Non si può morire in carcere di Carmine Alboretti La Discussione, 24 settembre 2019 Nel 2019 su 33 suicidi di detenuti ben 6 sono avvenuti in istituti di pena della Campania: tre a Poggioreale ed i restanti a Secondigliano, Benevento ed Aversa. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha lanciato l’ennesimo allarme, richiamando l’attenzione delle autorità preposte e dei cittadini sulla necessità di interventi mirati ad allentare la pressione sui detenuti per evitare che la lunga scia di morti violente vada avanti nell’indifferenza generale. Professore Ciambriello che sta succedendo negli istituti di pena della Campania? “Si stanno mettendo insieme più problematiche. Penso al sovraffollamento, ma anche alla presenza di poche figure sociali: basti pensare che in Campania su una popolazione carceraria di 7.800 detenuti ci sono solo 89 educatori e appena 45 psicologi, i quali spesso sono impegnati nelle Commissioni di disciplina che durano svariate ore e non possono dedicarsi all’attività di supporto e di assistenza. Oltre agli spazi angusti, poi ci sono poche attività pomeridiane. Al di là di tutto, comunque, non possiamo dimenticare che le carceri servono a limitare le libertà e non a togliere la vita”. Questo stato di cose è un po’ un tradimento della Costituzione? “Ogni morte violenta in carcere è un oltraggio alla vita, al buon senso e alla Costituzione che, all’articolo 27, dice chiaramente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. L’anno scorso nel nostro territorio abbiamo avuto 11 suicidi e ben 77 tentativi. Per fortuna non c’è una strage, grazie al pronto intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Questa è la dimostrazione che si attiva un circuito di solidarietà interna. Diversamente da quanto si può pensare, gli istituti non sono una discarica sociale fatta di violenza e sopraffazione. In questo modo, anzi, il carcere dimostra che è meno caino di noi che viviamo all’esterno e ci reputiamo tutti figli di Abele”. Di recente il Cardinale Sepe ha consegnato alla città ed alla Diocesi una lettera pastorale in cui parla della realtà del carcere, definendolo un luogo della vita e di speranza… “Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza generale su questo tema, così come non si può pensare che più carcere garantisca maggiore sicurezza. Personalmente sono per la giustizia giusta, la certezza e - aggiungo - per la qualità della pena. Al reo va tolto il diritto alla libertà non quello alla dignità. A proposito della lettera pastorale alla quale ha fatto riferimento in cui il cardinale Sepe parla di una delle cosiddette “Opere di misericordia”, Gesù Cristo non ha mai detto di andare a trovare i carcerati: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Questo fa nascere una responsabilità in capo a chi dice di essere credente. Il carcere non è una questione che interessa solo chi si trova a doverlo gestire, ma tutti sono chiamati in causa. Anche il mondo della cultura, dell’informazione e delle amministrazioni locali. Dal tema, infatti, può e deve scaturire una riflessione per una diversa attenzione alle periferie ed alle marginalità individuali e sociali. Il cardinale Sepe dice questo. La funzione rieducativa del carcere è possibile solo se nella esecuzione della pena siano garantite condizioni di dignità, di umanità e di rispetto dei principi costituzionali. Non si può morire di carcere, né in carcere”. Detenuti torturati a San Gimignano, il Garante: “Indagini in altre due procure” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 24 settembre 2019 Casi pure “a Torino, Ivrea, Viterbo, Salerno, Napoli, Piacenza, Udine e Brescia”. In un video, l’uso di idranti contro un recluso. Non c’è solo l’inchiesta della procura di Siena sui presunti episodi di abusi e torture a un detenuto nel carcere di San Gimignano. In altri due casi “le Procure stanno indagando per il reato di tortura, poi vedremo se verrà contestato”. La denuncia arriva dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, Mauro Palma, che nei mesi scorsi ha compiuto (insieme agli altri due membri dell’organo collegiale, Daniela de Robert ed Emilia Rossi), visite e ispezioni in diversi penitenziari. Otto episodi sospetti. I membri del Garante hanno individuato almeno 8 episodi che dovranno essere approfonditi: si va dai pestaggi (un caso ai primi di agosto nel carcere di Monza) all’uso prolungato del getto degli idranti come forma di vessazione (avvenuto a maggio nel carcere di Tolmezzo e documentato da un video). “Abbiamo segnalato casi alle Procure di Torino, Ivrea, Viterbo, Salerno, Napoli, Piacenza, Udine e a quella di Brescia, per un episodio avvenuto nel carcere di Monza”, annuncia Palma, “in due situazioni si indaga per il reato di tortura. Poi si vedrà se sarà realmente contestato, come avvenuto a San Gimignano”. Il video di Tolmezzo - In un rapporto del Garante, visionato da Avvenire, vengono descritte le presunte violenze subite da un detenuto (“il signor S.H.”) nel carcere di Tolmezzo (Udine) lo scorso 19 maggio. Ai membri del Garante, il detenuto ha riferito di aver protestato (“Sbattendo ripetutamente lo sportello della finestrina della porta blindata, fino a staccarlo”) dopo aver chiesto a un agente di passare alla persona detenuta nella stanza la una bottiglia contenente del caffè, da lui preparato e aver ricevuto un rifiuto. A quel punto “erano arrivati alcuni poliziotti penitenziari con casco e scudi e con la manica dell’idrante antincendio srotolata”. Con la bocchetta inserita nello spioncino della sua cella, avevano lanciato “getti di acqua all’interno verso ogni angolo”, inzuppando ogni cosa (materasso, libri, effetti personali) e rendendo inutile ogni suo tentativo di ripararsi. Al Garante (che nell’ispezione ha trovato quattro cassette degli idranti “vuote”) sono state dapprima fornite informazioni false (“Erano in manutenzione ordinaria”). Ma la delegazione ha chiesto alla “direttrice di visionare insieme i video delle telecamere di sicurezza della sezione isolamento lato A”. E le immagini hanno confermato la veridicità del racconto del recluso, mostrando “l’ingresso in sezione, alle ore 20.17, di 5 agenti” con un idrante con la manichetta srotolata, che “iniziano a lanciare acqua dentro alla stanza di S.H.” attraverso la finestrella e lo spioncino del gabinetto annesso alla stanza a più riprese, per un totale di 23 minuti. Come se non bastasse, “alle 20.32 viene collocata una coperta a chiudere lo spazio al di sotto della porta blindata, così bloccando il deflusso dell’acqua”. La coperta è stata rimossa solo alle 9 del mattino dopo. Oggi capo Dap a San Gimignano. Nell’inchiesta, che vede 15 agenti indagati per presunte torture a un detenuto, “la giustizia farà il suo corso”, dice il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Oggi il capo del Dap Francesco Basentini visiterà quel carcere, da tempo senza direttore. “Il Dap poteva intervenire prima, senza attendere l’esito delle indagini” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 settembre 2019 Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, si è subito attivato segnalando il caso al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura. Questo sarebbe stato, molto probabilmente, un segnale forte, di intransigenza verso eventuali abusi. Questione ribadita dal garante nazionale Mauro Palma durante la conferenza stampa di ieri, che ha aggiunto una ulteriore nota negativa: ovvero che la direzione del carcere per un determinato periodo non ha segnalato il caso al Dap. C’è voluta la professionalità e il coraggio di una educatrice che ha intrapreso di sua spontanea volontà, l’iniziativa di mandare una nota al dipartimento. “Non sono episodi che rappresentano la consuetudine”. Ul caso San Gimignano è scoppiato. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione immediata di quattro agenti penitenziari perché accusati di tortura effettuata nei confronti di un detenuto straniero del carcere di San Gimignano. Sono indagati, in tutto, 15 agenti penitenziari non solo per il reato di tortura (613 bis) e lesioni personali, ma anche falso ideologico, visto che i filmati della video sorveglianza hanno svelato che i loro racconti non combacerebbero con la realtà dei fatti. Il provvedimento del Gip, dopo le indagini della procura, è di quasi 500 pagine e ricostruisce l’intera vicenda con tanto di elementi, intercettazioni, ha precisato sempre Palma, ma “nello stesso modo bisogna essere reattivi quando arriva una denuncia di presunti abusi, ma soprattutto preventivi”. Sono diversi i casi di presunte violenze. Non solo nel carcere di San Gimignano, ma anche ad esempio quello di Monza dove è intervenuta l’associazione Antigone, mandando un esposto alla procura, così come altri istituti dove è in corso un procedimento giudiziario. Tra i vari casi segnalati dal Garante nazionale, uno è quello di Tolmezzo, dove la video sorveglianza dimostrerebbe che alcuni agenti penitenziari avrebbero allagato la cella con idrante, lasciando il detenuto bagnato per tutta la notte. Ma, stando ad oggi, la Procura competente ancora non ha notificato eventuali avvisi di garanzia e quindi le indagini sono ancora in corso per verificare l’accaduto. Il caso è stato raccontato sempre sulle pagine de Il Dubbio. La dottoressa intimidita per i referti - Ma torniamo a San Gimignano e su quello che sarebbe accaduto nel carcere toscano l’11 ottobre scorso. Come riportato in esclusiva da Il Dubbio il 23 novembre del 2018, c’è stata la lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore del presunto pestaggio nei confronti dell’uomo extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha riferito di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. Gli stessi inquirenti, confermando l’accaduto, scrivono che quando venne riaccompagnato in cella, il detenuto cadde e un assistente capo di 120 chili gli salì addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringeva per un braccio e un terzo lo afferrava per il collo. L’altra conferma, come riportato sempre dal nostro giornale il 7 dicembre scorso, è arrivata dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, ha trasmesso la notizia di reato alla competente Procura per le indagini. La dottoressa, per aver fatto il suo dovere, avrebbe ricevuto delle intimidazioni come ha chiarito Emilio Santoro dell’associazione l’Altro diritto e riportato nero su bianco anche dagli inquirenti. Un ruolo, il suo, non così scontato. Non sempre i medici denunciano. “Ma non per omertà - spiega in conferenza stampa Palma - ma perché sono figure che cambiano spesso e quindi sono portate a ridimensionare alcuni referti”. I documenti redatti dalla dottoressa si riferiscono a tre detenuti visitati il giorno dopo i presunti pestaggi. Un detenuto riferisce di avere un forte mal di testa e presenta una ecchimosi al livello frontale destro, la sua versione è che sarebbe stato aggredito da un agente il quale, secondo quanto riferito, puzzava di alcol. Il detenuto in questione sostiene che avrebbe aperto il blindo per chiedere agli agenti di non picchiare l’extracomunitario e per questo motivo avrebbe ricevuto un pugno in fronte. Un altro detenuto racconta addirittura che diversi agenti sarebbero entrati in cella insultandolo e minacciandolo. Uno di loro gli avrebbe messo le mani per stringergli il collo e lui, per liberarsi, sarebbe caduto sul letto. Il detenuto però non presenta nessun segno al collo. Un altro recluso, invece, presenta una ferita abbastanza grande al livello dell’occhio, ma ha riferito che se la sarebbe procurata cadendo in un posto non precisato e ha rifiutato di medicarsi. In realtà il Garante locale del carcere di San Gimignano - rappresentato dall’associazione L’Altro Diritto -, una volta avuta la segnalazione, aveva contattato la direzione del penitenziario. Ma quest’ultima gli ha fatto sapere che non c’era stato alcun pestaggio e tutta la documentazione era al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ma venerdì 13 settembre, sono arrivati gli avvisi di garanzia. La procura di Siena ha indagato accuratamente, anche le immagini delle telecamere in parte schermate appositamente dai corpi degli stessi agenti - che confermano parzialmente l’avvenuto pestaggio. “Una riserva a sé stante” - “Era ora che scoppiasse il bubbone”, ha fatto sapere il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone. Ma cosa intendeva? Raggiunto da Il Dubbio, spiega che il grave episodio che sarebbe avvenuto al carcere toscano è il frutto di una situazione devastante che riguarda l’intero sistema penitenziario. “Parto proprio dall’esempio del carcere di San Gimignano - spiega Corleone -, essendo stato costruito in aperta campagna, lontano da tutti e tutto, dove gli stessi familiari dei detenuti che provengono da regioni diverse sono costretti ad organizzarsi con un pullman”. Un carcere che ha cambiato spesso il direttore, perché nessuno auspica di andarci. “Non avendo una direzione forte e stabile, alla fine il potere diventa, di fatto, autogestito all’interno del carcere”. Ma parliamo di un istituto che non ha nemmeno l’acqua potabile, tanto che il Garante è riuscito ad ottenere come magra soluzione la vendita di bottigliette di acqua minerale a basso prezzo. È un carcere che si trova tra i boschi, dove è facile che salti la corrente e problemi di collegamenti telefonici a causa degli eventi atmosferici. Il Garante Corleone, per rendere bene l’idea, definisce l’istituto toscano una “riserva a sé stante”. Anche il Garante nazionale Palma, in conferenza, ha parlato di tutte queste criticità che riguardano il carcere toscano. Oltre al fatto che vige il problema del sovraffollamento e, dato significativo, c’è un aumento esponenziale dei detenuti che compiono gesti di autolesionismo. Il garante regionale Franco Corleone, sempre a Il Dubbio, estende il discorso sull’intero sistema penitenziario, perché “a causa del governo precedente c’è stato un arretramento culturale per quanto riguarda il senso della pena”. E aggiunge: “Mi auguro che ci siano segnali di discontinuità con l’attuale governo, perché finora ancora non li ho visti”. Dopo San Gimignano un messaggio si sta facendo strada: denunciare si può di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2019 Finalmente qualcosa sta cambiando. Se non nell’atteggiamento di quegli agenti di Polizia penitenziaria che ancora continuano a sentirsi al di sopra della legge, in quello dell’autorità pubblica nonché delle persone detenute. È partita da queste ultime la denuncia del brutale pestaggio che sarebbe avvenuto l’11 ottobre 2018 ai danni di un signore di 31 anni recluso nel carcere di San Gimignano. Un nuovo messaggio si sta facendo strada nel mondo penitenziario: denunciare si può. Anzi, forse, denunciare si deve. Il caso Cucchi in particolare ha detto all’Italia intera che la detenzione non è un luogo di assenza dei diritti, dove ogni abuso su chi è in custodia è permesso, se non dalle norme, dall’impunità di fatto. Per la prima volta da quando, con colpevole ritardo, il codice penale italiano se ne è dotato nel luglio 2017, viene contestato il reato di tortura nei confronti di pubblici ufficiali. Vedremo. Già da ora tuttavia possiamo dire tre cose: 1. Che purtroppo la violenza in carcere esiste. E che quando persiste è un elemento di sistema. Affinché possa darsi violenza, deve quanto meno esserci attorno un ambiente di omertà che, pur non sostenendola, tuttavia non la combatte. A San Gimignano sembra infatti si stia evidenziando un generale clima violento, risalente e diffuso. 2. Che i detenuti stanno acquistando consapevolezza dei propri diritti e non sono più disposti al totale silenzio. Qualcuno comincia a raccontare. Qualcuno denuncia. Come accadde per le tante lettere dal carcere di Viterbo ricevute da Antigone nei primi mesi del 2019, che denunciavano brutali maltrattamenti all’interno dell’istituto e per i quali è in corso un procedimento penale. 3. Che l’amministrazione penitenziaria sembra decisa a fronteggiare con nettezza gli episodi di violenza. L’inchiesta disciplinare che si affianca a quella penale per gli eventi di San Gimignano ha già portato alla sospensione di quattro dei 15 poliziotti indagati. Poche settimane fa il parente di una persona detenuta nel carcere di Monza ha telefonato al nostro ufficio per denunciare i pestaggi, ripetuti e al tempo ancora in corso, del congiunto che si trovava in isolamento. Antigone ha immediatamente riferito all’amministrazione penitenziaria, che anche qui è intervenuta prontamente mettendo fine agli abusi e requisendo le telecamere interne nelle quali gli eventi sembra siano registrati in tutti i particolari. C’è stata ovviamente una denuncia penale e sentiremo nei prossimi mesi parlare ancora parecchio dell’inchiesta di Monza. Solo la fermezza e la netta condanna in ogni episodio di violenza in carcere da parte dell’amministrazione penitenziaria, prima, e della magistratura, poi, potrà portare a un cambiamento di percezione diffuso, duraturo e pervasivo, che investa anche le forze di polizia in tutti i propri elementi. Ogni messaggio di omertà, di spirito di corpo e di impunità è servito degli scorsi decenni a perpetrare quella convinzione di poter essere sopra la legge che è stata propria di una (pur ridotta) parte della polizia penitenziaria. I sindacati di polizia dovrebbero per primi lanciare messaggi culturali netti e decisi su questo tema. Non sempre è stato così. Ci piacerebbe confrontarci con loro al proposito. *Coordinatrice associazione Antigone L’Università “L’Orientale” entra nelle carceri per riconoscere il radicalismo islamico anteprima24.it, 24 settembre 2019 Firma di un accordo quadro tra l’Ateneo napoletano e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Si apre martedì 24 settembre alle 9.00 nella sede dell’Orientale a Palazzo du Mesnil (via Chiatamone 62) la due giorni di convegno internazionale “Ri-conoscere il radicalismo islamico in Italia: analisi, strategie e pratiche alternative”. L’obiettivo dell’incontro è quello di comprendere il fenomeno della radicalizzazione, valutandone i rischi, e allo stesso tempo di rispondere correttamente alle richieste di godimento dei diritti religiosi all’interno degli istituti di pena italiani. Il convegno è il risultato della collaborazione istituita tra l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Ministero della Giustizia, nel quadro del progetto Train Training (transfer radicalisation approaches in training), finanziato dal Justice Program (2014-2020) dell’Unione Europea e finalizzato allo studio e al contrasto della radicalizzazione negli istituti di pena europei. Punto centrale del progetto Train Training, è il corso di formazione pilota pensato per il personale penitenziario. Nell’ambito di questo progetto, e delle proprie attività di apertura e di interazione con la società civile (terza missione), il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo (Daam) de “L’Orientale” contribuirà alla formazione degli operatori sociali e degli agenti di custodia del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap). Un gruppo di docenti e giovani ricercatori del Dipartimento dell’Orientale, coordinati dal direttore Michele Bernardini, dopo alcune esperienze pregresse condividerà con chi opera negli istituti di pena i propri “saperi” teorici e concreti, attraverso lezioni frontali e incontri. Da questa esperienza e dalla collaborazione con i professionisti che lavorano a stretto contatto con i detenuti, è nata l’idea di elaborare il sillabo “Conoscere l’islam per contrastare il radicalismo”, destinato alla formazione del personale carcerario e che sarà presentato durante la due giorni napoletana. Il 24 e il 25 settembre dunque, il mondo accademico, quello degli istituti di pena, e un’importante rappresentanza del mondo politico e della società civile si incontreranno per discutere dei processi di radicalizzazione e de-radicalizzazione, nonché dei diritti relativi all’esercizio della fede negli istituti di pena. Si inizia con la firma dell’accordo quadro fra l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e si prosegue con una tavola rotonda per discutere con soggetti istituzionali e della società civile una nuova figura di mediatore culturale in Italia. Si continua, entrando nel vivo del dibattito, ragionando su analisi, strategie e pratiche alternative di gestione del fenomeno con esperti del Dap e accademici. Saranno presenti due keynote speaker di rilievo: Farhad Khosrokhavar, sociologo dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales (Ehess) di Parigi, uno dei massimi conoscitori del radicalismo islamico a livello mondiale, e Claudio Lo Jacono, già Professore di Islamistica presso l’Università di Cagliari e “L’Orientale” di Napoli, oggi direttore della rivista Oriente Moderno e Presidente del prestigioso Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino di Roma. Caso Cappato, decisione attesa per venerdì: difficile un altro rinvio della Corte di Errico Novi Il Dubbio, 24 settembre 2019 La Consulta potrebbe iniziare la camera di consiglio domani. Un anno. Ma non è bastato. Il Parlamento avrebbe potuto provvedere. Ma non c’è riuscito. E adesso è molto, ma molto difficile che la Corte costituzionale decida di rinviare ancora la propria pronuncia - attesa per oggi o per i prossimi giorni - sul caso di Marco Cappato e Fabiano Antoniani, ossia sul reato di aiuto al suicidio. Può darsi, certo, che nell’inevitabile conflitto tra le ordinarie procedure della giurisdizione e la spasmodica attesa della politica, dei media, del Paese, anche un normalissimo protrarsi dei lavori faccia attendere ancora, per sapere della parziale incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Forse il giudice delle leggi emetterà la sentenza negli ultimi o nell’ultimo giorno della settimana. Ed è altrettanto inevitabile che ogni minuto moltiplicherà l’attesa. E le interpretazioni fantastiche. Ma una cosa è assai più probabile delle altre: la Corte costituzionale dovrebbe sciogliere il quesito sul reato di aiuto al suicidio nelle prossime ore, senza rimetterne ancora la responsabilità al Parlamento. È il senso di una vigilia tesissima. In cui appunto la Cei, attraverso il suo vicepresidente Mario Maini, ribadisce il “no” al “tentativo di introdurre nell’ordinamento pratiche eutanasiche”. Così come il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Cappato appunto, parla di “tante e forti pressioni” per ottenere, dalla Consulta, un ulteriore rinvio. Sono ore in cui si deve fare i conti con quell’insostenibile conflitto tra la leggerezza dei calendario e la pesantezza del clima. Oggi la Corte potrebbe trovarsi di fronte a una nuova udienza, sul caso, meno agile del previsto. Intanto perché nel calendario dei lavori non c’è solo la questione sollevata nel processo al dirigente radicale. E poi perché non è possibile stabilire a freddo come si comporteranno le parti. Se il collegio difensivo di Cappato, guidato da Filomena Gallo e Vittorio Manes, e l’avvocatura dello Stato si soffermeranno a lungo sulle conseguenze dell’inedita ordinanza emessa un anno fa dalla stessa Corte. Non è perciò possibile prevedere se davvero l’inizio della camera di consiglio potrà iniziare in giornata. O se slitterà a domani. Ma un altra cosa certo ragionevole sembra cogliersi nei quasi impalpabili segnali che filtrano da Palazzo della Consulta: una camera di consiglio del genere non può durare pochi minuti. Servirà tempo per riflettere. I giudici vorranno bilanciare “i valori di primario rilievo” che si incrociano in una storia come quella di Fabiano Antoniani e di Cappato. E soprattutto dovranno prendere atto di come il legislatore non sia riuscito ad approfittare di quella possibilità di “ogni opportuna riflessione e iniziativa” “consentita” dalla Consulta esattamente un anno fa. Il 24 ottobre 2018 l’ordinanza firmata dal giudice relatore Franco Modugno affermò che sarebbe stato necessario “evitare, per un verso, che una disposizione” continuasse a “produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili”, ma al tempo stesso scongiurare “possibili vuoti di tutela di valori, anche essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale” Un anno senza che il Parlamento sia riuscito a trovare quel “bilanciamento”. Di più: senza che nemmeno sia stato adottato un testo base nella commissione Affari sociali di Montecitorio. È intanto questo il dato che segnala lo stesso “candidato relatore” di una eventuale legge sul fine vita che, alla Camera, non ha mai preso corpo: il deputato Giorgio Trizzino. Il parlamentare del Movimento 5 Stelle afferma su Facebook “l’inerzia legislativa” di questi 11 mesi. Perché la Corte dovrebbe affidarsi ancora al Parlamento? Non ce n’è ragione. Nei giorni scorsi il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio ha rivendicato la centralità delle Camere, e ha chiesto che la decisione non fosse lasciata alla Corte costituzionale. Ma la posizione di Delrio sembra riferirsi a quella parte dei dem sfavorevole a una depenalizzazione assoluta, da scartare anche dinanzi a condizioni come quelle di Fabiano Antoniani (e individuate dall’ordinanza della Consulta: sofferenza che la persona trova insopportabili, impossibilità di guarigione, piena coscienza, dipendenza dalle macchine). È la specificità della prospettiva evocata dal capogruppo pd a rendere impossibile il semplice avvio, allo stato attuale, di una discussione fattiva nella neonata maggioranza. C’è troppa distanza: i 5 Stelle sono chiaramente favorevoli alla non punibilità di casi come quello di Cappato, che il 27 febbraio 2017 ha accompagnato Fabiano Antoniani in una clinica svizzera, dove poi, Fabiano scelse di interrompere le proprie sofferenze. Non c’è possibilità di accordo. Se non, come ha detto Cappato ancora ieri, “per una successiva necessaria definizione in Parlamento delle procedure con cui esercitare il diritto ad andarsene”. Non c’è quel diritto, ha detto ancora ieri la Cei: “Anche se ammantate di pietà e di compassione, si tratta”, ha detto monsignor Meini, “di scelte di fatto egoistiche, che finiscono per privilegiare i forti e far sentire il malato come un peso inutile e gravoso per la collettività”. Ancora poche ore e sarà la Consulta a parlare. Sul reato di suicidio assistito Consulta costretta a fare il legislatore di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019 Due udienze pubbliche, una oggi e una domani, e una camera di consiglio che già domani potrebbe decidere sulla legittimità del reato che punisce, con pena fino a 12 anni di carcere, chi aiuta il suicidio altrui. Dopo un anno trascorso nell’attesa che il Parlamento riuscisse almeno ad avviare il percorso di una legge, la Corte costituzionale, che nell’ottobre 2018, con decisione inedita nella sostanza, aveva dato 12 mesi di tempo al legislatore per intervenire, torna a prendere in mano il tema. E torna ad affrontare la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d’appello di Milano davanti alla quale si è autodenunciato Marco Cappato, dopo avere accompagnato Dj Fabo in Svizzera a concludere la sua esistenza. Una vicenda a elevato contenuto simbolico che tra poche ore potrebbe avere aperto la strada a una pronuncia memorabile, probabilmente oltre le intenzioni della Consulta che, nell’ordinanza 2017, ricordò anche come la linea “attendista” e di rinvio temporaneo al Parlamento sia stata quella anche della Corte suprema del Regno Unito che, nell’affrontare identica questione, sottolineò come una anche solo parziale legalizzazione dell’assistenza al suicidio medicalmente assistito rappresenti “una questione difficile, controversa ed eticamente sensibile, che richiede un approccio prudente delle corti”. In realtà, l’ordinanza era tutt’altro che pilatesca in altri passaggi. Dove, per esempio, si osservava che “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”. Senza che questa limitazione oltretutto possa essere considerata coerente con la tutela di un altro interesse di rilievo costituzionale, “con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”. E tuttavia, metteva in evidenza la Corte, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, non rappresenta la scelta più equilibrata. “Una simile soluzione lascerebbe, infatti - si legge nell’ordinanza - del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi”. In assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, chiunque, anche chi non esercita una professione sanitaria, potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a chi lo desidera, senza alcun controllo preventivo sull’effettiva esistenza, per esempio, della capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta espressa e dell’irreversibilità della patologia. Davanti ai giudici, così, ci sono, dopo il nulla di fatto di deputati e senatori, almeno tre strade, illustrate dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick: un verdetto di inammissibilità, dopo avere considerato di non potersi sostituire al legislatore su una materia tanto delicata; un accoglimento parziale, che tenga in piedi il reato, con una deroga per il caso di chi è vittima di sofferenza insostenibile; un rigetto che però tenga conto delle norme in vigore sul fine vita e la volontà di non accettare il trattamento di sedazione profonda. Suicidio assistito, l’appello del Comitato etico di Caterina Pasolini La Repubblica, 24 settembre 2019 “La Consulta non ceda alle pressioni e garantisca libertà di morire”. L’appello del Cef, formato da docenti universitari e medici. Da domani la Corte costituzionale si riunisce per decidere sul caso di Marco Cappato, che rischia fino a 12 anni di carcere per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo. La compagna di Monicelli, morto suicida: “La vita ci appartiene, è violento quello che ha detto la Conferenza episcopale”. “Speriamo che la Corte costituzionale non ceda alle pressioni politiche e garantisca a ogni persona irrimediabilmente sofferente di concludere la vita senza essere lesa nella sua dignità” dice Patrizia Borsellino, docente di filosofia e bioetica alla Bicocca, parla con tono fermo. È presidente del Comitato per l’etica di fine vita, formato da professori universitari, medici, infermieri, esponenti di bioetica, sociologia, diritto e da quasi trent’anni si occupa di etica e medicina visto che è nato nel 1991 all’interno della fondazione Floriani, che assiste malati terminali. Le parole della professoressa Borsellino arrivano a poche ore da un momento fondamentale nell’ambito dei diritti civili, della libertà di scelta. Domani è prevista infatti l’udienza della Consulta che deciderà in merito all’eutanasia e al suicidio assistito. La Corte si pronuncerà sul caso di Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che rischia fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato Dj Fabo, il quarantenne milanese tetraplegico, in Svizzera a morire come chiedeva. Decideranno i magistrati davanti al vuoto della politica, che in un anno non è riuscita a trovare un accordo, un documento comune da presentare al Parlamento su un tema così importante. Ma toccherà poi comunque ai partiti rendere concreti e applicabili i principi stabiliti come costituzionali. E così dopo la Cei, la conferenza dei vescovi, che ha ribadito come per la chiesa non esista un diritto a morire sia eutanasia o suicidio assistito, si moltiplicano gli interventi dei laici per una libera scelta. “Il giorno in cui, Chiara, ti chiederò di raccogliermi il fazzoletto caduto, che non potrò farmi un tè da solo, sarà un momento in cui la mia indipendenza è già finita”. Quando è accaduto, Mario ha deciso di togliersi la vita. Ha fatto una scelta, in piena coscienza, di dignità. Così dice Chiara Rapaccini parlando del compagno di 30 anni, il regista Mario Monicelli che descrive come “persona attenta, lucida e indipendente”. Il suo gesto è arrivato quando “vecchio e malato, ha ritenuto che la sua vita non era più dignitosa”. “Non so cosa sarebbe potuto accadere se ci fosse stata allora una eutanasia legale. Ce lo domandiamo in parecchi, è un interrogativo senza risposte”, aggiunge Rapaccini che si batte per una eutanasia legale e che la settimana scorsa ha partecipato alla manifestazione - concerto organizzata dall’Associazione Luca Coscioni “Liberi fino alla fine” alla vigilia della sentenza della Corte Costituzionale sul caso dj Fabo. “Quel che dice il cardinale Bassetti, presidente della Cei, è molto violento. Non si può dire “vivere è un dovere anche per chi è malato e sofferente”. La vita appartiene a noi. Noi siamo padroni della nostra vita, della morte, della dignità. Appelli di perone, di associazioni, di intellettuali come quello dello Cef. “Abbiamo partecipato alle commissioni raccontando le nostre esperienze rispetto ai malati e al fine vita, le cure palliative non possono essere la risposta in alcune situazioni. Se non si vuole discriminare le persone, in alcuni casi bisogna prendere in considerazione le strade non attualmente legittimamente praticabili”, sottolinea la professoressa Borsellino. Per questo il Cef auspica che la Consulta, “senza cedere alle pressioni delle parti politiche che chiedono un rinvio della decisione, paventando, in realtà, il riconoscimento dell’illegittimità dell’incriminazione dell’aiuto al suicidio nella casistica di situazioni già prefigurate nell’ordinanza del 2018, assuma una decisione nel solco già tracciato nella precedente pronuncia, e dia così un forte e ben orientato impulso a un successivo intervento del Parlamento, comunque necessario per realizzare una disciplina della materia capace di garantire ai soggetti interessati una fine della vita conforme alla loro volontà e, al tempo stesso, di fornire sicuri criteri di orientamento, non meno che adeguate garanzie, anche agli operatori sanitari”. “La legge n. 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, significativamente richiamata dall’ordinanza della Corte costituzionale - spiegano i membri del Comitato etico - ha delineato con chiarezza un paradigma assistenziale i cui elementi portanti sono la valorizzazione della libertà individuale e la considerazione della risposta alla sofferenza come elemento centrale e inderogabile del mandato della medicina. Si deve prendere atto, traendone tutte le conseguenze sul piano normativo, che vi sono situazioni di sofferenza per rispondere alle quali la soluzione, valutata come adeguata da chi in quelle situazioni si trova, non è offerta dalle strade che il diritto e la deontologia considera già oggi praticabili, vale a dire la non attivazione e la sospensione dei trattamenti o la messa in atto della sedazione palliativa profonda, ed è in considerazione di queste situazioni che è oramai tempo di far cadere i tabù, i rifiuti pregiudiziali, le resistente ingiustificate nei confronti non solo del suicidio assistito, ma anche dell’eutanasia”. A richiederlo, sottolinea il Cef, è innanzitutto, il principio di eguaglianza di trattamento sancito all’articolo 3 della Costituzione, che, nel delegittimare disuguali trattamenti riservati ai cittadini (e a tutti gli individui) sulla base delle condizioni personali, “tra le quali sono in primo piano le condizioni di salute, offre la prima forte ragione giuridica, oltre che etica, per garantire il diritto a una morte dignitosa anche a coloro che, proprio per le condizioni cliniche in cui versano, non se ne sono finora potuti avvalere”. Il Comitato, conclude Borsellino, auspica che la Corte costituzionale, con la sua decisione, compia il primo, determinante passo in questa direzione”. Giudici di pace, sciopero per due settimane di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019 Alla vigilia della calendarizzazione della riforma della magistratura onoraria, assegnata alla Commissione giustizia del Senato, i giudici di pace annunciano due settimane di sciopero. Un’astensione dalle udienze, penali e civili, dal 1° al 14 ottobre, per protestare contro una riforma che disattende tutte le loro richieste (si veda il Sole 24 Ore del 30 luglio). Ad iniziare dall’inadeguata indennità annuale garantita e dall’impossibilità di lavorare a tempo pieno se non a cottimo. L’unione nazionale giudici di pace e l’associazione nazionale giudici di pace denunciano in una nota la lesione del principio comunitario di non discriminazione, messa in atto con la previsione di un’inconsistente forma di previdenza, che non sarà mai usufruita, per l’impossibilità di raggiungere il minimo contributivo dei 20 anni previsto dalla legge italiana, con oneri contributivi futuri addossati alla categoria. Nel cahier de doléances anche l’abbassamento dell’età pensionabile da 75 anni a 68, malgrado il limite dei 70 stabilito per magistrati di carriera e per gli avvocati e l’inquadramento nel portale Noipa del ministero dell’Economia e delle finanze come lavoratori manuali, senza tredicesima. In sede di Cdm è stata inoltre cancellata la riduzione, prevista al 40% nel testo approvato salvo intese, dei redditi per il calcolo delle imposte. Oggi il testo dovrebbe essere calendarizzato. Appropriazione indebita se manca il rendiconto di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019 Corte di cassazione, sentenza 23 luglio 2019, n. 19826. È responsabile di appropriazione indebita l’amministratore che non rende il conto al condominio. La Corte di cassazione (sentenza 19826/2019) ha rigettato il ricorso di un amministratore contro una sentenza di condanna al pagamento delle spese legali sostenute dal condomino per ottenere la riconsegna della documentazione, al termine della gestione. In particolare, la Corte d’appello aveva condannato l’amministratore al risarcimento del danno per la violazione degli obblighi derivanti dal contratto di mandato. La Corte escludeva dall’importo del risarcimento le spese sostenute dal condominio per la verifica dei conti, effettuata dall’amministratore successivo che aveva rilasciato ampia quietanza liberatoria in ordine alla gestione e alla custodia della relativa documentazione. La Corte contestava all’amministratore di avere provocato al condomino spese altrimenti evitabili. La Cassazione confermava le osservazioni del giudice di appello e affermava che l’amministratore doveva essere ritenuto responsabile per il fatto di non avere consegnato la documentazione relativa alla gestione, per non avere redatto il bilancio consuntivo e perché il nuovo amministratore aveva redatto il bilancio preventivo solo sulla base della documentazione disponibile. La consegna della documentazione si poteva ritenere compiuta solo allorché l’amministratore subentrante, indipendentemente dal tenore della ricevuta di avvenuta ricezione, avesse valutato la stessa completa e idonea a giustificare le spese, come annotate nel bilancio consuntivo, che il ricorrente avrebbe dovuto disporre al termine del mandato. In tale contesto la Corte di Cassazione precisa che è ravvisabile l’interversione del possesso quando l’amministratore del condomino, anziché dare corso ai suoi obblighi, dia alle somme a lui rimesse dai condòmini una destinazione incompatibile con il mandato ricevuto e coerente con i suoi interessi personali. Il condomino non è un soggetto terzo rispetto all’amministratore il quale, pur compiendo atti in suo nome, li imputerebbe a un soggetto a lui estraneo privo di responsabilità, creando una causa di non punibilità sconosciuta al diritto penale. Il dolo del delitto di appropriazione indebita è integrato dal fine di procurarsi un ingiusto profitto. In definitiva, la sentenza della Cassazione ha confermato il giudizio di appello che, al caso trattato, ha applicato la disciplina dell’articolo 1713 del Codice civile, per cui l’amministratore, al termine del contratto di mandato, nei confronti dell’assemblea condominiale, deve rendere il conto del suo operato e deve restituire i documenti e tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. La giurisprudenza prevalente afferma infatti che quello che si instaura tra i condòmini e l’amministratore è un contratto di mandato, in forza del quale l’amministratore può ricevere somme di denaro per eseguire gli specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale per fare fronte alle spese di gestione del condominio, secondo i bilanci approvati dall’assemblea. Pertanto,, ai sensi dell’articolo 1713 del Codice civile, al termine del contratto, l’amministratore deve rendere il conto della sua amministrazione e deve restituire le somme giacenti nelle casse condominiali e la documentazione amministrativa (comprensiva di quella sulla sicurezza impianti). Privacy, diritto all’oblio per il condannato riabilitato di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019 Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 24 luglio 2019, n. 153. Il diritto all’oblio può essere chiesto anche da chi, seppure condannato, ha ottenuto la riabilitazione. Si tratta di una nuova sfaccettatura del diritto a essere dimenticati, che il Garante della privacy ha fissato in un provvedimento con il quale ha imposto a Google di eliminare due url collegate a pagine che raccontavano la vicenda giudiziaria di un imprenditore condannato a otto mesi di reclusione con il beneficio della condizionale. La vicenda risale al 2007 e la sentenza di condanna al 2010. Nel 2013 l’interessato chiede e ottiene la riabilitazione, ma sulla memoria online quest’ultimo “aggiornamento” del caso non compare. Sulla rete restano solo le notizie relative alla condanna. Un fatto che - secondo il reclamante - gli procura pregiudizio personale e professionale, tanto più che oggi esercita una professione diversa rispetto a quella per il quale è stato condannato, non ha più subito indagini o accuse per i fatti contestatigli nel 2007, ha riparato il danno economico imputatogli e non riveste cariche pubbliche che giustifichino la reperibilità sul web delle informazioni sulla condanna. Alla richiesta di esercitare il diritto all’oblio, però, Google si oppone affermando che le url rinviano a notizie riguardanti “fattispecie criminose particolarmente gravi”, che rivestono un interesse pubblico. Di diverso avviso il Garante, al quale l’interessato si è rivolto dopo il diniego del motore di ricerca. L’Autorità guidata da Antonello Soro ha sottolineato come, tra i presupposti da valutare per verificare se concedere o meno il diritto all’oblio, sia da tenere presente non solo il fattore tempo, ma anche altre circostanze. In questo caso c’è da considerare che la persona coinvolta è stata riabilitata. E ciò è avvenuto sia sulla base del tempo trascorso dal fatto, sia per la condotta tenuta da quel momento. L’istituto della riabilitazione - ha sottolineato il Garante - è una misura premiale che, pur non estinguendo il reato, comporta, in un’ottica di riabilitazione del reo, il venir meno delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna. L’insieme di tali due elementi - tempo e riabilitazione - sono per il Garante condizioni sufficienti per ritenere che le url “incriminate” determinino un “impatto sproporzionato” sui diritti dell’interessato, non bilanciato “da un attuale interesse del pubblico a conoscere della relativa vicenda”. La qualità di pubblico ufficiale si può desumere dalla natura della norme sulla sua attività di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 4 settembre 2019 n. 37054. La corte di Cassazione con la sentenza n. 37054/ 2019pone il principio di diritto per il quale la natura di pubblico ufficiale possa essere desunta dal tipo di attività esercitata ed in particolare dalla natura delle norme che la regolamentano. Il caso di specie trae origine dalla contestazione a carico di diversi imputati del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari. La sentenza di condanna riconosceva l’ aggravante della qualità di pubblico ufficiale di alcuni degli imputati desumendola a propria volta dal tipo di attività esercitata e dalle norme che si occupano della sua regolamentazione. Gli imputati ritenendosi lesi nei propri diritti ricorrevano per cassazione deducendo in apposito motivo di ricorso l’ illegittima applicazione della normativa sostanziale nel caso di specie rappresentava infatti il legale degli imputati come la funzione di direzione di un società non potesse di per sé e in assenza di altri elementi essere idonea a potere attribuire a un attività la natura di pubblica funzione dalla quale in via automatica ed ai sensi di legge derivi la qualità di pubblico ufficiale da parte di coloro che la esercitano. Al di la dell’ esame degli altri motivi di ricorso, quello che qui interessa e che si mostra come di particolare interesse riguarda la natura dell’ attività esercitata da parte di alcuni degli imputati. In altri termini, si tratta di un attività di carattere privato o di una vera e propria pubblica funzione conseguendone effetti di non poco conto, primo tra tutti l’ aggravamento della pena per coloro che la esercitano. La questione era stata più volte esaminata data la sua importanza conseguente al diverso trattamento normativo previsto per il pubblico ufficiale rispetto a quello previsto per un privato cittadino. I pubblici ufficiali infatti sono oggetto da parte dell’ordinamento vigente di una particolare tutela ma anche ad di un più rigoroso trattamento sanzionatorio nel caso di condotte delittuose eventualmente realizzate. Non solo, il riconoscimento della natura di pubblica funzione determina un’altra importante conseguenza, dato che in tali casi diverranno applicabili anche le figure di reato esclusivamente previste per i pubblici ufficiali. La questione viene risolta sulla base di un criterio preciso che si fonda a propria volta sulle delle disposizioni vigenti. Gli ermellini infatti si espongono su di una posizione che ad ogni modo amplia il carattere della pubblica funzione con tutto ciò che ne consegue. La qualificazione infatti di una attività quale funzione pubblica assume una grande importanza vengo infatti previste sanzioni più severe nei casi di abusi (ad es. peculato) ed al contempo una maggiore tutela per chi la esercita (ad es. reato di resistenza) I giudici della corte suprema giungono a ritenere il motivo di ricorso relativo alla natura dell’attività esercitata, che secondo il difensore del ricorrente presentava un indiscutibile carattere privato del tutto infondato posto che l’ esame dell’ ordinamento portava a giungere a conclusioni ben diverse. Si trattava nel caso di specie di un attività di direzione di una società, orbene, sul punto osservano i giudici come le norme che si occupano nell’ ordinamento di assicurare una regolamentazione di tali attività, presentano un evidente ed indiscutibile carattere pubblico. Da ciò consegue, ad avviso dei giudici della corte suprema di cassazione, il carattere pubblico della funzione in concreto esercitata. Da tale prima conseguenza ne discende un’altra relativa in questo caso alla qualità di chi la esercita, che in tali casi dovrà essere considerato un pubblico ufficiale o perlomeno un incaricato di pubblico servizio divenendone allora passibile di tutte le norme che l’ordinamento riserva a tali soggetti che come abbiamo visto ne assicurano una maggiore tutela ma anche una più severa punizione. Umbria. Sanità nelle carceri, insediato in Regione il tavolo di governance umbria24.it, 24 settembre 2019 In Umbria c’è un tasso di 154,12 detenuti ogni 100 mila abitanti contro la media italiana di 95,22. Si è insediato, presso la presidenza della Regione Umbria, il “Tavolo di governance” dell’Osservatorio permanente per la sanità penitenziaria. All’organismo spetterà di definire annualmente un Piano operativo di indirizzi istituzionali ritenuti strategici per la tutela della salute dei detenuti e delle persone sottoposte a provvedimenti penali, delegandone la concreta programmazione, l’attivazione degli interventi necessari, il monitoraggio e la valutazione dei risultati ad un apposito Tavolo operativo. Chi ne fa parte Del Tavolo di governance fanno parte l’assessore regionale alla salute, che lo presiede e coordina, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, il dirigente del Centro per la giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria, il dirigente dell’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna per la Toscana e l’Umbria, i direttori generali delle Aziende Usl Umbria 1 e Usl Umbria 2, il presidente di Anci Umbria e il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Umbria. A che serve - Il Tavolo si propone come strumento di alto rilievo istituzionale: un organismo tecnico e operativo nel quale affrontare le questioni legate alla salute in carcere e le problematiche di tutti i soggetti sottoposti a provvedimento dell’Autorità giudiziaria in sede penale, sia maggiorenni che minorenni e ciò nell’ambito di una materia complessa ed articolata, sia sotto il profilo clinico che giuridico. Nel territorio della Regione Umbria - è stato ricordato nella seduta di insediamento - si trovano quattro istituti penitenziari, due dei quali ospitanti circuiti di massima sicurezza. L’Umbria è inoltre una regione di rilevante incidenza penitenziaria con un tasso di 154,12 detenuti ogni 100 mila abitanti (tasso in Italia 95,22 - dato 2017). San Gimignano (Si). Il carcere che fa paura ai detenuti, ma anche a chi ci lavora di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 24 settembre 2019 “Questo di San Gimignano è il perfetto esempio al contrario di come dovrebbe essere un carcere”. Così la volontaria Sofia Ciuffoletti, presidente dell’associazione Altro Diritto racconta la situazione in cui si trova il carcere di Ranza finito nella bufera per i presunti pestaggi ai danni di un detenuto tanto da veder indagati per il reato di tortura 15 agenti penitenziari. “Abbiamo raccolto noi i referti dei medici. Ma questo è anche un carcere malsano, isolato, dove nessuno vuole venire o restare”. “Quello di San Gimignano è l’esempio, ma al contrario, di ciò che un carcere dovrebbe rappresentare: un luogo di reinserimento sociale. Completamente isolato sia sul piano strutturale che relazionale, di servizi. Precario sul piano sanitario. Sperduto, nascosto alla vista. Immerso in un paesaggio bellissimo e al contempo estraneo a tutto il contesto. Se ti fai la doccia prendi delle malattie a causa delle infezioni batteriche nei pozzi. Bolle rosse su tutto il corpo. Non puoi bere, l’acqua non è potabile. Ci abbiamo messo anni per far risanare il secondo pozzo che pescava in acque putride e malsane, e si è rotto l’altro. Siamo punto e a capo”. Sofia Ciuffoletti questa realtà l’ha vissuta, e l’ha sofferta, per un anno e mezzo. Da quando ricopre il ruolo di presidente dell’associazione L’Altro Diritto, di cui è volontaria da anni, con compiti di consulenza extragiudiziale in tutti gli istituti di pena della Toscana e a Bologna. E in qualità di presidente è anche garante dei diritti dei detenuti proprio a Ranza, la Casa di reclusione di San Gimignano. “Se stai male - prosegue - rischi di non arrivare vivo in ospedale”. Ma cambia poco perché “l’ex direttrice” ora rimossa dopo un’ispezione “impediva ai malati di uscire per le cure perché convinta che l’area sanitaria fosse di manica troppo larga”. Lei aveva “un’idea di direzione del carcere di stampo ottocentesco”. L’elettricità c’è “solo quando funziona”. L’allacciamento alle tubature comunali no: “Il paese è troppo lontano per essere conveniente portarci l’acqua”. “Non è un carcere, è un serio problema di salute pubblica. È il posto da cui tutti vogliono fuggire: ma non i detenuti, parliamo di dirigenti, personale amministrativo, agenti. Fino a poco fa non c’era nemmeno un accesso pedonale, un marciapiede, nulla. Sei nel nulla”. Sofia Ciuffoletti gli “effetti dei pestaggi” li ha visti con i propri occhi. Ha “raccolto le testimonianze” del personale medico che ha redatto i referti. La sentenza è chiara: “Erano attentissimi alla sicurezza. Pochissimo ai diritti”. L’Altro Diritto è una realtà nata in seno al corso di Sociologia del diritto all’Università di Firenze, fondata dal professor Emilio Santoro, che da anni si occupa di tappare le falle che l’amministrazione penitenziaria da sola non riesce a coprire: tutto ciò che capita o interessa la vita di un detenuto dal momento della sentenza a quello della sua liberazione. Dai colloqui con la famiglia alle pratiche per il lavoro, l’istruzione, l’Inps, i servizi di base, il rapporto con gli avvocati. Tutto ciò che va sotto il nome di “consulenza extragiudiziale”. E ora, per la prima volta in Europa, è stata investita del compito di garante dei detenuti, proprio a San Gimignano. Nessun’altra associazione di volontariato era mai arrivata a ricoprire questa funzione. “Non ci vuole venire nessuno, qui”. Non gli agenti “che non vogliono vivere in una città pensata per i turisti, con i prezzi pensati per i turisti, dove paghi il posteggio uno sfacelo di soldi, e non vogliono andare a lavorare in un luogo inaccessibile, lontanissimo da tutto”. Nemmeno i dirigenti: per anni hanno avuto “direttori reggenti a tempo parziale”, da Grosseto, da Firenze, ora da Arezzo. “È il problema maggiore - riflette Sofia - Da quando ho iniziato a venire qui, nel 2014, c’è stato un susseguirsi di direttori che non volevano rimanere per lo stesso motivo degli agenti: Ranza non è un posto dove vieni a vivere con la famiglia”. È in questo clima che si sono verificati gli episodi di maltrattamenti, al limite del reato di tortura, su cui si indaga: “Gli agenti sempre sul piede di guerra, il malcontento è generale - spiega lei - con lotte di potere dentro le varie aree del carcere in assenza di una direzione stabile”. San Gimignano (Si). “Noi Garanti abbiamo solo il potere della parola, ma se non ci fossimo...” di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 24 settembre 2019 Tra poche settimane saranno sei anni dalla sua nomina a Garante dei detenuti della Toscana. E Franco Corleone è stato in precedenza Garante dei detenuti per il Comune di Firenze. “Le risorse ci sono, ma ci sono tante lentezze. È un problema politico: se si vede il carcere come un luogo chiuso e non di rieducazione è difficile cambiare le cose: prevale solo il controllo” Dottor Corleone, cosa fa il Garante? “Io, come tutti i garanti delle altre regioni e dei Comuni esercito i compiti fissati dalle norme. Il cardine è affermare il sistema di garanzia dei diritti che discendono dalla Costituzione: dare risposte alle pulsioni che un luogo di potere, sui detenuti e tra i detenuti, come il carcere può scatenare; garantire la dignità della persona e che la pena corrisponda al senso fissato dalla nostra Carta. Poi ci sono le funzioni più “ordinarie”, le visite e il monitoraggio agli istituti, o colloqui con i detenuti, i rapporti con la magistratura di sorveglianza, l’interlocuzione con la Regione”. E che limiti ha il vostro intervento? “Noi abbiamo potere di parola, di denuncia, di sollecitazione, non di governo o gestione. È quindi un potere relativo. Ma mi viene da pensare che se noi non ci fossimo la situazione delle carceri italiane sarebbe ben peggiore. Ad esempio, dopo la condanna della Corte Europea del nostro Paese per il sovraffollamento, tanti detenuti hanno scelto la strada del ricorso, non di atti violenti”. Che voto dà alle carceri toscane: 7, 6 o 5? “È difficile dare la sufficienza. Anche perché tante situazioni potrebbero essere risolte rapidamente e facilmente, i progetti nuovi su Gorgona e Pianosa, il reparto femminile all’istituto Gozzini di Firenze. Cose che se fatte cambierebbero non solo la situazione ma anche la percezione delle cose”. È un problema politico, culturale o di mancanza di risorse? “Le risorse ci sono. È un problema politico, di visione: se si vede il carcere come un luogo chiuso, non come di rieducazione come prevede la Costituzione, è difficile cambiare le cose, prevale il controllo. Nelle carceri ci sono esperienze straordinarie che dovrebbero modellare la vita ordinaria, quotidiana degli istituti”. Cosa possono fare di più gli enti locali? “Occorrerebbe maggior sinergia, invece ognuno tende a fare da sé; ma così le cose non funzionano”. L’impressione è che le cose non cambino mai. Si fanno le stesse denuncie sugli stessi problemi da anni, se non decenni. È così? “C’è una certa disillusione, che trapela anche negli ultimi scritti di Margara, il mio predecessore purtroppo scomparso prematuramente. A volte la speranza può diventare malattia. Di certo il fallimento della riforma dell’ordinamento penitenziario è stato un brutto colpo. Però per fortuna non è vero che nulla cambia, che tutto è uguale. Ci sono problemi, lentezze assurde, ma anche esperienze come il teatro a Volterra o quella a Massa dove quasi tutti i detenuti lavorano”. San Gimignano (Si). “I nostri appelli inascoltati. Da tanti anni non c’è un direttore stabile” di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 24 settembre 2019 “Da troppo tempo la casa di reclusione di Ranza è abbandonata al suo destino, senza direzione stabile e da mesi senza comandante e vice comandante del corpo di Polizia penitenziaria”, hanno denunciato all’indomani della notizia il sindaco di San Gimignano Andrea Marrucci e la parlamentare senese del Pd, Susanna Cenni. E Cenni ha visitato più volte il carcere al centro dell’inchiesta. Onorevole Cenni, qual è la situazione del carcere della cittadina senese? “La conosco bene, l’ho visto un paio di volte l’anno, come anche Volterra che è un altro mondo, e ci sono stata anche recentemente in estate. La situazione dell’istituto è complicata. Si trova a fatica una direzione stabile e così si passa da una direzione temporanea all’altra, con il responsabile che ha anche altre carceri e sta lì solo qualche giorno a settimana... poi c’è la carenza di organico della Polizia penitenziaria, anche questa da tempo, perché spesso i nuovi agenti poi chiedono il trasferimento, visti i disagi”. Cosa ha provato, alla notizia di quanto sarebbe accaduto? “Nessuno poteva immaginare una cosa simile, una situazione inaudita. Forse un presidio stabile poteva evitarla. Mi auguro si faccia chiarezza il prima possibile”. Un carcere isolato... “Infatti. Ci sono i disagi legati ai trasporti, ai collegamenti, oltre a quelli della vivibilità della struttura. Inoltre da tempo non c’è la direzione degli agenti di polizia penitenziaria. Infine, il sovraffollamento, con il ministero che parla di 352 detenuti su 235 posti disponibili”. Cosa ha fatto la politica? “Io ho segnato più volte la situazione, con atti parlamentari e chiedendo risposte. E ho scritto, assieme al sindaco, una lettera al ministro Bonafede chiedendo misure urgenti. La risposta è arrivata 15 giorni fa”. Cosa dice il ministro della giustizia Bonafede? “Ha risposto il capo di gabinetto. E sembra che la prossima settimana possa arrivare il direttore del carcere, che ci sia chi ha risposto al bando di interesse aperto dal ministero. Mi auguro che il direttore arrivi e che abbia voglia di rimboccarsi le maniche. E arriverà anche il comandate degli agenti penitenziari, risolvendo un altro problema”. Quindi incalzerete Bonafede? “Torneremo all’attacco, magari anche con l’aiuto del segretario del partito, per incontrarlo. E spero che visiti il carcere: vedere di persone le cose fa sempre la differenza”. Il territorio non ha sottovalutato l’isolamento del carcere? “Non mi pare. Sia il Comune che la Provincia sono venuti incontro alle richieste minime arrivate, hanno svolto il proprio ruolo. Quello che è mancato è il presidio e la direzione. Bisogna che le risposte arrivino dagli organi competenti, dal Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria”. Tolmezzo (Ud). Detenuto per un’ora bagnato con degli idranti a getto continuo rainews.it, 24 settembre 2019 La denuncia del Garante per i diritti delle persone detenute. I fatti avvenuti il 19 maggio scorso. L’ufficio del Garante ha inviato un esposto alla Procura di Udine con allegate le immagini delle telecamere di sicurezza. Nel maggio scorso, esattamente domenica 19 maggio, un detenuto del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo per circa un’ora è stato bagnato dagli agenti con degli idranti a getto continuo. La denuncia è stata resa pubblica durante una conferenza stampa del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma riguardante i pestaggi avvenuti nel carcere di San Gimignano. Palma e Daniela De Robert, dell’Ufficio del Garante, hanno denunciato quanto visto nel carcere di Tolmezzo lo scorso maggio, dove per circa un’ora - come testimoniato dalle riprese video - un detenuto è stato bagnato dagli agenti con degli idranti a getto continuo. “Il fatto è avvenuto domenica sera - hanno spiegato - siamo arrivati martedì e nella cella era tutto ancora fradicio, compresi i libri ed il corano. Il detenuto aveva soltanto una maglietta asciutta”. L’ufficio del garante ha inviato al riguardo un esposto alla Procura di Udine. All’esposto erano state allegate anche le riprese delle telecamere interne del carcere su quanto era avvenuto. Sulla visita al penitenziario di Tolmezzo è stato redatto un rapporto molto dettagliato che è stato pubblicato sulla pagina web dell’ufficio del Garante. Nel rapporto, decisamente critico nei confronti della gestione del carcere di Tolmezzo, il Garante tra l’altro raccomanda all’amministrazione penitenziaria di “inviare un chiaro messaggio all’Istituto di Tolmezzo che chiarisca che il fornire informazioni lacunose o false all’Autorità garante nazionale è comportamento inaccettabile e sanzionabile. Confida che tale situazione non si debba in futuro riscontrare in questo o in altri Istituti del territorio nazionale”. Il rapporto completo del Garante sulla visita al carcere di Tolmezzo è disponibile sulla pagina web: http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/rapporti.page. Dell’accaduto aveva già parlato il sindacato degli agenti Sappe, e rispondendo ad un articolo pubblicato sul quotidiano “Il dubbio” anche la direttrice del carcere di Tolmezzo, Irene Ianucci. Busto Arsizio. Il Garante porta in Regione i problemi del carcere di Riccardo Canetta informazioneonline.it, 24 settembre 2019 Sovraffollamento, carenza di personale, poche attività di reinserimento. Il Garante dei detenuti del Comune di Busto Arsizio, Matteo Tosi, è stato ascoltato lunedì in Regione Lombardia dalla Commissione speciale sulla situazione carceraria. Tosi ha illustrato all’organismo presieduto da Gianantonio Girelli i problemi del penitenziario bustocco, dal sovraffollamento (450 detenuti e 300 posti disponibili), alla carenza di personale, alle poche attività di reinserimento. “Ho illustrato le situazioni di urgenza ed emergenza, che sono le stesse di altri istituti del territorio - spiega l’ex consigliere comunale -. In particolare, però, a Busto i problemi interessano la direzione e l’organico dell’area trattamentale. È importante tornare ad avere educatori e un responsabile dedicato esclusivamente al carcere di Busto, che manca ormai da un anno e mezzo, dopo il pensionamento della dottoressa Rita Gaeta”. Tra gli argomenti trattati, “nell’ambito della definizione dei nuovi piani del trasporto pubblico, ho invitato la Regione a valutare la possibilità di inserire una fermata all’altezza della struttura di via per Cassano. È un’idea che ho condiviso con il cappellano del carcere, nell’ottica di andare incontro alle famiglie meno agiate che hanno difficoltà a raggiungere questa zona”. Nella relazione di Tosi, anche la necessità di un mediatore di lingua araba e, ovviamente, le note carenze di personale amministrativo e di agenti. “La polizia penitenziaria è la parte migliore del carcere di Busto. Attualmente è costretta a lavorare in condizioni senza senso”. Il garante ha sollecitato gli esponenti dei vari gruppi presenti in Regione a sensibilizzare i rispettivi referenti politici presenti sul territorio affinché si attivino per consentire ai detenuti di svolgere qualche attività lavorativa. “Che si tratti di lavori socialmente utili, di corsi formativi o quant’altro, è importante dare loro qualcosa da fare. Se non si fa nulla, viene meno il senso di appartenenza alla società civile e si finisce per fare scuola di criminalità, a discapito ovviamente anche di chi lavora in carcere e dei cittadini che avranno a che fare con queste persone una volta tornate in liberà”. Quello con Matteo Tosi è stato l’ultimo incontro della Commissione con i garanti dei detenuti del territorio. Ora la Commissione ha una fotografia della non semplice situazione carceraria lombarda. Trieste. Corleone: “Carceri sovraffollate, troppi detenuti per reati di droga” di Luigi Putignano Il Piccolo, 24 settembre 2019 Il coordinatore dei Garanti territoriali delle persone recluse analizzerà domani in città i numeri. “In Fvg ci sono 674 carcerati, di cui 22 donne, rispetto a una capienza di 479 posti, al Coroneo di Trieste sono ben 195. Sono troppi e molti di loro sono lì per reati di droga, un numero non accettabile in un Paese come l’Italia”: numeri che Franco Corleone, coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti, scandisce per bene quando analizza la situazione dei reclusi per reati di droga, anche per lanciare il messaggio che l’Italia è così da nord a sud, in maniera trasversale. Domani pomeriggio a Trieste, al Caffè San Marco, sarà presentato il decimo libro bianco sulle droghe, un rapporto indipendente sui danni collaterali del Testo unico sulle droghe. Il volume illustra i dati relativi agli effetti della cosiddetta “guerra alle droghe”, una guerra trentennale che non ha sortito gli effetti sperati da chi l’ha dichiarata. Relazioneranno sui contenuti del testo oltre al curatore, Franco Corleone, la Garante dei detenuti di Trieste, Elisabetta Burla, Alessandro Metz di Legacoopsociali e il provveditore Enrico Sbriglia. Una guerra che, come sottolinea il curatore, “è stata scalzata dai cambiamenti che sono avvenuti a livello planetario, con Paesi come l’Uruguay, il Canada e alcuni stati degli Usa che, nel frattempo, hanno legalizzato, con delle variabili, l’uso della cannabis”. Trent’anni che, come ricorda Corleone, “ebbero inizio da un viaggio di Bettino Craxi negli Stati Uniti, dopo il quale alzò il vessillo della tolleranza zero contro la droga, che sfociò nel Dpr 309/90 Iervolino-Vassalli” e che portò “alla criminalizzazione di massa e all’incarcerazione di migliaia di persone per un reato senza vittima”. “Frutto di quella legge - sottolinea Corleone - fu l’esplosione delle presenze in carcere di tossicodipendenti per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga, che descrive il reato di detenzione o piccolo spaccio”, quando si passò rapidamente “da un numero di 35 mila detenuti agli oltre 60 mila degli ultimi anni”. Nel 2006 si arriva alla cosiddetta legge Fini-Giovanardi, che equiparava tutte le sostanze, leggere e pesanti, prevedendo la stessa pena, da sei a venti anni di carcere. “Una legge - spiega il coordinatore - che poneva l’Italia fuori dal contesto europeo e in stretta alleanza con i Paesi più reazionari e illiberali”. Si dovette aspettare la decisione della Corte costituzionale che nel 2014 ne smantellò gli aspetti più duri. Resta il problema del sovraffollamento: dal libro bianco si evince che le presenze in carcere aumentano di circa duemila unità, e che sono 1.300 in più, in un solo anno, le persone detenute per violazione della legge sulla droga, ossia il 35,21% del totale. Sempre secondo il libro bianco, per il semplice consumo di sostanze illegali, nel 2018 sono state quasi 40 mila le persone segnalate ai prefetti, tra le quali l’80% per consumo di cannabinoidi. “Per avere un’idea della dimensione di questo fenomeno - conclude Corleone -, dal 1990 al 2018 le segnalazioni ai prefetti sono state un milione e 267 mila, in gran parte si tratta di giovani o giovanissimi”. Milano. Bollate, donne e lavoro in carcere: prove di riscatto di Roberta Rampini Il Giorno, 24 settembre 2019 Un successo le attività promosse da Soroptimist International. Dai corsi di gelateria al “Beauty salon”: le detenute scoprono il futuro. Trenta carceri, dal Nord al Sud Italia. Sessanta progetti avviati e 20 work in progress, 340 detenute di ogni età coinvolte (pari al 12% della popolazione femminile carceraria), 70 detenute che hanno ottenuto il diploma di acconciatrice, 30 diplomate nel corso di gelateria artigianale Fabbri Master Class. Altre 45 donne migranti e minori del carcere di Palermo diplomate al termine del corso di caseificazione e lavorazione del latte. Un impatto economico dei progetti avviati dietro le sbarre di 100.000 euro. È “SI sostiene”, la strategia di Soroptimist International d’Italia per favorire il lavoro femminile in carcere: numeri e progetti sono stati illustrati ieri mattina nel convegno che si è svolto nel carcere di Bollate. Il lavoro come strumento di rieducazione e reinserimento sociale, il lavoro come emancipazione anche da un punto di vista economico, il lavoro per abbattere la recidiva nei reparti femminili. E il carcere che apre le porte ai club Soroptimist. “Due anni fa abbiamo sottoscritto un protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia e abbiamo avviato progetti di formazione professionale delle detenute con il rilascio di certificazioni, ma anche attività di mentoring e sostegno delle attività lavorative già presenti e gestite dalle cooperative sociali - ha dichiarato Paola Pizzaferri, vicepresidente nazionale Soroptimist d’Italia e coordinatrice del progetto. Hanno aderito 49 club in tutta Italia e 200 socie. Alle detenute che partecipano ai progetti chiediamo auto-responsabilizzazione”. In due anni dietro le sbarre sono stati avviati corsi di gelateria artigianale, pasticceria e arte bianca, cake design, coltivazione piante aromatiche, manutenzione del verde e garden, bibliotecarie, corsi d’arte e scrittura, sartoria, artigianato, beauty e parrucchiera. Ma non solo, sono stati allestiti 20 spazi che prima non c’erano. Come nel caso del carcere di Bollate, dove è stato realizzato un “Beauty salon” e il nuovo reparto nido con la “Navicella junior”, ovvero una sala di lettura attrezzata. Centinaia di volontarie Soroptimist, ma non da sole. Tanti anche gli sponsor che credono nei loro progetti: Ikea, Fabbri 1905 Master Class, Musso Gelaterie e la collaborazione di enti e partner territoriali. “Anche nel reparto femminile di Bollate, dove ci sono 160 detenute, l’attività di formazione professionale e il lavoro hanno assunto un’importanza fondamentale - ha spiegato Cosima Buccoliero, direttrice dell’istituto di pena -. I progetti avviati da Soroptimist rappresentano un’occasione per creare relazioni con le persone e aiutare le detenute a uscire da una situazione di emarginazione”. Matera. Protocollo d’intesa per i detenuti messi alla prova dire.it, 24 settembre 2019 Svolgeranno volontariato all’interno della fondazione Matera Basilicata 2019. È stato siglato questa mattina il protocollo per l’inclusione sociale di persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria tra l’ufficio locale di esecuzione penale esterna di Matera e la Fondazione Matera Basilicata 2019. L’intesa consente ai detenuti cosiddetti messi alla prova di effettuare attività di volontariato nel quadro del programma della capitale europea della cultura. A firmare il protocollo il direttore dell’Uiepe Annarita Di Gregorio e il presidente della Fondazione Salvatore Adduce. L’obiettivo, cosi’ come previsto dalla legge, è l’avviamento di un percorso supporto per il reinserimento sociale attraverso lavori di pubblica utilità e volontariato. “Per ciascun soggetto coinvolto Ulepe e Fondazione Matera Basilicata 2019 - spiegano i promotori dell’iniziativa - collaboreranno per elaborare e realizzare un programma di trattamento individualizzato, esplicitando gli impegni specifici, il numero di giorni, le ore, nonché le modalità di attività di volontariato per le attività, eventi e progetti relativi a Matera Capitale Europea della Cultura 2019”. Il protocollo è valido cinque mesi, è prorogabile, non prevede costi per le due parti. Alba (Cn). Il carcere esce dalle mura: si vendemmia alla Scuola Enologica di Francesca Pinaffo gazzettadalba.it, 24 settembre 2019 Un piccolo corteo segue il trattore carico di casse di Arneis. Chi ha passato la mattinata a raccogliere i grappoli dorati sotto il sole, tra i filari nel cuore di Alba, si avvia verso la cantina. Per un giorno, grazie a un progetto unico nel suo genere, i pregiudizi sono stati ancora una volta abbattuti. Giovedì scorso, all’istituto enologico Umberto I, la vendemmia è stata inaugurata assieme a quattro detenuti del carcere Giuseppe Montalto di Alba. La collaborazione tra l’istituto carcerario e l’enologica è più che consolidata, perché proprio in corso Enotria viene vinificato il vino Valelapena, che nasce dalla vigna interna al Montalto e viene curato dai detenuti attraverso un corso di operatore agricolo, possibile grazie alla collaborazione tra l’enologica, Syngenta Italia e Casa di carità arti e mestieri Onlus. La novità è che per la prima volta non sono stati gli studenti a varcare i confini del carcere per collaborare in vigna con i detenuti, ma sono stati questi ultimi a raggiungere il vigneto della scuola accompagnati da un gruppo di agenti della Polizia penitenziaria. Commenta la preside dell’enologica Antonella Germini: “È stato un momento molto importante del progetto Vale la pena: un confronto tra due realtà molto diverse, ma fortemente nel segno dell’integrazione”. A seguire gli studenti è Bruno Morcaldi, che insegna enologia: “In vigna i ragazzi hanno fatto da tutor ai detenuti, che hanno imparato le diverse operazioni durante il corso di operatore agricolo. È stato bello vederli lavorare fianco a fianco, senza pregiudizi. Ed è proprio questa la forza del progetto: da un lato sensibilizza ragazzi molto giovani su temi come la legalità e la giustizia penale, che saranno anche oggetto di una delle prove di maturità, dall’altro offre ai detenuti un’opportunità concreta di reinserimento”. Tra gli studenti che hanno partecipato all’iniziativa c’è Sara, della quinta A: “È stata una mattinata molto arricchente per tutti noi. Penso che sia stato utile vedere come si svolge il lavoro in vigna nella quotidianità per i detenuti, così come per noi ragazzi è stato interessante confrontarci con loro”. È d’accordo anche il suo compagno di classe Manuel: “Noi studenti ci siamo sentiti parte di un progetto importante: sono contento di poter dare un’opportunità a persone che oggi si trovano in carcere e che grazie a quest’attività hanno un incentivo reale per migliorarsi”. Sentiamo anche le voci del Montalto. C’è chi viene da Milano, dalla Polonia o da più vicino, ma tutti i detenuti sono d’accordo: “Attività come il corso di operatore agricolo sono fondamentali perché non ci fanno stare con le mani in mano. Essere qui, oggi, a scuola, fuori dal carcere, è un grande atto di fiducia e un’opportunità concreta che offre il progetto”. Torino. Incontro: “Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità” mentelocale.it, 24 settembre 2019 Mercoledì 9 ottobre alle ore 18.30, presso Binaria Centro Commensale appuntamento con l’incontro “Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità”. Presentazione del libro curato da Valeria Friso e Luca Decembrotto, ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Il volume presenta una riflessione corale e multidisciplinare sulla presenza delle università all’interno delle carceri, approfondendo teoria, ricerca e pratiche. Nella prima parte del volume viene approfondito il senso educativo dell’accesso agli studi universitari da parte di persone private della libertà. Nella seconda parte del volume sono presentate le esperienze italiane dei Poli universitari penitenziari. Uno spazio particolare è stato riservato agli atenei di Bologna, Padova e Torino. Nell’ultima parte sono proposte quattro esperienze internazionali, afferenti ad altrettanti approcci di collaborazione fra università e carcere. Insieme ai curatori del libro interverranno Franco Prina, responsabile dei Poli Universitari Penitenziari a livello nazionale; Claudio Sarzotti, docente di Filosofia del diritto e Lucia Bianco dell’equipe Genitori & Figli del Gruppo Abele. Matera. Quarta Mostra Galeotta, espongono 207 artisti detenuti basilicatamagazine.it, 24 settembre 2019 Dal 24 settembre al 6 ottobre 2019 si terrà la “Quarta Mostra Galeotta”, una collettiva di 207 artisti di mail-art detenuti nelle carceri italiane che, con 468 opere esposte, vuole essere una delle più interessanti esposizioni di mail-art in Italia. La mostra è curata da Alessandro Martemucci. Le opere esposte alla mostra presso gli Ipogei di San Franceso, piazza San Francesco, Matera, hanno partecipato al progetto Pittori Dentro 2019 dell’Associazione Artisti Dentro Onlus, un concorso di pittura riservato ai detenuti che hanno inviato le opere su cartoline, non imbustate, da varie parti d’Italia. Tra gli artisti ci sono detenuti di 66 istituti di pena italiani e uno filippino. Ogni cartolina racconta una storia, avendo un fronte con l’opera pittorica e un retro con i dati dell’artista, il titolo e qualche commento; l’insieme tra fronte e retro è l’opera di mail-art. Accanto agli artisti detenuti esporranno 40 artisti liberi di ottimo livello, con opere di mail art inviate con le stesse modalità richieste ai detenuti: su cartolina e non imbustate. Gli artisti liberi, che dimostrano con il loro contributo di sostenere l’idea di un recupero sociale attraverso l’arte, sono: Gianluca Balocco, Mario Battimiello, Gio’Bonardi, Antonella Cappuccio, Casagrande & Recalcati, Giovanni Cerri, Vanni Cuoghi, Pino Deodato, Nathalie Du Pasquier, Pablo Echaurren, Linda Ferrari, Andrea Forges Davanzati, Elena Galimberti, Giovanna Giachetti, Ali Hassoun, Sam Havadtoy, Michelle Hold, Paolo Iacchetti, Oki Izumi, Alfonso Lentini, Andrea Massari, Italo Mazzei, Francesco Merletti, Enrico Mitrovich, Osvaldo Moi, Nadia Nespoli, Alberto Parres, Petra Probst, Guido Peruz, Roberta Savelli, Fausta Squatriti, Bona Tolotti, Angela Trapani e Dario Zaffaroni. Inoltre si segnalano gli artisti locali: Domenico Dell’Orso, Pino Oliva, Alejandro Pereyra, Cesare Maremonti, Pepperio Barbino, Rocco Persia e Pino Lauria. Tutte le opere saranno messe in vendita e il ricavato andrà a favore del progetto Pittori Dentro. I cataloghi sono sul sito www.artistidentro.com. La mail-art, anche conosciuta con il termine arte postale, è un movimento artistico che usa il servizio postale come mezzo di distribuzione, tramite l’invio di opere generalmente di piccolo formato, ma si sa anche di oggetti di vario tipo - orsacchiotti, suole di scarpe, dischi - affrancati e spediti. L’importante è appunto l’invio postale poiché la mail-art è considerata arte solo dopo la sua spedizione. Per Pittori Dentro, la mail-art è uno strumento che rappresenta la voce del detenuto che attraversa le sbarre e si diffonde nella società libera. L’opera del prigioniero deve affrontare la società aldilà delle mura, eventi imprevedibili come quelli atmosferici, la casualità, e soprattutto rischia di essere vittima dell’incuria e dell’indifferenza. L’ambiente, inteso nella sua accezione più ampia, è coautore. L’opera che parteciperà al premio, sarà l’artefatto fondato da un detenuto e plasmato dall’ambiente in cui il caso e la volontà degli uomini s’intrecciano. La casa vinicola Cantine di Venosa offrirà un brindisi nel corso dell’inaugurazione che avrà luogo il 24 settembre 2019 alle 18.30, durante la quale la presidente di Artisti Dentro Onlus, Sibyl von der Schulenburg, procederà al formale annuncio dei vincitori dell’edizione 2019 del concorso “Pittori Dentro”. Ambiente. La piccola Greta bacchetta i Grandi: “Avete rubato i nostri sogni” di Marina Catucci Il Manifesto, 24 settembre 2019 Al summit Onu sul clima pochi impegni nonostante le preghiere del segretario generale. Arriva anche il negazionista Trump, ma non parla. La “svolta” della Russia: adesione in ritardo a Cop. “Se non cambiamo con urgenza il nostro stile di vita, mettiamo a rischio la nostra vita stessa. Io non ci sarò, ma i miei nipoti si”: così si è espresso Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, aprendo la 74esima Assemblea Generale dell’Onu che ha chiamato Capi di stato e di governo del pianeta a discutere il modo con cui affrontare i cambiamenti climatici. Un summit che nelle intenzioni di Guterres doveva essere una “catapulta, un salto di tutte le nazioni nell’ambizione collettiva” di ridurre le emissioni inquinanti e limitare il riscaldamento globale. Diversamente da quanto annunciato il negazionista climatico Donald Trump si è presentato al summit, nonostante avesse in programma un’apparizione ad un evento su la libertà di culto che si svolgeva contemporaneamente al vertice sul clima; Trump ha trascorso al vertice circa 15 minuti e non è intervenuto, ha ascoltato le osservazioni del primo ministro indiano Narendra Modi e della cancelliera tedesca Angela Merkel ed è andato via. Il Presidente Usa è anche arrivato al summit in ritardo, dopo il discorso del segretario generale Guterres, il quale ha anche sottolineato che l’inversione del cambiamento climatico “richiederà trasformazioni fondamentali nella società”, come tasse per l’inquinamento” e ribadito “che la scienza ci dice che l’emergenza climatica è una gara che stiamo perdendo, ma possiamo vincerla, non è troppo tardi per porvi rimedio”. Alla fine appena 66 governi, 10 regioni, 102 città, 93 aziende e 12 investitori si sono impegnati per raggiungere le zero emissioni nette di Co2 entro il 2050, obiettivo minimo e vitale per contrastare il cambiamento climatico. Oltre a ciò 68 Paesi - e questo è stato uno dei segnale forse più importanti - si sono impegnati a rivedere i piani climatici entro il 2020, anno in cui i 195 firmatari dell’accordo di Parigi dovrebbero presentare nuovi impegni; 30 Paesi stanno aderendo ad un’alleanza che promette a partire dal 2020, di fermare la costruzione di centrali a carbone. L’altro passo avanti, è stato il formale ok della Russia all’accordo di Parigi. Se Trump non si è espresso, il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha infatti dichiarato di aver firmato una risoluzione relativa alla ratifica dell’accordo. “La minaccia del cambiamenti climatici - ha detto Medvedev - può compromettere mettere a rischio lo sviluppo di molti settori chiave, come l’agricoltura, e, soprattutto, la sicurezza della nostra gente che vive sul permafrost”. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha promosso un nuovo piano del valore di 60 miliardi di dollari in 10 anni per accelerare il passaggio all’energia pulita. Gran Bretagna, Norvegia, Costa Rica e altri 12 paesi promettono di raggiungere emissioni zero entro il 2050. Collettivamente, le promesse sono un segnale di quanto altri Paesi sono disposti a fare di fronte all’inazione degli Stati Uniti, che è responsabile per la maggior parte delle emissioni di gas serra dall’età industriale. “Per la maggior parte i leader mondiali non hanno preso gli impegni che era necessario prendere oggi a New York” ha commentato il direttore esecutivo di Greenpeace International, Jennifer Morgan con un intervento simile a quello dell’attivista svedese Greta Thunberg che, rivolgendosi ai Grandi della terra, ha sferrato un duro attacco ai “ladri di futuro”. “Venite da noi giovani per la speranza. Come osate? Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote”, è stata l’arringa della giovane attivista svedese, leader del Fridays for Future, che continua a manifestare per tutta la settimana. Thunberg ha criticato chi continua a parlare della crisi climatica in termini di denaro e crescita economica, e citando oltre 30 anni di studi scientifici, ha continuato: “Dite di capire l’urgenza, ma non voglio crederci, perché se davvero state capendo e nonostante ciò continuate a non agire, allora vuol dire che siete cattivi, e mi rifiuto di crederlo”. L’attivista ha dunque giudicato insufficienti gli impegni presi di ridurre le emissioni del 50%: “Il 50% potrà essere accettabile per voi - ha detto Thunberg - ma la mia generazione si sorbirà centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’aria, affrontandole con tecnologie che a malapena esistono. Quindi, un rischio del 50% non è accettabile per noi che dobbiamo convivere con le conseguenze”. Poi in un crescendo ha accusato i politici di fingere che i problemi climatici possano essere risolti con soluzioni tecniche e “affari come al solito”, aggiungendo, anzi profetizzando, che “non usciranno oggi da qui soluzioni o piani in linea con queste cifre, perché questi numeri sono troppo scomodi e voi non siete ancora abbastanza maturi per dirlo. Ci state deludendo, ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se scegliete di fallire, io vi dico che non vi perdoneremo mai”. Delusione condivisa da Greenpeace: “Venerdì abbiamo visto milioni di persone riversarsi per le strade chiarendo che non accetteranno più apatia, scuse e inazione da parte di leader politici deboli incapaci di resistere al potere dell’industria dei combustibili fossili”, ha commentato il direttore dell’organizzazione ecologista internazionale, Jennifer Morgan. Ambiente. Poche decisioni e tanti alibi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 24 settembre 2019 Si torna dalle manifestazioni mondiali di piazza con la rabbia di Greta che accusa i governi di averle rubato sogni e futuro, ma anche consapevoli che lo scarso attivismo della politica non può essere un alibi per il cittadino. Troppo poco, troppo tardi. Sono in tanti a pensare che tanti sforzi - proteste planetarie, conferenze Onu, impegni dei governi - serviranno a poco. Gli obiettivi del Patto di Parigi di 4 anni fa - contenere l’aumento delle temperature entro 1,5-2 gradi - non verranno rispettati: la Terra si è già scaldata mediamente di 1,1 gradi. Le emissioni di CO2 continueranno a crescere fino al 2030, portando il riscaldamento, da qui al 2100, a 3-3,4 gradi. Un mondo invivibile secondo gli scienziati. I ritardi sono, in effetti, enormi, le promesse dei governi sono rimaste spesso lettera morta e quello di invertire la rotta è un compito titanico: per riuscirci servirebbero rivoluzioni - dalla rinuncia totale alle carni bovine al drastico taglio dei voli - che avrebbero pesanti conseguenze su turismo, agricoltura, commerci, migrazioni. Molti di noi non sono disposti ad accettarle. Ma il Climate Summit di ieri, se non una vera svolta, è stato di certo un momento di discontinuità. Il “come osate?” di Greta Thunberg può anche essere giudicato un grido velleitario e António Guterres, il segretario generale Onu che ha voluto il vertice e sferza i Paesi inadempienti, non ha poteri operativi. E tuttavia la pressione crescente dei giovani di tutto il mondo, i vincoli di Parigi che cominciano a diventare stringenti, i primi impegni dei governi e delle grandi imprese, dicono che qualcosa stavolta sta cambiando davvero. Cambia l’atteggiamento dei politici, esposti alla rabbia popolare e ormai consapevoli dell’enorme costo sociale di mutamenti climatici che producono desertificazioni e inondazioni. Cambia quello delle imprese: fino a ieri consideravano la tutela dell’ambiente un’iniziativa filantropica, pura beneficenza, mentre ora si rendono conto non solo che quelle della protezione dell’ecosistema e della transizione energetica verso fonti alternative sono grandi opportunità di business, ma anche che l’inazione porta a collassi delle comunità e, quindi, dei mercati. Cresce, forse un po’ a macchia di leopardo, anche la nostra consapevolezza individuale: se un tempo pensavamo che tutto dipendesse dai governi, ora ci stiamo abituando all’idea che ognuno di noi può fare qualcosa per contenere i consumi più nocivi per l’ambiente o per contribuire a varie forme di smaltimento e riciclaggio. Insomma, si torna dalle manifestazioni mondiali di piazza con la rabbia di Greta che accusa i governi di averle rubato sogni e futuro, ma anche consapevoli che lo scarso attivismo della politica non può essere un alibi per il cittadino. Guterres, pur conscio dei numeri impietosi degli scienziati, dice che il suo stato d’animo è passato dal pessimismo all’ottimismo proprio per la pressione dei giovani sui governi. Il leader dell’Onu ha invitato al Summit solo 66 Paesi considerati i più volenterosi (Italia compresa, impegnata più di altri nella transizione energetica verso l’elettrico soprattutto con Enel e nell’economia circolare con imprese e banche come Eni e Intesa). È una scelta che sta dando frutti sia in termini di impegni aggiuntivi dei Paesi incalzati dall’Onu - come la Germania col piano “verde” da 100 miliardi di euro elaborato proprio alla vigilia del vertice di New York - sia per l’effetto delle sferzate inferte ai governi inadempienti: ad esempio, col leader nipponico Shinzo Abe non invitato perché il suo Paese continua a puntare sul carbone, Tokio ha mandato al summit Shinjiro Koizumi, giovane e popolarissimo ministro dell’Ambiente, figlio di un ex premier, che ha promesso un piano di azioni straordinarie per portare il Giappone in prima fila nella lotta contro il global warming. Promesse credibili? Gli impegni, anche quando sinceri e seguiti da fatti concreti, basteranno ad arrestare il deterioramento dell’atmosfera? È difficile essere ottimisti: anche perché alcuni danni - scioglimento dei ghiacciai montani e dei ghiacci polari, innalzamento dei mari con la conseguente moltiplicazione delle inondazioni - sono ormai irreversibili. Basti pensare alla crescita media del livello degli oceani, passata dai 3 millimetri l’anno del periodo 1997-2006 ai 5 millimetri medi degli ultimi cinque anni. Pesa, poi, anche il disimpegno degli Stati Uniti, con Donald Trump che ha apertamente boicottato il Summit anche se poi, con una delle sue classiche mosse a sorpresa, si è presentato all’incontro per una presenza silente durata poche decine di minuti. Difficile dire quanto saranno efficaci i nuovi piani d’intervento dei governi e valutare il peso del patchwork di misure per l’ambiente varate da grandi multinazionali come Ikea, Unilever, Danone o giganti del software e della farmaceutica come Salesforce e AstraZeneca. Per non parlare delle conseguenze negative involontarie di certe iniziative (il caso, anni fa, degli elevati costi ambientali per la produzione di combustibili vegetali) o delle contraddizioni che possono facilmente emergere in situazioni così complesse, a partire dall’osservazione più banale: l’enorme quantità di anidride carbonica emessa dagli aerei che portano in giro per il mondo i profeti della decarbonizzazione. Ma qualcosa sta cambiando in positivo. Anche nelle nostre piccole cose come la routine quotidiana di chi ha capito che deve togliere i residui di cibo da cartoni e plastiche alimentari prima di smaltirle, altrimenti non saranno riciclabili. Migranti. Primo patto europeo: 10 Paesi pronti a firmare di Fiorenza Sarzanini e Marco Galluzzo Corriere della Sera, 24 settembre 2019 Sbarchi, quote, rimpatri: cosa può cambiare. Ogni Stato accoglierà tra il 10 e il 25% degli arrivi. Redistribuzione preventiva e automatica dei migranti: è questo il punto chiave dell’intesa. Redistribuzione preventiva e automatica dei migranti: è questo il punto chiave dell’intesa tra i “volenterosi” che potrebbe davvero cambiare la gestione dei flussi migratori. Si tratta della richiesta principale presentata dal presidente del consiglio Giuseppe Conte e dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, frutto anche delle trattative bilaterali condotte nell’ultima settimana. Ma adesso bisognerà verificare quanti Stati europei aderiranno a questo progetto che Italia, Malta, Francia e Germania hanno messo a punto e condiviso con la Finlandia, presidente di turno dell’Unione. Se saranno confermati i calcoli fatti qui a La Valletta su almeno dieci Paesi pronti a firmare, allora si potrà dire che il sistema è effettivamente cambiato, perché ad essere scardinato sarà il principio che - in base al trattato di Dublino - obbliga il Paese di primo ingresso a farsi carico degli stranieri fino alla decisione sulla richiesta di asilo. Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, Grecia e Spagna avrebbero manifestato appoggio, altri potrebbero dare il consenso, anche per non rischiare di ottenere una riduzione dei contributi economici. La suddivisione - Attualmente i migranti che arrivano in Italia a bordo delle navi delle Ong e delle motovedette di Guardia di Finanza e della Guardia Costiera vengono registrati negli hotspot e in caso di richiesta di asilo attendono l’esito nei centri di accoglienza. Durante la permanenza di Matteo Salvini al Viminale l’Ue ha accettato di occuparsi della distribuzione degli stranieri tra alcuni Stati pur di far revocare i divieti di ingresso nei porti. Si decideva però analizzando caso per caso. Se passerà l’accordo saranno stabilite quote fisse a seconda del numero di Paesi partecipanti (tra il 10 e il 25 per cento) e la distribuzione scatterà in maniera automatica. Quindi dopo l’approdo i migranti saranno registrati in Italia ma entro quattro settimane dovranno essere trasferiti altrove. Accoglienza e rientri - Al momento si applica sempre il trattato di Dublino e dunque l’onere dell’accoglienza, ma soprattutto dei rimpatri, rimane in carico al Paese di sbarco, dunque Italia e Malta. Questo vuol dire che sono i due governi a dover negoziare la riammissione con i Paesi di provenienza dei migranti. Si tratta di una procedura lunga e complessa. L’Italia può contare su accordi con Tunisia, Egitto, Gambia, Nigeria e sulla collaborazione del Marocco, ma questo impone una serie di concessioni e comunque le cifre dei rimpatriati sono molto esigue rispetto al numero di chi arriva. Per avere un’idea basti dire che Tunisi accetta due charter a settimana da 40 persone, complessivamente ogni anno si riesce a far tornare a casa non più di 5 mila persone. Nell’intesa raggiunta ieri a La Valletta è invece previsto che sia lo Stato di destinazione a gestire la sistemazione dei richiedenti asilo e - in caso venga negata l’istanza per il riconoscimento dello status di profugo - anche le pratiche per il rimpatrio. Si tratta di una novità importante perché questo convincerà gli Stati europei a impegnarsi per chiudere accordi con i Paesi di provenienza dei migranti e obbligherà la Commissione Ue a farsi garante di queste trattative. Porti sicuri - Le norme sul soccorso in mare e le convenzioni internazionali prevedono lo sbarco nel porto sicuro più vicino. Quando le navi prendono a bordo i migranti al largo della Libia, l’approdo più vicino sarebbe proprio in quel Paese ma poiché non viene ritenuto “sicuro”, le imbarcazioni si rivolgono a Malta e Italia. Nella nuova intesa si cercherà invece di stabilire una rotazione che, su base volontaria, consentirà di mandare le navi nei porti di altri Stati, ad esempio Francia e Spagna. Hong Kong. La “linea rossa” che Pechino pretende non sia oltrepassata di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 settembre 2019 Gli ultimi tre mesi a Hong Kong sono stati segnati da intimidazioni, violenze della polizia, arresti e processi come effetto della sempre più massiccia limitazione dei diritti alla libertà di espressione, associazione e manifestazione pacifica. Ma la proposta di legge sull’estradizione, poi ritirata, è stata solo l’ultimo motivo per protestare. Si deve partire da un po’ più lontano. Dalla cosiddetta “linea rossa” proclamata nel 2017 dal presidente cinese Ji Xinping per scongiurare “ogni tentativo” di minacciare la sovranità e la sicurezza della Cina, sfidare il potere del governo cinese o usare Hong Kong per infiltrarsi e compiere azioni di sabotaggio contro la madrepatria”. In ossequio a quella dichiarazione, le autorità di Hong Kong hanno applicato politiche ancora più repressive di quelle messe in atto in occasione delle proteste del 2014 del Movimento degli ombrelli. In conclusione, le autorità di Pechino considerano qualsiasi ordinario esercizio dei diritti umani a Hong Kong come un superamento della “linea rossa” e pretendono l’adozione, anche nella regione autonoma speciale, della definizione onnicomprensiva e vaga di “sicurezza nazionale”, che già sta producendo effetti devastanti nella madrepatria. Burundi. L’Onu: “Violenze di Stato e rischio genocidio” di Fabrizio Floris Il Manifesto, 24 settembre 2019 Sotto il regime di Nkurunziza. Le accuse della Commissione d’inchiesta Onu sulla drammatica situazione dei diritti umani nel paese, a 8 mesi dal voto. La calma che si respira è illusoria, basata sul terrore e sul soffocamento delle voci critiche. E anche la Chiesa, finita sotto attacco, scende in campo. Il 30 settembre 2016 le Nazioni unite hanno nominato una commissione d’inchiesta sul Burundi per analizzare le violazioni dei diritti umani nel Paese a partire da aprile 2015. Periodo in cui, a seguito di gravi disordini, migliaia di persone avevano lasciato il Paese in cerca di sicurezza. L’incipit era stato l’annuncio del presidente Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato quando la Costituzione ne prevedeva un massimo di due. Il seguito è la fuga di circa 400mila persone di cui 200 mila nella vicina Tanzania (184.000 distribuiti nei campi di Nduta, Mtendeli e Nyarugusu) che adesso dopo 4 anni il governo ospitante, in accordo con il Burundi, vorrebbe rimpatriare al ritmo di 2000 persone a settimana. Come ha dichiarato il ministro degli interni tanzaniano Kangi Lugola: “In accordo con il governo burundese e in collaborazione con l’Alto commissariato per i rifugiati, inizieremo il rimpatrio di tutti i rifugiati burundesi dal 1 ottobre”. Il ministro ha poi continuato sostenendo che il Burundi è attualmente in pace e aggiungendo di avere “informazioni secondo cui le organizzazioni internazionali, stanno ingannando le persone, dicendo loro che non c’è pace in Burundi”. Tuttavia, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) fa notare che “anche se in Burundi la sicurezza generale è migliorata, le condizioni non sono favorevoli alla promozione dei rimpatri”. L’Agenzia sta aiutando i rifugiati che scelgono volontariamente di rientrare nel Paese, ma sia le autorità tanzaniane che burundesi lamentano il ritmo lento con cui avvengono i rimpatri sostenendo che così si alimenta la violenza nei campi. Infatti uno dei timori è che i campi diventino luoghi, come avvenuto in passato, dove si organizzano movimenti contro il governo. La scelta viene spiegata come un modo per controllare meglio le persone all’interno delle proprie frontiere e nel contempo per presentarsi alla comunità internazionale come un Paese sicuro, dove le elezioni del 2020 possono svolgersi regolarmente. Il Paese in effetti appare sicuro, anche se, secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia Human Rights Watch, le autorità sarebbero responsabili di “dozzine di pestaggi, arresti arbitrari, sparizioni e uccisioni contro membri dell’opposizione politica reali o presunti”. È una situazione di calma sospesa, come racconta Cyprien (nome di fantasia e un passato da migrante in Italia): “Come da voi nelle zone di ‘ndrangheta tutto è tranquillo, non c’è neanche bisogno di ammazzare troppo, basta far sparire una o due persone ogni tanto”. Il rapporto della Commissione di inchiesta sul Burundi varata dalle Nazioni unite conferma il “clima di paura e intimidazione nei confronti di tutte le persone che non mostrano il proprio sostegno al partito al potere, il Conseil national pour la défense de la démocratie-Forces pour la défense de la démocratie (Cndd-Fdd). I giovani del partito, i cosiddetti Imbonerakure, gli agenti del servizio di intelligence nazionale e la polizia continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani contro i cittadini del Burundi e la crisi scatenata nel 2015 è ben lungi dall’essere risolta, anzi si è evoluta al punto da colpire tutti gli angoli del Paese”. Il rapporto accusa gli Imbonerakure di omicidi, arresti arbitrari e torture, una violenza alimentata dalla diffusa impunità. “Oggi è estremamente pericoloso parlare criticamente in Burundi” spiega il presidente della Commissione, Doudou Diène. “Il soffocamento delle voci critiche è ciò che consente al Paese di presentare l’illusione di calma”, aggiunge la camerunense Lucy Asuagbor, membro della stessa commissione. Come il britannico Françoise Hampson, che aggiunge: “Una calma basata sul terrore”. Nel testo si specifica che le violenze “non esistono” perché non c’è chi le racconta, data l’assenza di media indipendenti, a causa di un sistema giudiziario disfunzionale e anche per la recente chiusura dell’ufficio nazionale dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani. La Commissione è attualmente l’unico meccanismo internazionale indipendente che indaga sugli abusi commessi in Burundi. I commissari chiedono quindi al governo di porre fine alle violenze da parte di agenti dello Stato e Imbonerakure. Inoltre sottolineano l’urgente necessità di attuare misure per prevenire il deterioramento della situazione dei diritti umani nel contesto delle elezioni del 2020. E viene invitata la comunità internazionale alla massima vigilanza sul Burundi, applicando il “Quadro di analisi per potenziali atrocità” sviluppato dall’Ufficio delle Nazioni unite per la prevenzione del genocidio (il rapporto ha riscontrato in Burundi tutti gli otto “fattori di rischio”). A Bujumbura siede anche un ministro per i Diritti umani, Martin Nivyabandi, il quale ha però rigettato le accuse dell’Onu, formulate a suo dire senza aver prima “dialogato con le autorità”. Le conclusioni a cui è giunta la Commissione si basano su oltre 1.200 dichiarazioni di vittime, testimoni e presunti autori di violazioni dei diritti umani e altre fonti raccolte nel corso di tre anni di indagine. Quest’anno il governo del Burundi ha ancora rifiutato qualsiasi cooperazione con la Commissione, nonostante le ripetute richieste. Domenica 22 settembre in tutte le chiese cattoliche del Burundi si è letto il messaggio dei vescovi che esprimevano la loro preoccupazione a otto mesi dalle elezioni presidenziali del 20 maggio per le “aggressioni di alcuni partiti politici e le persecuzioni nei confronti di membri della Chiesa: atti criminali che arrivano fino all’omicidio… Nella maggior parte dei casi le vittime sono coloro che hanno opinioni diverse da quelle del governo”. Gli Imbonerakure hanno “preso il posto delle forze di sicurezza”, secondo i vescovi, i quali sul rimpatrio dei rifugiati auspicano che “le elezioni si possano svolgere dopo rimpatri volontari e senza costrizioni”. Willy Nyamitwe, consigliere e portavoce del presidente, ha replicato che “i vescovi hanno l’abitudine alla vigilia delle elezioni di sputare odio velenoso”. Gli spettri che si muovono nel Paese e il modus operandi per mettere a tacere ogni voce di dissenso trovano espressione nell’annullamento del rilascio dei passaporti da parte delle ambasciate: se vuoi rinnovare il documento devi andare nella capitale Bujumbura oppure diventare un clandestino. In questo clima viene da pensare che il celebre ensemble dei Tamburi del Burundi, patrimonio Unesco e simbolo di festa, pace, unità, non suonerà più per un bel po’ di tempo. Speriamo di sbagliare.