre davanti al Gup per illustrare gli esiti degli accertamenti. Era il 18 settembre 2018 attorno a mezzogiorno quando la detenuta compì il gesto. La donna aspettò che le altre detenute si mettessero in fila per il pranzo, si avvicinò alle scale della sezione nido del carcere romano e scaraventò giù i suoi due figli: la bimba di 4 mesi morì sul colpo, il maschietto di quasi due anni morì qualche giorno dopo. “Sono una buona madre, sono consapevole di quello che ho fatto. Volevo liberare i miei figli, avevo paura della mafia e li volevo proteggere. Ero impaurita dalle cose che leggevo sui giornali”, disse durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto. Durante le indagini venne fissato un incidente probatorio per valutare le capacità di intendere e di volere della donna al momento del fatto, nonché la sua pericolosità sociale. Secondo la prima perizia la Sebesta era capace di intendere e di volere al momento del fatto, anche in considerazione della “deliberata assunzione di sostanza stupefacente in dose massiva per un mese prima del fatto reato”. Una conclusione opposta rispetto a quella a cui era arrivato il consulente del pubblico ministero che l’aveva considerata totalmente incapace di intendere e di volere. Poi, a inizio del 2019, il gip sostituì, su richiesta della procura, il perito, arrivando alla nomina dell’attuale consulente: Fabrizio Iecher. Dopo una prima analisi della donna, Iecher concluse che la Sebesta “è affetta da un disturbo schizo-affettivo di tipo bipolare” e al momento dei fatti “era totalmente incapace di intendere ma sufficientemente in grado di volere”. Ora la parola passa di nuovo al giudice che, dopo un’ulteriore verifica del perito, potrà stabilire le condizioni della donna. Porto Azzurro (Li). Un appello per aiutare i detenuti quinewselba.it, 25 settembre 2019 L’associazione Dialogo, che svolge varie attività di volontariato per aiutare i detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro, interviene con un appello per raccogliere alcuni oggetti di uso quotidiano. “Questa Associazione - spiegano dall’associazione Dialogo - è impegnata in varie forme di assistenza ai detenuti della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, fra le quali quella di fornire ad essi oggetti di uso quotidiano che spesso non possono procurarsi. In quest’ambito, confidando nello spirito di solidarietà e generosità dei nostri concittadini, dei negozianti e delle Associazioni di Categoria, rivolge un invito a donare a queste persone meno fortunate (nella maggioranza stranieri) oggetti a loro utili anche recuperabili dall’invenduto o dal non più attuali”. “Per indicazione - si legge nella nota dell’associazione- elenchiamo alcuni dei generi più richiesti precisando che sono destinati solo al sesso maschile: biancheria intima, abbigliamento in genere quali felpe e tute, magliette, maglioni, giacconi, pantaloni jeans, berretti, scarpe, asciugamani, coperte/plaid, oggetti per l’igiene personale come sapone, dentifricio, spazzolini da denti, ecc.”. “Nel ringraziare in anticipo - concludono dall’associazione Dialogo - preghiamo coloro che desiderano aderire alla richiesta di contattarci al seguente numero 347.9223157, un nostro incaricato passerà a ritirare gli oggetti”. Matera. Firmato accordo per il reinserimento sociale dei detenuti materanews.net, 25 settembre 2019 È stato siglato il 23 settembre un “protocollo per l’inclusione sociale di persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria” tra l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Matera e la Fondazione Matera Basilicata 2019, che prevede per soggetti “messi alla prova” di effettuare attività di volontariato nel quadro del programma della capitale europea della cultura. A firmare il protocollo, il direttore dell’Uiepe Annarita Di Gregorio e il presidente della Fondazione Salvatore Adduce. Con la riforma del 2014, infatti, alla misura della sospensione dell’esecuzione per i condannati con meno di tre anni da scontare per il fine pena, si è accompagnata l’estensione agli adulti della possibilità, da tempo prevista per i minori, di chiedere la sospensione del procedimento giudiziario per un periodo di “messa alla prova”. Un percorso composto da lavori di pubblica utilità, volontariato, supporto per il reinserimento e, ove possibile, risarcimento della vittima. In questo scenario la città di Matera, con il suo ruolo di punta nella promozione culturale e nella visibilità internazionale, rappresenta un eccellente scenario per perseguire gli obiettivi specifici del protocollo: promuovere legami tra cittadini autori di reato e comunità per favorire l’attivazione di percorsi orientati alla responsabilizzazione e all’autonomia; favorire nelle persone coinvolte, la sperimentazione delle proprie capacità investendole nel rapporto con gli altri e nel proprio contesto di vita; stimolare forme di cittadinanza attiva migliorando la qualità delle relazioni di prossimità e la partecipazione alla vita della Comunità. Vasta la gamma delle attività che caratterizzano l’impegno dei Volontari di Matera 2019 e che coinvolgeranno i destinatari del protocollo: accogliere artisti e partecipanti agli eventi, delegazioni, studenti e visitatori; pubblicizzare gli eventi attraverso il volantinaggio e distribuire informazioni in luoghi strategici della città; partecipare ai laboratori insieme ai cittadini; svolgere attività di supporto alla logistica, agli uffici, ai progetti di comunità. Per ciascun soggetto coinvolto Uiepe e Fondazione Matera Basilicata 2019 collaboreranno per elaborare e realizzare un programma di trattamento individualizzato, esplicitando gli impegni specifici, il numero di giorni, le ore, nonché le modalità di attività di volontariato per le attività, eventi e progetti relativi a Matera Capitale Europea della Cultura 2019. Il protocollo è valido cinque mesi, è prorogabile, non prevede costi per le due parti. Salerno. Recupero dei detenuti attraverso interventi assistiti con gli animali ottopagine.it, 25 settembre 2019 Al via con il progetto di recupero dei detenuti del penitenziario di Salerno, con l’ausilio dei cani provenienti dal canile. Fissata per mercoledì 25 settembre la conferenza stampa di presentazione presso la sala convegni della casa circondariale di Fuorni. Saranno presenti: il direttore della Casa Circondariale di Salerno, dott.ssa Rita Romano, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Campania, Prof Samuele Ciambriello, e il direttore dell’equipe multidisciplinare dipendenze della Uo Tutela Salute Adulti e Minori della Asl Salerno, dott. Antonio Maria Pagano. Il programma riabilitativo attraverso interventi assistiti con gli animali (IAA), è diretto a detenuti che soffrono di tossicodipendenza, e si prefigge due obiettivi: 1. L’educazione assistita con animali per i detenuti della Casa Circondariale di Salerno, persone a rischio di esclusione sociale. 2. La sensibilizzazione sul fenomeno del randagismo. I cani verranno, infatti, selezionati in strutture che ospitano randagi, tra cui i canili di Salerno, con l’intento di educarli. Saranno, quindi, i detenuti stessi a dover formare, in un percorso di educazione di base, i cani che prenderanno parte al progetto. Il trial mira ad aumentare i livelli di autostima e autoefficacia dei detenuti, che impareranno così anche tecniche di base per una corretta interazione sociale. Attraverso tale progetto ci si augura anche di poter aumentare le possibilità di adozione dei cani all’interno di un ambiente familiare. Principio ispiratore di questa esperienza socio-riabilitativa è la considerazione che la presenza di un animale domestico all’interno di una prigione o di un istituto di correzione può giocare un ruolo molto importante. In un simile contesto, infatti, la solitudine, la depressione, l’assenza di autostima prendono il sopravvento e causano difficoltà anche nel momento del reinserimento nella società. L’introduzione di animali in queste realtà si mostra efficace proprio in virtù di meccanismi che tendono a riequilibrare tale situazione: occupano i soggetti, favoriscono le interazioni tra le persone, facilitano il dialogo e la collaborazione, donano affetto e restituiscono fiducia in se stessi nonché possono trasmettere alla società una immagine più positiva del detenuto. Negli ultimi anni tali misure d’intervento sociale e riabilitativo sono andate sempre più affermandosi, rivelando la loro validità nel recupero di persone a rischio di esclusione sociale. Il progetto costituisce il seguito del percorso realizzato nel penitenziario di Eboli nel 2018, vincitore del primo premio nazionale “Persona e Comunità” sull’inserimento sociale, e prevede un attento monitoraggio ed una valutazione dell’efficacia, attraverso strumenti validati e standardizzati, sia sui fruitori sia sui cani che parteciperanno. L’iniziativa sarà presentata al convegno “Carceri e Animali. Il Modello Italiano” organizzato dall’istituto zooprofilattico sperimentale di Padova il 4 ottobre 2019. Il progetto nasce dalla collaborazione tra direzione del penitenziario, Asl Salerno - equipe multidisciplinare dipendenze della unità operativa tutela salute adulti e minori area penale, cooperativa Dog Park, comune di Salerno, facoltà di veterinaria dell’università “Federico II” di Napoli e dell’università di Bari. Trento. “Liberi da dentro”, il carcere si apre ai cittadini ansa.it, 25 settembre 2019 I detenuti protagonisti di eventi culturali e ricreativi. Al via anche nel 2019 le attività culturali del progetto “Liberi da dentro”, realizzate da una rete di soggetti, coordinate dall’associazione Apas, all’interno del carcere di Trento. Realizzato con il finanziamento della fondazione Caritro, il progetto si avvale della collaborazione della Casa circondariale e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Trento. L’obiettivo dell’iniziativa è creare un’occasione di scambio tra la cittadinanza ed i carcerati, nell’ottica rieducativa della pena e di coinvolgimento attivo del territorio trentino. Il progetto prevede tre ambiti di attività: la biblioteca vivente (per dare voce alle testimonianze delle persone detenute), l’economia carceraria e le “cene galeotte” (eventi culinari promossi da detenuti formati dall’Istituto alberghiero di Levico Terme e Rovereto). Il primo appuntamento avrà luogo sabato 28 settembre a Riva del Garda (dalle ore 16 alle 19 in piazza delle Erbe). Il programma completo è presente sul sito: apastrento.it. Cagliari. Corso di robotica educativa, una settimana nel carcere minorile ilnuovotorrazzo.it, 25 settembre 2019 Il racconto di un’esperienza estiva fuori dal comune; la scelta di trascorrere parte delle ferie all’interno di un carcere minorile, perché anche lì si può, anzi si deve, imparare, apprendere, crescere. “Discorrendo su come questo mondo, complesso e difficile stia perdendo la sfida educativa con i giovani, soprattutto quelli in emergenza sociale, è nata la voglia di accettare l’idea (o meglio, la sfida) della ex direttrice del carcere minorile Quartucciu di Cagliari, Giovanna Allegri, di realizzare un laboratorio di Robotica Educativa all’interno dell’istituto penale, come un’opportunità per i giovani detenuti di conoscere e sperimentare uno dei nodi della rivoluzione tecnologica che la nostra società sta vivendo”. Proposta accettata e realizzata nell’ultima settimana di luglio da Donatella Tacca, insegnante di Informatica e di Robotica all’Iis G. Galilei di Crema e dal psicologo Silvio Bettinelli, responsabile della Formazione del personale dell’Asst di Crema per oltre 20 anni (nella fotografia). Giovanna ci conferma che la quasi totalità dei giovani detenuti non ha avuto rapporti facili con la scuola, con tante bocciature e abbandoni precoci. “Proporre un laboratorio di Robotica Educativa sarebbe stata di sicuro una grossa sfida, sia per i ragazzi che per noi che non conoscevamo nulla della realtà del carcere se non attraverso la cronaca e i Mass Media. Avevamo il timore che la proposta di un corso di robotica fosse troppo impegnativa per i giovani detenuti, ma avevamo anche molta fiducia nelle risorse e nelle potenzialità dei ragazzi stessi, per quanto limitate pur fossero state le loro esperienze di apprendimento e difficili quelle di vita. La sfida si è tramutata nella scelta di provarci, di spendere una settimana di fine luglio con i giovani detenuti nel carcere (11 in quel periodo), creando una occasione per progettare, studiare insieme, parlare, confrontarsi mentre veniva spiegato e sperimentato come sono fatti i robot, come funzionano e come si programmano gli MBot e gli Ev3. L’attività ha previsto infatti 2 moduli: quello della costruzione (hardware) del robot e quello della programmazione delle funzioni (software) che poi vengono trasferite al robot attraverso un cavo. Hanno partecipato in tanti e, dopo alcune diffidenze iniziali, tutti i giovani si sono fatti coinvolgere e si è creato un bel clima, un’atmosfera di ‘gioco’. Emergeva la passione nello smontare e avvitare, e fare correre i robot. Un po’ meno nel programmare, attività più ostica. In effetti, fare un intervento educativo-formativo così ambizioso in carcere, pur se già sperimentato in altri contesti, ha avuto un impatto emozionale molto forte. Abbiamo visto la fatica dei ragazzi detenuti nel partecipare a questa esperienza; fatica a svegliarsi il mattino e raggiungerci nell’aula, a stare seduti a un banco per qualche ora e a mantenere l’attenzione. Fatica di confrontarsi con le emozioni sgradevoli dell’aula scolastica, con la difficoltà di concentrarsi, la pazienza di seguire passo passo il manuale nel montare i pezzi, la fatica di ascoltare le spiegazioni, la fretta di vedere un risultato, la fatica a reggere le frustrazioni e le arrabbiature quando si incontrano difficoltà, i pensieri frequenti di non essere all’altezza, di non riuscire, di considerare l’esperienza una cosa che non fa per loro, che ‘non serve a niente imparare cose nuovè. Una parte del nostro lavoro è stato quello di far riflettere proprio sulla fatica di imparare, di farlo insieme ad altri e di uscire dalle abitudini consolidate. L’abbiamo fatto utilizzando brevi spezzoni di filmati e raccontando storie, metafore e proponendo attività che spostavano la riflessione su di loro e su come si comportano nella ricerca di soluzione dei problemi: dare la colpa ad altri, cercare alibi o capri espiatori, squalificare se stessi (non fa per me, non ci riuscirò mai…) o screditare le attività proposte (fare pizze, curare il giardino, lavorare il legno è più facile…). Li abbiamo invitati a riflettere anche sulle modalità più utili ed efficaci nel trovare soluzioni: provare e non arrendersi subito, farsi aiutare, lavorare collaborando con gli altri (in questo è stata di aiuto la presenza di Silvia, Alice e Mara, tre giovani studentesse di giurisprudenza e volontarie che li affiancavano nella sperimentazione). Ogni giornata si concludeva con una riflessione sulle ore passate insieme. Con un certo stupore da parte nostra anche questa parte di lavoro è stata accolta con interesse e partecipazione. Quando arrivavano gli agenti a prenderli per riportarli nelle stanze di pernottamento, i ragazzi non avevano alcuna fretta di andarsene. Ogni giorno era spunto per continue riflessioni, ragionamenti su come rendere più facile il lavoro, come coinvolgere tutti e organizzare il tempo, rivedere il programma e il modo di procedere. C’era molto stupore da parte dei giovani detenuti che ci fossero delle persone interessate a loro, che arrivano da così lontano carichi di computer, scatole piene di pezzi di robot e disponibili a passare una settimana con loro. ‘Ma perché siete qui?’ ‘Davvero avete pagato voi tutti questi robot?’ ‘Ma voi cosa ci guadagnate?’. Volevamo che questi giovani diventassero protagonisti dell’apprendimento, volevamo aiutarli a non negare le emozioni presenti nel gruppo e parlarne insieme, a dare supporto e creare e tenere alta la motivazione, a valorizzare i talenti che emergevano: Emilio, che scopre un talento innato per l’informatica e la soluzione di problemi; Luca, tenace, che pur avendo perso diverse ore di laboratorio, da solo, con accanimento e senza aiuti arriva a finire la costruzione del suo robot; Carlo, che prova a costruire un programma per far fare al suo robot un giro complesso e parcheggiare; Karim, che finalmente lascia le sue cuffiette che non toglieva mai entrando in aula, e scopre che non è capace solo di usare il suo potente fisico per fare goal, ma ha imparato a muovere il robot e per la prima volta negli ultimi due giorni l’abbiamo visto sorridere; Giovanni che, dopo diversi giorni di improperi, riconosce l’importanza della pazienza nel costruire passo passo, senza mollare uscire dall’aula alla prima difficoltà. “Allenare la pazienza è come allenare gli addominali, vero?”. J., Lucio e Federico, che non si espongono nel gruppo ma seguono tutto il lavoro con grande attenzione affiancando altri; Aleks, che ha scoperto la sua abilità nel fare pizze, ma anche nello scrivere (ha vinto un premio con un suo racconto) e che propone riflessioni sulle implicazioni sociali ed economiche della diffusione della robotica; e ancora Marco, con un viso pieno di tatuaggi e cicatrici, ci dice che userà l’attestato quando uscirà dal carcere, sempre ammesso che il mondo non sia troppo cambiato… Le giornate sono faticose, i ritmi sostenuti, ma finito il lavoro e dopo una buona mezz’ora di viaggio nella Cagliari trafficata della sera, poco prima del tramonto raggiungiamo la spiaggia del Poetto per un bagno. Questa esperienza nel carcere di Quartucciu, oltre che occasione per conoscere e stare con i giovani detenuti, ci ha permesso di incontrare persone speciali che hanno accettato la sfida e si impegnano in un lavoro quotidiano per il loro recupero: le educatrici del carcere, coordinate da Maria Cristina; suor Silvia, da anni impegnata a fianco di minori in difficoltà - in particolare adolescenti - con i quali vive da quasi vent’anni in una comunità alla periferia di Cagliari e collabora ai progetti nel carcere minorile; Giovanna, del Centro per la Giustizia Minorile della Sardegna ed ex responsabile del carcere minorile; Enrico, attuale direttore del carcere; Giampaolo, Dirigente Regionale. Ci aiutano a ragionare sul carcere, sui problemi dei minori e la necessità di dare sostegno alle famiglie alle prese con l’emergenza educativa, come la chiama suor Silvia: ‘Si pensa che l’investimento da fare al giorno d’oggi sia sul controllo e la sicurezza, ma il vero problema è la fatica di assumersi il compito educativo’. Ci raccontano le loro esperienze in carcere e nelle comunità: problemi comportamentali, anche molto gravi, dei giovani non rimandano solo a situazioni sociali e familiari degradate, ma a tutte le classi sociali. Lo scenario sociale oggi fa emergere il forte bisogno di accoglienza e di inserimento di adolescenti appartenenti non solo alle “classiche” famiglie multiproblematiche caratterizzate da degrado socio -economico-culturale e/o deviante, ma famiglie appartenenti ad ambienti sociali e culturali medio-alti che non riescono più a contenere i comportamenti trasgressivi e/o devianti dei figli adolescenti. Non mancano riflessioni sulle possibilità pedagogiche del carcere perché possa creare per questi giovani fiducia e possibilità di una vita diversa, la prospettiva di riscatto e reinserimento nella società, e sulla necessità di coordinamento tra le figure che hanno compiti psico-educativi e quelle che hanno compiti di custodia e sicurezza per far diventare il carcere una permanente comunità educante e responsabilizzante. Come dice un proverbio del Burkina Faso: non sono i singoli e neanche solo le famiglie… è il villaggio che fa crescere i piccoli…” Bolzano. “Donne dentro: detenute e agenti di Polizia penitenziaria raccontano” lavocedibolzano.it, 25 settembre 2019 Venerdì 27 alla Biblioteca Civica la presentazione del libro. Detenute e agenti di Polizia penitenziaria per la prima volta raccontano la loro vita, accomunate dall’esperienza di vivere, per motivi diversi, per l’intera giornata o buona parte di questa, all’interno di un istituto carcerario. Un diario di viaggio tra le carceri di Genova, Milano, Pozzuoli, Roma, Sollicciano, Venezia e Verona degli anni Novanta che non trova paragoni nella letteratura italiana. L’appuntamento è con il Centro per la Pace e la Caritas diocesana venerdì 27 settembre alle 18.00 presso la Biblioteca Civica in via Museo 47, a Bolzano. Interviene Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto. Introduce e modera il responsabile del servizio Odòs di Caritas Alessandro Pedrotti. La storia - “Donne dentro. Detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano” è un viaggio all’interno di sette carceri italiane alla ricerca di voci delle donne che vivono e lavorano all’interno di esse: detenute, agenti, volontarie che hanno raccontato la vita quotidiana, il lavoro, l’amore, la solitudine, il futuro, partendo da una realtà così difficile e dolorosa come quella del carcere. Ne è nato un libro che, per la prima volta in Italia, racconta senza interferenze le parole, i progetti, il cambiamento di queste attrici della scena del carcere, forse l’istituzione più rimossa dalla nostra cultura. Detenute, agenti e volontarie parlano alla giornalista Monica Lanfranco, che restituisce così all’esterno preziosi frammenti di società femminile altrimenti sconosciuta. Con postfazione di Lidia Menapace. Monica Lanfranco - Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto e portavoce del Coordinamento Nazionale delle Consulte per la laicità delle Istituzioni. Tra le varie cose, scrive per il Fatto Quotidiano, per la sua rivista www.mareaonline.it, per la radio web www.radiodelledonne.org ed è autrice di vari libri. Ha un luogo di seminari ed incontri che si chiama Altadimora. Livorno. Squadra di rugby composta da detenuti parteciperà a campionato regionale ansa.it, 25 settembre 2019 La squadra di rugby “Le pecore nere”, composta da detenuti dell’alta sicurezza del carcere di Livorno parteciperà per la prima volta ad un campionato regionale, “Old” amatori, della Federazione italiana Rugby. Giocherà sempre in casa, nel campo interno del penitenziario. Alla presentazione dell’iniziativa, che si è tenuta oggi, martedì 24 settembre, negli uffici della direzione del carcere, hanno partecipato il direttore della casa circondariale Carlo Alberto Mazzerbo, l’assessore al sociale del Comune di Livorno Andrea Raspanti, il garante dei detenuti Giovanni De Peppo, alcuni dirigenti della Fir e il presidente del Coni provinciale Gianni Giannone. “È un vanto, ma soprattutto un’occasione di riscatto - ha detto De Peppo -, per la prima volta la squadra dei detenuti del carcere di Livorno parteciperà a un campionato federale. Uno sport che ha un grande valore come il rugby dove c’è una capacità di gioco di squadra, una condivisione delle regole e del rispetto dell’avversario con grande solidarietà e altrettanta condivisione anche fuori dal campo”. ‘Le pecore nerè saranno allenate dai tecnici Manrico Soriani e Michele Niccolai, due ex giocatori Lions Amaranto che da qualche anno si sono messi a dare una mano ai detenuti mettendo insieme la squadra di rugby. I reclusi disputeranno appunto le loro partite sempre in casa, nel campo interno del carcere, un terreno sintetico che avrebbe bisogno di qualche intervento di ristrutturazione. “Mi attiverò con i cani istituzionali - ha spiegato Giannone - per vedere se si riesce a trovare una possibilità di intervento per rifare il manto erboso”. Ambiente. Greta Thunberg e i grandi che non credono ai limiti del mondo di Paolo Giordano Corriere della Sera, 25 settembre 2019 La realtà del cambiamento climatico ha smascherato la fiaba della crescita economica eterna. Ma solo la nuova generazione porta il fardello di saper vedere in pieno la verità. In questo anno dedicato al clima e alla Luna è stato spesso ricordato il momento in cui gli astronauti in orbita videro per la prima volta la Terra nella sua interezza, e la fotografarono, svelandone d’un tratto la solitudine e la fragilità. Alcuni pongono addirittura quella “visione d’insieme” all’origine della coscienza ambientalista. È singolare, a pensarci. Ciò che gli astronauti “videro per la prima volta” era in effetti noto da secoli: la Terra è sferica, per lo più coperta di oceani, e se ne sta da sola in mezzo al buio raggelante del Sistema Solare. Ma quella finitezza che tutti sapevano non era mai passata dal cervello al cuore, per così dire, non aveva intriso le coscienze. L’umanità abitava su un pianeta che sapeva limitato, ma di cui non ammetteva davvero il bordo. Cinquant’anni dopo, a quanto pare, non siamo cambiati granché. Al summit delle Nazioni Unite, Greta Thunberg ha accusato i leader mondiali, e tramite loro due o tre generazioni di donne e uomini, di non aver compreso appieno la gravità della situazione climatica, “perché se aveste capito e ancora vi rifiutaste di agire, allora sareste malvagi”. Ciò che Greta sembra ignorare, legittimamente, è che comprensione e incoscienza possono convivere in piena armonia, e molto a lungo; che si può conoscere con esattezza la verità su qualcosa e al tempo stesso non crederci sul serio. I sondaggi dimostrano che il negazionismo climatico è ormai un problema marginale, pressoché superato, con qualche eccezione illustre. La scienza non dubita più di sé stessa - “there is robust evidence” si legge sul sito dell’Ipcc - e gli adulti del mondo non dubitano più della scienza. E tuttavia, contemporaneamente, nessuno crede davvero al cambiamento climatico, solo - almeno ce lo auguriamo - i più giovani. “C’è un concetto che corrompe e confonde tutti gli altri, ha scritto Calvino. Non parlo del Male il cui limitato impero è l’etica; parlo dell’Infinito”. La crisi d’immaginazione - di fede - in cui ci ha gettato il climate change ha a che fare con l’Infinito di cui parla Calvino. Con la presunzione, inscritta in ognuno di noi dall’infanzia, che certe risorse siano illimitate. Greta ha lambito questi due concetti, l’infinito e l’infanzia, quando ha accusato gli adulti di spacciare ancora “fiabe sulla crescita economica eterna”. Ne ha fatto una questione di avidità, di pigrizia, senza sapere che gli infiniti in cui crediamo da bambini sono impossibili da estirpare. Ricordo la descrizione della foresta amazzonica sul libro di geografia, come una riserva sconfinata di alberi e ossigeno. Quell’aggettivo, “sconfinato”, è radicato in me più a fondo di qualsiasi nozione quantitativa io possa aver acquisito in seguito, e non vacilla sul serio neppure davanti ai video apocalittici degli incendi, alle spacconate di Bolsonaro e ai grafici vertiginosi. A volte posso aver paura, ma la mia foresta amazzonica è pur sempre inesauribile. Non è mancanza di etica, perciò, non strettamente almeno. Né d’intelligenza. Einstein, che non ne difettava, si rifiutò fino alla fine di ammettere la meccanica quantistica che lui stesso aveva contribuito a scoprire, perché quel mondo discreto, fatto di salti, contraddiceva l’idea di continuità, d’infinito, in cui era cresciuto. E Da Vinci, pur avendo compreso che il moto perpetuo non poteva essere realizzato da una macchina, non smise mai davvero di crederci. Come si può sperare, allora, che una porzione intera di umanità cambi in corsa la sua idea del cielo? Che ne accetti all’improvviso la finitezza? L’immensità dell’atmosfera che si surriscalda come una camera da letto: lo sappiamo, certo, e la certezza aumenta a ogni record di temperatura estiva; abbiamo i dati a portata di mano, dati espressi in giga-tonnellate-di-anidride-carbonica-equivalente, alla fine ci entrerà perfino questo nella testa, ma non ci crediamo. E se anche ce la metteremo tutta, se saremo più accorti nello spegnere le luci, se ci doteremo di borracce alla moda per non sprecare altra plastica, se prenderemo meno aerei (o più probabilmente no), se compreremo un’auto ibrida rottamando la nostra, ancora non ci crederemo. La generazione di Antonio Guterres e dei miei genitori è vissuta nella “fiaba della crescita economica eterna”, noi abbiamo saputo dall’inizio che era una bugia. Per noi, Venezia e New York saranno così come sono per sempre, agli occhi di Greta questa è solo un’altra menzogna. E chissà in quale altra illusione d’infinito lei e i suoi sono intrappolati senza saperlo. Nei mesi scorsi li abbiamo guardati scioperare di venerdì e li abbiamo applauditi. Con un’enfasi che celava a stento la condiscendenza abbiamo detto: “Guardateli, sono più responsabili di noi, sono migliori”. In realtà, avremmo dovuto dire: “Guardateli, forse vedono un limite che noi non possiamo vedere, forse credono in qualcosa in cui noi non possiamo credere”. Che invidia. Ma che fardello anche, che sfortuna. Per noi, almeno, i ghiacciai esisteranno anche quando non ci saranno più. Migranti. Il piano del governo: sbarchi nei porti nordafricani di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 settembre 2019 Roma tratta con Tunisia, Algeria e Marocco per inserirli nella lista dei “Paesi sicuri”. Un elenco di “Paesi sicuri” in Nord Africa dove far sbarcare i migranti provenienti dalla Libia. E dove riportare chi proviene proprio da quegli Stati che a questo punto non avranno più i requisiti indispensabili per chiedere asilo politico. È questa la strada che il governo italiano sta portando avanti - d’intesa con la Commissione europea - per limitare gli arrivi e convincere altri governi della Ue a siglare l’accordo raggiunto a Malta. “Un passo avanti storico”, lo definisce il premier Giuseppe Conte prima di annunciare “una svolta risolutiva sui rimpatri” e bacchettare il leader della Lega che definisce la bozza preparata a La Valletta “l’ennesima promessa, ma fatti zero”. Conte risponde ironico: “Salvini non deve avere gelosia e invidia. Prima avevamo una redistribuzione affidata alle mie telefonate e a quelle del ministro degli Esteri, Moavero”. E Di Maio rincara la dose: “Su ricollocamenti e rimpatri faremo più di lui, forse non ci voleva molto”. L’elenco dei porti - Tunisia, Algeria, Marocco: sono questi i Paesi che nelle intenzioni dell’Italia dovrebbero poter accogliere le navi cariche di migranti. In questo modo si otterrebbe una “rotazione” più ampia dei luoghi destinati agli sbarchi e chi proviene da quelle zone sarebbe eliminato dalla lista di coloro che possono richiedere asilo a meno che non siano in particolari condizioni di pericolo. Dunque, anche il rimpatrio potrebbe diventare più veloce. Per questo nei prossimi giorni saranno siglati patti bilaterali che, in cambio di progetti di sviluppo e aiuti economici, dovrebbero spingere i governi nordafricani ad accettare la riammissione dei propri cittadini con procedure più veloci. Intesa a tempo - Convincere gli Stati dell’Unione ad aderire all’accordo di Malta accettando la redistribuzione obbligatoria dei migranti, non sarà facile. Per questo si sta cercando di alleggerire il numero degli stranieri da ricollocare e soprattutto si stanno inserendo nella bozza - già firmata da Italia, Malta, Germania, Francia e Finlandia - alcune limitazioni. L’intesa ha una durata di sei mesi e sarà rinnovata soltanto se porterà a risultati concreti. Consentirà di trasferire - in base a quote stabilite a priori che variano dal 10 al 25 % - soltanto chi arriva a bordo delle navi delle ong oppure è stato salvato da Guardia costiera o Guardia di finanza. Scorrendo la lista degli stranieri giunti quest’anno, si tratta del 10 per cento di chi sbarca. All’Italia rimarrà in carico il restante 90 per cento e per questo ha la necessità di aumentare il numero dei rimpatri. Le penalizzazioni - Rimane stabilito che la rotazione dei porti europei per gli sbarchi sarà volontaria. Ieri la portavoce della Commissione Ue Natasha Bertaud ha voluto sottolineare la volontà “di trovare soluzioni a lungo termine con la riforma del sistema di Dublino, che abbiamo già messo sul tavolo” ma anche l’obiettivo di “portare sostegno a tutti gli Stati membri, specialmente a quelli che subiscono delle pressioni più forti”. La scelta già condivisa è di non imporre sanzioni a chi non aderisce al patto, prevedendo comunque eventuali penalizzazioni economiche per chi non si fa carico di accogliere e gestire i profughi. Migranti. Nell’accordo di Malta la stretta sulle navi umanitarie di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 settembre 2019 Le nuove regole ricalcano il codice Minniti. Via le supermulte previste dal decreto sicurezza. Ma le Ong non dovranno ostacolare i soccorsi delle Guardie costiere, inclusa quella libica. “Tutte le navi impegnate in operazioni di soccorso dovranno rispettare le istruzioni del competente centro di coordinamento, non dovranno spegnere i transponder e il sistema automatizzato di informazioni, non dovranno mandare segnali di luce né alcuna altra forma di comunicazione per facilitare la partenza di imbarcazioni che portano migranti dalle coste africane”. E soprattutto “non dovranno ostacolare le operazioni di ricerca e soccorso delle imbarcazioni ufficiali delle Guardie costiere, inclusa quella libica, e provvedere a specifiche misure di salvaguardia della sicurezza dei migranti e degli operatori a bordo”. Nella bozza di accordo sul meccanismo di redistribuzione delle persone salvate nel Mediterraneo firmata lunedì a Malta c’è un capitolo che detta regole severe per le navi umanitarie. Regole che ricalcano l’ossatura del codice di condotta ideato dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e firmato da quasi tutte le organizzazioni nel 2017. La linea, che ha trovato unanimità tra i ministri dell’Interno di Italia, Francia, Germania, Malta e Finlandia, è quella ribadita ieri dal premier Conte: “Non consentiremo alle Ong di decidere chi entrerà nel nostro Paese”. Ieri mattina, per la prima volta da più di un anno a questa parte, una nave umanitaria, la Ocean Viking di Sos Mediterranée e Msf, è entrata “pacificamente” in un porto italiano, quello di Messina, per sbarcare 182 migranti che saranno distribuiti in diversi paesi. D’ora in avanti dovrebbe funzionare sempre così se l’Europa accetterà l’accordo siglato lunedì a La Valletta. Ma le Ong, che pure hanno salutato con prudente apprezzamento il patto di Malta, non avranno di certo vita facile. Le supermulte previste dal decreto sicurezza bis spariranno, ma le regole rigide a cui dovranno uniformarsi resteranno. Anche nella legislazione italiana. I tecnici del Viminale e di Palazzo Chigi sono già al lavoro sulle linee guida indicate dal presidente della Repubblica Mattarella ma comunque le sanzioni (con nuovi criteri) per chi dovesse violare eventuali divieti di ingresso in acque italiane e la confisca delle navi recidive non saranno cancellate anche se solo in casi estremi si arriverà a tanto. L’Italia e gli altri paesi firmatari dell’accordo non intendono correre il rischio di una ripresa dei flussi migratori che saranno gestiti con “questo meccanismo temporaneo che - si legge nella bozza - non dovrà aprire nuovi percorsi irregolari verso le coste europee edovrà evitare la creazione di nuovi fattori di attrazione”. Condizione necessaria per cercare di allargare il più possibile, già dalla prossima riunione del Consiglio Affari interni della Ue dell’8 ottobre a Lussemburgo, la platea dei Paesi volontari. Con un’incognita su tutte, l’adesione di Spagna e Grecia, i due Paesi quest’anno interessati dal maggior numero di arrivi. Il ministro dell’Interno spagnolo Fernando Grande Marlaska ha espresso il suo disappunto per non essere stato invitato a Malta. La Spagna potrebbe pure starci ma ovviamente nella redistribuzione dovrebbero entrare anche i migranti soccorsi dalle navi del Salvamento marittimo, 20.000 solo quest’anno. Migranti. “Abolire subito i decreti sicurezza e gli accordi con la Libia” di Luca Liverani Avvenire, 25 settembre 2019 La campagna di organizzazioni cristiane e laiche lancia un appello a Governo e Parlamento - e una raccolta di firme - per abolire le misure contro Sprar e Ong di soccorso e il sostegno a Tripoli. Abrogare i due decreti sicurezza voluti dal ministro Matteo Salvini e il memorandum di intesa con la Libia per il contrasto dei flussi migratori verso l’Italia firmato dal presidente del governo Paolo Gentiloni. L’appello è promosso da #IoAccolgo, progetto lanciato a giugno con un flash mob a Roma a Trinità dei Monti, cui hanno aderito fino ad oggi oltre 40 realtà nazionali e internazionali (tra cui A Buon Diritto, Acli, Arci, Asgi, Caritas, Centro Astalli, Cgil Cisl e Uil, S.Egidio, Fcei, Focsiv, Gruppo Abele, Intersos, Legambiente, Migrantes, Msf, Oxfam). “L’obiettivo politico dell’iniziativa - dicono i promotori - è quella di riaprire il dibattito nella società e nelle aule parlamentare su questi temi. Senza un intervento di modifica, infatti, le norme approvate dalla precedente maggioranza restano pienamente in vigore, continuando a produrre effetti devastanti in termini di violazioni dei diritti e di esclusione sociale dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione”. #IoAccolgo ricorda che “il nuovo Governo ha in programma la revisione della disciplina in materia di sicurezza alla luce delle osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica” ma allo stesso tempo “richiama l’urgenza di intervenire” per “l’abrogazione o comunque una profonda modifica dei due decreti, nonché l’annullamento degli accordi con la Libia”. Cinque i punti imprescindibili dell’appello della società civile. Primo: reintrodurre la protezione umanitaria, abrogata dal decreto legge 113 del 2018. “Decine di migliaia di persone che pure avrebbero diritto all’asilo ai sensi dell’articolo 10 della Costituzione o che si trovano in condizioni di estrema vulnerabilità per gravi motivi di carattere umanitario vivono oggi nel nostro Paese senza poter ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno, condannate così all’emarginazione o allo sfruttamento” Seconda richiesta: abrogare la norma riguardante la residenza dei richiedenti asilo. “Nella maggior parte dei comuni i richiedenti asilo non vengono più iscritti all’anagrafe. L’impossibilità di ottenere la residenza determina enormi problemi nell’inserimento lavorativo e nell’accesso ai servizi, contribuendo a ostacolare l’inclusione sociale”. La terza richiesta dell’appello è ristabilire un sistema nazionale di accoglienza che promuova l’inclusione sociale di richiedenti asilo e titolari di protezione. Per colpa dei Decreti sicurezza “i richiedenti asilo non possono più essere inseriti nel sistema di accoglienza gestito dai Comuni, ex-Sprar, ma possono essere accolti unicamente nei Cas (centri di accoglienza straordinaria), strutture prefettizie spesso di grandi dimensioni e privi di servizi fondamentali come i corsi di italiano, l’orientamento lavorativo e la mediazione interculturale”. Il quarto punto dell’appello riguarda l’abrogazione dei divieti per le navi impegnate nei salvataggi. “Norme che hanno comportato gravi violazioni del diritto internazionale che impone agli stati di indicare alla nave che abbia soccorso dei naufraghi un porto sicuro dove farli sbarcare” nel più breve tempo possibile”. Il osservanza del decreto legge 53 del 2019 “uomini, donne e bambini già provati dalle violenze subite in Libia sono stati trattenuti per settimane sulle navi soccorritrici in condizioni inaccettabili”. Il risultato ottenuto, sostengono le organizzazioni, “ostacolando le navi umanitarie e scoraggiando le navi commerciali dall’intervenire nei salvataggi è di aumentare le morti in mare”. L’ultimo auspicio della campagna #IoAccolgo è che il governo “annulli immediatamente gli accordi col governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori”. Numerosi rapporti di organismi indipendenti e internazionali hanno comprovato che i migranti intercettati dalla cosiddetta guardia costiera libica “vengono sistematicamente rinchiusi nei centri di detenzione, in condizioni disumane, e sono sottoposti a torture, stupri e violenze”. #IoAccolgo lancia una raccolta di firme a sostegno dell’appello. Oltre ai banchetti nelle piazze, è possibile firmare anche online sul sito della campagna. Sulla droga Salvini torna al paleolitico di Francesco Maisto Il Manifesto, 25 settembre 2019 Discontinuità, discontinuità…, ma quale discontinuità rispetto alla politica sulle droghe? Fino ad ora solo un silenzio assordante e la persistenza di azioni meramente repressive, coltivando l’illusione che questo rilevante fenomeno commerciale, finanziario, culturale, criminale e sociale del nostro paese sia solo materia di competenza del Ministero degli Interni con appendici nel sistema di giustizia e della sanità. “La salute dei nostri figli significa anche guerra, ma guerra vera, non guerra per finta, città per città, a ogni tipo di droga, che uccide l’anima e uccide il corpo. E se qualcuno pensa di portare in quest’Aula lo Stato spacciatore, dovrà passare sui nostri corpi, perché lo Stato spacciatore di droga e di morte è indegno di un Paese civile. Aspettiamo al varco. Abbiamo sentito quel genio di Saviano, la settimana scorsa, dire che bisognerebbe legalizzare la cocaina. Portatela una proposta di legge di questo genere in quest’Aula e non vi facciamo uscire a mangiare e a dormire, che riguardi la cocaina o qualunque altro genere di droga”. Così l’ex Ministro dell’Interno al Senato durante il dibattito sulla fiducia al Governo Conte bis. Tralasciando le politiche adottate da tempo negli Stati più avanzati, oggi nel mondo qualcosa si muove: perfino Trump ha deciso di non interferire con gli Stati che legalizzano la cannabis, sicché nella patria della “tolleranza zero” e della war on drugs qualcosa è cambiato. In vari Stati danno buoni risultati i programmi che privilegiano assistenza sanitaria e reinserimento sociale, anziché repressione giudiziaria, per le persone che usano sostanze. Si ha notizia di sistemi di perdono on line per le cessioni di piccole quantità di droghe. La nuova compagine di Governo non può trascurare alcune proposte di riforme normative ed organizzative, ma è pregiudiziale una discontinuità di pensiero: questa è una questione complessa e globale che esige un approccio diverso comprensivo delle politiche nazionali ed europee sulla Sanità, la Giustizia, gli Interni e le politiche sociali tutte orientate ai precetti ed ai valori della nostra Costituzione sulla tutela del diritto alla salute ed alla funzione riabilitativa delle pene. Solo un pensiero che ignora la storia, le regole del buon governo e le acquisizioni consolidate della clinica può continuare a sostenere “la soluzione unica” che ha ripreso vigore nel passato prossimo. In pochi mesi è tornato il sovraffollamento delle carceri e l’aumento dei detenuti tossicodipendenti; sono aumentati i processi a loro carico; è stato ingolfato il sistema penale di esecuzione penale esterna attraverso la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità, peraltro a costo zero. Tutte rime baciate con la riduzione delle risorse e dei servizi per la sanità. La discontinuità richiede dunque un cambio di rotta con l’attivazione di un circuito virtuoso e quindi non parcellizzato: non basterà una modifica lieve della legge sugli stupefacenti senza il contemporaneo cambiamento delle strutture e dei servizi. Saranno passaggi necessari: la riforma del Dpr 309/90 con la depenalizzazione completa di tutti i comportamenti legati all’uso di droghe ed una modifica profonda del sistema dei servizi pubblici (con il coinvolgimento del terzo settore attraverso la individuazione di una pluralità di tipologie dei servizi rivolti rivolte ai diversi modelli di consumo secondo la prospettiva della Riduzione del danno e dei rischi). Fondamentale su tutto il territorio nazionale sarà il convinto riconoscimento dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) per quanto riguarda la Riduzione del Danno. Da troppi anni manca una condivisione interprofessionale di esperienze e criticità che solo una Conferenza Nazionale sulle Droghe, peraltro prevista dalla legge, può offrire per elaborare strategie intelligenti. Se le Corti sono baluardi delle democrazie di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 25 settembre 2019 Due recentissimi esempi provenienti da realtà e sistemi giuridici profondamente diversi - quello anglosassone del Regno Unito e quello di tradizione europea/ continentale della Spagna - dimostrano il fondamentale ruolo di garanzia e di equilibrio svolto dalle Corti costituzionali o da organo equivalenti, quali le Corti supreme, a tutela del corretto funzionamento dei rapporti tra i poteri dello Stato o tout court della difesa della democrazia. In Gran Bretagna il governo ha chiesto la sospensione dei lavori parlamentari sino all’esito della Brexit, ma la Corte Suprema di quel Paese ha dichiarato illegittima la richiesta in quanto lesiva delle facoltà del Parlamento di svolgere le sue funzioni istituzionali. In Spagna la Corte Suprema ha approvato all’unanimità la richiesta di esumare i resti di Francisco Franco dal monumento della Valle dei Caduti, fatto costruire da Franco tra il 1940 e il 1958 ricorrendo al lavoro dei detenuti politici, ove erano custoditi i resti di migliaia di vittime dei due schieramenti della guerra civile 1936- 1939. Il governo spagnolo ha sottolineato che si tratta di una grande vittoria della democrazia in quanto la salma dell’ex dittatore in quel luogo costituiva “una mancanza di rispetto e di pace per le vittime che vi sono sepolte”. Ecco allora che in due situazioni apparentemente scollegate tra loro entra in funzione un particolare organo giudiziario, che proprio per la sua composizione e le sue funzioni può intervenire quale garante e tutore dei valori della democrazia. Vediamo allora più da vicino quali sono le caratteristiche della nostra Corte costituzionale e perché nel corso della sua ormai lunga attività - a partire dal 1956 - ha svolto funzioni così importanti nella storia italiana. La funzione di garanzia super partes è in primo luogo assicurata dalla composizione voluta dalla stessa Costituzione: i quindici membri sono designati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune con la maggioranza qualificata dei due terzi nei primi due scrutini e dei tre quinti nei successivi; per un terzo dalle alte magistrature ordinaria e amministrative (tre dalla Corte di Cassazione, uno dal Consiglio di Stato e uno dalla Corte dei conti). La pluralità degli organi chiamati a nominare i giudici costituzionali è di per sé garanzia di una equilibrata rappresentanza delle varie competenze tecnico giuridiche necessarie al buon funzionamento della Corte; il Presidente della Repubblica può infine intervenire per garantire il pluralismo ideologico e in senso lato politico dei suoi componenti. Sono queste le ragioni per cui la Corte è sempre stata in grado di intervenire al di sopra dei condizionamenti delle varie forze politiche. Sin dalla sua prima sentenza n. 1 del 1956, quando, andando in contrario avviso alla posizione della Cassazione, ha affermato che la Corte poteva prendere in esame la legittimità costituzionale di tutte le leggi ordinarie, anche quelle entrate in vigore prima della Costituzione, aprendo così la strada alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della legislazione fascista. Ha avuto così inizio la lunga marcia della Corte costituzionale, che colmando i ritardi e le lacune del Parlamento, ha mano a mano smantellato l’impianto legislativo ereditato dal fascismo ed ha poi resistito ai tentativi di vanificare importanti conquiste legislative - dalla legge sul divorzio a quella sull’interruzione volontaria della gravidanza - dichiarando infondate le relative questioni di legittimità costituzionale. In più occasioni è stata poi la stessa Corte a stimolare il legislatore ad affrontare temi sino ad allora trascurati, dal servizio pubblico televisivo al segreto dei giornalisti sulle fonti delle informazioni, preavvisando il Parlamento del rischio di creare pericolosi vuoti legislativi. Ed ancora una volta proprio in questi giorni la Corte è chiamata a decidere delicatissime questioni in tema di eutanasia e di suicidio assistito. Egitto. Isteria al Cairo: arresti di massa e coprifuoco di Pino Dragoni Il Manifesto, 25 settembre 2019 Colpiti sindacati e partiti per evitare la saldatura con le masse. Ma all’Onu Trump loda al-Sisi. Una testimone al manifesto: “Non avevamo mai visto una situazione così pesante. Hanno fatto blitz in casa di tutti nostri conoscenti. Ci sono agenti in borghese e camionette ovunque”. Mentre Trump incontrava a New York il suo “dittatore preferito” (così aveva definito poche settimane fa Abdel Fattah al-Sisi), in Egitto il giro di vite innescato dalle proteste esplose venerdì scorso ha raggiunto un livello di isteria senza precedenti. I due presidenti si sono incontrati lunedì a margine dell’Assemblea generale Onu. Trump ha come al solito osannato il suo omologo egiziano e, sminuendo la portata delle proteste in corso in Egitto, ha affermato: “Non mi preoccupano. L’Egitto ha un grande leader, è molto rispettato. Ha portato ordine, prima che ci fosse lui c’era molto poco ordine, c’era il caos”. Accanto a lui, con espressione sprezzante, sedeva un sorridente al-Sisi. Il generale-presidente alla stessa domanda ha dato una risposta molto vaga, accusando “l’Islam politico” di destabilizzare l’intera regione e l’Egitto. Secondo le stime diffuse dagli avvocati impegnati sul fronte della difesa legale, sono almeno 1.500 le persone detenute in seguito alle proteste di venerdì. I legali sono riusciti a risalire ai nomi di circa 800 di questi. Gli arrestati (per i quali lo stato di fermo è stato prorogato di 15 giorni) rientrano tutti in un’unica maxi-inchiesta che li vede accusati di “appartenenza a organizzazione terroristica e uso dei social media per diffondere notizie false”. Nella giornata di ieri la leadership del partito islamista Istiqlal (fuori legge dal 2014) è stata interamente decapitata dagli arresti. Secondo una fonte parlamentare filo-regime citata da MadaMasr, gli apparati di sicurezza intenderebbero ampliare la campagna repressiva per colpire soprattutto i partiti di opposizione. In questi giorni sono finiti dietro le sbarre anche due leader sindacali di Suez, esponenti di partiti di sinistra, almeno due avvocatesse e tre giornalisti. Proprio a Suez un gruppo di operai radunati per inscenare una manifestazione pro-regime ieri si è ribellata trasformando la farsa in una protesta anti-Sisi. La situazione più grave sembra essere quella vissuta al Cairo, soprattutto nei quartieri del centro della capitale. Una testimone (che chiede di restare anonima) ha descritto al manifesto una città totalmente militarizzata: “Non avevamo mai visto una situazione così pesante. Hanno fatto blitz in casa di tutti nostri conoscenti. Tra poco toccherà a noi. Controllano i pc, i cellulari e spesso portano le persone in caserma interrogandole per tutta la notte. Conosco uno studente che una sera è stato prelevato, bendato e portato in un ufficio insieme ad altri ragazzi. Lì sono stati pestati tutta la notte e poi lasciati andare”. “Una follia” è il termine più adatto a spiegare il livello di sicurezza in città. “Ci sono controlli ovunque. Agenti in borghese, baltagiya [bande criminali assoldate dal ministero dell’Interno], camionette ovunque”. Una novità inquietante è che tra le forze di sicurezza schierate ci sono molte agenti donne: “Prendono di mira le ragazze, ne stanno arrestando tantissime. Non era mai successo a questi livelli”. Il rischio è tale che si può essere fermati e sequestrati senza alcun motivo. “Molti di quelli che vengono presi non sono affatto persone politicizzate. Alcuni di noi non escono di casa da giorni per paura”. Il coprifuoco non dichiarato inizia verso le tre del pomeriggio, quando i controlli si intensificano e diventa rischioso camminare per strada. I lavoratori cercano di rientrare a casa il prima possibile per non essere costretti ad attraversare il centro di sera. “A Talaat Harb, una piazza centrale poco distante da Tahrir, la situazione è assurda: è impossibile camminare per la quantità di camionette e polizia”, continua la testimone. Insomma, la strategia del regime sembra duplice: da una parte colpire gli attivisti per impedire qualsiasi saldatura tra le opposizioni organizzate e il movimento spontaneo di massa emerso in questi giorni, dall’altra diffondere il più possibile il terrore tra la popolazione. Prossimo appuntamento in piazza venerdì (quando al-Sisi dovrebbe già essere tornato in patria), ma in questo clima è difficile prevedere che cosa potrà accadere.