Tortura, prima indagine: botte nel carcere di San Gimignano di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2019 15 agenti inquisiti. I detenuti denunciano: picchiato e umiliato un tunisino recluso per droga. Lo hanno umiliato “abbassandogli i pantaloni” prima di pestarlo con pugni e calci. Trattamento che la Procura di Siena definisce “inumano e degradante”, condito da “violenza “ e “crudeltà”. Per questo nei giorni scorsi ha indagato con l’accusa di tortura 15 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano. Dopo l’entrata in vigore della legge del 2017, questo è il primo caso in Italia in cui è contestato il reato di tortura a pubblici ufficiali. La pm di Siena, Valentina Magnini, aveva chiesto gli arresti domiciliari che però il gip Valentino Grimaldi non ha concesso. Ha disposto per quattro di loro la sospensione dal servizio per quattro mesi. L’inchiesta, anticipata da Repubblica, è partita dalla testimonianza di sei detenuti a un’operatrice penitenziaria e poi con lettere formali ai tribunali di Siena e di Sorveglianza. A raccontare i fatti dell’11 ottobre sono i detenuti della sezione di massima sicurezza, tutti accusati di reati gravi come il traffico di droga e l’associazione mafiosa di stampo camorrista: a metà pomeriggio, in 15 prelevano un detenuto 31enne tunisino che deve scontare un anno per trasferirlo in un’altra cella. Sta per entrare nella doccia, quando vede gli agenti si accorge che qualcosa non va. I poliziotti lo prendono con la forza e senza troppe spiegazioni lo trascinano lungo il corridoio del carcere. Poi, è l’accusa, arrivano le botte. “Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte” racconta uno dei testimoni, come riportato nelle carte dell’inchiesta. Pugni, calci, l’umiliazione dei pantaloni abbassati e le minacce esplicite riferite dai detenuti che hanno assistito alla scena: “Ti ammazzo”, “Non ti muovere o ti strangolo”, “Perché non te ne torni al tuo Paese?”. Il giovane sarebbe poi stato trascinato in cella e lasciato lì, privo di sensi. Per timore delle ritorsioni rifiuta di farsi medicare: non denuncia e al dottore dell’Asl che gli chiede come si sia procurato una profonda ferita sopra l’occhio risponde di essere “caduto” in cella. C’è poi un’altra violenza: un detenuto assiste alla scena dallo spioncino e protesta prima di essere colpito con un pugno da un agente. Prognosi di due giorni. Gli agenti sono accusati anche di minacce, lesioni e falso per aver provato a insabbiare le prove. Quelli dell’11 ottobre non sembrano essere gli unici episodi di violenza: “Quando venivano tutti insieme, in venti, l’unico scopo era picchiare” spiega un testimone. Non solo: “Noi del reparto di isolamento avevamo paura e dormivamo a turno per non essere presi alla sprovvista”. Nel mirino dei detenuti c’è lo “sfregiato”, uno dei poliziotti indagati. Gli agenti comunicavano tra loro in una chat WhatsApp chiamata “la mangiatoia” sulla quale indagano i pm. Ieri il Garante toscano dei detenuti ha denunciato “la situazione intollerabile” mentre il sindacato della polizia penitenziaria ha invitato a “non trarre conclusioni affrettate”. Il Garante dei detenuti: “È scoppiato il bubbone”. L’inchiesta si allarga ad altri pestaggi di Michele Bocci La Repubblica, 23 settembre 2019 Il Sindaco di San Gimignano: “penitenziario abbandonato a sé stesso”. Non un caso solo, seppure grave, seppure degno di far ipotizzare alla procura di Siena il reato di tortura. Sarebbero anche altri gli episodi di violenze sui detenuti ad opera della polizia penitenziaria nel carcere di San Gimignano, che allungano un’ombra inquietante sulla struttura. “Il problema è che lì i fatti si sono un po’ susseguiti nel tempo. Hai visto come funziona? Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei”, dice uno degli indagati a un collega nel gennaio scorso, prima di un’audizione al Dap. E proprio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si elencano più pestaggi. Francesco Basentini, capo del Dap: “I fatti di cui parliamo sarebbero concentrati in un ambito di tempo abbastanza ristretto e coinvolgerebbero due o tre detenuti del carcere di San Gimignano. Fatti abbastanza seri e gravi, per questo si è giunti ad adottare quel provvedimento di sospensione”. Non lavorano più, per ora, quattro dei 15 poliziotti finiti nell’indagine di Siena partita dalle denunce di chi ha assistito al violento pestaggio di un tunisino di 31 anni o ne ha viste le conseguenze. È una delle prime volte che in Italia viene contestato il reato di tortura, in questo caso affiancato alle accuse di minacce, lesioni e falso. “Ovviamente siamo nella fase delle indagini, questa è la contestazione cautelare”, prosegue Basentini, che promette trasparenza. Mentre i sindacati aggiungono che la penitenziaria non ha “nulla da nascondere”. L’indagine non sembra però cogliere di sorpresa il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone: “Era ora che scoppiasse il bubbone. Da anni denunciavamo la situazione intollerabile del carcere, che ha origini nella pessima decisione di costruirlo in un luogo isolato, malamente raggiungibile, con gravi problemi addirittura nella fornitura dell’acqua. I fatti che la Procura sta approfondendo risalgono a circa un anno fa e mi risulta che le prime indagini furono fatte dall’amministrazione penitenziaria in collaborazione con la procura, quindi non c’è stato tentativo di nascondere l’episodio, gravissimo”. Il sindaco di San Gimignano, Andrea Marrucci, rincara la dose: “Da troppo tempo la Casa di Reclusione è abbandonata al suo destino, senza direzione stabile e da mesi senza comandante e vice comandante del corpo di polizia penitenziaria. Con la parlamentare Susanna Cenni abbiamo denunciato le difficoltà di agenti e detenuti, le carenze infrastrutturali e chiesto interventi urgenti agli enti preposti. Richiesta sfociata in una esplicita lettera di misure urgenti al ministro”. L’ira degli indagati: “Certi detenuti andrebbero bruciati con la benzina” di Michele Bocci La Repubblica, 23 settembre 2019 L’assistente capo è contrariato. Alle 10 di mattina di un lunedì del gennaio scorso deve recarsi a Firenze, al Dap, “per quei fatti che sono successi ad ottobre - rivela a un collega indagato come lui - Cioè, andare a perdere una giornata lavorativa per andare eventualmente a giustificare l’operato delle persone, per uno che bisognerebbe pigliare la tanica di benzina, buttargliela addosso e dargli fuoco”. Si riferisce al detenuto tunisino che è stato pestato da 15 persone a San Gimignano. Gli agenti hanno fatto di tutto per non farsi vedere mentre tiravano calci e pugni: “Buona parte del personale operante si è posto in modo da creare una barriera all’inquadratura della telecamera”, scrivono gli inquirenti. “Alla fine credevo che fosse svenuto - ha testimoniato un altro detenuto che ha in parte assistito alla scena. Un agente, nel momento in cui si trovava a terra, diceva agli altri: “Fermi, così lo ammazzate”. Sembra una fine drammaticamente possibile a leggere la ricostruzione degli investigatori, secondo i quali quando viene riaccompagnato in cella, il detenuto cade e un assistente capo di 120 chili gli sale addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringe per un braccio e un terzo lo afferra per il collo. Ma dentro il carcere di San Gimignano, dove sono reclusi anche camorristi, ‘ndranghetisti e trafficanti, le cose sarebbero difficili anche per altri detenuti. Soprattutto la notte. “Entravano in tanti nelle celle e avevamo paura - ha raccontato un testimone - In isolamento dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa”. E un altro: “Spesso vengono gli agenti nelle celle e cercano di provocare per vedere se i detenuti reagiscono”. Del resto uno degli indagati avvertiva: “Fate bene a non dormire la notte, torniamo in ogni momento, pedofili, mafiosi di merda, infami”. Sono queste parole, e anche alcune frasi piuttosto chiare degli stessi intercettati (“I fatti si sono un po’ susseguiti nel tempo. Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei”) a far ritenere che gli episodi violenti potrebbero essere stati tanti. Ad colpire è l’inquietudine con cui alcuni degli stessi coinvolti si riferiscono ai due o tre considerati i leader del gruppo. Dice un agente: “Lui, e anche l’altro, sono mine vaganti. Perché anche lui quando va dentro perde il capo. Io te lo dico. Perde completamente la testa”. Qualcuno in servizio beve pure. “Perdono la testa anche perché spesso vanno carichi, non ragionano già di loro, figurati quando sono carichi”. E in effetti uno dei violenti si sfoga così con un compagno a gennaio, mesi dopo l’episodio al centro dell’indagine. “Sto troppo nervoso - dice - io mi arrabbio, hai capito o no? Questo continua a fare il malandrino, l’altra sera lo stavo ammazzando, io l’ho preso per i capelli dietro al collo, ho detto: io te la svito la testa, uomo di merda che sei. Hai capito che io ti ammazzo qui a terra? A casa nostra fai il malandrino?”. Alcuni membri del gruppo avevano rapporti pessimi con il resto del personale impiegato in carcere, soprattutto con chi non rispettava le loro regole un po’ omertose. Una dottoressa è stata presa di mira perché refertando le condizioni del tunisino pestato ha riportato le sue dichiarazioni. Non avrebbe dovuto, secondo uno degli agenti, che più volte ha polemizzato con lei. Durante una discussione, tra l’altro, le ha toccato, pare accidentalmente, il seno con una mano, lei ha protestato e lui l’ha presa ancor più di mira, offendendola pesantemente in varie occasioni. Antigone (Gonnella): a San Gimignano, ma anche a Monza, si accerti subito verità antigone.it, 23 settembre 2019 “Nei casi di tortura l’accertamento della verità è una corsa contro il tempo. Una corsa che deve essere facilitata dalle istituzioni. Una corsa che richiede la rottura del muro del silenzio da parte di tutti gli operatori che hanno visto gli abusi e le violenze. In questo caso siamo rinfrancati dalla prontezza del lavoro della magistratura e dalla collaborazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In Italia finalmente i giudici dal 2017 hanno a disposizione una legge (seppur migliorabile) che proibisce e punisce la tortura. È stata questa una battaglia ventennale di Antigone. Siamo ai primi casi di applicazione di questa legge. Nelle scorse settimane Antigone aveva presentato un esposto alla procura di Monza per fatti analoghi avvenuti nel carcere della città brianzola. Anche in quel caso abbiamo assistito a un immediato intervento delle istituzioni (garante nazionale delle persone private della libertà e provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Anche in quel caso decisive potrebbero essere le registrazioni delle telecamere nelle sezioni di isolamento. Chiediamo, dunque, che a San Gimignano come a Monza si arrivi rapidamente alla definizione del processo nell’interesse della giustizia e della legalità”. Vittime di reato al centro del programma E-Protect dell’Unione europea di Marzia Paolucci Italia Oggi, 23 settembre 2019 Garanzie per i minori. Dai Centri scandinavi all’aula doc di Reggio. Dalle scandinave Barnahus, centri a misura di minore, alle stanze spagnole con tavoli bassi e giochi divisi per età fi no a Reggio Calabria dove il minore vittima di reato viene ascoltato una volta sola, insieme da tribunale e procura, per ridurne al minimo lo stress e la possibilità di intimidazione secondaria. E sempre a Reggio, un’aula protetta adatta ai minori vittime di reato piena di disegni e con un quadro realizzato da un ragazzo detenuto a significare che alle volte vittima e autore di reato possono ritrovarsi dalla stessa parte. Giuseppina Latella, procuratore della repubblica presso il Tribunale minorile di Reggio Calabria, è uno dei magistrati artefici di buone prassi in Italia e nel mondo raccolte dal progetto europeo per i minori vittime di reato cofinanziato dal programma Giustizia della Ue, E-Protect, presentato il 12 settembre scorso a Roma presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità di via Damiano Chiesa. Curato da Defence for Children International Italia, con la collaborazione del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia, il lavoro al documento partecipato da cinque paesi membri - Italia, Austria, Bulgaria, Grecia e Romania - è iniziato a ottobre 2017 e si concluderà a fine mese. Un modo per colmare il gap esistente tra i minori autori di reato oggetto di interventi specializzati dello Stato e i minori vittime di reato che scontano gli svantaggi di un sistema penale disomogeneo. In testa agli obiettivi dell’iniziativa c’è l’elaborazione di un metodo comune per la valutazione e la protezione individuale dei bisogni del minore vittima, il rafforzamento dell’applicazione della Direttiva 2012/29/Ue in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, la crescita della consapevolezza dei diritti dei minori garantiti dalla direttiva e un approccio multidisciplinare fondato sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sanciti nella convenzione Onu sui diritti del fanciullo per sviluppare una rete transnazionale di professionisti e operatori al servizio del minore. Spiega Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia: “La necessità di uniformare le prassi a livello europeo, deriva dal fatto che, pur prevedendo la direttiva delle linee guida, ad oggi la loro applicazione rientra nelle competenze degli stati membri finendo per dipendere, in un ultima analisi, dal modo in cui i singoli professionisti interagiscono con le vittime. Ed ecco l’importanza di un’unica metodologia volta a qualificare la valutazione individuale dei minorenni vittime di reato perché l’interesse di ogni minorenne sia considerato in maniera preminente in tutti i procedimenti che lo riguardano”. Una pubblicazione di oltre 90 pagine spiega in cinque capitoli il metodo seguito per la valutazione. Il primo capitolo, “Una giustizia a misura di minorenne”, fornisce una panoramica del diritto internazionale in materia. A fronte della mancata realizzazione dell’integrazione dei servizi socio-sanitari prevista dalla legge 2000 n. 328 e della necessità di coordinare procura ordinaria e procura minorile e magistratura ordinaria e minorile, esistono sul territorio nazionale tante buone prassi. Diversi gli esempi: a Milano, l’Ospedale Fatebenefratelli offre un servizio di consulenza psicologica e legale alle donne e ai minori vittime di violenza, il progetto “Liberi di scegliere” di Reggio Calabria accompagna il minorenne vittima di indottrinamento mafioso verso il raggiungimento dell’autonomia esistenziale e a Genova il registro informatico sui minori è aperto e visibile sia dal tribunale ordinario che da quello minorile. Così il secondo capitolo spiega il valore della “Cooperazione multidisciplinare e inter-agenzia nella valutazione individuale”. C’è poi un terzo capitolo dedicato alle “Garanzie di procedura per la valutazione individuale dei bisogni” a cominciare dal rafforzamento del curatore speciale del minore. Un quarto capitolo è intestato alla “Valutazione dei bisogni individuali”: dalla precedente conoscenza del giudice e dell’ambiente in cui il minore sarà ascoltato alla massimizzazione dei tempi di ascolto del minore fi no all’effettiva capacità di assicurare una riuscita fase di follow-up. Chiude il cerchio il quinto capitolo di “Formazione di operatori e professionisti del settore” dove, tra le altre cose, si scopre che le procedure di accreditamento e di rilascio di autorizzazioni per assistenti sociali e operatori non sono sviluppate in tutti i paesi membri e che, laddove ci siano, non comprendono anche procedure di controllo. Interdittive antimafia: dai Prefetti in quattro anni stop a più di 3.700 imprese di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2019 Aumentano gli stop delle prefetture alle imprese sospettate di infiltrazioni mafiose. Sono state infatti oltre 3.700 le interdittive emesse dai Prefetti negli ultimi quattro anni. Di queste, più di mille sono state adottate da gennaio a oggi: quattro al giorno. La crescita dei provvedimenti, rispetto al 2016, è a tre cifre: +185 per cento. Regolate dal Codice antimafia del 2011, le interdittive sono uno strumento di prevenzione amministrativa di competenza del Prefetto, introdotto per impedire che la mafia e, in generale, la criminalità organizzata penetrino all’interno dell’economia legale. All’impresa colpita è vietato avere qualsiasi rapporto con la Pa, dalla partecipazione agli appalti alla percezione di fondi o contributi, fino alle autorizzazioni commerciali. Anzi: vengono meno anche le licenze già esistenti. Come funziona - Il controllo del Prefetto scatta nel momento in cui un’impresa, che entra in contatto con la pubblica amministrazione, ad esempio per un contratto di appalto o per ottenere un’autorizzazione, risulta “sospetta”: una prima valutazione che le Pa fanno consultando la Banca dati unica antimafia, che censisce le situazioni delle imprese. Le Prefetture conducono un’istruttoria - spesso lunga mesi - che mette sotto la lente vari aspetti: dalla parentela di amministratori o dipendenti con famiglie criminali ai rapporti economici, fino ai possibili condizionamenti. Attenzione però: un’interdittiva è un provvedimento amministrativo che non si basa sulla certezza dell’infiltrazione mafiosa (che si deve invece raggiungere per la condanna penale), ma su una valutazione probabilistica fondata su elementi di fatto specifici, concreti e rilevanti. Si tratta comunque di un provvedimento potente, che secondo gli avvocati dovrebbe avere carattere eccezionale: “È uno strumento micidiale più efficace della sanzione penale che andrebbe quindi portato sotto il controllo della giurisdizione”, dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Territori e settori - La maggior parte delle interdittive emesse dal 2016 a oggi, secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, si concentra nelle regioni tradizionalmente più colpite dalle mafie. Infatti, più del 57% (2.174) sono state emesse in Calabria (909 interdittive in quattro anni), Sicilia (655) e Campania (610). Ma sono elevati anche i numeri delle regioni del Nord, in particolare Lombardia (263 provvedimenti), Emilia Romagna (234), e Piemonte (216). Delle 3.700 interdittive emesse dal 2016 ad oggi, sono poco più di duemila quelle che hanno toccato aziende coinvolte in appalti pubblici. Le altre hanno riguardato imprese che non lavorano direttamente con la Pa, come ad esempio ristoranti, bar e pizzerie. Il dato emerge mettendo a confronto i numeri totali delle interdittive forniti dal ministero dell’Interno con quelli dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, che censisce solo le aziende che possono partecipare a gare pubbliche. Ma questa forbice non è stata sempre uguale: negli anni si è costantemente allargata (nel 2016 gli operatori colpiti che non partecipavano a gare erano un centinaio mentre nel 2019 quasi mille) a dimostrazione sia della maggiore attenzione di prefetture, autorità giudiziarie e enti pubblici, ma anche di una capacità di penetrazione delle mafie nell’economia che è andata via via oltre il comparto per tradizione più esposto, cioè quello dei contratti pubblici. Le ragioni del boom - Sono tanti i fattori che hanno contribuito all’aumento delle interdittive. Intanto, il rodaggio del nuovo strumento: nel 2014, nel Codice antimafia è stato introdotto l’articolo 89-bis che permette al Prefetto di adottare un’”informazione antimafia interdittiva” quando accerta “la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa”. Si tratta di una formulazione che lascia più spazio a una valutazione discrezionale rispetto ai criteri previsti per la “comunicazione interdittiva”. Dopo un primo periodo, le Prefetture hanno iniziato a usare meglio lo strumento, anche collaborando con la Pa e le Procure. La Prefettura di Milano, ad esempio, ha sottoscritto un accordo con il Comune per migliorare le sinergie contro le infiltrazioni mafiose. Inoltre, “in questi anni sono aumentate le richieste di documentazione antimafia - spiega il Prefetto di Palermo, Antonella De Miro -, sia per una maggiore attenzione delle pubbliche amministrazioni, sia perché è cresciuta la casistica delle attività per cui è obbligatoria la certificazione antimafia”. A confronto con le richieste, le risposte “interdittive” rappresentano una percentuale minima: nei primi sei mesi del 2019 a Palermo le richieste sono state più di 7mila e le interdittive 33, mentre a Torino a fronte di 9.300 istanze le interdittive sono state otto. Stesso discorso a Bologna dove, dal 2013 a oggi, le richieste di documentazione antimafia e le istanze white list sono state quasi 80mila, mentre i provvedimenti adottati 76. Le conferme dei giudici amministrativi - Le aziende colpite da interdittiva possono impugnare il provvedimento di fronte a Tar e Consiglio di Stato. Ma in questi anni i provvedimenti adottati dalle prefetture sono stati in larga parte confermati dai giudici sia di primo sia di secondo grado. Nel contrasto alle infiltrazioni mafiose vanno valutati fatti concreti di Paola Maria Zerman Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2019 In un contesto sempre più vario e dinamico, trovare il giusto equilibrio tra la tutela da infiltrazioni mafiose nell’economia e la libera iniziativa dei privati non è impegno di poco conto, per il legislatore prima, e per il giudice amministrativo poi, chiamato a sindacare la legittimità delle interdittive antimafia emanate dai Prefetti. “Nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale”, ammonisce il Consiglio di Stato (sentenza 6105 del 5 settembre scorso), respingendo i dubbi di costituzionalità dell’interdittiva antimafia cosiddetta “generica”, fondata cioè sull’ampio e non specificato potere di accertamento del prefetto di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare la scelta e gli indirizzi dell’impresa, in aggiunta alle ipotesi tipizzate dalla norma (articolo 84 comma 4 lettera d ed e rispetto alle lettere a, b, c ed f del decreto legislativo 159/2011, il Codice antimafia). Il continuo confronto tra Stato e anti-Stato richiede l’uso di strumenti idonei, al di là delle ipotesi previste specificamente dalla legge, a individuare le concrete modalità delle mafie di infiltrarsi nella gestione dell’attività economica del Paese. Il potere dei Prefetti - La finalità di anticipazione della tutela del sostrato economico-sociale, che contrassegna l’interdittiva antimafia, svincola la potestà prefettizia dalle logiche penalistiche di accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio”, dovendo valutare il pericolo di inquinamento mafioso dell’impresa, sulla base del giudizio preventivo e discrezionale del “più probabile che non”. Ma il potere dei Prefetti non è arbitrio, né può instaurarsi un diritto della paura. Il pericolo di infiltrazione mafiosa non deve ridursi a un sospetto della Pa, ma ancorarsi a elementi di fatto specifici e condotte sintomatiche, che la stessa giurisprudenza amministrativa ha via via enucleato (ad esempio frequentazione o amicizia, tra amministratori o dipendenti dell’impresa, con membri della criminalità organizzata), con la precisazione che non costituiscono un numerus clausus, per consentire all’ordinamento di adattarsi alle mutevoli forme di infiltrazione. Il vaglio del giudice amministrativo - In definitiva, i fatti rivelatori di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata devono essere “concreti, univoci e rilevanti”. Il sindacato del giudice amministrativo, a tutela dell’ordinamento democratico, è determinante per valutare la legittimità dell’interdittiva, sotto il profilo della coerenza, logicità e della gravità del quadro indiziario, posto alla base della valutazione prefettizia circa il concreto pericolo di infiltrazione mafiosa. L’attenzione della giurisprudenza ai limiti della discrezionalità prefettizia è giustificata dalla radicale incidenza dell’interdittiva sulla vita dell’impresa. Non solo, infatti, a quest’ultima sono preclusi la stipulazione o lo svolgimento di contratti con la pubblica amministrazione, ma l’interdittiva può anche comportare la revoca o comunque l’inibizione dell’attività privata soggetta ad autorizzazione o Scia. Lo ha ribadito il Consiglio di Stato con la sentenza 6057 del 2 settembre, che ha ritenuto legittima la revoca di cinque segnalazioni certificate di inizio attività e la contestuale chiusura delle strutture alberghiere, per l’applicabilità della normativa antimafia anche alle autorizzazioni e alle attività liberalizzate soggette a Scia (argomento basato sull’articolo 89-bis del Codice antimafia, introdotto dal decreto legislativo 153/2014 e ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 4/2018). Uno strumento in più per garantire la sopravvivenza dell’impresa è ora offerto dall’istituto del controllo giudiziale dell’azienda (articolo 34-bis del Codice antimafia, introdotto dall’articolo 11 della legge 161/2017). In caso di agevolazione mafiosa solo occasionale, la nuova norma concede la possibilità di risanamento in tempi brevi dell’impresa, con conseguente sospensione degli effetti interdittivi. Rapina impropria se l’atto non si compie ma il soggetto usa violenza per procurarsi l’impunità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 22 luglio 2019 n. 32505. È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità. La Corte di cassazione, con la sentenza 32505 /2019, ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale l’imputato pretendeva che il fatto fosse da riqualificare nel concorso del reato di tentato furto con quello di violenza privata. La precedente decisione delle Sezioni Unite - La Corte ha seguito le indicazioni fornite dalle sezioni Unite (sentenza 19 aprile 2012, Reina), laddove si è appunto affermato che è configurabile il tentativo di rapina, e non invece il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità. Ha supporto le sezioni Unite hanno valorizzato una lettura logico-sistematica dell’articolo 628, comma 2, del Cp, in forza della quale è configurabile la fattispecie tentata della rapina impropria ogni qual volta l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi, e, quindi, anche nel caso di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, non riuscendovi a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere e ciò negli stessi termini in cui è parimenti configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato un’azione violenta o minacciosa nei confronti della vittima o di terzi per assicurarsi il possesso del bene; e hanno altresì considerato la natura di fattispecie complessa della rapina impropria, che resta tale, non ammettendo una considerazione autonoma degli elementi costitutivi, anche nel caso in cui questi - la sottrazione e la violenza - si presentino allo stato del tentativo; ulteriore supporto viene trovato, nella sentenza delle sezioni Unite, nella considerazione della ratio legis, che renderebbe illogico non applicare il medesimo trattamento di rigore previsto per i reati contro il patrimonio caratterizzati da violenza o minaccia alla condotta di chi pur sempre usando violenza o minaccia attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà e ciò in perfetta analogia tra il tentativo di rapina impropria e quello di rapina propria, che è tra l’altro configurabile anche nelle ipotesi in cui non si siano perfezionate né l’offesa al patrimonio né quella alla persona, quando la condotta dell’agente sia stata potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia, e la direzione univoca degli atti abbia reso manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso. L’arresto operato dalla polizia giudiziaria nella “quasi flagranza” del reato Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2019 Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Diretta e immediata percezione della responsabilità dell’indiziato - Necessità. Ai fini della flagranza è necessario che la polizia giudiziaria percepisca in modo diretto gli elementi a cui ricollegare con elevata probabilità la responsabilità penale dell’arrestato. L’eccezionale attribuzione alla polizia giudiziaria del potere di privare un soggetto della libertà personale trova infatti giustificazione solo nella altissima probabilità, praticamente certezza, della colpevolezza dell’arrestato, suffragata appunto dalla diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa e dalla immediatezza dell’intervento rispetto al fatto-reato da parte degli agenti di polizia giudiziaria. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 6 settembre 2019 n. 37303. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Sorpresa dell’indiziato con cose o tracce del reato commesso immediatamente prima - Significato dell’espressione “immediatamente prima” - Coincidenza con il comune intendimento dell’espressione “poco prima” utilizzata dal previgente codice - Fattispecie. In tema di arresto operato d’iniziativa dalla polizia giudiziaria nella quasi flagranza del reato, il requisito - previsto dall’art. 382, comma primo, cod. proc. pen. - della “sorpresa” dell’indiziato “con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima” non richiede che la P.G. abbia diretta percezione dei fatti, né che la sorpresa avvenga in modo non casuale, correlandosi invece alla diretta percezione da parte della stessa soltanto degli elementi idonei a farle ritenere sussistente, con altissima probabilità, la responsabilità del medesimo, nei limiti temporali determinati dalla commissione del reato “immediatamente prima”, locuzione dal significato analogo a quella (“poco prima”) utilizzata dal previgente codice di rito, di cui rappresenta una mera puntualizzazione quanto alla connessione temporale tra reato e sorpresa. (Fattispecie in cui la Corte, in riforma dell’impugnata ordinanza, ha ritenuto che legittimamente i carabinieri avessero proceduto all’arresto, nella quasi flagranza del reato di furto aggravato, di un soggetto - peraltro reo confesso - sorpreso, durante un normale controllo al confine di Stato, alla guida di un’autovettura risultata rubata poche ore prima in una città vicina). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 26 aprile 2017 n. 19948. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Arresto operato a seguito di informazioni di terzi - “Quasi flagranza” - Sussistenza - Esclusione - Illegittimità dell’arresto - Sussistenza - Ragioni - Fattispecie. È illegittimo l’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell’immediatezza del fatto, poiché, in tale ipotesi, non sussiste la condizione di “quasi flagranza”, la quale presuppone la immediata e autonoma percezione, da parte di chi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato. (Nella specie l’arresto era stato eseguito sulla base delle sole indicazioni della persona offesa, riguardanti le generalità dell’aggressore). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 21 settembre 2016 n. 39131. Indagini preliminari - Polizia giudiziaria - Attività - Arresto in flagranza - Quasi flagranza - Nozione - Fattispecie. In tema di arresto da parte della polizia giudiziaria, lo stato di quasi flagranza non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. La nozione di inseguimento, caratterizzata dal requisito cronologico dell’immediatezza (subito dopo il reato), postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli operanti della polizia giudiziaria procedenti all’arresto: l’attribuzione dell’eccezionale potere di privare della libertà una persona si spiega proprio in ragione di tale situazione idonea a suffragare la sicura previsione dell’accertamento giudiziario della colpevolezza (da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso il provvedimento del giudice che aveva escluso la quasi flagranza, in una vicenda in cui la polizia giudiziaria aveva proceduto all’arresto per il reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un coltello dopo alcune ore dalla commissione del reato ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dalla vittima e dalle persone informate dei fatti nonché degli esiti obiettivi delle lesioni rilevati sul corpo della persona offesa: in una situazione in cui, quindi, secondo le sezioni Unite, non poteva ricorrere l’ipotesi dell’inseguimento inteso nei termini di cui sopra). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 21 settembre 2016 n. 39131. Ravenna. La madre del detenuto suicida: “la sua morte non sia stata vana” Corriere Romagna, 23 settembre 2019 Il giorno dopo i funerali che si sono tenuti nel Cervese la donna chiede maggior attenzione per chi in attesa dì giudizio vorrebbe entrare in comunità. “Mio figlio ce l’aveva quasi fatta ad uscire dal suo tunnel, ma lui come altri giovani sono spesso abbandonati da una burocrazia lenta e disinteressata”. È solo uno dei passaggi più duri e commoventi del messaggio che arriva dalla madre del 23enne morto suicida nel carcere di Ravenna pochi giorni fa. Un messaggio che ora la donna, nonostante il dolore indicibile che sta vivendo, ci tiene a rendere pubblico. Parole che vorrebbero essere una sorta di monito, ma anche sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni di tanti altri detenuti nelle carceri italiane. In carcere da agosto G. - che il prossimo ottobre avrebbe compiuto 24 anni - era in carcere dal 19 agosto scorso, quando era stato arrestato per avere rubato un borsello a un altro giovane. In quei giorni, però, era stato raggiunto anche da una ordinanza di custodia cautelare per stalking in seguito alla denuncia sporta dalla ex. Per entrambi gli episodi era stato chiesto il giudizio immediato. Lui però in quei giorni attendeva un altro responso: quello della comunità di recupero in cui scontare ai domiciliari una misura cautelare più morbida, magari in grado di portarlo fuori dal tunnel della tossicodipendenza. Un responso che purtroppo non ha fatto in tempo ad arrivare. Ieri nel Cervese, dove era cresciuto, si sono tenuti i funerali. “Vorrei che la morte di mio figlio non sia vana - dice ora la madre - ma serva come presa di coscienza per qualcuno. Chi mi conosce sa quanto abbiamo lottato affinché venisse fuori dal tunnel malefico in cui era entrato ed eravamo già arrivati al primo traguardo, quello del recupero. La sua e la nostra sofferenza ci aveva premiato. A noi non ci è mai importato del giudizio degli altri, di chi non poteva capire il disagio, di chi si sentiva in potere di giudicare; questo lo può fare solo Dio. Noi - aggiunge - siamo solo autorizzati ad aiutare chi è in difficoltà e non certo ad affondarli”. E qui la madre di G. lancia il suo appello: “Le istituzioni non devono abbandonare questi giovani, fragili e sensibili, la burocrazia non sia lenta e disinteressata”. Poi parole commoventi per il figlio che non c’è più: “I genitori hanno il compito di stare vicino ai propri figli, di guidarli e di amarli tutta la vita, ma l’amore verso un figlio è eterno e va oltre la morte. Ringrazio con tutto il mio cuore chi ha combattuto e combatte con noi questa battaglia; in modo particolare le forze dell’ordine, il pm Cristina D’Aniello i detenuti di Port’Aurea per la loro solidarietà”. Dopo che la notizia della morte di G. si era diffusa in carcere, i detenuti decisero infatti di rifiutare il cibo in segno di vicinanza al compagno scomparso. “Una corda fatta con le lenzuola quando era solo” Il drammatico episodio risale alla tarda mattinata di lunedì scorso. Quel giorno il ragazzo, detenuto nel carcere di Port’Aurea, avrebbe atteso le 11, orario in cui era prevista la cosiddetta “osservazione dinamica”. In quel momento era da solo, il compagno di cella si era allontanato, così lui ne ha approfittato per prendere le lenzuola e creare un cappio. Quando gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato era già privo di coscienza. I tentativi di rianimarlo sono iniziati immediatamente, mentre nel frattempo è stata inoltrata la richiesta di soccorso al 118. Un intervento tempestivo, quello del personale del carcere, tant’è che quando i sanitari sono entrati nella casa circondariale il ragazzo era vivo. I tentativi di rianimazione sono proseguiti per diversi minuti, finché il 24enne è stato caricato sull’ambulanza e portato in gravissime condizioni al “Santa Maria delle Croci”. Qui è arrivato ormai in fin di vita, lasciando solo il tempo per gli ultimi disperati tentativi di rianimazione, prima di arrendersi e dichiarare il decesso. Reggio Calabria. L’Ufficio del Garante Metropolitano incontra i detenuti di Serena Guzzone strettoweb.com, 23 settembre 2019 L’ufficio del Garante Metropolitano di Reggio Calabria per i diritti dei detenuti, rappresentato dal Garante dott. Paolo Praticò e dagli Avvocati penalisti Giovanni Montalto, Giuseppe Gentile e Maria Cristina Arfuso, ha iniziato la propria attività, avviando i colloqui conoscitivi nelle inizialmente presso le strutture di San Pietro e Arghillà. “Numerose richieste di colloquio- si legge in una nota- sono state presentate dai detenuti e successivamente esaminate cinque, segnalando a chi di competenza le problematiche inerenti il diritto alla salute di alcuni e la possibilità di colloqui telefonici di altri che per motivi logistici (distanza dai familiari residenti all’estero) non possono incontrare personalmente. Gli incontri con i detenuti degli Istituti “Pansera” avranno cadenza quindicinale e l’Ufficio del Garante mira in breve tempo di ascoltare tutti quelli che richiedono l’ intervento del predetto Ufficio, fornendo, ove possibile, riscontri positivi. Proseguono anche le visite anche negli Istituti della provincia, oggi area metropolitana. Venerdì 20 settembre l’Ufficio del Garante Metropolitano si è recato nella Casa Circondariale di Locri. I rappresentanti dell’Ufficio sono stati accolti e guidati nella visita dalla direttrice dott.ssa Patrizia Delfino accompagnata dal comandante della polizia penitenziaria dott.ssa Giuseppina Crea e dall’ispettore Zucco Benedetto, nonché dalle educatrici dott.ssa Marika Foti e dott.ssa Valeriani Maria. Il carcere di Locri è stata una piacevole sorpresa per efficienza e finalità rieducative atte al reinserimento nella vita civile dei detenuti che vi sono ristretti. Ed infatti all’interno dello stesso sono attivi diversi laboratori artigianali e artistici e si è potuto ammirare ad esempio lavori dei fabbri ferrai che riciclano vecchie brandine in ferro, ricavandone artistiche panchine da destinare ai parchi pubblici che ne fanno richiesta o ad altri istituti penitenziari di ogni parte d’Italia, la falegnameria, i corsi di pittura e di informatica. Tutto questo è merito dei detenuti che vi sono ristretti ma, anche è soprattutto degli operatori con la direttrice in testa che gestiscono in maniera egregia, personalità non certo semplici da gestire. Per concludere, c’è da sottolineare un aspetto che personalmente ha molto colpito il Garante, e cioè il silenzio, per chi non lo sapesse la cosa che colpisce e disturba maggiormente i detenuti, perché ricorda loro costantemente il luogo nel quale si trovano, il rumore metallico delle porte blindate che si chiudono delle chiavi che girano e della “battittura” di sicurezza che gli agenti effettuano nelle sbarre per verificarne la compattezza. Ebbene a Locri il Garante ha potuto “ascoltare” un silenzio quasi mistico e la stessa direttrice su tale aspetto ha riferito che la struttura carceraria all’origine era un convento, facendo venire in mente al Garante il famoso motto dei monaci “Ora et Labora”. Ci si augura che venga rafforzato il presidio sanitario presso il carcere di Locri, così come già più volte richiesto”. L’Ufficio del Garante Metropolitano per i diritti dei detenuti è in attesa che il Comune assegni allo stesso un immobile da utilizzare come centro di ascolto, come poliambulatorio specialistico e ove possibile i laboratori artigiani esterni. Bolzano. Rispetto dei diritti umani in carcere: presentato il disegno di legge dei Verdi lavocedibolzano.it, 23 settembre 2019 In teoria tutte le persone hanno diritto alla libertà e a una vita autodeterminata. Ma in alcune situazioni, questo diritto è limitato. La forma più grave è quella della pena carceraria. Ci sono però anche alcuni momenti o situazioni nella vita in cui di fatto avviene o può avvenire una limitazione della nostra autodeterminazione: quando ad esempio siamo ricoverati in ospedale, o non siamo più autosufficienti, quando invecchiamo e siamo ospiti di una casa di riposo, quando non siamo (più) coscienti, quando abbiamo un disagio psichico o sociale e viviamo in un alloggio protetto, quando siamo ospiti in una struttura di accoglienza, ecc. In Austria la difesa civica è responsabile del controllo del rispetto dei diritti umani nelle strutture in cui le persone vivono in una condizione di limitazione delle proprie libertà personali. Funziona così: la difesa civica nomina una commissione che effettua regolarmente delle visite a carceri, caserme, strutture psichiatriche, case di riposo, alloggi protetti, così come strutture in cui vivono persone con disabilità. Scrivono a questo proposito i Verdi altoatesini che hanno presentato un disegno di legge apposito in consiglio provinciale a Bolzano: “Come ci ha raccontato l’ex difensore civico austriaco Dr. Günther Kräuter in un convegno organizzato nell’agosto 2016 dalla nostra difensora civica in Consiglio provinciale, nel corso di queste visite sono state constatate diverse situazioni in cui i diritti fondamentali venivano rispettati solo in parte. Carenza di personale, turni, sovraccarico lavorativo, carenze organizzative, strutture antiquate sono solo alcuni dei motivi alla base del problema. Il fatto stesso però che tali visite vengano effettuate comporta una maggiore presa di coscienza rispetto alla problematica e un miglioramento generale della situazione, secondo Kräuter. In Italia e in Alto Adige la questione è regolata solo in parte dal punto di vista giuridico. Per quanto riguarda i diritti dell’infanzia esiste la garante per l’infanzia e l’adolescenza, la quale ha incarico per legge di controllare che vengano rispettati i diritti umani nei confronti dei minori. Per i diritti fondamentali delle persone adulte che vivono in situazioni di libertà limitata invece non esiste alcuna prassi preventiva. La difensora civica sarebbe la figura predestinata al compito di controllare preventivamente il rispetto dei diritti umani, ma non ha ancora un mandato ufficiale. Questo disegno di legge vuole coprire il vuoto legislativo in materia”. I contenuti del disegno di legge: Nella lista delle funzioni e degli incarichi del/la difensore/a civico/a viene inserito il compito di visitare regolarmente strutture come ospedali, case di riposo per anziani, case di cura, strutture di lunga degenza, alloggi protetti per persone con disagio psichico o diversamente abili, ecc. al fine di controllarle e di affiancarle. Inoltre, la/il difensora/e civica/o può anche nominare delle commissioni indipendenti che accompagnino e supportino questa attività. Le strutture devono mettere a disposizione tutta la documentazione necessaria e al contempo la difesa civica deve avere riguardo per le esigenze delle varie strutture. “Questo disegno di legge vuole essere un passo chiaro verso una maggiore sensibilizzazione per i diritti umani e il loro rispetto in ogni ambito, anche nella nostra Provincia. Perché anche quando ci troviamo in condizioni di libertà limitate, i diritti umani continuano a valere e abbiamo bisogno di istituzioni e persone che se ne prendano cura e ce lo ricordino”, concludono i Gruene. Pavia. Scuola per 27 detenuti, la sezione alberghiera dell’Istituto Cossa entra in carcere La Provincia Pavese, 23 settembre 2019 La scuola entra in carcere. Il primo ottobre si inaugura a Torre del Gallo la sezione alberghiera dell’istituto Cossa di Pavia. Il progetto, deliberato dalla giunta regionale lombarda, coinvolgerà 27 studenti detenuti. Con il Cossa salgono a tre gli istituti scolastici presenti all’interno del carcere di Pavia, dove c’è già il Cpia, per la scuola media e alfabetizzazione (livello 1 e livello 2), e l’istituto Volta (Ragioneria e Geometra). “Parte integrante del corso sarà la formazione civica dello studente, perseguita anche attraverso il rispetto di codici comportamentali e procedurali previsti nelle pratiche professionali sui luoghi di lavoro, quali ad esempio il rigore nella pulizia e l’ordine come rispetto di sé e l’altro - spiega la direttrice del carcere Stefania D’Agostino -. Questo può avere un’alta valenza educativa nel processo di risocializzazione del detenuto. Il progetto è stato possibile grazie alla collaborazione con la dirigente del Cossa e dell’Area Trattamentale del nostro istituto”. “Aprire una sezione alberghiera nel Carcere di Pavia è per me una conferma del valore umano, educativo e sociale della scuola e della cultura - è il commento della dirigente del Cossa, Cristina Comini. Ho sempre creduto che la scuola sia per i ragazzi di oggi una delle poche certezze, capace di costruire progetti di vita e di generare sogni. La mia scuola vuole essere questo anche per i miei nuovi allievi del carcere anche perché l’indirizzo alberghiero può concretizzarsi per loro in un’opportunità di lavoro”. Le risorse sono però limitate. “Stiamo cercando di superare le difficoltà ma mancano libri, divise, attrezzature per il bar e la cucina - dice Comini. Confidiamo nell’aiuto di tutti, sia delle istituzioni che dei volontari disposti a collaborare”. - Ancona. Cani educati dai detenuti nelle carceri, un’occasione di riscatto personale di Clarissa Cusimano lettoquotidiano.it, 23 settembre 2019 Parte ad Ancona i cani educati dai detenuti delle carceri. Un percorso di riabilitazione, che formerà inoltre gli animali in vista di una successiva adozione. Ad Ancona, vi sono delle carceri dove i detenuti, condannati a scontare una pena all’interno della struttura, vengono riabilitati per mezzo dell’educazione cinofila. Il progetto, presentato dall’associazione no profit “Sguinzaglia’ti” di Senigallia, che ha vinto il bando emesso dal Comune di Ancona, ha una duplice finalità: la prima è quella di rieducare i detenuti e la seconda di formare i cani per una successiva adozione. Gli incontri - Si tratterà di 15 lezioni, già partite a Montacuto e che partiranno a ottobre a Barcaglione. Gli incontri prevedono una parte teorica per i detenuti, con nozioni sull’addestramento dei cani e un focus sulla pet therapy, e altre molto importanti incentrate sulla preparazione dei cani per disabili, grazie alla collaborazione dell’associazione “Il mio Labrador” di Macerata. Prevista anche una parte pratica, durante la quale i dieci detenuti coinvolti nel progetto dovranno imparare a educare i cani, in modo da prepararli a una successiva adozione. Quest’iniziativa, presentata dall’associazione no profit “Sguinzaglia’ti” di Senigallia, è molto importante sia per creare momenti utili al riscatto delle persone, le quali al termine del percorso saranno in grado di gestire un cane, leggerne i segnali di benessere o di stress; sia per gli animali, che alla conclusione del progetto saranno pronti per essere accolti in una casa. Negli Stati Uniti, già dagli anni 80 sono stati avviati progetti di questo tipo. Uno di questi, ad esempio, consisteva nell’affidare alcuni cani abbandonati, costretti a vivere in canile, a detenuti in carcere. I risultati ottenuti erano stati così incoraggianti, che molte altre prigioni americane avevano deciso di aderire all’idea. Rimini. Convegno “L’errore giudiziario e l’ingiusta detenzione: il rovescio del diritto” Corriere Romagna, 23 settembre 2019 In Italia un innocente finisce in carcere ogni otto ore. Convegno e proiezione del film: “Non voltarti indietro”. “L’errore giudiziario e l’ingiusta detenzione: il rovescio del diritto. Analisi del fenomeno e delle sue conseguenze”. È il titolo del convegno organizzato dalla Camera penale e dall’Ordine degli avvocati di Rimini in programma venerdì pomeriggio 27 settembre (dalle 14.30) al Teatro degli Atti (Rimini, via Cairoli, 42). Nel corso dell’incontro, evento gratuito e aperto al pubblico, verrà proiettato “Non voltarti indietro”, il primo e pluripremiato film documentario prodotto in Italia sul tema delle vite spezzate di chi è finito in carcere da innocente, promosso dall’associazione ErroriGiudiziari.com, per la regia di Francesco Del Grosso. Interverrà, tra gli altri, uno degli autori, Valentino Maimone, giornalista e fondatore di ErroriGiudiziari.com. Con lui anche la co-responsabile dell’Osservatorio sull’errore giudiziario dell’Unione delle Camere penali italiane, Alessandra Palma. Per l’occasione ha accettato di tornare a parlare in pubblico anche il dirigente d’azienda Mario Rossetti, vittima - da incensurato - di un calvario durato più di cento giorni nelle celle di San Vittore prima e Rebibbia poi e proseguito per altri otto mesi ai domiciliari, per una vicenda di grande clamore mediatico alla quale era completamente estraneo (già in primo grado fu assolto con formula piena). Un’esperienza dolorosa messa nero su bianco nel libro “Io non avevo l’avvocato”, (Mondadori, 143 pagine, 18 euro), una riflessione lucida e priva di rancore che chiama in causa sia gli operatori della giustizia sia quelli dell’informazione. La creazione della banca dati L’elenco dei relatori istituzionali, che animeranno il dibattito aperto al contributo dei presenti in sala, comprende anche Giovanni Rossi, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Roberto Brancaleoni, presidente dell’Ordine degli avvocati di Rimini, Alessandro Sarti, presidente della Camera penale. A coordinare l’incontro, che attribuisce crediti formativi agli avvocati, saranno Luigi Renni, responsabile della Camera penale di Rimini, e Andrea Rossini, giornalista di cronaca giudiziaria. L’Unione delle camere penali attraverso l’osservatorio sull’errore giudiziario ha in progetto di procedere alla creazione di una vera e propria banca dati, attingendo dal territorio: la tappa riminese si inserisce in questo contesto. Ci sono da approfondire le ragioni per le quali l’errore giudiziario e l’ingiusta detenzione superano in Italia i limiti della fisiologia: dai dati, parziali, diffusi dal ministero della giustizia, nel solo 2018 sono state presentate circa mille istanze di riparazione (630 accolte) con una spesa complessiva di 23 milioni di euro. Ogni otto ore, stando ai dati che saranno illustrati nel dettaglio a Rimini, una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Numeri da tenere bene a mente, specie in tempi di populismo giudiziario, che però da soli non descrivono lo smarrimento personale ed esistenziale di chi, sapendosi innocente, ha la sensazione di non essere ascoltato e deve spesso aspettare degli anni prima dell’assoluzione e della riabilitazione agli occhi della pubblica opinione. “Fine vita”, decide la Consulta: è la sconfitta del Parlamento inerte di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 settembre 2019 Domani l’udienza, difficile un nuovo rinvio dopo un anno di inutile attesa delle riforme richieste. Nell’ordinanza del 2018 fissati i confini dell’eventuale legittimità del “suicidio assistito”. Qualunque cosa accadrà, per il Parlamento sarà una sconfitta. Perché se pure dovesse arrivare un ulteriore rinvio, che alla vigilia dell’udienza al palazzo della Consulta fissata per domani appare improbabile, sarà la certificazione dell’incapacità di assumersi quella responsabilità che la Corte costituzionale ha sollecitato un anno fa. A ottobre 2018 infatti, discutendo di suicidio assistito a partire dal caso Cappato-Dj Fabo, il “giudice delle leggi” aveva invitato il legislatore a trovare una soluzione, visti i valori etico-morali in gioco. Non facendo un passo indietro, bensì fermandosi sulla soglia della decisione, invitando il Parlamento a entrare per primo in un campo minato, denso di sensibilità diverse e conflitti all’orizzonte, come dimostrato dagli ultimi, pressanti appelli arrivati da una parte del mondo cattolico e direttamente dal presidente della Conferenza episcopale. Ma il Parlamento è rimasto fermo, inadempiente, e a un anno di distanza difficilmente può essere considerata sufficiente una telefonata della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati al presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, per provare a chiedere altro tempo. Anche perché, nell’ordinanza numero 207 del 2018, che Lattanzi ha definito di “prospettata incostituzionalità” della norma vigente, la Corte ha già disegnato il perimetro di una possibile pronuncia. Senza fare alcuna concessione alla temuta, generalizzata liberalizzazione dell’aiuto a morire. Dignità della persona - Tuttavia, l’evoluzione della scienza e della tecnologia ha portato a “situazioni inimmaginabili” ai tempi della Costituente. Per esempio quelle in cui “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare”; nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” se non in base a leggi che non possono “in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Del resto nel 2017, con la legge sul “biotestamento” e il “fine vita”, il Parlamento ha introdotto la facoltà di rifiutare alcune cure proprio in nome della dignità e dell’autodeterminazione. Per non portarsi troppo avanti su un terreno tanto scivoloso, la stessa Corte ha pure indicato quattro condizioni - evidentemente riscontrate nel caso di Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo - necessarie alla eventuale non punibilità del suicidio assistito: una “patologia irreversibile”, che sia causa di “sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili” per il malato, in grado di sopravvivere solo attraverso “trattamenti di sostegno vitale” ma comunque “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Solo con la presenza contemporanea di queste quattro situazioni si può aprire la strada alla depenalizzazione per chi aiuti il malato a morire o lasciarsi morire. Confini già definiti - Confini ristretti e ben definiti, come si vede. E da qui la Corte ripartirà, dopo aver ascoltato ancora una volta le parti; a cominciare dai difensori di Marco Cappato, l’esponente radicale che accompagnò Dj Fabo a morire in una clinica svizzera, e dall’avvocatura dello Stato, in rappresentanza del governo. Che sosterranno, verosimilmente, ciò che avevano già affermato nell’ottobre scorso: la non punibilità e, per contro, il rigetto dell’eccezione di costituzionalità avanzata dai giudici di Milano che devono giudicare Cappato. “Spetta al Parlamento trovare il punto di equilibrio tra tutti gli interessi in gioco”, aveva ammonito Gabriella Palmieri, a nome dell’Avvocatura. Tesi accolta dalla Corte, ma “a tempo”, perché in assenza di una nuova legge i diritti della persona malata non possono essere lasciati senza tutela. Il ruolo del governo - In teoria l’Avvocatura potrebbe chiedere un nuovo rinvio, di cui però al momento non si intravedono i presupposti. Senza fatti concreti o prospettive precise è difficile che i giudici lo concedano, considerato che i capigruppo del Senato non sono nemmeno riusciti a trovare un accordo sulla calendarizzazione dei progetti di riforma esistenti. Ma l’importanza della posta in gioco consiglia di non escludere alcuna ipotesi. Presentando il nuovo esecutivo, il premier Conte ha escluso un ruolo attivo del governo e lasciato la parola al Parlamento, auspicando “un’ampia condivisione per poter intervenire e legiferare in materia”. Che non s’intravede all’orizzonte. E forse, com’è già successo su temi ugualmente complessi e divisivi quali furono a suo tempo l’aborto e la fecondazione assistita, è lo stesso legislatore - preso atto dell’attuale incapacità di decidere - ad auspicare un intervento della Corte che indichi una strada percorribile. L’empatia come antidoto al bullismo: martedì se ne parla in Senato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 settembre 2019 È una sfida grande, quella di parlare di bullismo ai piccoli. Occorrono tenerezza, anche umorismo, storie in cui identificarsi, pochi numeri e tante, soprattutto belle illustrazioni. La sfida l’ha lanciata Cristina Obber, scrittrice, giornalista e tra le fondatrici della Rete per i diritti Rebel Network, insieme a Silvia Vinciguerra, che ha illustrato Giro Girotondo, ultimo libro di Settenove, casa editrice nata nel 2013 dedicata alla prevenzione della discriminazione e della violenza di genere attraverso albi illustrati, saggistica, narrativa e percorsi scolastici. Il libro inizia col girotondo, nel cortile della scuola, di Giorgia e Giorgio, che insieme ai loro amici si ritrovano intorno a un ulivo secolare. Come le farfalle che svolazzano loro intorno, ognuno porta con sé una differenza, fisica o attitudinale. Quando Michele, che ha un problema ad una gamba, cade, il girotondo riprende, ma più lentamente, perché ciò che conta non è farlo di corsa, ma farlo insieme, rispettando i tempi di tutti. I nomi dei personaggi prendono spunto da reali vittime di bullismo, in Italia e all’estero. Alcune sono riuscite a superare quella sofferenza e a raccontare al mondo la loro rinascita, altre si sono tolte la vita; come Carolina, che era una ragazza leader anche nello sport o come Michele, vessato dai compagni di scuola per le sue difficoltà motorie. C’è anche un omaggio a Mariam, uccisa in Inghilterra per razzismo, da un branco di bulle. Giro Girotondo, patrocinato da Amnesty International Italia, sarà presentato dopodomani (martedì 24) in Senato, nella Sala dei Presidenti di Palazzo Giustiniani, alle 14,00. Saranno presenti, insieme all’autrice e all’illustratrice, la senatrice Valeria Fedeli, l’editrice Monica Martinelli, la responsabile diritti umani ed educazione di Amnesty International Italia Francesca Cesarotti e, con una testimonianza molto importante, i genitori di Michele Ruffino e di Carolina Picchio, vittime adolescenti di bullismo. Migranti. Ora l’Europa cambi passo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 settembre 2019 Oggi, per la prima volta dopo l’elezione di Ursula von der Leyen e la nascita del “Conte 2”, a la Valletta si riuniscono i ministri dell’Interno europei. Al suo esordio sulla scena internazionale, la titolare del Viminale Luciana Lamorgese arriverà con una lista di priorità che al primo punto ha la redistribuzione preventiva dei migranti. La fotografia della barca a vela giunta due notti fa a Crotone con 58 pachistani a bordo è l’immagine più efficace per comprendere quanto sta accadendo. Perché da mesi, mentre il governo guidato da Matteo Salvini portava avanti la sua sfida contro le Ong, barchini e gommoni scaricavano sulle spiagge migliaia di stranieri disposti a tutto pur di entrare in Europa. Il loro numero è stato certamente inferiore a quello degli anni scorsi, gli arrivi non rappresentano in alcun modo un’emergenza. Però è inutile illudersi: nulla arresterà i flussi migratori. Le dimensioni del fenomeno dipenderanno dalle condizioni di vita nei Paesi di origine e soprattutto dalla possibilità di creare una situazione stabile in Libia, ma in ogni caso non si potranno fermare gli sbarchi. Ecco perché bisogna trovare il modo di governare il fenomeno anziché subirlo. E bisogna farlo mettendo da parte gli egoismi. L’esame dei dati relativi agli ultimi anni dimostra che solo una parte di migranti approdati in Italia vuole rimanere. Gli altri hanno l’obiettivo di raggiungere quegli Stati del Vecchio continente dove già vivono i loro familiari, dove sia possibile cercare un lavoro stabile e così immaginare di potersi costruire un futuro. Nell’ultima settimana i leader europei e in particolare la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen hanno assicurato che il governo guidato da Giuseppe Conte non sarà lasciato solo, hanno parlato di una strategia comune, di un piano di interventi per “cambiare passo”. Dopo l’approccio salviniano dell’uno contro tutti, era abbastanza scontato che una politica più moderata come quella proposta dal nuovo esecutivo avrebbe fatto breccia a Bruxelles. Ma purtroppo la storia, anche recente, insegna che in questa materia passare dalle parole ai fatti è sempre molto difficile. Appena quattro anni fa, dopo i naufragi che causarono centinaia di morti nel canale di Sicilia, i leader europei giunsero a Lampedusa e di fronte alle telecamere pronunciarono le stesse promesse, si impegnarono a ricollocare i migranti giunti in Italia e Grecia in base a una divisione per quote. Quel piano fu un fallimento. La maggior parte degli Stati che avevano assicurato di voler aderire e collaborare si tirò indietro. Moltissimi stranieri vivono ancora qui, senza nessuna speranza di essere regolarizzati ma con la certezza di non essere rimpatriati. La stessa cosa è accaduta dopo l’emozione suscitata in tutto il mondo dal ritrovamento del corpicino di Alan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum. Ci sono state manifestazioni di massimo impegno e invece spesso è prevalsa l’indifferenza nei confronti di queste famiglie disperate. Oggi, per la prima volta dopo l’elezione di Ursula von der Leyen e la nascita del “Conte 2”, a la Valletta si riuniscono i ministri dell’Interno europei. Al suo esordio sulla scena internazionale, la titolare del Viminale Luciana Lamorgese arriverà con una lista di priorità che al primo punto ha la redistribuzione preventiva dei migranti presi a bordo dalle navi delle Ong e portati a Malta o in Italia. Non solo. Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio insistono sulla necessità che tutto ciò avvenga sulla base di quote prefissate e il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha ben spiegato come sia necessario prevedere sanzioni per quegli Stati che non vogliono collaborare alla divisione. Tra i temi discussi nei giorni scorsi, durante i bilaterali con Francia e Germania, è stata evidenziata la necessità di stilare una lista di porti europei che a rotazione possano gestire lo sbarco delle navi. Entro 48 ore si scoprirà se esiste una volontà di gestire il tema dei migranti a livello europeo o se invece le ultime dichiarazioni pubbliche dei leader siano soltanto manifestazioni di buone intenzioni. La riunione dei ministri sarà la sede per comprendere se questa volta si vuole davvero passare dalle parole ai fatti. È il primo incontro dall’elezione di von der Leyen, sarebbe assurdo credere che basti una riunione a chiudere l’accordo. Ma si tratta comunque di un banco di prova fondamentale. Se anche questa volta le promesse dovessero rimanere tali, a perdere non sarà soltanto il governo italiano, ma i nuovi leader europei che hanno assicurato di voler mettere in minoranza sovranisti e populisti grazie a una politica fatta di risultati concreti. Ecco perché questa volta non si può sbagliare. Iraq. Ai figli dei miliziani dell’Isis negato il diritto all’istruzione di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 settembre 2019 La denuncia delle ong: espulsi dalle scuole con il pretesto dei documenti mancanti. Il pericolo di nuove ondate di radicalizzazione e dell’aumento del tasso di analfabetismo. “Tutti gli altri bambini possono studiare. Perché ai miei non è permesso?”. Secondo quanto riporta la tv curda Rudaw, Umm Khattab è disperata. Suo marito si è unito all’Isis e poi scomparso. Ora lei è sfollata nel campo di Hamam al Alil, trenta chilometri a sud di Mosul. E non solo non può tornare a casa a causa del disprezzo degli abitanti del suo villaggio e dell’ostracismo della sua tribù. Ma Umm Khattab ogni giorno i suoi figli respinti da scuola. Ufficialmente il motivo dell’esclusione è di tipo burocratico. I bambini Idp, sfollati, possono frequentare le lezioni nelle scuole gestite da organizzazioni umanitarie, ma non sono ammessi nelle scuole irachene a meno che non abbiano documenti in regola. Molti minori però sono sprovvisti di regolari carte di identità. Durante l’occupazione i miliziani dell’Isis hanno sequestrato ai civili i documenti e hanno impedito alle donne i cui mariti non fossero fedeli alla loro causa di registrare i figli alla nascita. Inoltre nella fuga e nella devastazione registri e anagrafi sono andate distrutte. Con il risultato che, secondo l’ong Norwegian Refugee Council (Nrc), sono almeno 80 mila le famiglie della piana di Ninive costrette a tenere i figli a casa, nonostante le lezioni siano iniziate già da una settimana. In realtà un documento del settembre scorso firmato da alti funzionari del Ministero dell’Istruzione di Bagdad accordava il permesso ai bambini privi di documenti di frequentare le lezioni. Tutta via, secondo l’ong Human Rights Watch, molti presidi agendo in autonomia hanno espulso gli studenti privi di documenti dopo aver concesso solo 30 giorni di tempo per mettersi in regola. Inoltre in alcune scuole sono stati richiesti certificati anche ai genitori, complicando le cose soprattutto a quelle madri rimaste sole dopo l’uccisione dei mariti in battaglia. Così, anche nel caso in cui i bambini abbiano documenti in regola perché nati prima dell’occupazione dell’Isis nel 2014, molti studenti vengono esclusi dall’istruzione solo perché il padre non è più presente o perché la madre non dispone di un certificato di morte del marito o di divorzio. Secondo Human Rights Watch più che a cavilli burocratici, la negazione del loro diritto allo studio è da imputarsi a motivazioni politiche e a vendette tribali. E va in assoluta controtendenza con i proclami di riconciliazione fatti dai politici all’indomani della sconfitta dello Stato islamico. A molte donne e madri i documenti sono stati negati apertamente perché i loro mariti erano affiliati dell’Isis. Tuttavia - come fa notare Lama Fakih, direttore del Medio Oriente di Human Rights Watch - “negare ai bambini il diritto all’istruzione a causa di qualcosa che i loro genitori potrebbero aver fatto è una forma di punizione collettiva fuorviante”. E mette a repentaglio il futuro dell’Iraq minando “l’opera di prevenzione e contrasto dell’ideologia estremista spingendo questi bambini ai margini della società”. L’articolo 18 della Costituzione irachena prevede che a tutti i bambini nati da padre o madre iracheni sia concessa la cittadinanza. Sempre la costituzione garantisce poi a tutti i minori il diritto all’istruzione, senza discriminazioni. E se un governo deve adottare misure per garantire che l’istruzione non venga interrotta durante le crisi umanitarie, tanto più se si considera che il tasso di analfabetismo in Iraq è tra i più alti del mondo con il 47%, non si capisce allora perché i funzionari iracheni stiano attuando una politica del genere. Tanto più se si considera che l’Iraq ha ricevuto aiuti dalla comunità internazionale che ammontano a 250 milioni di dollari solo dagli Stati Uniti. “Alcuni bambini iracheni hanno perso tre anni di istruzione sotto l’ISIS” - ha aggiunto Fakih - “Il governo dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per garantire che i bambini non perdano più anni di istruzione cruciale”. A maggior ragione se si vuole evitare una nuova ondata di radicalizzazione religiosa e che un’altra generazione di ragazzi finisca nelle mani delle milizie jihadiste. Libia. Nuovi attacchi su Tripoli, Haftar annuncia: “tutte le forze schierate” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 settembre 2019 Le forze dell’esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar hanno lanciato un attacco a sud di Tripoli. Incerto il numero di vittime e di feriti. Forti bombardamenti hanno svegliato questa mattina la popolazione di Tripoli. Civili libici sul posto parlano di “raid ripetuti da parte di aerei e droni, le esplosioni sono continue”. Nei quartieri meridionali della capitale si registrano anche intensi scambi di mortai e armi pesanti. È la conferma dal campo degli annunci nelle ultime da parte dei portavoce dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, circa una “grande offensiva in atto contro le milizie terroriste di Tripoli”. Secondo Ahmed Mismari, capo dell’ufficio stampa di Haftar a Bengasi, “tutte le nostre forze di terra, aeree e marittime sono coinvolte nell’offensiva”. Da Tripoli i comandanti delle milizie schierate con il governo di Accordo Nazionale diretto dal premier Fayez Sarraj confermano che i bombardamenti più intensi sono registrati nella zona del campo militare di Yarmuk, nel quartiere di Salahaddin, posto una quindicina di chilometri dal centro cittadino. Scambi a fuoco avvengono anche a Ain Zara e in generale lungo tutta la linea del fronte, estesa una settantina di chilometri a semicerchio attorno a tutta la città. Alcune bombe sono cadute nella zona dell’aeroporto di Mitiga, l’unico operativo per i circa tre milioni di civili residenti nella regione della capitale, che comunque è ormai chiuso da alcune settimane. I tripolini sono costretti a recarsi allo scalo di Misurata, 200 chilometri a est, per poter volare. E anche quest’ultimo di recente è stato preso di mira, tanto che funziona a singhiozzo. Resta per ora confuso il numero delle vittime. Gli ospedali registrano alcune famiglie ferite. Le milizie tengono segreti per il momento i loro morti. Ma va anche aggiunto che sul terreno non si notano drastici mutamenti della linea del fronte. Come è già emerso evidente in passato, Haftar dispone della superiorità aerea che gli permette di bombardare quasi indisturbato. Però non ha le fanterie sufficienti a costringere le milizie avversarie alla ritirata. Gli ultimi bombardamenti massicci sono avvenuti otto giorni fa e tuttavia le fanterie di Haftar sono rimaste ferme. A Tripoli l’intensificazione dei raid viene letta come il tentativo di Haftar di guadagnare posizioni alla luce del fatto che il governo francese pare sempre più incline ad abbandonare il sostegno militare al suo protetto per favorire invece la via del dialogo con Sarraj. Una sorta di ultimo lampo di attività belliche prima del ritorno al tavolo dei negoziati. Ancora giovedì scorso Haftar aveva dichiarato bombastico che avrebbe preso Tripoli “in poche ore”. Salvo poi venire smentito dai fatti per l’ennesima volta. L’Iran minaccia gli Stati Uniti e annuncia un piano di pace all’Onu di Vincenzo Nigro La Repubblica, 23 settembre 2019 Le parole di Rouhani arrivano dopo gli attacchi iraniani e la reazione americana. Trump replica facendo sapere che non intende incontrarli, pur sottolineando che il suo atteggiamento rimane “flessibile”. Una parata militare che l’Iran mette in piedi ogni anno, per ricordare i “martiri” della guerra con l’Iraq degli anni Ottanta. Una lunga sfilata di soldati, di carri amati e missili, ma soprattutto di quella guerra che venne scatenata da Saddam Hussein. Una celebrazione per il regime rivoluzionario che il 21 settembre del 1980 era nato da poco più di un anno, e subito si trovò in guerra. È stato questo stamane il palcoscenico dal quale Hassan Rouhani ha lanciato gli ultimi avvertimenti, ma anche una nuova proposta diplomatica agli Stati Uniti. Un “piano Rouhani” che il presidente (in Iran è il capo del governo) presenterà ufficialmente la settimana prossima alle Nazioni Unite. La creazione di un meccanismo per provare a regolare politicamente i contrasti e le rivalità nella regione del Golfo. Non è chiaro se la mossa sarà efficace, se sarà possibile prenderla in considerazione, non è chiaro neppure se questo gesto sarà accolto semplicemente come un colpo di propaganda. Oppure se arriverà troppo tardi. Ma Rouhani ci prova. Allo stesso tempo lui e i suoi ministri continuano a lanciare avvertimenti, anche minacce di devastazioni militari di vario tipo. Come dice il capo dei pasdaran Salame, “se ci saranno nuovi attacchi militari contro di noi, la risposta sarà generalizzata”. Il “Piano Rouhani” è qualcosa di cui da anni si è discusso inutilmente: l’idea è di mettere al tavolo tutte le potenze regionali, prevedibilmente assieme agli Stati Uniti ma anche con la Russia e la Cina, e provare a “dividere la torta” del Golfo, per garantire che lo scontro finale fra Usa e Iran sia scongiurato. Il momento è delicatissimo: il 14 settembre il più importante impianto petrolifero saudita e il più grande pozzo petrolifero sono stati attaccati da una flotta di 10 droni e alcuni missili da crociera. Un’operazione talmente sofisticata da far pensare agli iraniani, non ai ribelli houthi dello Yemen. Da allora la crisi è entrata in una dimensione diversa. Rouhani oggi ha detto che “la presenza di forze straniere nella regione, col pretesto che si occupano della sicurezza, ha portato solo insicurezza e disgrazie”. Il riferimento è agli Usa, alla V Flotta che ha basi in Bahrein, nel Qatar e in Oman. “I nemici hanno iniziato diversi tipi di guerra, inclusa quella psicologica ed economica, e di recente hanno cominciato a minacciare un conflitto militare per creare problemi al popolo iraniano”, ha proclamato Rouhani di fronte a migliaia di militari in formazione: “Ma noi non ci arrenderemo, ci difenderemo e fermeremo ogni tipo di aggressione sul nostro territorio”. Nel frattempo, l’orologio della guerra continua a girare: il 14 giugno sono stati attaccati gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais in Arabia Saudita. Tutto lascia pensare che siano stati gli iraniani, che hanno la capacità militare di pianificare e portare al successo un’operazione così complessa, centinaia di chilometri all’interno dei confini sauditi. Questo ha lasciato sauditi e americani paralizzati: si sono scoperti indifesi, dovrebbero reagire, ma se reagiranno il barile di polvere potrebbe esplodere e dare fuoco a tutto il Golfo Persico. Rouhani ha insistito difendendo la linea dell’Iran che nega ogni responsabilità in quell’attacco: “Noi non siamo di quelli che violano i confini di altre nazioni (riferimento a Israele? ndr), così come non permetteremo a nessuno di violare i nostri”. Alla parata militare i generali del pasdaran hanno fatto sfilare i loro migliori sistemi militari: c’era anche il Bavar-373, che secondo gli iraniani è un sistema antiaereo capace di eguagliare il russo S-300 che Putin ha appena venduto alla Turchia di Erdogan. Con i missili di difesa, c’erano anche i droni, gli aerei senza pilota che potrebbero aver colpito l’Arabia Saudita: con l’attacco del 14 giugno, il Golfo si è svegliato e ha compreso che nella regione c’è “qualcuno” perfettamente in grado di portare attacchi militari molto complessi. I sauditi ne sono certi, l’attacco è iraniano, e sabato lo ha ripetuto il ministro degli Esteri aggiunto dell’Arabia Saudita, Adel Al Jubeir: “Se le indagini finali proveranno la responsabilità diretta dell’Iran questo verrà considerato come un atto di guerra, dice l’ex diplomatico. “Riteniamo l’Iran responsabile, perché i missili e i droni che sono stati lanciati contro l’Arabia Saudita erano costruiti e commissionati dall’Iran”, ha detto Jubeir alla Cnn. “Ma lanciare un attacco dal proprio territorio, se è questo il caso, ci mette in una posizione diversa, sarebbe considerato un atto di guerra”. Come dire, la differenza la fa la base di partenza da cui sono partiti i missili che comunque sono iraniani.