L’ergastolo ostativo, rigidità da superare di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2019 Per la Corte europea così si viola la dignità umana. Alla Consulta in esame due casi. Vi sono temi che raramente impegnano le agende parlamentari e le prime pagine dei giornali ma che meritano attenzione, perché incidono sulla pelle delle persone e al contempo delineano il rapporto tra Stato e cittadini. Uno di questi è la funzione della pena e, di conseguenza, la sua modalità di espiazione. E siccome, come insegnano le scienze dure, le teorie generali si dimostrano con gli esempi estremi, discutiamo dell’ergastolo e specie di quello definito “ostativo”. Nel nostro ordinamento l’ergastolo è la sanzione detentiva perpetua, ovvero la galera a vita. Tuttavia, nel tempo sono state introdotte disposizioni premiali grazie alle quali il condannato meritevole può usufruire di benefici. Dopo 10 anni può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Termini, questi, che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario. Così, ad esempio, i 26 anni per la libertà condizionale possono ridursi a 21. Tali benefici sono stati introdotti poiché, per l’art. 27 della Costituzione, tutte le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. È poi noto che i reati diminuiscono e la recidiva cala se le pene non sono draconiane ma certe e, soprattutto, se vi sono seri percorsi di risocializzazione. Quando però l’ergastolo viene irrogato essenzialmente per delitti di criminalità organizzata o terrorismo, una norma introdotta nel 1992, poco dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, prevede che i benefici penitenziari siano possibili solo qualora il condannato collabori con la giustizia oppure dimostri di non poterlo fare, perché ad esempio poco o nulla sa. Diversamente, il “fine pena” è “mai”. Non si tratta invero di casi rari: secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, su 1.790 ergastolani, 1.255 sono “ostativi” (70,1% del totale). E si badi che proprio per il tipo di reati di cui stiamo parlando, il regime carcerario è spesso quello più duro. Da sempre, l’ergastolo ostativo ha posto dubbi circa la compatibilità con alcuni principi della Costituzione e del diritto sovranazionale. Ma proprio quest’anno alcuni nodi stanno venendo al pettine. Nel giugno scorso, infatti, la Corte Europea, nel caso Viola c. Italia n° 2, ha per la prima volta ritenuto che il regime italiano dell’ergastolo ostativo violasse la dignità umana, condannando così il nostro Paese. Secondo i giudici di Strasburgo, tale disciplina applica pressoché automaticamente il carcere a vita in assenza di collaborazione, senza consentire un giudizio caso per caso. Su tale decisione, pende la richiesta del governo di revisione alla Grande Camera della Corte stessa. Inoltre, in ambito italiano, pendono in Corte costituzionale due questioni relative appunto al divieto di benefici per i condannati all’ergastolo ostativo che non abbiano contribuito a depotenziare la consorteria. Quello in discussione è l’automatismo tra mancata collaborazione e persistente appartenenza al sodalizio, quando la ragione del silenzio potrebbe essere, ad esempio, il timore di ritorsioni contro sé e i propri familiari. La decisione della Corte è attesa a fine ottobre e, per questo, il 27 settembre tre costituzionalisti ferraresi, Giuditta Brunelli, Andrea Pugiotto e Paolo Veronesi, hanno organizzato un seminario aperto dove si raccoglieranno argomenti da sottoporre ai giudici e alla pubblica opinione (informazioni in merito nel sito www.amicuscuriae.it). Tentando un primo spunto di discussione, a noi l’istituto pare da ridimensionare. Diciamo subito che il tema è complicato e soluzioni semplici non ve ne sono. Tuttavia, siamo convinti che una disciplina così rigida sia da superare. L’ergastolo ostativo nasce, come accennato, nell’estate del 1992, dopo decenni di offensiva terroristica e mafiosa allo Stato e all’indomani di due tra le azioni militari più sanguinose e tragicamente efficaci mai realizzate. L’impressione di essere in guerra era forte e lo Stato reagì privilegiando le esigenze di sicurezza e incentivando le collaborazioni. Oggi, tuttavia, nemmeno questa ragione - posto che fosse condivisibile - può essere invocata a giustificare la disciplina. Quella emergenza, almeno in termini di violenza così eclatante, sembra essere meno acuta: gli omicidi calano e di stragi, in Italia, non si ha notizia da 25 anni. In ogni caso, ci piacerebbe vivere in una democrazia matura, che dovrebbe avere la forza di rinunciare agli strumenti punitivi estremi o prevederne una applicazione più limitata e non automatica, come invece accade ora con l’ergastolo ostativo. Un intervento del legislatore è improbabile, in tempi nei quali il pensiero dominante spinge in direzione solo repressiva. Riponiamo più aspettative in ciò che potrà accadere a ottobre nel Palazzo della Consulta. I giudici costituzionali si sono di recente dimostrati assai sensibili al tema dell’esecuzione delle pene, come mostra il bel documentario sul “viaggio” della Corte nelle carceri. E, per nostra fortuna, rispetto ai politici hanno meno problemi di consenso. Aumentano i suicidi in carcere. Tante le motivazioni, poche le risposte preventive di Samuele Ciambriello linkabile.it, 22 settembre 2019 Politica, istituzioni, volontariato, parti sociali, mass-media, tutti devono fare la propria parte. Le galere servono a togliere la libertà, non la vita. Si torna, periodicamente, a trattare questo argomento. Di pochi giorni è la notizia della morte di un quarantenne pugliese nel carcere di Poggioreale. Ogni suicidio ha una risposta diversa. Le sintesi esplicative non funzionano per spiegare gesti di disperazione così gravi. La scelta di una persona di togliersi la vita non deve mai, da nessuno, essere strumentalizzata. Le cifre sono allarmanti: lo scorso anno, all’interno degli istituti penitenziari campani, si sono registrati 9 suicidi, a cui vanno drammaticamente ad aggiungersi quelli di 3 di detenuti agli arresti domiciliari, 8 morti per malattie e 5 decessi di cui ancora bisogna accertare cause o eventuali negligenze. In alcuni di questi casi ci sono indagini in corso da parte della Magistratura. Quest’anno in Campania siamo arrivati, per adesso, a sei suicidi. C’è sempre più vivido e palpabile uno stato di disagio esternato con gesti estremi. Ci sono denunce e proposte anche delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Il carcere in cui è avvenuto il maggior numero di suicidi è stato quello di Poggioreale (3), uno ciascuno a Secondigliano, Benevento ed Aversa. Non voglio limitarmi, però, a snocciolare soltanto numeri, anche se, su 34 suicidi totali in Italia, la nostra regione vanta un buon primato negativo. Dietro una scelta suicidaria può esservi solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, assenza di speranza, disperazione per il processo o per la condanna, abusi. Non è possibile ricondurre a una la motivazione. La Campania conta in totale 7.660 detenuti, su una capienza massima di 6.142 posti, con 380 donne e 1.008 immigrati. Appena 89 educatori e 45 psicologi. Tra le cause principali dell’alto tasso di questi tragici episodi vi sono il degrado e il sovraffollamento, ma anche la mancanza di comunicazione, di ascolto e di figure sociali di riferimento, la solitudine. Sarebbe dunque forse semplificatorio dire che vi sia un nesso causale diretto con il sovraffollamento crescente. È inequivocabile, però, che più cresce il numero dei detenuti più alto è il rischio che nessun operatore si accorga della disperazione di una persona, che non abbia il tempo di prevenire il disagio. Così come il poco personale di polizia penitenziaria nei turni dalle 15 alle 8,00del giorno dopo. Va rafforzato, a tal proposito, il sistema di prevenzione varato dal Ministero nel 2016 e, contestualmente, bisogna agire con una maggiore formazione specifica per gli agenti di polizia penitenziaria e l’area educativa, al fine di prevenire e intuire il disagio che poi porta al suicidio. Vanno rafforzate le attività trattamentali pomeridiane, con la presenza di volontari, educatori e commissari che aiutano a gestire le criticità. Direttori, comandanti ed area educative non devono giocare in difesa o sentirsi attaccati. È necessario, inoltre, il supporto di figure come psicologi, psichiatri e assistenti sociali, nonostante la cronaca recente abbia dimostrato - con i 140 suicidi sventati dalla polizia penitenziaria o dai compagni di cella negli ultimi due anni - che la solidarietà, tra le mura degli istituti, c’è e che il carcere sa essere meno Caino della società esterna. La sanità nelle carceri è regionale da dieci anni. Queste figure sociali devono essere messe in campo da loro, oltre che dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. L’assistenza sanitaria in alcuni casi è disastrata, va rafforzata la presenza degli educatori nei reparti e nelle sezioni. Per questo chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Dal mio canto, rafforzerò gli uffici del Garante dei detenuti con esperienze di ascolto e sportelli informativi, di iniziative integrative sul piano psicologico e relazionale. Bisogna sconfiggere, insieme, l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo politici, istituzioni, volontariato e parti sociali. Il tema della prevenzione non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire in carcere, ma richiama all’impegno il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale, perché la perdita di giovani vite - a un ritmo più che settimanale - sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. È assolutamente necessario introdurre pene principali di natura non detentiva, basandosi su esperienze che prevedono sanzioni di carattere riparatorio. Molte volte dietro a tante storie tristi di sucidi, tentativi, forme di autolesionismo, scioperi della fame ci sono storie di detenuti che in carcere non dovevano essere: malati terminali, paraplegici, accusati del furto di una bicicletta, di resistenza a pubblico ufficiale, immigrati “catturati” in Questura dove erano andati a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, tossicodipendenti in preda alla disperazione che vengono denunciati dai genitori, detenuti affetti da problemi psichici. I principi di certezza della pena e della sua funzione rieducativa possono considerarsi davvero effettivi solo se per le pene detentive nelle carceri - ma lo stesso vale per le misure cautelari - sono garantite condizioni di dignità e umanità, principi costituzionali imprescindibili internazionali. Certezza della pena che si coniuga con qualità della pena. “Papà è in viaggio d’affari”. La doppia condanna dei figli di detenuti di Gigi Riva L’Espresso, 22 settembre 2019 C’è chi sceglie di non dire ai bambini la verità. Ma pare per gli altri avere un rapporto è molto difficile. Anche per le leggi che restano inapplicate. Marco si ricorderà per tutta la vita il giorno che con il padre simulò una partita di basket. Palleggi, passaggi e tiri in un canestro immaginario. Se lo ricorderà perché aveva dieci anni e da sei non vedeva il genitore. Il finto campo del suo sport preferito era il cortile della massima sicurezza del carcere di San Gimignano. Raoul, questo il nome dell’uomo, è originario dei Caraibi. La madre di Marco lo aveva conosciuto in vacanza e lui, avvocato nel suo Paese, l’aveva seguita. La sua laurea in giurisprudenza non era stata riconosciuta in Italia e allora si era arrangiato con i mestieri più umili, spazzino, cameriere, operaio. I soldi non bastavano mai e scelse la via più semplice per arricchirsi: droga. Lo presero subito. D’accordo con la moglie decise di non svelare al figlio di essere in prigione. Durante le telefonate che gli erano concesse gli raccontava che faceva il pescatore laggiù nei mari dei Tropici e gli descriveva tramonti infuocati, pesci meravigliosi. Non poteva venire a trovarlo, quello no. perché costava troppo. Marco accumulava nel salvadanaio, moneta dopo moneta, il necessario per raggiungerlo. Ma il volo aereo, a detta della madre, costava molto più di quanti potessero i suoi sforzi. Raoul spiegava alla psicologa del carcere che si sacrificava perché aveva sbagliato ma soffriva per quella scelta di costruirsi un mondo fantastico e tenere al riparo il piccolo. Alla fine si decise al passo della verità e in un 19 marzo luminoso e assolato, festa del papà, finalmente si ritrovarono e giocarono quell’improbabile partita di basket. Era ripartito un rapporto. Per coprire la vergogna, un altro detenuto ha raccontato al figlio di 8 anni che fa un mestiere con orari così stravaganti da non poter mai essere in casa quando c’è lui. La moglie asseconda facendo trovare sul tavolo tazze di colazione consumata, nella lavatrice vestiti da lavare, nel letto un pigiama maschile. Papà ha sempre molto da fare. Occultare può sembrare una buona soluzione nell’immediato. È pessima nel tempo lungo perché il non detto obbliga a una vita scissa, con troppi punti di domanda senza una risposta. Talvolta non va meglio quando avviene l’opposto. Daniela aveva 5 anni la notte in cui entrarono i carabinieri in casa e si portarono via il genitore. Quando le fu permessa una visita si scagliò contro la polizia penitenziaria che le aveva “rubato” il genitore. Né andò meglio le volte successive, crisi di panico, svenimenti alla vista delle sbarre. E l’insorgere di una preoccupante anoressia per la quale si rifiutava di curarsi. Fu il carcerato, durante i colloqui telefonici, a convincerla a rivolgersi a un neuropsichiatra. Ma la svolta che la fece guarire arrivò quando il padre accettò di non presentarsi più come vittima della giustizia e di ammettere le sue colpe. La ragazza ora sta molto meglio. Tiziana ha invece 4 anni, dolce, affezionata, presente ogni settimana al penitenziario, apparentemente serena. Solo apparentemente. D’improvviso ha preso a piangere e a non volerlo salutare al momento del distacco. Lo abbraccia al collo e comincia a piangere finché la devono congedare con la forza. Scena piuttosto diffusa. E straziante. Al netto di errori giudiziari, chi sta dentro ha commesso reati. Nel nostro percorso di civiltà si è fortunatamente arrivati a considerare il carcere come un luogo di recupero e non di punizione. Al populismo montante che rinnega questa filosofia al grido di “in galera in galera”, “buttiamo via le chiavi”, “di cosa si lamentano? Mangiano e dormono a spese nostre”, si può opporre che esistono delle leggi, troppo spesso disattese, per favorire l’affettività. Si invocano problemi strutturali, necessità di tutela della sicurezza. O semplicemente ci si rifiuta di applicare convenzioni pomposamente ratificate per indolenza, incuria, quando non per il solito alibi per cui esistono ben altre emergenze e priorità. E si finisce così per creare una categoria di vittime collaterali, i figli di chi è stato condannato. In spregio alle convenzioni sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. In Europa sono 2,1 milioni i minorenni ad avere un genitore in carcere. Centomila in Italia dove la popolazione dei penitenziari è al 95 per cento maschile. Centomila costretti a vivere pressoché in solitudine la loro condizione infelice. Guardati con sospetto nel mondo al di qua delle mura perché “figli di” e spesso ostacolati dalle pastoie burocratiche nel loro legittimo diritto a mantenere un rapporto con una delle persone che hanno per più cara, qualunque delitto abbia commesso. Come una bambina di sei anni che nella sala colloqui di una casa circondariale ha disegnato su un foglio molti uccelli per sbarrarne poi una parte con delle croci. E alla domanda su cosa significasse ha risposto: “Sono i maschi e sono tutti morti perché tutti i maschi sono scemi o inutili. I papà non ci sono mai”. Non ci sono mai. E sono difficili da raggiungere perché nelle carceri italiane nel binomio sicurezza/affettività si privilegia sempre la prima. Ci sono carcerati arrivati in Italia dopo aver scontato periodi in cattività in Germania o in qualche Paese del Nord Europa che si augurerebbero il biglietto di ritorno, nonostante la distanza dalle famiglie, per la diversa qualità dei pochi incontri. Stanze colorate piene di giochi, addirittura passeggiate nei parchi dei penitenziari. Cose che da noi avvengono solo in istituti modello e all’avanguardia. Nelle stragrande maggioranza, una seggiola, un vetro divisorio. Il niet alle concessioni più elementari. Un detenuto: “Il compimento del decimo anno di mio figlio è stato vissuto come momento di gioia ma anche con il timore che mi venissero tolte le telefonate aggiuntive. Questo è avvenuto perché è cambiato il direttore che voleva motivi precisi per la mia richiesta. Il fatto che sono un padre non è stato giudicato sufficiente”. Finché il figlio ha meno di dieci anni si può usufruire di sei telefonate al mese della durata di dieci minuti, poi scendono a quattro, salvo concessioni. Dai 40 ai 60 minuti il tempo totale in un mese. Molto meno di quello speso per guardare un film in tv o giocare una partita di calcio dentro le mura. Aiuterebbe ad avere una relazione, se non normale meno complicata, la sensibilità del variegato panorama istituzionale che ruota attorno alle galere. La figlia di un uomo in permesso premio si è talmente affezionata ai carabinieri della caserma dove si deve presentare per obbligo di firma da volerlo sempre accompagnare. Un’altra scambia tutti gli agenti della polizia penitenziaria per il proprio papà grazie alla loro affabilità. La mamma le ha spiegato che si va in carcere “a trovare papà” dunque tutte quelle persone gentili sono papà. Al contrario naturalmente non aiutano le piccole vessazioni a cui si è vincolati da un “regolamento” che non opera alcuna distinzione da caso a caso. Perquisizioni umilianti, pesanti cancelli, il rumore delle chiavi che si chiudono alle spalle, la stanza spoglia e disadorna dove incontrarsi. Invece di creare un ambiente giocoso e gioioso. Ci vorrebbe poco. Per i giustizialisti a tutti i costi probabilmente sarebbe un privilegio inaccettabile. Si può diventare pregiudicati, non si finisce di essere genitori. Gli psicologi e gli operatori del carcere osservano una costante, qualunque sia il grado di pericolosità del soggetto. Photoshop aiuta a fingere una realtà da cui si è naturalmente esclusi. E così il detenuto appare nelle immagini delle ricorrenze importanti, la torta di compleanno, il Natale, la Pasqua. La costruzione dell’idea di una normalità. Anche quando la normalità non tornerà mai più. Un uomo che ha strangolato la moglie davanti alle sue bambine di 5 e 8 anni esasperato, dice, dai di lei continui insulti, dal carcere scrive lettere piene dimore per le figlie e si arrabbia per l’immancabile mancata risposta. Un mafioso pluriergastolano di pochissime parole cominciò ad aprirsi con la sua psicologa confidandole che aveva un figlio ma che era morto. In quali circostanze? Dopo un lungo silenzio spiegò che era molto affezionato a quel ragazzo ma per lui era come morto perché si vestiva da donna. Dunque rifiutava di accettare la sua richiesta di colloquio. Non lo voleva più vedere. Solo dopo un lungo percorso accettò l’idea che agendo così era come se lo uccidesse lui stesso. Hanno ripreso alfine a frequentarsi. proprio nel periodo dell’arresto, un calabrese ha perso l’unico figlio. Ha voluto però dare alla moglie la possibilità di essere madre attraverso la fecondazione artificiale, una scelta ormai sempre più frequente data l’impossibilità di avere rapporti come avviene in nazioni più evolute. E già sembra di sentire l’eco di un’obiezione: ma come, vogliono persino fare sesso? Comunque il bambino che è nato ora ha tre anni. Il padre lo ha sempre visto solo dietro le sbarre. In generale i detenuti tendono a separare nettamente la loro famiglia criminale dalla loro famiglia affettiva. In molti si vantano di “non litigare mai con i figli quando vengono al colloquio”. Esasperando, a detta degli esperti, la percezione di eccezionalità di quella situazione. Quando sarebbe invece più corretto che il rapporto fosse basato il più possibile sulla verità per conservare il proprio ruolo genitoriale. Non è facile, ma quando succede si possono leggere lettere come quella scritta da Giacomo a suo padre con cui, nonostante le mura della prigione, è riuscito ad avere una relazione matura: “Ho fatto due conti con la calcolatrice della Benedetta e ho scoperto che uscirai il giorno prima che io compia 18 anni. Quel giorno saranno 13 anni che sei sparito da casa, ma almeno diventerò grande - come dicono i miei amici - sentendo la tua voce che mi dirà “buon compleanno Giacomo”. Me lo dirai guardandomi negli occhi e non per telefono come in questi ultimi anni. La mia vita sarà segnata per sempre dalla tua storia. Quando diventerò grande potrò dire di avere imparato presto che le bugie hanno le gambe corte e che è meglio essere poveri ma dormire piuttosto che viaggiare su una barca e provare paura quando suona il campanello all’alba. Io e Benedetta siamo ancora qui che ti aspettiamo perché la mamma ci ha sempre detto: “papà un giorno avrà bisogno di voi”. E quando tu avrai bisogno, papà, sappi che noi ci saremo sempre”. (Le storie di questo articolo sono naturalmente tutte vere. Altrettanto naturalmente, per tutelare i minori, i nomi sono inventati). La falla del codice rosso che frena gli arresti per violenza sulle donne di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 settembre 2019 Cosa c’è, più indicativo dell’incapacità di un uomo di controllare i propri impulsi di violenza su una donna, e dunque indice più concreto di un rischio reale per lei, del fatto che stia violando una precedente prescrizione del giudice di allontanarsi dalla casa familiare o di non avvicinarvisi più? Eppure nella nuova legge battezzata “codice rosso”, che pur condivisibilmente introduce una autonoma fattispecie di reato per questo tipo di violazione, c’è un baco che, alla prova del primo mese di applicazione, ne svuota l’efficacia pratica: perché rende impossibile arrestare in flagranza di (nuovo) reato chi venga sorpreso mentre, in violazione del precedente ordine del giudice, sta avvicinandosi di nuovo alla donna maltrattata o stalkizzata. La legge in questione, la n.69 del 19 luglio 2019, di iniziativa governativa, si intitola “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, ma i suoi fautori - il ministro della Giustizia (Alfonso Bonafede) e l’ex ministro della Funzione Pubblica (l’avvocato Giulia Bongiorno) - l’hanno comunicata con l’etichetta “codice rosso” per rivendicare l’intenzione di favorire un percorso prioritario di trattazione di questi procedimenti a tutela delle vittime. In vigore dal 9 agosto, sinora molti magistrati hanno abbondantemente additato il corto circuito, ai limiti del boomerang organizzativo rispetto alle intenzioni legislative di ridurre o se possibile eliminare i tempi morti delle indagini, determinato dall’ingorgo, durante i turni quotidiani delle Procure, di molte decine di segnalazioni non distinte nel loro contesto e non filtrate nella loro gravità, che però la legge obbliga la polizia giudiziaria a “riferire immediatamente al pubblico ministero anche in forma orale”, e il pm a trattare assumendo “entro 3 giorni” informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti. Un punto invece rimasto sinora in ombra è quello che sta emergendo nei casi in cui inizia a essere applicato il nuovo articolo 387 bis che punisce, con la pena da 6 mesi a 3 anni, “chiunque violi dei provvedimenti (ai quali sia stato sottoposto dal giudice) di allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”. In effetti, sino a prima della nuova legge, l’inosservanza da parte dell’indagato degli obblighi o dei divieti impartitigli dal giudice non solo non era sanzionata in sé. Solo che ora l’introduzione di un nuovo e autonomo reato (art. 387 bis) ha risolto il problema solo a parole: il legislatore ha infatti scelto di fissare la pena da un minimo di 6 mesi a un massimo di 3 anni, il che impedisce di arrestare subito in flagranza chi stia avvicinandosi di nuovo (in violazione del precedente ordine giudiziario di allontanamento o divieto di avvicinamento) alla donna in pericolo. Perché? L’arresto di una persona in flagranza di reato non avviene per atto motivato di un giudice su richiesta del pm, ma per iniziativa della polizia in via provvisoria mentre il reato è in corso, con successivi obblighi di comunicazione al giudice entro 48 ore e sua convalida entro altre 48 ore. È una eccezione, perciò il sistema processuale lo ammette in via generale soltanto per reati la cui pena massima sia “superiore a 3 anni”: e invece il nuovo reato ha una pena massima “sino a 3 anni”. Nel sistema generale esiste una possibilità di deroga, nel senso che l’arresto in flagrante è consentito in via facoltativa anche per reati con pene inferiori, a patto però che siano elencati nel secondo comma dell’articolo 381 del codice di procedura: ma il nuovo reato non è in questo catalogo. E si può arrestare in flagranza anche per reati espressamente menzionati (come l’evasione) dall’art. 3 del decreto legge 152 del 1991: ma nemmeno qui è stato inserito il nuovo reato. Il risultato finale concreto è che, mentre chi evada dagli arresti domiciliari, o chi rientri illegalmente in Italia dopo essere stato espulso, può essere arrestato in flagranza di reato, questo non è possibile se un indagato viola l’ordine del giudice di allontanarsi o non avvicinarsi alla vittima: al pm non resta che l’ordinaria strada del chiedere al gip l’aggravamento della misura cautelare violata, e cioè l’arresto. Ma questo presuppone una trafila (comunicazione scritta di notizia di reato dalla polizia al pm di turno, ricezione, iscrizione, trasmissione dal pm di turno al pm titolare del fascicolo nel quale era stata disposta la misura violata, valutazione del pm, richiesta di arresto formulata dal pm, trasmissione al gip, valutazione, emissione della misura, trasmissione alle forze dell’ordine affinché la mettano in atto, esecuzione dell’arresto) che nella concreta quotidianità degli uffici giudiziari comporta per forza almeno alcuni giorni di tempo. Potenzialmente incompatibili con la dinamica degli eventi. La questione era stata additata - inutilmente - già anche da un seminario della Scuola Superiore della Magistratura il 15 maggio, a cavallo dell’approvazione tra i due rami del Parlamento, e del resto anche la deputata M5S Stefania Ascari, che è stata relatrice del provvedimento alla Camera, ora conferma: “È un problema che esiste. Nel mio testo era presente la norma, ma poi su questo punto non si è raggiunta in Parlamento una condivisione. Ora auspico, lo dico a titolo personale, che possa intervenire un ripensamento, magari insieme ad altre messe a punto che nel testo si dovessero rendere opportune”. Giustizia e clemenza. Il caso di Ciro U. di Antonio Polito Corriere del Mezzogiorno, 22 settembre 2019 Confesso che ho tirato un sospiro di sollievo l’altro giorno, quando la corte d’Appello di Napoli ha confermato la condanna a sedici anni e mezzo per i tre giovani che presero a sprangate, alle spalle, fino a ridurlo in fin di vita, la guardia giurata Francesco Della Corte, davanti alla stazione della metropolitana di Piscinola, con l’agghiacciante movente di divertirsi un po’ e di rubargli la pistola. Non perché io partecipi al clima giustizialista e incarognito di questi anni, in cui per primi i politici, e talvolta anche i ministri, hanno usato con disinvoltura l’orribile espressione “buttare la chiave”. Quasi che i condannati, i colpevoli anche dei peggiori delitti, siano bestie da chiudere in gabbia vita natural durante. Ma perché questo era un davvero un caso speciale. La Corte d’Appello minorile che ha emesso la sentenza è infatti la stessa che aveva concesso nei mesi passati alcuni permessi a uno dei tre giovanissimi assassini, Ciro U., che nel frattempo ha compiuto i 18 anni. Proprio per festeggiare il raggiungimento della maggiore età gli era stato consentito di organizzare una piccola festa in una canonica all’esterno del carcere di Airola, dove è detenuto, e le foto della sua allegria durante il party, postate in rete da una cugina, avevano profondamente offeso la famiglia della vittima. È stata Marta, la figlia, a manifestare il proprio dolore pubblicamente. Quando poi si è saputo che i magistrati avevano consentito a Ciro di fare anche un provino di calcio per una squadra del beneventano e di incontrare i genitori al ristorante, la famiglia Della Corte ha di nuovo alzato la voce, chiedendosi quale sia il confine tra la riabilitazione e il ridicolo: “Esce dal carcere per fare il calciatore?”. Avremmo voluto scrivere, in quell’occasione, una lettera aperta a Marta Della Corte, per dirle che rispettavamo il suo dolore, ma anche il dovere dei giudici, una volta accertatene le condizioni, di favorire la riabilitazione e il recupero del condannato (soprattutto quando si tratta di una persona così giovane da aver commesso il suo orrendo delitto nella minore età) anche con permessi e uscite, da svolgersi ovviamente sotto scorta e sotto controllo, per evitare il rischio elevato di fuga. Poi però ci eravamo fermati. Non avevamo avuto il cuore di ricordare a una ragazza che ha perso per sempre un padre nel modo più brutale e insensato doveri che non spettano a lei, che ha tutto il diritto al dolore e alla rabbia, ma alla società. Anche perché, se un permesso per il compleanno del detenuto andava rilasciato, si sarebbe però dovuto fare in modo che quella libertà temporanea e l’euforia che l’accompagnava non fossero esibiti sui social, per non offendere i famigliari della vittima, che chissà per quanto tempo ancora non festeggeranno alcunché. D’altra parte, siamo stati frenati anche dal fatto che la famiglia Della Corte con tutta evidenza non partecipa della cultura del “metteteli dentro e buttate la chiave”. La sua sensibilità verso il problema sociale della delinquenza giovanile è anzi provata dal fatto che dopo il delitto si è subito impegnata ad organizzare una associazione dedicata al padre, “Progetto Franco”, che si propone proprio di prevenire e aiutare i ragazzi che rischiano di finire nel girone infernale della violenza; per esempio evitando, come è avvenuto in questo caso, che scuola e servizi sociali non si accorgano della prolungata evasione scolastica di tre ragazzi che poi finiscono con l’uccidere. Ecco perché, allora, abbiamo taciuto. Ma ora questa sentenza che conferma la condanna di primo grado, la severità con cui il sostituto procuratore generale Anna Grillo ha chiesto agli imputati quella assunzione di responsabilità che finora non pare esserci stata, così come è mancato alcun segno di sincero pentimento, ebbene, questa faccia della giustizia, giusta, severa e senza sconti, ci consente di ricordare però anche l’altra faccia che la giustizia deve avere, quella della clemenza, del rispetto della dignità umana anche nel peggiore dei delinquenti, quella della ricerca costante della rieducazione, che richiede anche, per ragazzi così giovani, la possibilità di mantenere qualche contatto con la vita fuori dal carcere, non fosse altro per ricordare loro che è troppo bella per privarsene. Nessuna sentenza può restituire Franco ai suoi cari, ha giustamente detto la figlia. Proprio per questo nessuna vera giustizia può essere fondata sulla logica del dente per dente. Giornalisti, la Cassazione cancella il carcere di Pierluigi Roesler Franz giornalistitalia.it, 22 settembre 2019 In attesa del verdetto della Corte Costituzionale, atteso tra alcuni mesi, la 5ª sezione penale della Cassazione ha ribadito il suo fermo no al carcere - seppure con pena sospesa - per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Lo ha fatto annullando la condanna a tre mesi di reclusione inflitta al giornalista calabrese Fabio Buonofiglio, direttore del periodico “Altre Pagine”, iscritto al Sindacato Giornalisti della Calabria. Motivo: la detenzione per questo reato, prevista sia dall’art. 595 del codice penale art. 595 che nella legge sulla Stampa, la n. 47 del 1948, é incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La detenzione può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali, cioè quando siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Tranne in questi casi di fronte a condanne per diffamazione gli ermellini di piazza Cavour hanno esortato i giudici italiani a non infliggere più il carcere, ma eventualmente solo multe. La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato in un’altra decisione di cinque anni fa, hanno quindi sancito un principio di civiltà giuridica che non solo può essere ormai considerato “diritto vivente”, ma per di più potrà supportare la Consulta in vista della sua attesa pronuncia su questa importante e tanto dibattuta questione in tema di libertà di stampa e di diritto di cronaca, spronandola a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui, purtroppo, il Parlamento da decenni non é riuscito incredibilmente a legiferare (il 18 giugno scorso a Napoli lo stesso premier Giuseppe Conte si era impegnato ad affrontare l’argomento), nonostante pubblici appelli e progetti di legge presentati, tra gli altri, da Fnsi, Consiglio nazionale Ale dell’Ordine dei giornalisti e Fieg. Insomma, il carcere appare incompatibile con il diritto di cronaca e rappresenta un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico del nostro Paese. La sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione (presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), assume quindi particolare rilievo. I supremi giudici hanno ricordato che la Cedu, Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, “con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti contro l’Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la sentenza Belpietro contro Italia del 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 Cedu. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti contro Italia del 7 marzo 2019, “ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza” e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa”. Applicando questi principi la Cassazione ha definitivamente annullato la pena, condizionalmente sospesa, di tre mesi di reclusione, inflitta dalla Corte di Appello di Salerno a Fabio Buonofiglio, direttore del periodico calabrese “Altre Pagine” di Corigliano-Rossano (Cosenza), per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e intitolato “L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane”, che era stato ritenuto gravemente lesivo della reputazione del magistrato Maria Vallefuoco, sostituto procuratore della Repubblica di Rossano. Nonostante che la sua condanna al carcere - anche se sospesa - sia stata cancellata e che il reato di diffamazione sia caduto in prescrizione, il giornalista rischia comunque di essere condannato in un prossimo giudizio in sede civile a risarcire i danni in favore del pm calabrese che si era costituito parte lesa nel processo penale. La pronuncia della Suprema Corte ribadisce quanto già affermato nella sua precedente decisione della quinta sezione penale n. 12203 del 13 marzo 2014 (presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia). In quell’occasione fu osservato che “l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità”. Per contrastare l’applicabilità della pena detentiva non fu neppure trascurato l’orientamento della Corte Cedu che, ai fini del rispetto dell’art. 10 della Convenzione relativo alla libertà di espressione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l’irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa, sul rilievo che, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di “cane da guardia” dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle (sentenza del 24 settembre 2013 Belpietro contro Italia). In un altro passaggio della decisione n. 12203 del 2014 fu sottolineato che “la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche nell’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione cui si correla quello all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, diritti i quali impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l’altro attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione”. In quella sentenza fu anche ricordato che all’epoca il legislatore ordinario italiano era “orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa” (ma poi tutto é rimasto nei cassetti di Montecitorio e di palazzo Madama, n.d.r.). Sulla legittimità del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione si esprimerà entro la prossima primavera la Corte Costituzionale. Come é noto alla Consulta è arrivata l’ordinanza emessa il 9 aprile scorso dal giudice monocratico della seconda sezione penale del Tribunale di Salerno, Giovanni Rossi, nel corso del processo per diffamazione a carico dell’ex collaboratore del “Roma” Pasquale Napolitano e del direttore del giornale Antonio Sasso. Per il giudice Rossi il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa va contro quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e violerebbe anche libertà e principi fondanti sanciti dagli articoli 3, 21, 25, 27 e 117 della nostra Costituzione. La relativa ordinanza n. 140 é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 settembre scorso e il termine per le parti (compresi eventualmente il Cnog e la Fnsi) per costituirsi scadrà l’8 ottobre prossimo. Nel frattempo é pervenuta a palazzo della Consulta un’altra ordinanza di cui non si era mai data alcuna notizia. È stata emessa dal tribunale di Bari - sede di Modugno - il 16 aprile scorso ed é stata registrata in cancelleria con il n. 149. Viene eccepita l’incostituzionalità sempre dell’art. 13 della legge sulla stampa dell’8 febbraio 1948 n. 47 in combinato disposto con l’art. 595, 3° comma, del codice penale per presunta violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali, in quanto sarebbe illegittima la pena cumulativa della reclusione, invece che in via alternativa, per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Entro i primi di ottobre il presidente dell’Alta Corte, Giorgio Lattanzi, dovrebbe quindi fissare la data dell’udienza pubblica per entrambe le ordinanze dei tribunali di Salerno e Bari. La sentenza é attesa entro la prossima primavera. San Gimignano (Si). Tortura, quindici agenti indagati dopo il pestaggio di un detenuto di Laura Montanari La Repubblica, 22 settembre 2019 La vittima non ha voluto spiegare i segni sul volto: “Una caduta”. Sono stati alcuni camorristi a raccontare dei calci e dei pugni. Quattro sorveglianti subito sospesi dal servizio. Per trasferirlo da una cella all’altra del carcere di San Gimignano, in provincia di Siena, sono andati a prenderlo in quindici: fra agenti e ispettori di polizia penitenziaria. Indossavano tutti i guanti. Pomeriggio dell’11 ottobre 2018. Lui, un cittadino tunisino di 31 anni, pensava di andare a fare la doccia, aveva le ciabatte ai piedi e un asciugamano al braccio. Invece è stato trascinato per il corridoio del reparto isolamento, picchiato con pugni e calci. “Gli hanno abbassato i pantaloni”, lui “è caduto” e hanno continuato a picchiarlo. “Sentivo le urla” racconta un detenuto, “poi lo hanno lasciato svenuto” in un’altra cella. Nell’ordinanza si parla di “trattamento inumano e degradante”, di “violenza” e “crudeltà”. Quindici guardie, agenti, ispettori e assistenti sono indagati dalla procura di Siena per il reato di tortura. È uno dei primi casi contestati da che il reato è entrato in vigore due anni fa, il primo che riguarda pubblici ufficiali. Quattro sono i poliziotti sospesi dal servizio per quattro mesi secondo quanto disposto dal gip Valentino Grimaldi. La pm, Valentina Magnini aveva chiesto anche gli arresti domiciliari che invece non sono stati concessi. Il detenuto tunisino non ha mai denunciato il pestaggio, ha rifiutato di farsi visitare dai medici. E quando gli hanno chiesto del taglio sul sopracciglio ha detto di essere caduto in cella. Chi indaga pensa che lo abbia fatto per paura. A raccontare prima a un’operatrice penitenziaria, poi a scrivere direttamente delle lettere al tribunale di sorveglianza sono stati altri detenuti che si trovavano l’11 ottobre 2018 in quello stesso braccio dell’isolamento. Da lì partono le indagini. Cinque, tutti provenienti dalla sezione alta sicurezza, quindi in carcere per reati gravi. Camorristi e trafficanti di droga. Uno di questi (in isolamento perché trovato con un cellulare in cella, cosa vietata dal regolamento carcerario) ha riferito di aver assistito al pestaggio dallo spioncino e di essere stato colpito da una guardia con un pugno alla fronte: due giorni di prognosi. Altri hanno raccontato di minacce da parte delle guardie: “Adesso vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano”. O di frasi, contro il detenuto tunisino: “Perché non te ne torni al tuo paese?” “Non ti muovere o ti strangolo”, “ti ammazzo”. Ad aiutare gli inquirenti nella ricostruzione di quanto accaduto, ci sono le immagini delle telecamere, benché siano schermate dai corpi degli agenti e le intercettazioni. Fra i reati contestati agli agenti, ci sono le minacce, le lesioni e anche la falsità ideologica per aver tentato di “addomesticare” i rapporti e seppellire le prove del pestaggio con pressioni e intimidazioni. Quello che sembra emergere dai fogli dell’inchiesta è che non si sarebbe trattato di un episodio isolato, se è vero quello che sostengono alcuni detenuti: “Noi del reparto isolamento per paura dormivamo a turno, cioè uno di noi rimaneva sveglio per avvisare gli altri, per non essere presi alla sprovvista, nel sonno in caso fosse arrivato qualcuno del personale a compiere atti di aggressione. Così non si poteva andare avanti”. Per questo in cinque scrivono al tribunale di Siena e al magistrato di sorveglianza: hanno paura. Puntano l’indice su una guardia in particolare soprannominata “lo sfregiato”. Riferiscono anche di altri soprusi: lettere mai spedite, sequestri di effetti personali (“dal bagnoschiuma alle pentole”), del prolungamento dei tempi nelle celle di isolamento. Insomma un clima teso, incattivito, strano. Sulmona (Aq). La Uil: attivare in ospedale nuovo reparto per detenuti Il Centro, 22 settembre 2019 La mancata attivazione del reparto di lungo degenza, che contiene il repartino riservato ai detenuti, spinge il vice segretario generale della Uil Pa, Mauro Nardella, a lanciare un appello all’Asl. “Non vorrei che a causa della mancata apertura del reparto di lungodegenza, nel quale insiste l’avveniristico repartino riservato ai detenuti, non si dia avvio alla procedura di ricovero degli stessi all’interno di tale contesto”, rivendica Nardella, “se così fosse sarebbe inammissibile e alquanto inconcepibile”. Nardella ricorda, infatti, la gravità e la delicatezza dei detenuti con problemi di salute o alle rese con dipendenze, che devono avere un reparto blindato per la loro è l’altrui sicurezza. “Forse non ci si rende conto del profilo criminale di coloro i quali, in mancanza dell’attivazione di un idoneo locale, verrebbero, così come sinora fatto e nostro malgrado, ricoverati nelle corsie delle varie unità”, aggiunge Nardella, “i detenuti provenienti dal carcere di massima sicurezza cittadino sono in molti casi con fine pena lunghissima e finanche pluriergastolani, avendo scritto la storia di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, Sacra corona unita, camorra, mafie estere tra le quali la pericolosissima mafia nigeriana. “La Uil invita l’assessore regionale alla Sanità, Nicoletta Verì, a farsi immediatamente carico della delicatissima situazione e di attivarsi affinché venga subito aperto il reparto di lungo degenza”, conclude Nardella, “ne varrebbe per la sicurezza di tutto il personale di polizia penitenziaria, operatori sanitari e cittadini, oltre che per un ulteriore arricchimento del presidio ospedaliero”. Teramo. Progetto “In seno al carcere” senologia.it, 22 settembre 2019 Fra le numerose iniziative promosse negli anni dalla Scuola Italiana di Senologia volte a far crescere in Italia la cultura della prevenzione quelle rivolte alla popolazione carceraria hanno certamente un significato e un’importanza particolari. Il progetto “In seno al carcere”, iniziato nel 2012 come esperienza pilota presso la casa circondariale di Castrogno a Teramo e successivamente più volte riproposto anche in altre realtà, ci ha infatti permesso di avvicinare e sensibilizzare donne che, per varie ragioni, erano state poco attente alla salvaguardia della salute in generale e di quella del proprio seno in particolare. Gli incontri e i dibattiti aperti sull’importanza della diagnosi precoce e sul ruolo degli stili di vita per ridurre l’incidenza della malattia organizzati in carcere hanno suscitato grande interesse nelle donne che ci hanno espresso la loro voglia di vivere, la loro paura di ammalarsi e soprattutto di non essere curate in modo adeguato, svelando un commovente attaccamento alla loro pur così difficile esistenza e la capacità di proiettarsi verso un futuro migliore. Al termine degli incontri è offerta a tutte la possibilità di eseguire un controllo senologico modulato in funzione dell’età delle donne (visite senologica, mammografia ed ecografia mammaria) cosa che ha visto alternarsi per sottoporsi agli esami le carcerate e le donne del personale di custodia in una sorta di alleanza comune e senza barriere contro il cancro. La Scuola desidera ringraziare tutte le Autorità e le Istituzioni che hanno reso e rendono possibile la realizzazione di “In seno al carcere”. Un ringraziamento particolare va poi a coloro che, per primi, hanno sostenuto il progetto consentendoci di avviarlo per la prima volta a Teramo: Maurizio Brucchi (senologo e allora sindaco della città) e Stefano Liberatore (direttore della casa circondariale di Castrogno). Roma. In via della Lungara apre la farmacia di strada di Rosario Capomasi osservatoreromano.va, 22 settembre 2019 Andare incontro alle esigenze di chi non ha possibilità di curarsi e alleviare anche le sofferenze derivate dalle malattie trascurate: con questi intenti è nata la prima “Farmacia di strada”, inaugurata negli scorsi giorni a Roma, a via della Lungara presso l’ambulatorio del centro di accoglienza gestito dall’associazione Vo.Re.Co onlus, formata dai volontari del carcere di Regina Coeli guidati da padre Vittorio Trani, cappellano, e Angela Iannace, responsabile del centro. Sorta grazie a un protocollo tra aziende e associazioni di categoria, la speciale farmacia è rivolta a tutti coloro che si trovano in uno stato di indigenza come senzatetto (il 70/80 per cento degli utenti), tossicodipendenti, ex detenuti ma anche tante famiglie che faticano ad arrivare a fine mese. Un cammino iniziato già sette anni fa, quando padre Trani si adoperò per l’assistenza medica non solo ai carcerati ma anche a tutti i poveri che vivevano nel centro storico della capitale. Molti si rivolgono al presidio di via della Lungara perché sprovvisti di tessera sanitaria o rifiutati al pronto soccorso, trovando qui non solo un aiuto medico ma anche pasti caldi e sostegno per sentirsi di nuovo persone: la “povertà sanitaria”, come è stata definita, coinvolge circa quattro milioni di italiani che rinunciano alle cure per mancanza di mezzi, secondo i dati Istat. Il programma, avviato lo scorso anno a Roma con il sostegno dell’Elemosineria apostolica e in collaborazione con l’università di Tor Vergata, consistente in una rete di sei ambulatori di strada, prevede la distribuzione di vari farmaci come analgesici, antipiretici, antiipertensivi e gastrointestinali. Da settembre 2018 la Vo.Re.Co ha raccolto e donato ai bisognosi quasi novemila confezioni di medicinali, per un valore di oltre 88 mila euro. “Abbiamo raccolto 7.372 confezioni di farmaci per quasi 67 mila euro - ha spiegato Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico - donati dalle aziende di Assogenerici, più altre 1.566 per 22 mila euro donate da altre aziende che regolarmente collaborano con Banco Farmaceutico: un totale di 32 categorie terapeutiche coperte e 17 aziende donatrici”. Un grande apporto è stato dato dai farmacisti volontari che gestiscono il magazzino di Cinecittà dove sono stati depositati i farmaci raccolti e poi distribuiti secondo le esigenze. Chi si rivolge al centro di via della Lungara sa di essere accolto senza pregiudizi e di poter trovare anche di che sfamarsi oltre a consulenze giuridiche e medicine salvavita: un ragazzo diabetico in cura da qualche tempo presso il centro, ha rivelato padre Trani, grazie all’assistenza medica continua è in grado di condurre una vita più serena. La prima farmacia di strada della storia rappresenta una delle tante pagine scritte dalla sanità solidale romana che da vari decenni, sempre in stretta collaborazione con la Caritas, cerca di alleviare le sofferenze di una povertà sempre più diffusa. E il suo esempio è stato seguito nell’immediato con l’inaugurazione, a Cinecittà, di un progetto pilota per garantire ai bambini senzatetto l’accesso gratis alle docce, sostenuto dall’Elemosineria apostolica, la cui sperimentazione avverrà in un istituto salesiano dotato di un centro per l’infanzia. Trani (Bat). “Puliamo il mondo”: valore aggiunto, detenute e detenuti come volontari radiobombo.com, 22 settembre 2019 Due recluse ieri, a pochi passi da loro luogo di detenzione, quattro uomini ristretti nel carcere di via Andria oggi, domenica 22 settembre, in occasione del secondo e conclusivo appuntamento della manifestazione annuale di Legambiente “Puliamo il mondo”. I volontari del cigno verde di Trani, ormai da anni, possono giovarsi della collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria per farsi affiancare da reclusi che, anche in questo modo, compiano percorsi di reinserimento sociale per il bene proprio e dell’ambiente. Questa edizione 2019 di “Clean up the world”, peraltro non ha interessato soltanto luoghi di mare, ma stamani, a partire dalle 9, vedrà attivisti di Legambiente, detenuti e volontari in genere concentrare le loro attenzioni su Villa Bini, il polmone verde del quartiere stadio troppo spesso scambiato come discarica a cielo aperto da incivili che non riescono a cogliere l’importanza di tutelare un luogo così sensibile nel cuore della città. L’iniziativa si inserisce nell’ambito della attività di collaborazione tra il Comune di Trani e le varie realtà associative operanti nel territorio comunale in materia di tutela ambientale. Grazie alla collaborazione con il circolo locale di Legambiente, l’Assessorato all’ambiente e,l’Amiu, da ieri i volontari sono impegnati in questa operazione di “volontariato partecipato”. Ieri, in particolare, sono scesi in campo sul tratto di litorale tra lungomare Chiarelli e villa Comunale avvalendosi, come detto, anche dell’apporto di due detenute della vicina casa di reclusione femminile di piazza Plebiscito. Oggi, invece, fino alle 13, bonifica di Villa Bini con i rinforzi provenienti dal carcere maschile. “È l’ennesima dimostrazione della vivacità ed operosità delle associazioni che sono radicate nella nostra città - commenta l’assessore all’ambiente, Michele di Gregorio - nonché della proficua collaborazione delle stesse con le istituzioni, ben liete di condividere percorsi di partecipazione attiva finalizzati al miglioramento dell’ambiente cittadino”. Puliamo il mondo nasce dalla sinergia tra Legambiente e istituzioni scolastiche, enti, circoli, amministrazioni e cittadini. È un appuntamento ormai consolidato, dal grande successo sia per il numero di volontari, sia per i risultati. Con sorrisi e muniti di kit per la pulizia, anche quest’anno i volontari stanno dando un segnale forte di civiltà e cittadinanza attiva. È dal 1992 che Puliamo il mondo coinvolge in Italia migliaia di volontari, che si impegnano per il recupero di aree degradate, a partire dalla rimozione dei rifiuti abitualmente abbandonati. Rifiuti sparsi impropriamente che favoriscono il deterioramento ambientale e un notevole danno estetico, mentre provocano pesanti ripercussioni sulla qualità della vita. Trani (Bat). La Corte Costituzionale entra nelle carceri. Marta Cartabia ai Dialoghi di Elisabetta de Palma bonculture.it, 22 settembre 2019 È stato presentato ieri, ai Dialoghi di Trani, il docu-film di Fabio Cavalli “La Corte costituzionale nelle carceri”: ospite d’eccezione Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale, protagonista, insieme ad altri 6 giudici costituzionali, del viaggio nelle carceri italiane raccontato nel film. A parlarne con lei, la giornalista di Repubblica Liana Milella. L’iniziativa della Corte muove dalla volontà comune a tutti i suoi membri di uscire dal Palazzo e di avvicinare i cittadini alle istituzioni, movimento quanto mai necessario per la Corte Costituzionale, confusa di frequente, dice Cartabia, con la Corte di Cassazione, percepita come distante e ignorata nella specificità delle sue funzioni. La scelta - discussa e da alcuni membri della Corte addirittura avversata - di recarsi nelle carceri, nasce dall’affermazione di un principio, che è l’assunto da cui parte la riflessione di Cartabia: la Costituzione è il baluardo a difesa dei deboli, di chi vede costantemente messi a rischio i propri diritti perché manca degli strumenti per rivendicarli. La piena attuazione dell’art.27 è una sfida sociale, oltre che giuridica, poiché lo stigma che accompagna il detenuto dopo l’espiazione della pena è il primo responsabile del difficile e a volte impossibile reinserimento nel tessuto sociale. Il viaggio dei giudici attraversa l’Italia, da San Vittore a Nisida, da Marassi a Lecce, e tocca quasi tutte le possibili ragioni della detenzione, dai reati di mafia alla corruzione, entra nella sezione riservata ai transgender, incontra le madri con i bambini, gli stranieri, i minori. Sono stati volutamente tenuti fuori, chiarisce Cartabia, i detenuti che soffrono di malattie psichiatriche, per il dovuto rispetto alla loro persona. Il filo conduttore delle risposte della giudice alla nient’affatto compiacente intervista di Milella si può così riassumere: le ragioni dell’errore e la gravità del danno che si è procurato sono innumerevoli, ma lo sguardo che si rivolge a chi sta o è stato in carcere spesso è uno solo. Va cambiato lo sguardo, ecco il perché del film, che non può essere raccontato, va visto. Le voci e i volti, i toni, le espressioni, forse incidono più delle parole che si ascoltano e che sono comunque intensissime, toccano punti nodali, interpellano le ragioni profonde della Carta costituzionale. L’immagine finale, i minori di Nisida portati a Roma a visitare loro, stavolta, il Palazzo della Consulta, e che prima di andar via lanciano di spalle l’immancabile monetina nella Fontana di Trevi, racconta la speranza come solo l’arte può fare. Cartabia lo chiarisce subito, non è abolizionista, ritiene che la risposta dello Stato debba essere severa davanti all’errore, ma che errore assolutamente più grave e ingiustificabile sia togliere la speranza, negare la seconda possibilità a chi sbaglia. La giudice non risponde alla conseguente domanda sull’ergastolo, perché è tema di prossima discussione della Corte e pertanto non ritiene corretto esprimere il personale parere in merito. A tutte le altre domande, anche del pubblico, la giudice ha risposto con chiarezza e assoluta onestà, senza nascondere le ragioni profonde del suo pensiero e delle sue azioni, che si radicano nella fede cristiana, riconoscendo i possibili limiti dell’immagine della detenzione che ha affermato ma rivendicandola comunque nel suo fondamento. L’auspicio è che questo film possa girare molto, e con lui i giudici costituzionali, che possano incontrare i ragazzi nelle scuole e gli adulti che li formano, e che per tutti la Costituzione diventi plasticamente presente grazie alla testimonianza viva dell’istituzione che più la garantisce. La Corte costituzionale affronta il nodo della legge sulla fine della vita di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 22 settembre 2019 Il codice penale - che è del 1930 - punisce con la reclusione da cinque a dodici anni chiunque aiuti altri a mettere in atto la decisione di por fine alla propria vita. L’aiuto al suicidio è trattato allo stesso modo della condotta, del tutto differente, di chi istiga o determina altri a suicidarsi. La Corte costituzionale, con un’ordinanza dell’anno scorso, ha già espresso il suo giudizio, indicando che, almeno in talune situazioni, come quella in cui venne a trovarsi Dj Fabo, la tutela della vita trova un limite nella necessità di riconoscere altri valori costituzionali, legati alla dignità della persona e al rispetto della autodeterminazione. La Corte aveva rinviato la sua decisione di un anno per dar modo al Parlamento di legiferare conformemente. Il Parlamento non ha provveduto e la Corte riprenderà l’esame della questione il prossimo 24 settembre. In un recente, importante intervento il cardinale B assetti, presidente della Conferenza episcopale, ha espresso una posizione radicalmente negativa rispetto alla previsione di casi in cui l’aiuto al suicidio sia consentito. Del discorso del cardinale, data la sua qualità e considerato ch’egli ha avuto cura di premettere che parlava “a nome della Chiesa italiana”, interessa cogliere il versante etico religioso. Egli ha sostenuto che “va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente”; il suicidio da parte del malato è “un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare”. Che dire? Che dire se si hanno presenti le tragiche, irreversibili condizioni in cui vengono a trovarsi certe persone, che soffrono, senza speranza, pene insopportabili e non sono in grado di darsi la morte o sono costrette ad uccidersi in modi atroci? È certo che molta parte della società italiana respinge come inaccettabili - direi disumane - simili affermazioni. Questa è però la posizione che legittimamente la Chiesa esprime. La quale Chiesa tuttavia non si limita a enunciare la condotta che deve adottare chi intende seguirne le indicazioni morali. Essa chiede anche che lo Stato punisca chi aiuti altri a dar corso alla decisione di morire (e in fondo anche che consideri illecito il suicidio stesso, secondo quanto avveniva nei secoli passati). Lo Stato viene chiamato a tornare a svolgere il ruolo di braccio secolare, che infligge pene a chi viola i precetti della Chiesa. La distinzione tra il peccato e il reato, però, dovrebbe essere ormai accettata. Per aver separato il reato dal peccato, Beccaria si vide mettere all’Indice dei libri proibiti il suo Dei Delitti e delle pene. Ma si era ne11766. E non tutti in Italia si considerano tenuti a seguire i dettami della Chiesa cattolica. Se l’incostituzionalità dell’attuale punizione dell’aiuto al suicidio, dopo l’ordinanza della Corte costituzionale, deve essere ormai un dato acquisito, la previsione dei casi in cui quell’aiuto deve essere lecito, la costruzione di procedure che assicurino la libertà e consapevolezza della decisione di por fine alla propria vita, la definizione di chi e come possa legittimamente provvedere, sono tra la questioni che richiedono attenta regolamentazione. Soprattutto va approfondita la questione dell’autonoma decisione di morire, finora non abbastanza considerata nel dibattuto e nei diversi progetti di legge. Difficilmente, dati gli strumenti di cui dispone, potrà compiutamente provvedere la Corte costituzionale. Una legge sarà comunque necessaria. Intanto la società civile si è mobilitata. Convegni e studi si sono susseguiti: quello in cui è intervenuto il cardinal B assetti, diversi organizzati dall’Associazione Luca Coscioni e altri organizzati in ambiente universitario. Il gruppo di studio di bioetica dell’Università di Trento ha ora pubblicato uno studio interdisciplinare sull’aiuto medico a morire, frutto del lavoro di giuristi e medici (sul sito della rivista Biodiritto). Il tema è di straordinaria complessità. Facile, troppo facile rifiutare di affrontarlo, adducendo radicali ragioni morali. Alle istituzioni dello Stato spetta l’onere di offrire possibilità ai cittadini: possibilità, non obblighi, naturalmente. Con attenzione e rispetto per chi viene a trovarsi nelle condizioni di decidere di cessare di vivere. Clima. “La vita di 200 milioni di persone sarà a rischio per il riscaldamento globale” di Federico Marconi L’Espresso, 22 settembre 2019 L’allarme nel report della Croce Rossa sui cambiamenti climatici: “Gli aiuti umanitari costeranno 20 miliardi l’anno”. Centocinquanta milioni. Tante sono le persone che nel 2030 avranno bisogno di aiuti umanitari internazionali per i disastri naturali dovuti al riscaldamento globale e all’impatto che avrà su società ed economia. Un aumento impressionante di 50 milioni nei prossimi 10 anni. E se inondazioni, tempeste, siccità e incendi non dovessero diminuire, la cifra toccherà i 200 milioni nel 2050. Una situazione drammatica che già oggi richiede un’imponente sforzo economico: gli aiuti alle popolazioni dovuti ai disastri naturali sono stimati tra i 3,5 e i 12 miliardi di dollari all’anno, in una situazione già oggi critica per l’aumento delle emergenze e la carenza nel trovare fondi. Una cifra destinata a lievitare, nello scenario più pessimistico, fino a 20 miliardi se non si invertirà la tendenza. È una panoramica scioccante quella fornita da “Il costo di non fare nulla”, l’ultimo report della Croce Rossa Internazionale presentato questa mattina al Palazzo di vetro, sede delle Nazioni Unite a New York. Un’analisi che si fonda anche su dati di Onu, Banca mondiale, ed Em-Dat, il database internazionale sui disastri. Un allarme quello della Croce Rossa che arriva dopo una delle estati più calde di sempre, con le colonnine di mercurio che in molti paesi del mondo ha toccato livelli mai registrati prima. Solo in Francia, che quest’anno è stata attraversata da una delle ondate di calore più forti di sempre, tra luglio e agosto sono morte 1435 persone per via del caldo. Dal 1850 le temperature medie sono aumentate di più di un grado per via dell’impronta dell’uomo sull’ambiente, e si stima che alla fine del secolo possa arrivare a più 4 gradi. L’effetto più evidente è lo scioglimento dei ghiacciai: dal 1981 il Polo Nord ha perso il 10 per cento della sua superficie, portando all’innalzamento di oceani e mari. Ma non solo: il riscaldamento del pianeta provoca eventi atmosferici estremi, come gli uragani che stanno diventando sempre più numerosi e frequenti. Come “Dorian”, che con i suoi venti a quasi 150 chilometri orari ha devastato le Bahamas a inizio settembre, facendo decine di morti e oltre 5mila dispersi. “Questo report mostra in modo chiaro e spaventoso quanto costa non fare nulla”, commenta Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Internazionale. “Ma ci dice anche che abbiamo ancora tempo di agire: è arrivato il momento di prendere provvedimenti urgenti. Il mondo non può accettare un futuro in cui ci sarà sempre più sofferenza e in cui i costi delle risposte umanitarie aumenteranno esponenzialmente”. Per questo nel report vengono evidenziate tre priorità. La prima è investire nella riduzione del rischio, attraverso la costruzione di edifici più forti e infrastrutture più resilienti. Questi investimenti, da soli, non permetterebbero di evitare tutti i disastri: così si sottolinea l’importanza di “migliorare i sistemi di avvertimento e rafforzare le risposte alle emergenze”. Infine c’è il consiglio di ricostruire e riparare i danni pensando alla prossima emergenza: “Se tutti i paesi considerassero nei loro piani economici la protezione della popolazione a rischio e migliorassero l’inclusione finanziaria - è scritto - il costo dei disastri naturali diminuirebbe di 100 miliardi all’anno”. Il report è presentato a una settimana dal Summit dell’Onu sul clima del 23 settembre: un incontro tra capi di Stato e di governo, Ong e imprenditori, a cui quest’anno parteciperà anche Greta Thunberg, la sedicenne attivista svedese che si sta impegnando per sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto i più giovani. “Speriamo che questo nostro lavoro dia impulso a maggiori investimenti in uno sviluppo inclusivo e sostenibile, che riduca le emissioni nell’atmosfera”, ci dice Julie Arrighi, consigliere della Croce Rossa Internazionale che ha collaborato allo studio. “Ma desideriamo soprattutto che si rinnovi lo sforzo ad adattarsi ai rischi sempre maggiori dovuti riscaldamento globale”. Un’emergenza che non permette più di voltarsi dall’altra parte. Clima. Greta, un anno e un mese di proteste: dalla Svezia alle piazze di tutto il mondo di Martina Pennisi Corriere della Sera, 22 settembre 2019 Lo scorso agosto la giovane attivista svedese ha iniziato a protestare contro l’inerzia dei governi di fronte al cambiamento climatico. Ieri, 20 settembre 2019, le manifestazioni di milioni di ragazzini nelle piazze di 165 Paesi. Era il 20 agosto di un anno fa, un lunedì. Una ragazzina sconosciuta si mise a sedere davanti al Parlamento svedese a Stoccolma per protestare contro l’inerzia del governo di fronte al cambiamento climatico. Riga in mezzo, lunghe trecce, sguardo incerto (altro che incerto, scopriremo poi) e spalle ricurve (altro che ricurve, scopriremo poi). Greta Thunberg, uno scricciolo di 15 anni che aveva deciso di non andare a scuola fino alle elezioni del 9 settembre al grido di - come c’era scritto sul suo cartello - “Skolstrejk för klimatet”. “Sciopero scolastico per il clima”. Altro che scricciolo, appunto: un anno e un mese dopo quella ragazzina incapace di imporre alla sua mente di disinteressarsi della catastrofe climatica in atto si è trasformata in un movimento di milioni di coetanei festosi e determinati. Ieri, venerdì 20 settembre 2019, gli under 18 di più di 3.200 città di 165 Paesi di tutto il mondo si sono riversati in piazza per ribadire il loro diritto ad avere un futuro. E non è finita qui: la settimana di proteste di Friday for future - così si chiama il movimento, perché Greta si presentava davanti al Parlamento ogni venerdì - in occasione dell’incontro sul clima di New York del 23 settembre andrà avanti fino al 27, giorno in cui anche parteciperà anche l’Italia. Oggi, all’Youth Climate Summit, l’attivista svedese ha ribadito il grido della sua generazione: “Noi giovani siamo uniti e siamo inarrestabili”. Una giornalista newyorkese, Natalie Wolchover, ha rappresentato su Twitter in uno dei modi più efficaci possibile - con un’immagine - quanto sia cambiato in un solo anno di proteste, discorsi da Davos (“Alcuni dicono che non stiamo facendo abbastanza per combattere i cambiamenti climatici ma questo non è vero, perché per non fare abbastanza, si deve fare qualcosa e la verità è che non stiamo facendo niente”) a Strasburgo (“Quello che posso dire ai giovani è: continuate a lottare, perché state facendo un grande lavoro”), viaggi (senza prendere l’aereo, con tanti treni e pure attraversando l’Atlantico in barca a vela) e prese di posizione dell’adolescente. Due foto, una al fianco dell’altra: Greta nell’agosto del 2018, quando nessuno sapeva come si chiamasse e aveva idea di come avrebbe inciso sul dibattito pubblico, e una delle potenti piazze di ieri, il 20 settembre di un anno dopo, quando Greta Thunberg, 16 anni, è la favorita per il Nobel per la Pace. Clima. Greta, perché l’Italia ieri non c’era di Riccardo Luna La Repubblica, 22 settembre 2019 Perché l’Italia non c’era? Perché mentre le piazze del mondo ieri si riempivano di migliaia di giovani che marciavano per il clima, da noi no? Perché c’erano manifestazioni ovunque dall’Australia al Sud America, da Berlino a New York, e in decine di villaggi africani, da noi nulla? I numeri finali sono questi: seimila eventi in tremiladuecento città in 165 paesi di tutti i continenti. L’Italia, non pervenuta. Mi sono fatto questa domanda per qualche ora mentre seguivo le cronache di questo venerdì 20 settembre sul profilo Twitter e Instagram di Greta Thunberg, la 16 enne svedese che ha iniziato tutto questo un anno fa. Cercavo una piazza italiana qualunque, un cartello, un segno di vita e ci ho messo un po’ prima di capire che era colpa mia. Era il giorno sbagliato. Da noi ci mobiliteremo venerdì prossimo, mi hanno spiegato alcuni degli organizzatori, del resto questa era una “settimana di mobilitazione per il clima” e l’Italia ha scelto di muoversi l’ultimo giorno, il 27 settembre. Perché? Non l’ho ben capito. Alcuni mi hanno detto che è perché le scuole da noi hanno iniziato tardi, il 16 settembre, ed è stato ritenuto che non ci fossero i tempi per organizzarsi. Del resto siamo il paese che arriva sempre in ritardo e che ha inventato il decreto mille proroghe per prolungare gli effetti dei decreti che non facciamo in tempo a convertire in legge: è come se avessimo chiesto una proroga anche per protestare. Altri mi hanno fatto presente che ci sono alcuni altri paesi che hanno fatto la stessa scelta, come Argentina, Cile, Canada, Danimarca, Olanda, Portogallo e Israele. Bene, allora ringrazio pubblicamente gli organizzatori, ringrazio chi si sta mobilitando perché l’Italia dia un segnale forte, come già accadde in occasione del primo sciopero del clima, il 15 marzo scorso. L’ho detto altre volte e lo ribadisco: trovo formidabile che una ragazza di 16 anni sia riuscita a scuotere le coscienze dei suoi coetanei e liberare il tema del cambiamento climatico dagli sbadigli dei convegni per porlo in cima all’agenda politica globale. Trovo formidabile e azzeccatissimo lo slogan: uniamoci dietro la scienza. In un mondo in cui sembra che chiunque possa dire tutto, dove le competenze non contano nulla, e gli stregoni invece magari sì, rimettere la scienza al centro è un atto rivoluzionario. E serve anche a smontare gli sbuffi di quelli che dicono che dare retta a Greta Thunberg vuol dire tornare indietro di due secoli, a illuminarci con le candele e scaldarci con i legnetti. Questa è più di una fake news: oggi proprio grazie al progresso scientifico e tecnologico è possibile mantenere la nostra qualità della vita cambiando stile, cambiando il modo in cui le cose vengono prodotte, consumate e smaltite. L’economia circolare di cui tanto si parla non vuol dire tornare ad un mondo di rigattieri, ma produrre beni in modo che non ci siano scarti. È una rivoluzione possibile e doverosa. E l’Italia ha l’occasione di farla davvero. Sono passati inosservati due incontri che il nuovo ministro dell’Istruzione Fioramonti ha condiviso nei giorni scorsi su Twitter: il primo con Jeffrey Sachs, il secondo con Gunther Pauli. Due economisti che figurano fra i massimi esponenti globali di questo nuovo modello di sviluppo. Erano a al Ministero, a viale Trastevere, segno che hanno chi dà loro ascolto e credito. Il ministro ha anche scritto una lettera a tutte le scuole per appoggiare le iniziative che verranno prese sul cambiamento climatico. Non è banale quello che sta accadendo, e non è una cosa che riguarda solo gli studenti. Fra i tanti bellissimi cartelli che ho visto nelle piazze del mondo ieri, uno in particolare mi ha colpito. Quello di una ragazza che diceva: Quando la situazione sarà irreversibile (nel 2030) io avrò 24 anni. Ho pensato ai miei figli: nel 2030 avranno 25 e 20 anni. Vorrei contribuire a lasciare un mondo migliore. Venerdì 27 settembre marcio anche io. Migranti. Strage dei bambini, a processo gli ufficiali della Marina e della Guardia costiera di Fabrizio Gatti L’Espresso, 22 settembre 2019 I responsabili delle sale operative di Roma rinviati a giudizio per rifiuto d’atti d’ufficio e omicidio colposo. Nel naufragio del peschereccio preso a mitragliate da una motovedetta libica morirono 268 profughi siriani, tra cui sessanta minori. Chiesta l’archiviazione della comandante Catia Pellegrino, ma i sopravvissuti si oppongono. Un processo stabilirà finalmente perché la Marina militare e la Guardia costiera l’11 ottobre 2013 non salvarono sessanta bambini e i loro genitori: nel naufragio a 61 miglia nautiche a sud di Lampedusa annegarono in tutto 268 profughi siriani dei 480 ammassati su un peschereccio, preso a mitragliate la sera prima da una motovedetta libica. Luca Licciardi, 49 anni, quel giorno responsabile della sala operativa del Comando in capo della Squadra navale della Marina (Cincnav), e Leopoldo Manna, 58 anni, allora capo della centrale operativa della Guardia costiera (Mrcc Roma), avranno così l’opportunità di spiegare al giudice perché quel pomeriggio, invece di ordinare l’immediato intervento al pattugliatore Libra che con l’elicottero a bordo era ad appena 17 miglia (un’ora di navigazione), attesero per oltre cinque ore l’arrivo di una nave militare di Malta, isola che si trova a 118 miglia a nord-est (218 chilometri, circa sei ore di navigazione). La Marina ordinò addirittura alla comandante della Libra, Catia Pellegrino, di allontanarsi dal punto in cui il barcone stava affondando. Il giudice dell’udienza preliminare di Roma, Bernadette Nicotra, questa mattina ha rinviato a giudizio il capitano di fregata Licciardi e il capitano di vascello Manna. Il sostituto procuratore Sergio Colaiocco contesta loro i reati di rifiuto d’atti d’ufficio e omicidio colposo. La prima udienza si terrà il 3 dicembre. Agli atti del processo sono stati depositati anche la lunga inchiesta de “L’Espresso” sul naufragio dei bambini e il documentario “Un unico destino”, prodotto da Espresso e Repubblica. Poche settimane dopo il disastro, Manna diventerà uno degli eroi a capo dei soccorsi dell’operazione “Mare nostrum”, decisa dal governo italiano a fine ottobre 2013. Il giorno del naufragio però le disposizioni sono diverse. E a Mohanad Jammo, medico anestesista di Aleppo in fuga con la famiglia, che con un telefono satellitare supplica l’intervento immediato dei soccorsi da Lampedusa, il comandante della centrale della Guardia costiera chiede di chiamare Malta: perché è più vicina, anche se non è vero. Il dottor Jammo ha fatto tutto quello che doveva fare: si è presentato come medico, ha detto che c’erano bambini feriti a bordo, che il motore era fuori uso e nello scafo c’era già mezzo metro d’acqua. Jammo non sa che la Libra è appena oltre l’orizzonte. Ma a bordo hanno vari strumenti Gps, così tutti si accorgono che la Guardia costiera italiana sta mentendo: Lampedusa è a 61 miglia nautiche, 112 chilometri, la distanza da Malta quasi il doppio. I militari italiani in quel momento vogliono evidentemente far valere la posizione del peschereccio: alla deriva nella zona che, secondo un’interpretazione errata degli accordi internazionali, è di competenza maltese. Una decisione che i due ufficiali probabilmente non prendono da soli, ma dopo l’ordine illegale di un’autorità superiore mai identificata. La prima telefonata di Mohanad Jammo è delle 12,26. La seconda con tutti i dettagli su posizione, feriti, acqua a bordo, delle 12.39. Sono giorni dello scaricabarile tra Italia e Malta, proprio come oggi. Nel pomeriggio Licciardi ordina, testualmente, che la Libra “non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette” maltesi. Un aereo ricognitore di Malta, però, fotografa la nave comandata da Catia Pellegrino mentre si allontana. Marina militare e Guardia costiera rifiutano di inviare la Libra anche dopo i fax e le chiamate della centrale operativa della Valletta che chiede più volte all’autorità italiana di poter impiegare il pattugliatore, perché è il più vicino ed è l’unico che possa intervenire rapidamente. Alle 17.07 il peschereccio si rovescia. Alle 17.51, cinque ore e mezzo dopo la prima richiesta di soccorso, arriva sul punto del naufragio la motovedetta P61 maltese. La comandante della Libra invia nel frattempo il suo elicottero per lanciare in acqua zattere gonfiabili e giubbotti di salvataggio. Ma la nave sarà operativa soltanto dopo le 18, mentre molti naufraghi, con i loro bambini, continuano ad affogare nel mare quasi calmo. La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta su Catia Pellegrino perché non sarebbe stata informata dai suoi superiori delle reali condizioni di pericolo. Gli avvocati dei genitori sopravvissuti, Alessandra Ballerini e Arturo Salerni, si sono opposti. Per l’ufficiale più famosa d’Italia il caso resta aperto. Migranti. La tratta delle ragazze dalla Nigeria all’Italia via Libia: “Preghi di morire” di Fabrizio Floris Il Manifesto, 22 settembre 2019 Da Benin City all’inferno e ritorno. Storie di abusi infiniti nell’ultimo rapporto di Human Rights Watch. Blessing come molte altre ragazze nigeriane ha accettato l’allettante proposta di lavoro in Libia come collaboratrice domestica per un salario di 150.000 naira (circa 400 euro, tre volte lo stipendio medio nel suo paese). Una volta in Libia la “signora” le ha svelato che tipo di lavoro avrebbe dovuto fare, akwuna (la prostituta) così lei le ha detto “ma non è un lavoro domestico”. La “signora” le ha risposto “sì che lo è”. Blessing è stata minacciata di morte e chiusa in una stanza per quattro giorni senza cibo. “Uscirai quando restituirai il tuo debito per il viaggio (4 mila euro)”. È iniziata così la discesa nei sotterranei dello sfruttamento sessuale, si è liberata ed è scappata con un ragazzo che è stato ucciso dai miliziani dell’Isis, lei invece è sopravvissuta solo perché in stato di gravidanza, ma è stata tenuta segregata e violentata per tre anni finché i soldati libici l’hanno consegnata all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) che l’ha aiutata a rientrare in Nigeria. Adesso si trova in un rifugio gestito dall’agenzia nigeriana anti-tratta. Quella di Blessing è una delle 76 storie descritte nell’ultimo report di Human Rights Watch, il cui titolo You pray for death (Preghi di morire) è tratto dal racconto di una delle ragazze intervistate. La maggior parte delle vittime di tratta nigeriane (più di 9 su 10) proviene, secondo l’ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodoc), dallo stato di Edo. Il numero di “potenziali” vittime della tratta nigeriana in Italia è cresciuto drammaticamente negli ultimi anni. Secondo Oim nel 2017 l’aumento è stato del 600% e si stima che riguardi l’80% delle ragazze che arrivano dalla Nigeria (in questi ultimi mesi il flusso risulta molto ridimensionato, segno che i trafficanti sono alla ricerca di nuove rotte). Il viaggio negli ultimi anni ha seguito la rotta libica e poi via mare nel Mediterraneo con lo scopo preciso di inserire le ragazze nei progetti di assistenza per richiedenti asilo in modo da farle avere un documento regolare. Chi arriva in Italia mantiene il segreto con la famiglia, manda fotografie che la ritraggono come barista, sarta, parrucchiera… alcune negli anni diventano madam i cui guadagni danno un impulso notevole alla ricchezza di Benin City, dove hanno costruito case, negozi… Potremmo dire che lo sviluppo della città è lastricato dai corpi delle donne che hanno battuto le strade italiane. Forse più drammatica è la situazione delle ragazze che ritornano in Nigeria dove oltre alla tratta devono affrontare la povertà e lo stigma (“le ragazze che tornano dall’Europa stanno costruendo case per le loro famiglie e tu sei tornata senza niente …”) e i progetti di reinserimento risultano ancora poco adeguati. La situazione è fluida: l’attività delle ong, dell’agenzia nazionale nigeriana contro la tratta e i media hanno accresciuto la conoscenza del fenomeno, tant’è che le ragazze che partono ora sanno il lavoro che andranno a fare, ma restano inconsapevoli dello sfruttamento e del debito da pagare. Le madam sono convinte di essere un aiuto per le ragazze e infatti amano definirsi sponsor: una delle reclutatrici ha dichiarato alla Reuters che “le ragazze che vogliono venire in Italia sono talmente tante che non è più necessario ingannarle per convincerle a partire”. La novità degli ultimi mesi sarebbe, secondo Don Carmine Schiavone delle Caritas di Aversa, la tratta secondaria: “Le ragazze una volta in Italia se non riescono a restituire il debito lo azzerano con la cessione di un rene, cornee o altri organi”. Migranti. Condanna dell’Ue per l’uccisione in Libia di un sudanese appena rimpatriato L’Osservatore Romano, 22 settembre 2019 Il giovane era stato catturato dalla Guardia costiera di Tripoli. Tra le tante storie drammatiche che accompagnano la questione delle migrazioni spicca oggi quella di un migrante sudanese che è stato freddato a colpi d’arma da fuoco dalle guardie del centro di detenzione in Libia da dove stava cercando di scappare: lo stavano rinchiudendo nel centro dopo che l’imbarcazione sulla quale aveva tentato la traversata verso l’Europa era stata intercettata e dirottata dalla Guardia costiera libica. È indignata la reazione dell’Ue e dell’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim). L’Unione europea ha espresso “ferma condanna” per quanto accaduto, sottolineando che è “inaccettabile che vengano sparati colpi di arma di fuoco contro civili disarmati”. Giovedì, secondo la ricostruzione dell’Oim, nel punto di sbarco erano appena arrivati 103 migranti, tra i quasi 300 che la Guardia costiera libica aveva riportato a terra in cinque giorni. I migranti hanno opposto resistenza al trasferimento nei Centri di detenzione. Un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco dopo un tentativo di fuga, colpendo il cittadino sudanese. Raggiunto allo stomaco, non ce l’ha fatta a sopravvivere nonostante l’intervento dei medici dell’Organizzazione per le migrazioni (Oim). “L’uso di armi da fuoco contro civili inermi è inaccettabile in ogni circostanza”, ha detto il portavoce dell’Oim, Leonard Doyle. Per l’agenzia Onu, la morte del migrante sudanese è un “severo promemoria delle gravi condizioni in cui si trovano i migranti raccolti dalla Guardia costiera libica dopo aver pagato trafficanti per essere portati in Europa, solo per poi ritrovarsi nei centri di detenzione”. Commissione Ue e Onu chiedono alle autorità libiche di condurre una “inchiesta approfondita” e di “fare in modo che simili incidenti non si verifichino più”. La portavoce Ue ha sottolineato che in Libia “la situazione non è cambiata recentemente” e l’Ue continua a lavorare per “la chiusura dei centri e per mettere in piedi strutture che siano in linea con gli standard internazionali”. Secondo le stime delle organizzazioni internazionali sarebbero ancora migliaia le persone migranti detenute nei centri libici. Medio Oriente. Le Guerre del Golfo, tra export bellico e petrolio di Alberto Negri Il Manifesto, 22 settembre 2019 Trump non può lamentarsi troppo dei suoi alleati visto che appena diventato presidente, ha firmato forniture di armi per 100 miliardi di dollari con Riad. La puzza di bruciato del petrolio saudita è arrivata a ogni piano dell’establishment americano, dalla Casa bianca, al Congresso, ai media. La questione non è soltanto cosa fare con l’Iran ma anche con l’Arabia Saudita e un apparato bellico e geopolitico che ha subito un’autentica e costosa beffa nel cuore del barile. “Non siamo i mercenari dei sauditi”, scrive il New York Times, mentre si soppesano le opzioni di risposta ricordando una famosa frase di Trump del 2014 durante la presidenza Obama: “L’Arabia Saudita dovrebbe fare da sola le sue guerre o pagarci un’enorme fortuna per proteggerla”. Ma Trump oggi non può lamentarsi troppo dei suoi alleati del Golfo visto che appena diventato presidente, prima di stracciare l’accordo del 2015 sul nucleare con l’Iran e imporre sanzioni a Teheran - la vera causa della crisi attuale - ha firmato forniture di armi per 100 miliardi di dollari con Riad, grande cliente anche dei francesi, che infatti sono subito accorsi al capezzale dei Saud. La figuraccia in questa vicenda non la fanno soltanto i sauditi, incapaci di proteggere le loro istallazioni, ma anche americani e europei che hanno riempito di armi - forse inutili - una monarchia che in Yemen, pur massacrando i civili a tutto spiano, sta perdendo la guerra contro i ribelli Houthi filo-iraniani. Al punto che persino gli Emirati Arabi si stanno sganciando e preferirebbero arrivare a una divisione del Paese e a un accordo con gli iraniani. Questa volta costituire una “coalizione di volenterosi” per fare la guerra agli ayatollah è complicato: lo ha intuito anche Mike Pompeo. La figuraccia è ancora più barbina (e sospetta) se si pensa alle basi americane in Qatar, in Iraq, alla flotta statunitense nel Bahrein, agli aerei, ai satelliti: insomma l’audace colpo dei soliti noti o ignoti ha beffato gli Usa e un nugolo di potenze dotate di tecnologie miliardarie. Suonano così assai ironiche le parole di Putin che consiglia ai sauditi di acquistare il suo sistema anti-missilistico “che - sottolinea - abbiamo già venduto a turchi e iraniani”. E aggiungiamo: che è schierato pure in Siria nella basi della Russia, alleata dell’Iran nel sostegno ad Assad. Un uomo dalla memoria corta il presidente americano. Forse è all’oscuro che i sauditi hanno già pagato alcune guerre condotte dagli americani e dai loro proxy per conto delle monarchie del Golfo. Gli emiri versarono in otto anni di conflitto contro l’Iran circa 50 miliardi di dollari a Saddam, che, strangolato dai debiti, finì per invadere nel ‘90 il Kuwait. Ma soprattutto i sauditi hanno pagato i conti per la liberazione dell’Emirato degli Al Sabah costata 60 miliardi di dollari: Riad versò 16 miliardi agli Usa, il Kuwait la stessa cifra e la Germania 6,4, persino più del Giappone. La questione è che vengono al pettine i nodi strategici di 70 anni fino all’attuale destabilizzazione innescata dagli americani e dai loro alleati. Prima ancora della fine della seconda guerra, appena dopo il patto di Yalta con Stalin e Churchill, il 14 febbraio 1945, Roosevelt e il sovrano Ibn Saud, stringono un accordo fondamentale per il Medio Oriente: petrolio in cambio della protezione americana del regno. La politica mediorientale americana comincia così, a bordo dell’incrociatore Quincy ormeggiato nel canale di Suez. Israele non è ancora nato e Roosevelt si impegna con il sovrano saudita a non favorire l’emigrazione ebraica in Palestina. L’altro pilastro americano nella regione, oltre alla Turchia che entrerà nella Nato nel ‘53, era l’Iran dello Shah: è qui che avviene il primo episodio della guerra fredda quando gli americani esigono il ritiro dei sovietici dall’Azerbaijan iraniano dove era nata una repubblica comunista. La strategia Usa di contenimento dell’Unione sovietica sul fronte Sud poggiava su Turchia, Iran e Arabia Saudita, con la prima a sorvegliare gli stretti sul Mar Nero, la seconda a presidiare le frontiere a Sud dell’Urss e la terza a garantire i rifornimenti petroliferi in dollari. Quello tra Stati uniti e Arabia saudita è stato, finora, uno dei più redditizi rapporti di alleanza degli americani che sfruttarono le risorse saudite per armare contro l’Urss mujaheddin e jihadisti in Afghanistan. Così solido che quando, con la guerra araba dello Yom Kippur del 1973 a Israele, fu decretato l’embargo petrolifero, con un aumento del 400% dei prezzi del greggio, gli americani continuarono segretamente a rifornirsi dalla saudita Aramco. Del resto l’Aramco l’avevano fondata loro, così come Washington aveva insediato la Banca centrale saudita con il compito di comprare i Bond Usa prima ancora dell’apertura dell’asta pubblica. Cosa che avviene ancora adesso. Dopo abbiamo scoperto che quella guerra servì agli Usa di Nixon e Kissinger a provocare un aumento vertiginoso del petrolio per rafforzare il dollaro che tendeva a svalutarsi in seguito allo sganciamento dall’oro deciso nell’agosto 1971 con il ripudio degli accordi di Bretton Woods. Era questo, allora, l’audace colpo dei soliti noti che governano le fortune del mondo. Se questa volta ci sarà o meno una guerra all’Iran dipenderà anche dai conti in tasca che si faranno i protagonisti. Ecco perché dai piani alti scende puzza di bruciato. Egitto. Proteste dal Cairo a Mansoura per chiedere le dimissioni di Al Sisi di Laura Cappon Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2019 Le manifestazioni in numerose città sono ancora ridotte, ma fino a venerdì erano impensabili in un Paese dove ci sono 60mila detenuti politici, sparizioni forzate, migliaia di condannati a morte e torture nelle carceri. L’attivista Hossam el-Hamalawy: “Un sasso che cade sull’acqua stagnante”. A far crescere il dissenso le disastrose condizioni economiche e l’hashtag lanciato dall’imprenditore e attore Mohamed Ali: basta al Sisi. Proteste piccole e diffuse in numerose città egiziane con un unico scopo: chiedere le dimissioni del presidente Abdel Fattah Al Sisi. Piccoli numeri che però suscitano stupore perché in Egitto anche un ridotto assembramento di manifestanti contro l’attuale presidente sarebbe stato impensabile sino a venerdì, quando dal Cairo a Mansoura, centinaia di persone si sono radunate per chiedere le sue dimissioni. “È stato impressionante vedere centinaia di persone che ieri hanno urlato il loro dissenso contro Al Sisi e strappato i suoi poster”, dice Hossam el-Hamalawy, attivista dei Socialisti Rivoluzionari egiziani che ora, come molti dissidenti, ha lasciato il paese e vive a Berlino. “È troppo presto per dire se questo sia l’inizio di una rivolta e credo ci sia ancora molta strada da fare. Ma quello che è successo può essere paragonato a un sasso che cade sull’acqua stagnante e non dobbiamo avere delle aspettative troppo alte”. La dura repressione che il nuovo regime militare perpetra dal 2013, quando Al Sisi ha preso il potere con un colpo di stato, ha reso impossibile in questi anni qualsiasi tipo di dissenso: 60mila detenuti politici, sparizioni forzate all’ordine del giorno, migliaia di condannati a morte e torture nelle carceri sempre più violente tanto da aver portato i detenuti a protestare con degli scioperi della fame a oltranza. La maggior parte degli oppositori politici è in esilio o reclusa in condizioni durissime, come ha dimostrato la morte plateale dell’ex presidente islamista Mohammed Morsi, colpito da un malore in tribunale dopo anni di cure negate durante la sua detenzione. Le restrizioni alla libertà personale sono dunque ben peggiori di quelle del 2011, l’anno in cui gli egiziani scesero in piazza durante la rivoluzione che destituì Hosni Mubarak. Per questo la protesta, anche se ancora esigua, fa notizia. È nato tutto da un hashtag sui social, anche questo ampliamento controllato con leggi draconiane dal regime, che da poco più di una settimana circolava in rete. Diceva #kifayaSisi, basta Sisi, ne abbiamo abbastanza. A lanciarlo è stato Mohamed Ali, imprenditore e attore. A inizio settembre Ali ha iniziato a pubblicare su Facebook dalla Spagna - paese in cui Ali ha deciso di fuggire in una sorta di auto-esilio - una serie di video in cui denunciava la corruzione di Al Sisi e del regime militare da cui proviene. Nel suo ultimo post, Ali ha invitato gli egiziani a scendere in piazza mentre in altri post precedenti ha chiesto al ministro della difesa Mohammed Zaki di arrestare Al Sisi e di appoggiare la protesta. La voce di Ali è suonata autorevole perché l’imprenditore con la sua impresa ha collaborato a diversi progetti portati avanti dalle aziende dell’esercito. L’economia egiziana è, infatti, ampiamente controllata da società in mano al circolo del Consiglio Militare Supremo. Diverse stime quantificano che tra il 20 e il 50% delle attività sia riconducibile ai militari, ma negli ultimi anni il loro potere su questo fronte è cresciuto ancora di più, arrivando a toccare quasi tutti i settori strategici: dalla costruzione di grandi opere alle infrastrutture per le ricche risorse di gas e petrolifere del paese. I nomi di diverse compagnie sono noti ma resta invece il completo riserbo sul reale giro d’affari in mano al Consiglio Militare. Le faraoniche opere di Al Sisi, come la costruzione della nuova capitale amministrativa, progetto da 58 miliardi di dollari iniziato nel 2015, sono uno strumento di propaganda che però al momento non è in grado di sanare le disastrose condizioni economiche del paese. Per rispettare i piani di rientro del prestito di 12 miliardi di dollari concesso dal Fondo monetario internazionale, l’Egitto ha dovuto ridurre da tempo i sussidi sui servizi e i generi di prima necessità e svalutare la sterlina, la moneta ufficiale. Il risultato è stato un innalzamento del costo della vita in un paese dove più di un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Le condizioni in cui versano i cittadini egiziani, dunque, sono ancora più pesanti di quelle che provocarono la rivolta del 2011. “Ogni rivoluzione contro il regime, ogni cambiamento politico, sarà sempre il risultato un accumulo di rabbia sociale o di dissenso”, spiega el-Hamalawy. “Le proteste di ieri rappresentano indubbiamente un punto di rottura ma c’è bisogno di altro. Tutte le organizzazioni politiche, i movimenti giovanili e i sindacati indipendenti sono stati distrutti e per ripristinare questo tessuto di opposizione ci vorrà tempo. Proprio dalle caratteristiche e dai tempi di questa ricostruzione, del resto, dipenderà il successo delle nuove proteste”. Intanto, le autorità hanno reagito disperdendo alcuni assembramenti con i gas lacrimogeni e arrestando centinaia di attivisti. Secondo l’Egyptian Center for Economic and Social Rights le persone arrestate in tutto il paese sono 166. Il presidente Al Sisi, secondo quanto riportato dal portale di informazione Mada Masr, starebbe pensando di modificare il calendario del suo viaggio a New York dove è atteso per la 74esima Assemblea generale dell’Onu. Egitto. Muhammad Ali svela i segreti del regime e risveglia la piazza di Francesco Battistini Corriere della Sera, 22 settembre 2019 Palazzinaro riparato in Spagna, lancia appelli contro Al Sisi: rispondono in migliaia. La replica del presidente egiziano: “Sono onesto, leale e affidabile”. A las siete de la tarde. Dal suo esilio di Barcellona dove ha già cominciato a studiare spagnolo, dalla Catalogna dove s’è nascosto un mese fa coi figli “perché Al Sisi tenterà d’uccidermi”, l’imprenditore ribelle l’aveva detto in arabo: egiziani, popol mio, ““alle sette della sera di venerdì 20, uscite per un’ora dalle vostre case! E poi postate la vostra foto di questa manifestazione pacifica! E dimostrate al mondo quanti sono gli oppositori di Al Sisi!”. Gli hanno obbedito. Anche di più. In poche ore, il video ha avuto un milione e mezzo di condivisioni sul web. L’hashtag #EnoughSisi, Al Sisi ne abbiamo abbastanza, è diventato il numero uno dei trending topic sul Twitter egiziano. E venerdì, guardato in tv il derby di Supercoppa egiziana Ahli-Zamalek, l’appello ha portato migliaia di persone nelle strade del Cairo, d’Alessandria, di Suez. Con la piazza Tahrir della rivoluzione 2011 tornata a echeggiare lo slogan “il popolo vuole la fine del regime!”. Con la polizia intervenuta a suon di lacrimogeni e arresti (più di 150). Col feldmaresciallo Al Sisi, in trasferta newyorkese per l’assemblea dell’Onu, impallidito di fronte a una simile contestazione pubblica. La prima, in sei anni di potere occhiuto e assoluto. Che botte. Al Sisi è fermo sulle gambe e a menarlo, da un mese, è un elegante imprenditore dal nome fatale di Mohamed Ali. Non un peso massimo della vita pubblica cairota: solo un palazzinaro che ha sempre amato i maglioni dolcevita bianchi e la bella vita all’ombra del potere. Proprietario dell’Amlaak Group, uno dei dieci grandi contractor del governo, mister Ali s’è di colpo trovato in mezzo a una faida tra militari. Tagliato fuori dalle grandi speculazioni del regime, se n’è andato in Spagna. E dall’account @MohamedSecrets ha iniziato a vendicarsi con una serie di video-rivelazioni, raccontando le ruberie di Al Sisi, della first lady Intissar e di vari generali dell’esercito “sulla pelle di 30 milioni d’egiziani che dormono in mezzo alla strada”, un regime che s’arricchisce sulla costruzione d’un mega-albergo a sette stelle e sul fastoso, nuovo palazzo presidenziale. “Aprite gli occhi, non mi sto inventando nulla! Al Sisi costruisce per soddisfare il suo ego. Non ci sono studi di fattibilità, non c’è bisogno di quelle opere. Basta! Bisogna ribellarsi!”. Più che l’accusa - da sei anni, al Cairo si mugugna per il gigantismo del generalissimo che ha ingrandito il Canale di Suez ed edificato una nuova capitale - a stupire è stata la difesa. In un insolito e nervoso discorso pubblico, che i servizi gli avevano sconsigliato di fare, Al Sisi ha risposto piccato all’imprenditore (senza mai nominarlo) d’essere “onesto, leale, affidabile”. E con voce quasi rotta: “Sì, sto costruendo palazzi. E allora? Pensate di spaventarmi con le vostre critiche? Continuerò a costruire. Queste opere non sono per me, sono per l’Egitto”. Non sarà l’inizio della fine. Ma forse finisce un certo modo d’esercitare il potere. D’un regime che ha cacciato i Fratelli musulmani, ha torturato senza sosta, s’è fatto rieleggere per due volte col 97%, ha portato l’Egitto a un debito pubblico che cresce del 19% l’anno. Gli attacchi di Ali, per molti “un eroe”, non convincono tutti: suo padre, un ex militare, va in tv a “vergognarsi” del figlio. Mentre Whael Ghonim, uno dei leader della rivolta 2011 contro Mubarak, accusa l’imprenditore di sparare dall’estero, “troppo facile”, e di farlo “solo per tornaconto personale”. Resta il dato che il Faraone sia nudo. E qualcuno abbia osato dirlo: “È uno sviluppo molto importante - commenta un politologo della Cairo University, Mustafa Kamel Al Sayed. I muri cadono quando si formano le prime crepe”. Sudafrica paradigma delle nostre iniquità di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 22 settembre 2019 Violenza e xenofobia dilagano nel Paese dopo la fine dell’apartheid. E sono il prodotto dello stesso credo economico che genera disuguaglianza. Condanno con la massima fermezza la violenza che si è diffusa in alcune delle nostre province”. Con queste parole, il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha esortato il popolo sudafricano contro gli atti veementi di xenofobia a svantaggio degli allogeni che dal 1 settembre hanno inabissato il Paese in un teatro bellico senza precedenti, causando la morte di circa 12 esseri umani. Il Sudafrica, tra le prime potenze industriali in Africa, ha sconfitto la segregazione razziale sul piano politico ma non ha saputo affrancarsi del tutto dell’apartheid economico che continua ad attanagliare la società. Nel corso degli anni, il divario tra i ricchi e i poveri si è molto ampliato. L’odio, il rancore e l’intolleranza allignano purtroppo dove prosperano le disuguaglianze sociali. A tale riguardo, è opportuno ricordare che l’attuale paradigma economico ha generato delle disuguaglianze che hanno dilatato forzosamente ed eterogeneamente il nostro tessuto sociale. Questa traumatica dilatazione ha lacerato gli strati più profondi dell’epidermide della nostra società solcata da cavernose crepe che sono state esasperate dall’ostentazione della ricchezza, emblematica dell’era della mediatizzazione del privato, che acuisce la frustrazione delle fasce impoverite e immiserite della popolazione. I mercanti dell’illusione e i manipolatori della realtà si sono insinuati in queste crepe inasprendo il clima di odio, di rancore e di intolleranza che serpeggiava già da tempo nelle viscere della nostra comunità. Per porre rimedio a questa insostenibile situazione servirebbe probabilmente un New Deal Umano che inauguri una nuova fase ancorata nella giustizia sociale e capace di avviare delle riforme che incapsulino al proprio interno una equa ridistribuzione in grado di rendere felici gli esclusi da troppo tempo trasformati in rifiuti sociali. L’attuazione di un simile progetto passerebbe attraverso processi, capace di mettersi generosamente al servizio delle persone senza farsi inebriare dalla conquista e dall’esercizio del potere, che tornino ad abbracciare i luoghi delle contraddizioni al fine di fare dialogare le divergenze coniugando nel contempo le convergenze con lo scopo di disegnare una visione di società aderente alla realtà e incentrata sulla soddisfazione di bisogni materiali ed immateriali delle persone. Simili processi dovrebbero essere auspicabilmente attuati all’interno dei percorsi collettivi capaci di ritrovare il proprio originario spirito, ovvero di essere l’aggregatore delle comunità, il focolare della fede, il nido della speranza, il convertitore delle utopie in realtà, il corroborante delle idee, il trasmettitore di una coscienza collettiva e il formatore di una leadership collettiva capace di creare legami intimi con la popolazione. Quest’ultima dovrebbe probabilmente aspirare altresì a coltivare il culto del riserbo, a praticare l’estetica del linguaggio e a domare gli impulsi più basilari dell’uomo che finiscono per permeare qualsiasi carica di responsabilità con l’ambizione di assoggettarla. Inoltre, domare i disorientatori della società dal sistema, destituire i piromani della politica dal palazzo, fondere a freddo dall’alto l’ideologico con il post-ideologico non basterà di certo a fermare il vento impetuoso dell’odio, del rancore e dell’intolleranza sociale che rischia di riproporsi ciclicamente sotto forme diversificate e sempre più auto-immunizzante. Solamente se si avrà il coraggio di fronteggiare la sfida delle disuguaglianze dalle fondamenta si potrà sconfiggere questa impetuosa tempesta e fermare quelli che razionalmente cavalcano questa cinica ondata. Tuttavia, tutto ciò non potrà prescindere dalla ridefinizione dell’attuale paradigma economico che si basa sull’egoismo, sull’avidità e sull’insaziabile brama accumulatrice dell’essere umano. A questo proposito, il Sudafrica, pur trovandosi geograficamente lontano, condivide con il nostro Paese una delle pagine più buie della storia dell’umanità. Purtroppo, il fantasma del fascismo e della segregazione razziale, ovvero l’apartheid, continua a serpeggiare sopra il cielo dell’umanità. I recenti episodi di violenze avvenuti in Sudafrica devono essere un ammonimento ad affrontare con lucida determinazione l’attuale e delicata fase politica. Cosa sta succedendo in Yemen e perché si rischia una nuova escalation militare L’Espresso, 22 settembre 2019 Il conflitto nella penisola araba ha le sue radici nel 2011 ed è ancora oggi in corso. E tocca interessi economici e geostrategici con molti protagonisti: a cominciare da Riad e Teheran. La guerra yemenita ha radici nella primavera araba del 2011, quando i manifestanti scesero in piazza, rivendicando democrazia e riforme contro il presidente Ali Abdullah Saleh e chiedendo le dimissioni del suo trentennale governo. Saleh concesse parziali riforme economiche ma rifiutò di dimettersi, trasferendo i poteri al vicepresidente Abd Rabbu Mansour Hadi e aprendo la strada alle elezioni del febbraio 2012. I tentativi di riforme costituzionali proposti da Hadi furono ostacolati dai ribelli Houti, appartenenti a un ramo dell’Islam sciita noto come Zaydista e sostenuti militarmente dall’Iran. Le speranze di quella che era sembrata una storia di successo della primavera araba sono svanite velocemente. L’inefficacia del governo di Hadi, l’economia in ginocchio e la corruzione endemica hanno portato gli Houti a guadagnare sempre più potere, fino a occupare la capitale, costringendo Hadi a fuggire in Arabia Saudita. L’occupazione della capitale da parte degli Houti, sciiti, ha scatenato nel Golfo il timore per l’espansione dell’influenza iraniana sui loro confini. L’Arabia Saudita nel marzo 2015 ha risposto lanciando un intervento militare (riunendo una coalizione di nove paesi) sotto la guida dell’allora ministro della difesa, poi nominato principe ereditario Mohamed Bin Salman, per estromettere gli Houti e ripristinare il governo dell’ex presidente Hadi. La coalizione ha scatenato un’intensa campagna aerea, insieme a un paralizzante blocco marittimo e aereo che ha portato lo Yemen sull’orlo della carestia. Gli Emirati Arabi Uniti hanno guidato l’offensiva di terra con una forza messa insieme da mercenari, combattenti sudanesi janjaweed e milizie yemenite e gli Stati Uniti hanno fornito supporto logistico, e rifornimento in volo, accelerando le consegne di armi sia in Arabia Saudita che negli Emirati Arabi Uniti. L’intervento, nelle intenzioni della coalizione, avrebbe dovuto concludersi in qualche mese, ma è in stallo ormai da anni. Gli Houti detengono gran parte delle province occidentali del paese, tra cui Sana’a, e gli altopiani vicino al confine saudita, nonché una parte della costa del Mar Rosso dello Yemen. A dicembre gli Houti e il governo yemenita hanno firmato un accordo di pace sostenuto dalle Nazioni Unite a Stoccolma che avrebbe dovuto essere la svolta che avrebbe avuto inizio con un ritiro congiunto delle truppe da Hodeidah, il porto più strategico dello Yemen e la linea di vita dell’approvvigionamento. La coalizione saudita imputa agli Houti l’utilizzo di Hodeidah per controllare i flussi di aiuti e il contrabbando di armi. E entrambi si accusano di violare gli accordi di cessate il fuoco. A giugno, gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato un abbattimento delle forze militari degli Emirati intorno a Hodeidah come parte di una “misura di rafforzamento della fiducia” unilaterale per dare il via al processo di pace in stallo. Ad agosto i separatisti del Sud, Southern Transitional Council (STC) altro attore del conflitto, sostenuti e addestrati dagli Emirati, hanno occupato alcune basi militari ad Aden. La guerra ha rianimato vecchie tensioni tra il nord e il sud dello Yemen, paesi precedentemente separati che si sono uniti in un unico stato nel 1990. L’obiettivo dei separatisti è infatti quello di fare di Aden la capitale di uno Stato indipendente dallo Yemen. Fino a pochi mesi fa, il Consiglio era alleato dei miliziani fedeli al presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, contro il nemico comune: i ribelli sciiti Huti. Con l’occupazione delle basi e il conseguente bombardamento da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, si è creata una profonda crepa nell’alleanza sunnita, che sottolinea gli interessi contrapposti di Arabia Saudita e Emirati nell’area e rende più difficile per la coalizione indebolire la presa degli Houti che detengono Sana’a e la maggior parte dei popolosi centri urbani. La settimana scorsa un gruppo di droni ha colpito due stabilimenti della Aramco, l’azienda statale saudita di idrocarburi, uno a Abqaiq, l’altro a Dhahran. Si tratta di due impianti altamente strategici, asset fondamentale degli introiti sauditi. L’attacco è stato rivendicato dal portavoce militare degli Houti. Secondo un’indagine della Cnn gli ordigni sarebbero partiti da una base iraniana per poi volare sopra il Kuwait. Subito dopo l’attacco il segretario di stato americano Pompeo aveva accusato l’Iran minacciando dure conseguenze. Il costo del petrolio ha subito un’impennata, e le tensioni di questi giorni si aggiungono a quelle vissute nel golfo a giugno, dopo gli attacchi alle petroliere. Azioni di cui sia i sauditi che il governo statunitense avevano accusato l’Iran. La guerra yemenita potrebbe, dunque, subire una nuova escalation militare, a danno della già esausta popolazione civile, diventando ancor di più terreno di scontro al centro dell’accordo sul nucleare Usa-Iran e delle agende iraniane e saudite sul golfo.