L’Università L’Orientale nelle carceri per riconoscere il radicalismo islamico in Italia Gazzetta di Napoli, 21 settembre 2019 Accordo-quadro con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Si apre martedì 24 settembre alle 9.00 nella sede dell’Orientale a palazzo du Mesnil (via Chiatamone 62) la due giorni di convegno internazionale “Ri-conoscere il radicalismo islamico in Italia: analisi, strategie e pratiche alternative”. L’obiettivo dell’incontro è quello di comprendere il fenomeno della radicalizzazione, valutandone i rischi, e allo stesso tempo di rispondere correttamente alle richieste di godimento dei diritti religiosi all’interno degli istituti di pena italiani. Il convegno è il risultato della collaborazione istituita tra l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Ministero della Giustizia, nel quadro del progetto Train Training (transfer radicalisation approaches in training), finanziato dal Justice Program (2014-2020) dell’Unione Europea e finalizzato allo studio e al contrasto della radicalizzazione negli istituti di pena europei. Punto centrale del progetto Train Training, è il corso di formazione pilota pensato per il personale penitenziario. Nell’ambito di questo progetto, e delle proprie attività di apertura e di interazione con la società civile (terza missione), il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo (Daam) de “L’Orientale” contribuirà alla formazione degli operatori sociali e degli agenti di custodia del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap). Un gruppo di docenti e giovani ricercatori del Dipartimento dell’Orientale, coordinati dal direttore Michele Bernardini, dopo alcune esperienze pregresse condividerà con chi opera negli istituti di pena i propri “saperi” teorici e concreti, attraverso lezioni frontali e incontri. Da questa esperienza e dalla collaborazione con i professionisti che lavorano a stretto contatto con i detenuti, è nata l’idea di elaborare il sillabo “Conoscere l’islam per contrastare il radicalismo”, destinato alla formazione del personale carcerario e che sarà presentato durante la due giorni napoletana. Il 24 e il 25 settembre dunque, il mondo accademico, quello degli istituti di pena, e un’importante rappresentanza del mondo politico e della società civile si incontreranno per discutere dei processi di radicalizzazione e de-radicalizzazione, nonché dei diritti relativi all’esercizio della fede negli istituti di pena. Si inizia con la firma dell’accordo quadro fra l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e si prosegue con una tavola rotonda per discutere con soggetti istituzionali e della società civile una nuova figura di mediatore culturale in Italia. Si continua, entrando nel vivo del dibattito, ragionando su analisi, strategie e pratiche alternative di gestione del fenomeno con esperti del Dap e accademici. Saranno presenti due keynote speaker di rilievo: Farhad Khosrokhavar, sociologo dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales (Ehess) di Parigi, uno dei massimi conoscitori del radicalismo islamico a livello mondiale, e Claudio Lo Jacono, già Professore di Islamistica presso l’Università di Cagliari e “L’Orientale” di Napoli, oggi direttore della rivista Oriente Moderno e Presidente del prestigioso Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino di Roma. Fir e Dap ancora insieme per il “Rugby oltre le sbarre” federugby.it, 21 settembre 2019 La stagione dente dai detenuti degli istituti di detenzione dei capoluoghi di Piemonte ed Emilia-Romagna, le due Società rappresentano la massima espressione del progetto “Rugby oltre le sbarre” che ha nella Federazione Italiana Rugby e nel Dipartimento di Polizia Penitenziaria i principali promotori e portatori d’interesse. Sviluppato nel corso delle ultime stagioni sulla scorta dell’esperienza positiva di Drola e Giallo Dozza, il progetto “Rugby oltre le sbarre”, sostenuto dal protocollo sottoscritto tra Fir e Ministero dell’Interno, ha visto sempre più istituti di pena avvicinarsi e inserire la pratica del rugby nei propri percorsi di formazione e re-inserimento dedicati ai detenuti, apprezzando i positivi riscontri ottenuti dalla pratica del Gioco attraverso la comprensione e l’applicazione concreta dei valori che lo caratterizzano. Diciotto oggi gli Istituti dove, attraverso la collaborazione delle Società del territorio e della Fir, il rugby è regolarmente praticato. Nel contempo le 2 società, insieme ai Bisonti del Carcere di Rebibbia di Roma, si sono aggiudicati il Bando della Presidenza del Consiglio “Inclusione Sociale attraverso lo sport” per un percorso di sviluppo del progetto in tutte le sue specificità e le cui risultanze potranno essere a disposizione del Dap e di tutto il movimento rugbystico. Proprio in questi giorni il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria ha diffuso a tutte le carceri italiane una Circolare volta a sensibilizzare un numero sempre crescente di strutture a valutare l’inserimento del Gioco del Rugby nei propri programmi trattamentali, evidenziandone il notevole impatto formativo: “La mission di Fir - ha commentato il Presidente federale Alfredo Gavazzi - è quella di diffondere il Gioco ed i suoi valori fondanti nel nostro Paese, senza distinzione di ceto o condizione, garantendo un contributo positivo alla società civile. Come imprenditore, ho potuto negli anni apprezzare lo straordinario ruolo educativo e formativo derivante dalla pratica del rugby, e la replicabilità di quanto lo sport può insegnare anche lontano dal campo. In tal senso, la collaborazione con il Dap e la sensibilizzazione alla pratica e alla diffusione del rugby negli istituti di pena è pienamente coerente con i nostri obiettivi e non posso che augurarmi di vedere il nostro sport contribuire sempre più al reinserimento nel tessuto sociale di chi ha compreso i propri errori e, come ogni atleta, desidera divenire una versione migliore di se”. Patrocinio a spese dello Stato, presto l’ok al ddl Bonafede-Cnf di Errico Novi Il Dubbio, 21 settembre 2019 Dal governo e da Montecitorio la previsione di tempi brevi per l’esame della legge. Assegnato alla commissione Giustizia della Camera, il testo elaborato dal guardasigilli con l’istituzione forense punta ad affermare quell’equità sociale cara al nuovo esecutivo. Al Cnf avevano tenuto a essere scrupolosi nello screening delle norme preesistenti. E così già nei primi mesi del 2019 il patrocinio a spese dello Stato era divenuto oggetto di un intenso scambio di valutazioni tra l’istituzione forense e il ministero della Giustizia. Finché il guardasigilli Alfonso Bonafede non ha ottenuto, a fine maggio, il via libera a un ddl in cui il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha visto “mantenuti gli impegni con l’avvocatura”. Sono state recepite, infatti, gran parte delle indicazioni elaborate dal massimo organo della professione. Sia nella direzione di una “giustizia aperta veramente a tutti, a cominciare dai meno abbienti”, come ha tenuto a rivendicare Bonafede, sia rispetto a una maggiore garanzia di tempestività e adeguatezza della retribuzione per l’avvocato. Adesso quel testo è in commissione Giustizia alla Camera, dove filtra un certo ottimismo sulla possibilità che nelle prossime settimane se ne inizi l’esame. Anche perché si tratta di una materia perfettamente in sintonia con un’idea ampiamente condivisa all’interno della nuova maggioranza: favorire i professionisti, in particolare i più giovani, blindare le norme sull’equo compenso, investire sulla giustizia innanzitutto come servizio ai cittadini. Piattaforma che piace a tutti: a Bonafede, al Pd di Zingaretti, e dell’ex guardasigilli Orlando, e certamente allo stesso Renzi. Cosicché le migliorie suggerite dal Cnf al al Testo unico sulle spese di giustizia, dove sono contenute le norme sul patrocinio, disegnano un’altra tessera ben inserita nel mosaico dell’idea “sociale” della giustizia e del lavoro autonomo. Grazie gli avvocati, la nuova maggioranza tripartita troverà a breve un dossier in materia di giustizia assolutamente immune da possibili controversie. Tanto più che il testo Bonafede valorizza anche una norma inserita proprio dal suo predecessore Andrea Orlando nel decreto sui parametri forensi. La retribuzione per il legale che assume il patrocinio di Stato viene infatti determinata con un criterio certo: dovrà essere pari cioè al valore medio dei parametri, che proprio il testo firmato da Orlando nel 2018 ha reso inderogabili nei minimi, non suscettibili quindi di interpretazioni fluttuanti da parte dei giudici. L’ottimismo su un prossimo - e certamente rapido, visti i presupposti - esame sul testo Bonafede filtra da Montecitorio, dove la commissione Giustizia, presieduta dalla 5 Stelle Francesca Businarolo, è composta da diversi avvocati. Non solo, perché anche fonti governative pronosticano che quello sul patrocinio a spese dello Stato possa essere uno dei prossimi ddl in materia di giustizia discussi in Parlamento. D’altronde la seconda commissione di Montecitorio si è liberata dall’ingorgo di provvedimenti dei mesi scorsi: resta solo l’incognita della legge sul fine vita, che sarà sciolta martedì prossimo, quando la Corte costituzionale si pronuncerà sul caso Cappato. A parte il “moloch” dell’aiuto al suicidio, alla commissione Giustizia di Montecitorio è per ora indicata fra i dossier urgenti solo la ratifica di una direttiva anti- terrorismo della Ue. Le novità contenute nel ddl Bonafede - Il valore “sociale” del ddl Bonafede sul patrocinio di Stato si coglie nell’estensione dell’istituto ad alcuni nuovi ambiti, sempre secondo le indicazioni elaborate dal Cnf. Viene prevista innanzitutto la possibilità di riconoscere il diritto anche “alle procedure di negoziazione assistita” quando tale soluzione sia “condizione di procedibilità e sia stato raggiunto un accordo”. Limitazione, quest’ultima, che il guardasigilli ha spiegato con la volontà di “incentivare il raggiungimento di accordi in funzione deflattiva del contenzioso”. Ma la possibilità che sia lo Stato a farsi carico delle spese di difesa viene estesa anche a una materia di particolare delicatezza: viene ora concessa infatti ai minori vittime di maltrattamenti in famiglia o di violazione degli obblighi di assistenza. Tali profili si completano con un dettagliato lavoro di manutenzione normativa per assicurare tempestività nella retribuzione dell’avvocato. In particolare con la previsione che obbliga il giudice a emanare, entro 45 giorni, il decreto di pagamento del difensore in quei casi in cui non aveva depositato tale decreto contestualmente al deposito della sentenza. Viene così risolto il cortocircuito procedurale in cui il professionista tuttora resta intrappolato quando il magistrato “dimentica” l’atto con cui viene liquidato l’onorario, e che costringe l’avvocato a fare causa al Tribunale per vedersi finalmente riconosciuto il compenso. Misure specifiche che mostrano come l’attenzione alla dignità del lavoro professionale sia a pieno titolo un elemento di quell’idea di riequilibrio sociale che lo stesso ministro della Giustizia ha fin qui mostrato di voler perseguire. Innocente ma rovinato dalle spese legali. Lo Stato deve rimborsarlo, serve una legge di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio, 21 settembre 2019 Il Governo Renzi nel luglio 2014 istituì l’indirizzo rivoluzione@ governo. it invitando i cittadini a fornirgli idee per la riforma della giustizia. Inviai un’email con tre proposte. Due riguardavano l’habeas corpus con rilascio su cauzione e la difesa diretta. La terza, “il risarcimento per l’assoluzione”, vale a dire che, quando un imputato viene definitivamente assolto, lo Stato deve risarcirlo di tutte le spese sostenute per difendersi. Tale diritto al risarcimento non ha nulla a che vedere con la responsabilità civile del magistrato, ma configura una responsabilità oggettiva dell’amministrazione giudiziaria, perché è moralmente inaccettabile quanto contrario al senso di giustizia che lo Stato, pur sentenziando l’innocenza di un imputato, possa giungere a distruggerlo economicamente obbligandolo ad affrontare spese, cospicue fino all’insostenibilità, per difendersi in giudizio. Uno Stato che concede il gratuito patrocinio a un colpevole mentre impoverisce un innocente. Il 15 luglio 2014 “L’Opinione” pubblicò le tre proposte, mentre il successivo 28 luglio “Il Corriere della Sera” riportò testualmente l’email con la seguente risposta di Sergio Romano: “Il ministro di Giustizia si è detto pronto a raccogliere proposte e commenti. Eccone tre che meritano una riflessione. Ma posso dirle sin d’ora che il rilascio su cauzione sembrerà a molti, soprattutto in questo momento, un favore fatto ai ricchi. Per mettere questa misura all’ordine del giorno occorrerà attendere tempi migliori”. Ma la preoccupazione, tutta italiana, di favorire i ricchi è infondata in fatto e in diritto. Nei paesi anglosassoni la cauzione (bail) è costituzionalmente garantita da secoli (VIII Emendamento della Costituzione Usa e Bill of Rights del Regno Unito). In Gran Bretagna, per esempio, l’ 80% degli accusati viene rimesso in libertà su cauzione. Il giudice ha ampia discrezionalità sia sulla concessione che sull’ammontare della cauzione. In America può essere negata per i reati gravi e gli imputati pericolosi per la società. Dunque, ciò che in Italia vi si oppone davvero è la mentalità avversa alla piena, effettiva, generalizzata vigenza della presunzione d’innocenza solennemente proclamata, alquanto vanamente, dall’art. 27 della nostra Costituzione. Circa due anni dopo, il 3 febbraio 2016, “Panorama” condusse un’inchiesta sulle spese legali, riportando che in trentadue paesi europei sono a carico dello Stato quando l’imputato viene assolto con formula piena. Successivamente, il 16 marzo, lo stesso settimanale dava notizia che il senatore Gabriele Albertini aveva presentato un disegno di legge per introdurre nell’ordinamento italiano il principio della “ingiusta imputazione”. In effetti, il 3 dicembre, primo firmatario Albertini, fu presentato il disegno di legge 2153, che modificava l’art. 530 c. p. p. in materia di rimborso delle spese di giudizio, inserendovi un comma 2-bis così concepito: “Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate. Nel caso di dolo o colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato, può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale”. Non solo è sorprendente che l’idea abbia trovato un senatore disposto a patrocinarla con l’iniziativa legislativa. Ancor più lo è che ben 183 senatori l’abbiano firmata alla data del 15 marzo 2016: un’adesione più unica che rara, la quale avrebbe dovuto costituire il miglior viatico per la rapida approvazione. Invece il disegno di legge, che la firma di cotanti senatori faceva considerare già virtualmente approvato, restò miseramente impantanato nelle commissioni, senza vedere mai la luce dell’Assemblea. Il Governo o il caso lo impastoiarono anziché sbrigliarlo. Né risulta ripresentato nella Legislatura in corso. In conclusione, come vincere una causa civile e tuttavia perderci o restare schiacciato dalle spese legali sostenute per resistere, non è giustizia, così essere dichiarato innocente da sentenze definitive e, per farsi assolvere, venir ridotto sul lastrico dallo Stato che ha incriminato e prosciolto, non è giustizia. Insomma, sulla ruota della giustizia, il cittadino perde pure quando vince. Mentre una giustizia rapida, semplice, economica, e per ciò quasi giusta, appare la promessa non sempre sincera d’ogni nuovo governo. Ingiusta detenzione, lettera al premier Conte di Giulio Petrilli inabruzzo.com, 21 settembre 2019 Vista la nascita del nuovo governo, che mi auspicavo avvenisse, ora spero che sulla riforma della giustizia, accolga la richiesta di rivedere i criteri e le norme che regolano il risarcimento per ingiusta detenzione. Ho scritto il 30 agosto scorso una lettera al Presidente del Consiglio prof. Giuseppe Conte, confidando in una sua risposta. Spero serva anche a sensibilizzare i parlamentari per fare una legge che garantisca a tutti il diritto al risarcimento. Volevo organizzare come già avvenne un anno fa, una iniziativa davanti Montecitorio, ma poi ho preferito per il momento scrivere e informare, allegando tutti gli interventi e le lettere con risposta della commissione europea perché’ credo che in questo momento sia incisivo far conoscere il problema. Si tratta di un tema importante e garantista, il diritto al risarcimento per tutti e tutte coloro hanno subito una detenzione ingiusta. L’inviolabilità ingiusta della libertà personale va sempre risarcita e questo deve essere un diritto che va garantito. Attualmente in Italia l’ottanta per cento delle domande per il risarcimento per ingiusta detenzione vengono rigettate per un comma anticostituzionale il 1 comma dell’art. 314 del c.p.p. sul “dolo e colpa grave” ostativo al risarcimento. Praticamente un giudizio morale sulle frequentazioni e se si è avvalsi della facolta’ di non rispondere al primo interrogatorio. Anche la Commissione Europea, rispondendo alla mia petizione, ha riconosciuto la giustezza della battaglia asserendo che è arrivato il momento di fare una legge equa europea su questo tema che garantisca a tutti gli stessi diritti e venga osservata da tutti gli stati. Questa battaglia non nasce solo per risolvere un caso personale ma è una battaglia di libertà e per il rispetto dei diritti civili e si affianca a tutte le giuste battaglie per garantire i principi costituzionali. Donna sotto scorta per tentato femminicidio: “Vespa mi ha offesa” La Repubblica, 21 settembre 2019 L’ad Rai Salini: “Fare chiarezza sulla vicenda”. Il conduttore di “Porta a Porta” aveva detto “se avesse voluto, l’avrebbe uccisa”. Il numero uno di viale Mazzini: “Condivido la forte contrarietà suscitata dai toni dell’intervista”. “Le luci, la concitazione, il pubblico, i tempi velocissimi mi hanno frastornato in modo tale da impedirmi di capire ciò che era appena successo, ma ora a mente più fredda dichiaro di sentirmi profondamente offesa dal tono e dai modi usati da Bruno Vespa nel corso della trasmissione Porta a porta. Mi sento offesa anche a nome di tutte le donne che non sono state “fortunate” come me”, ha dichiarato Lucia Panigalli, la donna vittima di violenza che è stata intervistata a Porta a porta nella puntata di martedì 17 settembre. Un’intervista che ha subito sollevato molte critiche per le parole del giornalista: “È fortunata, perché è sopravvissuta, tante donne vengono uccise”. E ancora: “Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe uccisa”. Affermazioni che oggi hanno visto la dura presa di posizione anche dell’ad Rai Fabrizio Salini, che ha sottolineato come l’azienda “considera la difesa e la tutela dei diritti delle donne un principio imprescindibile e indiscutibile della Rai, su cui non sono mai tollerabili equivoci”. Lucia Panigalli ha poi chiarito che desidera dissociarsi “da quanto apprendo che avrebbe dichiarato uno dei miei legali, fermo restando che ringrazio l’Azienda Rai per l’attenzione che da sempre riserva al mio caso”, ha detto la donna, vittima di un primo tentato omicidio per cui l’ex compagno venne condannato e poi di un secondo episodio, per cui l’uomo è stato invece assolto: un altro tentato omicidio, ordinato dal carcere di Ferrara in cui era detenuto. Dopo l’intervista rilasciata a “Porta a Porta”, ha spiegato, “nell’immediato non sono riuscita a capire cosa mi aveva tanto infastidita. E solo in seguito ho realizzato che non mi sono state poste le domande che mi aspettavo dopo i lunghi colloqui con la redazione. Viceversa - ha precisato la donna - mi è stato chiesto di rivivere le fasi più truci dell’aggressione subita, senza quasi darmi modo di spiegare il motivo vero per cui mi trovavo in quello studio e senza che si cogliesse l’estrema drammaticità di quanto patito”. L’intervista aveva scatenato già ieri la prima ondata di polemiche. “Condivido la forte contrarietà suscitata dai toni dell’intervista realizzata da Bruno Vespa alla signora Lucia Panigalli - ha detto oggi l’ad Rai Fabrizio Salini, spiegando che l’azienda “considera la difesa e la tutela dei diritti delle donne un principio imprescindibile e indiscutibile della Rai, su cui non sono mai tollerabili equivoci. Assicuro che saranno svolti tutti gli approfondimenti necessari per fare chiarezza sulla vicenda”. “Prendo atto - ha detto ancora Salini - che lo stesso Vespa si è scusato per gli equivoci. Ribadisco che la Rai e tutte le sue strutture - a cominciare da Porta a Porta - devono aderire alla linea editoriale dell’azienda che condanna fermamente la violenza - di qualsiasi natura, in ogni forma e modo”. Sempre oggi è arrivata la condanna delle Cpo (le Commissioni pari opportunità): quella della Federazione nazionale della stampa, che insieme all’Usigrai si è chiesta “come sia possibile, alla luce del ruolo che la Rai svolge al servizio delle cittadine e dei cittadini, che possa venire tollerata una tale, distorta, tossica rappresentazione della violenza contro le donne”. A loro avviso l’intervista è stata “in palese violazione non soltanto delle norme deontologiche e del Manifesto di Venezia, ma del contratto di servizio”. La vicenda è finita sul tavolo dell’Ordine dei giornalisti e la Cpo dell’Ordine ha spiegato che “Bruno Vespa, in seguito a un regolare esposto al Consiglio di disciplina inoltrato al consiglio territoriale del Lazio dall’Ordine nazionale in seguito alla segnalazione di una privata cittadina, sarà sottoposto al rituale procedimento disciplinare concluso il quale seguirà il pronunciamento”. Una denuncia all’Ordine e anche alla Rai arriva dalla Cpo dell’Associazione stampa romana, secondo la quale il conduttore ha violato il Testo Unico dei Giornalisti e il Codice Etico Rai. Ma anche la politica critica quanto accaduto. “Su temi così delicati e sulla sofferenza delle persone, tutti coloro che svolgono il difficile compito di informare devono avere la massima attenzione e delicatezza”, ha detto la vicepresidente M5s della Camera, Maria Edera Spadoni, che ha annunciato “una personale segnalazione all’Agcom”. Vespa ha replicato alla bordata di polemiche. “Mi sono dimesso il 23 gennaio 2016 dalla Federazione nazionale della stampa per il carattere violento, pretestuoso e settario delle sue polemiche nei miei confronti. Il mio giudizio si rafforza alla luce dell’incredibile dichiarazione di oggi. Credo sia la prima volta in assoluto che un giornalista viene criminalizzato a causa di una trasmissione per la quale viene al tempo stesso ringraziato dall’avvocato della sua presunta vittima”. E poi alla vittima ha detto: “Alla fine della trasmissione e prima della dichiarazione del suo avvocato, la signora Panigalli mi ha ringraziato con molta cordialità. Successivamente alla nostra collega che la ringraziava al telefono per la partecipazione, ha risposto testualmente: ‘Sono io che ringrazio voi’. Se a 24 ore di distanza ha ritenuto di smentire se stessa e il proprio avvocato dicendo di essere frastornata e di non aver capito quanto era accaduto in studio, è facile immaginare una strumentalizzazione ai suoi danni”. Caso Cucchi, il pm: “Fu un pestaggio violentissimo. Poi depistaggi scientifici” di Stefano Cucchi Il Manifesto, 21 settembre 2019 Processo Bis. Nell’aula bunker di Rebibbia l’inizio della requisitoria del pm Giovanni Musarò ricostruisce il calvario del giovane geometra, senza zone d’ombra. Ilaria Cucchi: “Sto facendo pace con quest’aula, lo Stato è con noi”. Un pestaggio “degno di teppisti da stadio”. Poi i depistaggi, “scientifici”, a partire dal verbale di arresto per proseguire con il tentativo di accusare tre agenti della polizia penitenziaria, e ancora i medici dell’ospedale. È stata lunga la ricerca della verità per l’omicidio di Stefano Cucchi, 31 anni, massacrato di botte nella caserma della stazione Appia dei carabinieri, dopo il suo fermo per detenzione di stupefacenti, e morto una settimana dopo, il 22 ottobre 2009, all’ospedale Pertini di Roma. Soltanto ora, dopo dieci anni e vari processi, l’inizio della requisitoria del pm Giovanni Musarò ricostruisce in un’aula di giustizia il calvario del giovane geometra, senza zone d’ombra. Convincendo anche Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, senza la cui determinazione non si sarebbe arrivati alla verità: “Oggi comunque vada, mentre sto ascoltando il pm Musarò, sto facendo pace con quest’aula - annota la donna - e sono commossa. C’è anche il procuratore Prestipino. Il mio pensiero va al procuratore Pignatone. Lo Stato è con noi”. Nell’aula bunker di Rebibbia il pm Musarò mette dei punti fermi. “Stefano Cucchi fu portato in carcere perché il maresciallo Mandolini scrisse nel verbale di arresto che era un senza fissa dimora. Ma lui era residente dai genitori, senza quella dicitura forse sarebbe finito ai domiciliari e oggi non saremmo qui. Questo giochetto gli è costato la vita. Il verbale di arresto è il primo atto di depistaggio di questa vicenda, perché i nomi di Tedesco, Di Bernardo e D’Alessandro non sono nel documento”. I tre carabinieri sono imputati di omicidio preterintenzionale, Tedesco anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia - verso tre secondini - risponde l’altro carabiniere Vincenzo Nicolardi. Proprio Tedesco, al processo, ha rivelato i particolari del pestaggio: “Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: ‘Basta, finitela, che cazzo fatè. Ma Di Bernardo proseguì spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Quindi D’Alessandro gli diede un calcio in faccia. Per dieci anni si sono nascosti dietro le mie spalle”. “In questo processo l’unico che ci ha messo la faccia è stato Tedesco - riconosce il pm - ma la sua dichiarazione non è uno snodo fondamentale. Rappresenta la caduta del muro, ma le prove di quanto accaduto sono già tutte nel fascicolo”. Fra queste la testimonianza di un altro militare dell’Arma, Riccardo Casamassima (“Hanno massacrato di botte un arrestato, non sai in che condizioni lo hanno portato”), e quella di un detenuto che incontrò Cucchi dopo l’arresto, Luigi Lainà: “Stava proprio acciaccato de brutto, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Mi disse che erano stati due carabinieri”. Nell’aula del processo Cucchi lo Stato prova a riscattarsi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 settembre 2019 Musarò, Prestipino, Pignatone: presenze che disegnano l’immagine plastica di un pezzo di Stato che ha voluto e saputo cercare le responsabilità di un altro pezzo di Stato nella morte di un detenuto qualunque - e le complicità che finora l’avevano impedito. Se ci sono voluti dieci anni per arrivare a costruire un robusto impianto d’accusa contro i presunti responsabili della morte di Stefano Cucchi (e siamo solo alla requisitoria del processo di primo grado, in attesa della sentenza e dei successivi gradi di giudizio) non è per via delle croniche lentezze della giustizia italiana. Né per distrazioni o dimenticanze. È invece a causa dello “scientifico depistaggio” avviato da subito che ha innescato il “processo kafkiano” contro gli imputati sbagliati, attraverso manipolazioni e occultamenti di prove per nascondere ciò che era accaduto. Com’è successo negli scorsi decenni nei processi per strage, o per altri grandi misteri della storia repubblicana. La denuncia è del pubblico ministero Giovanni Musarò, che ieri ha pronunciato il suo atto d’accusa avendo al fianco il procuratore reggente Michele Prestipino, dopo che l’ex procuratore Giuseppe Pignatone l’ha affiancato in ogni passo dell’inchiesta parallela sule “carte truccate”. Presenze che disegnano l’immagine plastica di un pezzo di Stato che ha voluto e saputo cercare le responsabilità di un altro pezzo di Stato nella morte di un detenuto qualunque, ma anche le complicità che finora l’avevano impedito. Facendo uscire il processo Cucchi dall’ordinaria amministrazione, e trasformandolo in un’occasione di riscatto delle istituzioni. Che prima hanno fatto morire un uomo di 31 anni nelle proprie strutture - dalle caserme, alle celle, al reparto penitenziario di un ospedale, come fosse precipitato in un girone infernale - e poi hanno girato a vuoto per anni imbastendo il processo a persone innocenti che oggi da imputati sono divenuti a loro volta parti offese, come i genitori e la sorella di Stefano. Certo, dieci anni sono tanti ed è inevitabile rammaricarsi per il tempo trascorso e quello che ancora trascorrerà prima di arrivare all’ultimo verdetto. Ma l’essere giunti a offrire una ricostruzione dei fatti finalmente attendibile, al di là delle valutazioni che ne faranno i giudici per emettere la sentenza, non era un traguardo scontato. Come non lo era la decisione dell’Arma dei carabinieri di sedersi, insieme a due ministeri, accanto alla famiglia Cucchi nel processo sui depistaggi contro alcuni altri suoi rappresentanti, che comincerà a novembre. Un altro segnale del possibile riscatto. Il giudice penale si avvale degli esiti dei riti tributari di Giovambattista Palumbo Italia Oggi, 21 settembre 2019 Nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi, ai fini della prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati tributari, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria. Così la Corte di cassazione, con sentenza 36207 del 19/8/2019. Nella specie, l’imputato aveva proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello, che, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato per il reato di cui all’art.5 del dlgs 74/2000, perché, nella qualità di rappresentante legale di una società, al fine di evadere le imposte sui redditi e l’Iva, non aveva presentato la dichiarazione, realizzando un’evasione di imposta accertata in euro 128.070,00, ai fini Ires e in euro 162.998,00, ai fini Iva. Il ricorrente contestava quindi, tra le altre, che l’accertamento induttivo dell’evasione fiscale non doveva ritenersi ammissibile in sede penale, essendo il giudice tenuto a verificare la sussistenza della contestata evasione tramite specifiche indagini. Evidenziava infatti il ricorrente che il tribunale si era limitato ad escutere un teste, che aveva confermato l’accertamento induttivo compiuto dall’Agenzia delle entrate e basato sull’applicazione degli studi di settore, mentre la Corte d’appello aveva sostenuto che, solo in caso di emersione, nel corso del contraddittorio, di elementi contrastanti con l’accertamento induttivo, il Giudice avrebbe dovuto compiere un’autonoma verifica. Il ricorrente deduceva, in sostanza, che, nella specie, non poteva operare alcuna inversione dell’onere della prova, restando sempre compito del giudice penale quello di un’autonoma valutazione degli elementi emersi. Secondo la Corte la censura era infondata. Evidenzia infatti la Cassazione che il giudice penale, ai fini della ricostruzione delle imposte dovute e non dichiarate, anche in base al principio di atipicità dei mezzi di prova, di cui è espressione la previsione dell’art.189 c.p.p, può avvalersi di ogni elemento, e dunque anche dell’accertamento induttivo, mediante gli studi di settore, compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile. Salva, naturalmente, come peraltro avvenuto nel caso in esame, la necessità che tali elementi siano fatti oggetto di un’autonoma valutazione. Marche. Il Garante porta in carcere laboratori, arte e cultura cronachefermane.it, 21 settembre 2019 “Un fine anno ricco di attività trattamentali per gli istituti penitenziari delle Marche. Negli ultimi giorni il Garante dei diritti, Andrea Nobili ha sottoscritto diversi accordi per portare nelle sei strutture regionali laboratori, letteratura, poesia, cinema e danza, con l’obiettivo di “promuovere la cultura, l’aggregazione e la risocializzazione, anche in funzione del reinserimento dei detenuti nella società, una volta terminata la pena”. È quanto annunciano dalla Regione. “L’accordo con l’Ats 1 di Pesaro riguarda la costruzione e l’animazione di burattini, con il supporto di artigiani e maestri del settore. Ad essere interessati, fino al prossimo mese di dicembre, gli istituti di Pesaro - Villa Fastiggi e Ancona -Barcaglione. Un secondo accordo - entrano nel dettaglio dalla Regione - è stato siglato con l’Assam (Agenzia servizi agroalimentare Marche) e riguarda un progetto di agricoltura sociale con un corso teorico - pratico di arte bonsai (in particolare da olivo) e la cura di animali da cortile. In quest’ultimo caso l’intento è anche quello di valorizzare alcune aree, attualmente incolte, intorno al laghetto situato nell’ambito della struttura penitenziaria di Barcaglione. La collaborazione tra Garante e Comune di Ancona riguarda, invece, la realizzazione del progetto “Ora d’aria” negli istituti penitenziari marchigiani. Gli incontri, che hanno già preso il via a Montacuto nell’ambito del festival “La Punta della lingua”, prevedono alcuni laboratori e la partecipazione di importanti poeti italiani. Franco Arminio sarà il 27 settembre a Fermo ed Ascoli Piceno, mentre ad ottobre Franca Mancinelli sarà a Pesaro. In via di completa definizione “Libri senza sbarre”, esperienza già consolidata nell’ambito dell’attività del Garante, ma che oggi si apre a nuove possibilità d’intervento. Lo scorso anno, infatti, la casa editrice “Italic Pequod” di Ancona ha donato oltre 5000 libri alle biblioteche dei sei istituti penitenziari delle Marche. Alcuni autori di questi testi, come Giuseppe Bommarito ed Enrichetta Vilella, andranno ad illustrare le loro opere, evidenziandone peculiarità ed esperienze di scrittura. Il cinema tornerà in carcere a dicembre attraverso il Festival “Corto dorico”, che proporrà la proiezione in anteprima dei corsi finalisti per l’edizione 2019, chiamando i detenuti a far parte della giuria per la valutazione finale. Nei mesi di ottobre e novembre laboratori di danza, con la coreografa e danzatrice Simona Lisi, ospitati a Villa Fastiggi, unico istituto penitenziario dove si registra la presenza femminile”. Liguria. Messa alla prova: nei tribunali di Genova e Chiavari sportelli informativi di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 21 settembre 2019 Su iniziativa del Tribunale di Genova, e con la collaborazione dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna (Uepe) del territorio, è stato firmato oggi l’Accordo di rete per la messa alla prova. Il documento coinvolge varie parti: la Procura generale presso la Corte d’appello, la Procura della Repubblica presso il Tribunale, la Camera Penale genovese, l’Assessorato alla sanità, politiche socio-sanitarie e Terzo settore, sicurezza, immigrazione ed emigrazione della Regione Liguria, l’Anci Liguria, il Celivo (Centro servizio per il volontariato), la Direzione territoriale dell’Inail e il Forum Terzo Settore. L’intesa siglata prevede l’immediata istituzione di due sportelli informativi nei tribunali di Genova e Chiavari che vedranno impegnati funzionari di servizio sociale dell’esecuzione penale esterna che risponderanno alle richieste di cittadini, Enti e avvocati sull’istituto della messa alla prova. Altra novità è la creazione di un Osservatorio permanente per il monitoraggio e il miglioramento delle prassi, che definirà meglio anche i ruoli e il contributo che ciascun soggetto può fornire. L’Osservatorio sarà composto da rappresentanti delle parti che hanno siglato l’accordo e si riunirà, su convocazione dell’Uepe, almeno una volta l’anno. In questo territorio l’istituto della Messa alla prova ha registrato una costante crescita, tanto da contribuire - secondo la nota diffusa - a “quel ribaltamento di prospettiva che riconosce il valore riparativo, rieducativo, socializzante e di contenimento della recidiva di questi percorsi”. L’intesa si ripromette di trasmettere alla società civile “il valore della messa alla prova come espressione di educazione alla legalità e di responsabilità verso la comunità, in un’ottica di cittadinanza attiva”. L’accordo si propone, inoltre, di formalizzare la collaborazione già in atto fra soggetti istituzionali, individuando nuovi interlocutori per ampliare una rete che promuova programmi di giustizia riparativa. Al centro del progetto c’è sempre l’attenzione nei confronti della vittima del reato e la ricerca di forme di riparazione del danno che possano andare oltre il risarcimento economico fino a realizzare percorsi di mediazione fra l’autore del reato e la vittima stessa. Napoli. Ancora un suicidio a Poggioreale. Il Garante: “Manca la prevenzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 settembre 2019 Il carcere napoletano di Poggioreale, oramai conosciuto con l’appellativo “mostro di cemento”, miete l’ennesima vittima. Si tratta di un 40enne pugliese, Sergio Caputo, e si è impiccato giovedì pomeriggio. Lo ha reso noto Samuele Ciambriello, il garante campano dei detenuti. “Ad oggi su 33 suicidi in Italia, ben sei sono campani - ha detto Ciambriello - tre a Poggioreale, uno nel carcere di Secondigliano e poi a Benevento e ad Aversa. Va rafforzato il sistema di prevenzione dei suicidi che è stato varato dal ministero. Bisogna agire con una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria, bisogna prevenire, intuire il disagio, avere più figure multidisciplinari che agiscono in rete”. L’uomo che si è impiccato, affetto da Aids, era stato trasferimento dal carcere pugliese per ordine e sicurezza. Il Dap lo ha allontanato, quindi, da dove aveva anche processi in corso. Parliamo di una delle tante “girandole dei detenuti”, fenomeno descritto recentemente da Il Dubbio per denunciare i continui trasferimenti da un carcere all’altro che subiscono i detenuti per provvedimenti disciplinari. A Poggioreale era in cella singola, nel padiglione Avellino destro. Secondo il garante “vanno rafforzate le figure sociali nelle carceri, c’è bisogno anche di psichiatri. La sanità regionale deve fare molto di più”. La solidarietà spesso c’è, visto che “ad oggi, negli ultimi due anni sono stati sventati oltre 100 suicidi dalla polizia penitenziaria” ma per Ciambriello serve anche altro: “attività trattamentali nel pomeriggio, la presenza di educatori, di commissari. Bisogna elaborare una cultura del carcere e sul carcere, le pene detentive devono essere garantite salvaguardando dignità e assistenza socio sanitaria. Certezza della pena e qualità della pena”. Interviene anche Rita Bernardini del Partito Radicale, ricordando che quello di Poggioreale si tratta di un carcere “dove 2.100 detenuti sono costretti a vivere in 1.400 posti, dove dei 20 educatori (già pochi) solo 14 sono in servizio, dove gli agenti sono 156 in meno di quelli previsti e dove i dirigenti non forniscono notizie sui detenuti impegnati nelle attività scolastiche e lavorative”. Mentre si piange l’ennesima vittima, per un altro suicidio avvenuto sempre nello stesso carcere napoletano si aleggia il sospetto di un omicidio. Parliamo del 29enne Diego Cinque. Quando alle 8.20 del 16 ottobre 2018, viene ritrovato impiccato nel bagno della sua cella, tutti erano convinti che si sia ucciso da solo. E anche il medico legale aveva avallato questa ipotesi. Ma la versione non convince il fratello Cristian e la sua famiglia. “Appena ho visto il cadavere - ha raccontato Cristian - ho avuto l’impressione che mi volesse comunicare che non si era ucciso. Il suo corpo era contratto, come se avesse preso parte a una colluttazione, come se avesse fatto resistenza. Abbiamo nominato un nostro medico legale e i dettagli che portano a pensare che non si tratti di suicidio sono molti”. Infatti, nelle sue conclusioni, il consulente della famiglia Cinque afferma che “una serena e approfondita analisi della lesività riscontrata non consente di escludere l’azione di terzi nel determinismo o nell’attuazione della sospensione del cadavere del Sig. Cinque Diego”. In parole povere, esiste la possibilità che qualcuno abbia inscenato l’auto impiccagione dopo averlo ammazzato. Ma ritorniamo al padiglione dove si è suicidato giovedì Sergio Caputo, “Avellino destro”. Nella recente relazione del garante nazionale delle persone private della libertà, vengono descritte le sue condizioni materiali. La delegazione del Garante ha osservato che nella sezione ci sono ad esempio le stanze numero 12 e 14 dove i fili elettrici erano scoperti, nella stanza numero 12 le pareti erano coperte di pezzi di dentifricio secco, in gran parte dei bagni i soffioni delle docce erano mancanti e sostituiti da una bottiglia plastica. Particolarmente degradato il servizio igienico della stanza numero 10, con il soffitto nero di umidità. Positivo è il dato della possibile fruizione di acqua calda. Nelle stanze non c’è il televisore e mancano gli armadietti per cui i vestiti e i generi alimentari sono appoggiati sul letto o per terra. Ma è l’intero carcere ad avere gravi problemi. Così come evidenziato sempre nella relazione del Garante, ci sono rischi di maltrattamento e alcuni episodi sono sottoposti al vaglio della Procura. Taranto. “In carcere ho perso l’uso delle gambe perché non mi hanno curato” di Angela Marino fanpage.it, 21 settembre 2019 Dino Caporosso è stato colpito alla schiena dalla pistola di un vigile urbano durante una tentata rapina. Recluso in carcere, Caporosso non ha potuto seguire le terapie che gli avrebbero permesso di tornare a camminare e alla fine la paralisi è diventata irreversibile. Oggi, dopo che una sentenza del tribunale gli ha dato ragione, Caporosso è ai domiciliari. Avrebbe potuto tornare a camminare, ma in carcere non fu curato e oggi, Dino Caporosso, è su una sedia a rotelle. Poteva essere evitato il calvario che Caporosso, oggi agli arresti domiciliari, vive a causa di una lesione midollare non trattata efficacemente. Era il 1981 quando, 23enne, tentò una rapina a una gioielleria di Taranto e invece di portare a casa un bottino di denaro e preziosi, portò una pallottola nella schiena. Quel proiettile, esploso dalla pistola di un vigile del fuoco, ha causato la lesione al midollo che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Avrebbe potuto tornare a camminare, però, se fosse stato adeguatamente assistito. Caporosso è stato sottoposto per un periodo a trattamenti di Fisiokinesiterapia che però in carcere sono stati sospesi. A nulla sono servite le richieste dell’avvocato, né le prescrizioni mediche che ordinavano la continuazione del trattamento per il detenuto. E così è arrivato il giorno, in cui qualcuno ha detto basta, ora è troppo tardi. Oggi Dino Caporosso, ex autotrasportatore, è recluso agli arresti domiciliari a Taranto, dove è assistito dalla sua famiglia. Il tribunale alla fine ha riconosciuto il grave danno arrecato dalla sospensione delle cure nel regime penitenziario, in “contrasto e in violazione delle prescrizioni”. Dopo aver ottenuto un risarcimento per il danno subito in carcere, Dino Caporosso ha avviato anche un’altra battaglia contro la condanna per narcotraffico. “Caporosso è protagonista di una vicenda molto complessa - spiega l’avvocato Baldassarre Lauria. È stato assolto in una pluralità di processi che gli contestano fatti di matrice mafiosa, ma condannato per narcotraffico e additato come figura apicale del consorzio criminale locale. Si tratta di sentenze che si contraddicono tra loro. Oggi - dice il legale - stiamo provando a dimostrare che si tratta - anche in questo caso - di un errore per il quale oltre alla salute il mio cliente sta pagando con la vita. Perché? Sfortuna? No, certo, di casi giudiziari come il suo è piena l’Italia”. Roma. Progetti di reinserimento per detenuti, protocollo del Campidoglio askanews.it, 21 settembre 2019 Firmato ieri mattina lo schema di Protocollo d’Intesa fra Roma Capitale, Ministero della Giustizia-Dap, Provveditorato Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise “per il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena, attraverso la partecipazione a progetti di pubblica utilità nel territorio di Roma Capitale”. La firma del Protocollo permette il rinnovo dell’accordo tra le parti con l’intesa di demandare i dettagli dei singoli progetti a degli specifici Protocolli Operativi. La durata è di 12 mesi tacitamente rinnovabile salvo esplicita volontà di ciascuna parte firmataria di porre termine notificata con un anticipo di almeno 60 giorni. Il Protocollo stabilisce la possibilità di ampliare l’iniziativa ad altri ambiti, come per esempio all’interno delle aziende agricole di Roma Capitale, e coinvolgendo diversi istituti penitenziari. Con esso si istituisce, infine, una Cabina di Regia per condividere eventuali criticità che si riunirà almeno una volta ogni due mesi. “La firma del nuovo Protocollo d’Intesa con il Ministero di Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di quest’oggi testimonia ancora una volta la validità e l’apprezzamento generale dei progetti legati al reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a misure restrittive. Siamo orgogliosi di essere considerati dei pionieri sotto tale profilo, apprezzati a livello internazionale e presi da esempio, come testimonia la delegazione Onu ricevuta gli scorsi mesi. I nostri obiettivi sono molteplici: diminuire la possibilità di recidiva, dare l’opportunità al detenuto di scontare il suo debito con la nostra società in maniera fattiva, offrire una qualifica professionale e, soprattutto, dimostrare ancora una volta come tali iniziative portino vantaggi sia al singolo detenuto che all’intera collettività. Puntiamo a rendere tale pratica una consuetudine nella nostra città”, afferma l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale, Daniele Frongia. “La nostra è una vera comunità solidale ed inclusiva”, dichiara l’Assessora alla Persona, Scuola e Comunità solidale Laura Baldassarre. “Come ho già detto in precedenza, il Protocollo di Intesa prefigura la possibilità di individuare ulteriori ambiti di intervento per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Quindi diamo attuazione alla funzione riabilitativa della pena, preparando le persone a reinserirsi nel tessuto sociale e lavorativo, dai quali ci provengono apprezzamenti rispetto all’iniziativa. Ancora una volta una integrazione vincente tra istituzioni, per i cittadini tutti”. “L’Amministrazione penitenziaria e anche il sottoscritto siamo più che soddisfatti dei risultati e dei riconoscimenti che questo progetto sta ottenendo”, ha detto il capo del Dap Francesco Basentini. “La città di Roma è capofila di questo progetto stupendo ed è stata un modello per tante altre città italiane, grandi e piccole. Non solo: lo è stata anche per una metropoli straniera come Città del Messico, dove il progetto sta partendo. Questo è un eccezionale esempio di collaborazione fra pubbliche amministrazioni che cercheremo di replicare ovunque: al Ministero si sta lavorando per esportare in Europa il modello Roma di lavori di pubblica utilità e noi saremo ben lieti di offrire la nostra disponibilità e il nostro supporto e di mettere a disposizione il nostro know-how. Dobbiamo iniziare a pensare il mondo penitenziario in modo nuovo: come una risorsa e una grande possibilità per tutti”. Volterra (Pi). Birra fatta in carcere per il reinserimento di cinque detenuti di Nilo Di Modica Il Tirreno, 21 settembre 2019 Con FairMenti anche un percorso per la produzione di pomodori A seguirlo un gruppo di giovani stranieri richiedenti asilo. La birra e il pomodoro, fuori e dentro la cella. Sono questi i due ingredienti che uniscono le storie di dieci persone attorno al progetto FairMenti, che mette insieme due percorsi di reinserimento nel mondo del lavoro di cinque richiedenti asilo e altrettanti detenuti nel carcere di Volterra. Le prime, sono quelle che lavorano nei campi, le seconde quelle che dentro le mura della prigione volterrana imparano a produrre una birra speciale: insieme metteranno a tavola oltre un centinaio di persone ad ottobre, in due tavolate al carcere e in un circolo a Pisa ancora da definire, il cui ricavato andrà al carcere stesso. Promosso e finanziato dalla Regione Toscana con capofila l’associazione di promozione sociale Agricultura sociale - onlus, in collaborazione con l’associazione Arci La Staffetta, la cooperativa Arnera e il sostegno di Coldiretti, Cia e Anci Toscana. “È un onore per noi fa parte di questo progetto”, commenta Fabrizio Filippi, presidente di Coldiretti Pisa. “L’agricoltura sociale da sempre è un obbiettivo della confederazione e della Fondazione Campagna Amica, che l’anno scorso ha dato vita ad una rete di agricoltura sociale che già conta 937 aziende in tutta Italia”. Nelle terre di BioColombini si coltivano i pomodori, mentre con La Staffetta, a Volterra, si fa la birra. I dieci protagonisti di questo progetto hanno un unico obiettivo formativo e di integrazione che coinvolge sia la filiera orticola che quella brassicola. Circa 15 ore settimanali, con corsi integrati di Haccp e sicurezza a cura dell’azienda. In questi mesi i richiedenti asilo hanno seguito e imparato ogni fase della coltivazione del pomodoro, fino alla raccolta. La Birra al Coriandolo Bio Toscano è invece il punto di arrivo dell’altro percorso. Il luppolo viene dalla società agricola Versil Green by Oligea, diretta da Elena Giannini, vice presidente Coldiretti Lucca. Il percorso formativo viene svolto nel carcere ed ha visto questo mese il culmine nella cotta didattica di birra artigianale della durata di otto ore, dalla macinatura alla successiva fase di ammostamento, bollitura e successivo inoculo del lievito che fermenterà per altri 15 giorni. A quel punto, allora, sarà il momento di mettersi a tavola. Lecce. “Made in Carcere”, per dare un’altra chance ai detenuti di Giada Scotto repubblicadeglistagisti.it, 21 settembre 2019 Inizia oggi il ritiro annuale degli Ashoka Fellow italiani. Quest’anno si svolge a Lecce e la padrona di casa è Luciana Delle Donne, una bomba di energia ed entusiasmo, come si evince anche dall’agenda: per accogliere in terra pugliese i suoi colleghi Fellow è pronto un ricco ventaglio di impegni tra tour della città, incontri con gli imprenditori locali e visita in carcere. Immancabile, quest’ultima, dato che dare una seconda chance a chi è in prigione è proprio la mission di Delle Donne, manager di estrazione bancaria con grande esperienza nell’innovazione tecnologica, che una dozzina d’anni fa ha scelto di lasciare il mondo della finanza ed entrare nelle carceri per aiutare le detenute in un percorso di cambiamento. Nel 2007, a quarantacinque anni, Delle Donne decide dunque di dare una svolta alla propria vita e crea Officina Creativa - una cooperativa sociale senza scopo di lucro tramite cui dà vita al marchio Made in Carcere, per il quale ha ottenuto il riconoscimento di Ashoka Fellow. Made in Carcere dà la possibilità alle detenute delle carceri di Lecce e Trani di intraprendere un percorso di formazione in campo tessile, da mettere a frutto nella produzione di oggettistica ricavata da materiali di scarto. Con la vendita di questi accessori le detenute si costruiscono un bagaglio di competenze professionali e un piccolo stipendio - ma, soprattutto, ricostruiscono la propria vita. A quest’iniziativa si affianca da qualche anno anche un progetto sull’educazione al cibo condotto in alcune carceri minorili, per dare anche ai più giovani l’opportunità di uscire da una situazione di disagio e rimettersi alla guida della propria vita. Come è scattata la scintilla che l’ha portata a lasciare un mondo fatto di sicurezze e a buttarsi nell’idea di Made in Carcere? Ho lasciato il mondo della finanza perché avevo voglia di esplorare nuovi mondi, di fare una nuova esperienza. Mi sentivo in quella che si definisce una “gabbia di vetro”. Non potevo lamentarmi, perché ero nella stanza dei bottoni, ma sentivo di voler esplorare nuovi territori, per mettere a disposizione le competenze che avevo acquisito negli anni e restituire, in qualche modo, la fortuna che avevo avuto. Quali sono stati i primi passi? Diciamo che il passaggio non è stato subito facile. Tanto per cominciare, ho iniziato con un fallimento. Avevo infatti brevettato un collo di camicia su cui avevo iniziato a lavorare con quindici detenute - che sono poi uscite tutte con l’indulto! Così mi sono ritrovata a dover ricominciare da capo. Il non avercela fatta è stata però un’illuminazione: mi ha fatto capire meglio dove stavo operando, cosa era possibile fare e cose invece no. In carcere infatti c’è un continuo turn over delle presenze e non si può pensare a una formazione che richieda troppo tempo. Serviva qualcosa che si imparasse velocemente. Così mi sono diretta sull’oggettistica etica, ricavata a partire da materiali e tessuti di scarto, per i quali è sufficiente una formazione di tre mesi. Produciamo borse, braccialetti, shopper bags e tanti altri accessori. Con questo progetto abbiamo sdoganato la parola “carcere” in Italia, abbiamo riportato al centro una realtà di cui, dieci anni fa, nessuno si occupava e sapeva nulla. Se prima si voleva solo lasciar tutto com’era e “buttar via la chiave”, poi c’è stato il necessario intervento educativo. L’ottanta per cento delle persone che in carcere ricevono un’educazione, non torna a delinquere: questo è fondamentale anche perché ogni detenuto costa allo Stato, e quindi a tutti i cittadini, circa 60mila euro all’anno. Aiutare Made in Carcere significa quindi aiutare tutti, aiutare a non delinquere e aiutare i detenuti a ricostruirsi una dignità, una propria “cassetta degli attrezzi” con cui presentarsi poi sul mercato del lavoro. Costruite inclusione e sostenibilità… Esatto, impatto ambientale e inclusione sociale. I nostri progetti volgono infatti sul tessile, a partire da materiali di scarto, e sull’educazione al cibo. L’idea è quella di creare prodotti di qualità, che facciano bene al corpo e all’anima sia di chi le produce che di chi li acquista. Come è organizzato il lavoro tra i detenuti? Il progetto di sartoria coinvolge solamente donne, che hanno accolto con assoluta convinzione questa iniziativa. La maggior parte sono mamme, che avrebbero abbracciato qualsiasi progetto desse loro la possibilità di riacquisire dignità e credibilità, soprattutto agli occhi dei loro figli. Grazie a Made in Carcere hanno la possibilità di pagare ai loro figli i libri, la scuola. Prima di entrare in carcere abbiamo studiato molto, ci siamo informati, e abbiamo capito che dovevamo lasciarci il passato di queste donne alle spalle e creare una sorta di “tempo zero” nella loro vita dal quale ripartire, e così è stato. Con i ragazzi è stato più difficile: sono più diffidenti e cercano, più che altro, di mettersi in evidenza per manifestare il loro disagio. È a loro che è rivolto il progetto sull’educazione al cibo, tramite cui creano biscotti vegani con materie prime di altissima qualità. Questo ci ha permesso di creare anche con loro, pian piano, un rapporto di fiducia: sono più “complicati” delle donne, ma con il tempo e la cura si riesce a conquistarli. Ad oggi, quanti detenuti lavorano con Made in Carcere? Al momento abbiamo oltre trenta detenuti ma, chiaramente, ne sono passati centinaia: bisogna considerare che la detenzione media è di tre anni e c’è quindi un continuo “ricambio”. Anche dal punto di vista emotivo, siamo messi a dura prova. Con i detenuti si crea un rapporto affettivo ma, come accade a scuola, appena hanno imparato, se ne vanno. Fa piacere che imparino a camminare con le proprie gambe, ma dispiace vederli andar via. E i dipendenti? Il nostro staff è invece composto da circa dieci persone che si dividono tra i laboratori, ognuno dei quali richiede un responsabile di produzione, i corsi di formazione e il reparto marketing: insomma, un modello classico di impresa che però, invece di generare profitto, genera benessere. Dal punto di vista economico quali sono le vostre risorse? Il nostro approccio è, principalmente, quello dell’autofinanziamento. Attraverso la vendita dei manufatti ricaviamo infatti i fondi per pagare lo stipendio dei detenuti. A questo si affianca però anche la raccolta fondi tramite, ad esempio, il cinque per mille, e Charity Stars, che raccoglie fondi per organizzazioni no-profit. Ogni anno si tiene poi l’Old star game, un evento con le vecchie glorie della pallacanestro, il cui ricavato ci viene donato. Tutta questa raccolta ci permette di alimentare nuovi progetti, di crescere, sperimentare e innovare. Come si è svolto il percorso per diventare fellow Ashoka? Il percorso è stato duro ma piacevole. Ho affrontato un’intervista in tre giornate, che ha scavato nel mio passato, sino all’infanzia, facendo riaffiorare tanti ricordi. È stato un po’ come andare in psicanalisi. Volevano avere la conferma che fosse veramente nel mio dna l’avere una visione innovativa, la capacità di inventare e progettare, già nel presente, scenari futuri. È stata una bellissima esperienza, interessante quanto stimolante. L’elezione mi ha dato la conferma di stare percorrendo la strada giusta, mi ha dato quella consapevolezza che aiuta ad andare avanti e dà la forza per alzarsi convinti, anche se stanchi, ogni mattina... perché sai che ciò che fai è importante anche per altre persone, e che loro credono in te. Quali sono i prossimi step e i prossimi obiettivi che si pone per Made in Carcere? Il prossimo obiettivo è quello di ampliare due progetti che già adesso stiamo portando avanti. Made in Carcere sostiene infatti lo sviluppo di nuove sartorie sociali di periferia, che coinvolgono persone che si trovano ai margini, in situazioni di forte difficoltà. Doniamo loro tessuti, stampiamo etichette con il loro logo, per aiutarli a far crescere la loro identità. Al momento collaboriamo con sartorie sociali nelle periferie di Lecce, Taranto, Bari, ma l’obiettivo è quello di creare una mappa sul territorio, tramite cui aiutare queste piccole realtà diffondendo il nostro know-how. Il secondo progetto consiste invece nell’ampliamento di una multipiattaforma online, la Second Chance Platform, che abbiamo creato per permettere a piccoli artigiani della bellezza etica e sostenibile di dar vita a un loro store online, dove pubblicizzare e vendere i loro prodotti. Si tratta di produttori che, altrimenti, non avrebbero avuto visibilità e che riescono così a proporre le loro idee senza dover creare un dominio, pagare un sito ecc. C’è poi un’ultima cosa: con noi è stata creata in carcere, forse per la prima volta in Italia, quella che io chiamo una “maison sartoriale”, un vero e proprio laboratorio in cui le celle sono state trasformate in cucine e lo spazio, riempito da divani, tappeti e mobili antichi, è utilizzato per organizzare corsi, permettere alle detenute di mangiare insieme, trascorrere del tempo leggendo, sfogliando riviste e giornali. Se ci siamo riusciti è stato grazie alla direttrice del carcere di Lecce Rita Russo, la quale ci ha affidato un’intera ala del carcere da trasformare in maison. Oggi inizia a Lecce il ritiro annuale degli Ashoka fellow italiani. Qual è lo spirito con cui viene affrontato questo ritiro? L’evento parte oggi e si svolge in tre intense giornate. Saranno giornate di confronto e di riflessione, ma anche di relax, perché è in un’atmosfera rilassante che vengono fuori le idee migliori. Oggi visiteremo le periferie di alcune città, dopodiché faremo una cena - picnic a Lequile, il comune che ci ospita, a cui ogni fellow porterà qualcosa che ha preparato. Domani mattina andremo in carcere, per poi concederci un pomeriggio in un centro benessere e una passeggiata serale nel centro storico di Lecce. Domenica, infine, incontreremo vari imprenditori che hanno lo spirito e la voglia di confrontarsi con noi per riflettere e capire insieme come si può reagire, con l’innovazione sociale, alle sfide che ci si pongono davanti. Il mio desiderio è quello di poter trascorrere queste tre giornate di confronto in un ambiente comodo, non solo “didattico”, poiché abbiamo bisogno di essere un po’ “coccolati”: ci doniamo completamente a questi progetti di innovazione sociale e abbiamo bisogno di prenderci anche del tempo per noi stessi, per riflettere e rigenerarci senza stress. Roma. Fiamme nel Cpr di Ponte Galeria, i migranti tentano la rivolta di Marco Agostini dire.it, 21 settembre 2019 Fiamme all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, alle porte di Roma. A fuoco un cumulo di materassi che un gruppo di cittadini nigeriani ha incendiato in protesta contro i rimpatri imminenti. Sul posto sono intervenuti la Polizia e i Carabinieri in servizio di sorveglianza al Cpr, che hanno sedato la protesta. Le fiamme sono state subito spente dai Vigili del fuoco e al momento non risultano esserci feriti o intossicati. Già all’inizio di luglio, 12 migranti, a seguito di una rivolta, erano riusciti a fuggire dal centro scavalcando le recinzioni perimetrali, per poi dileguarsi nelle campagne. I disordini avevano coinvolto in tutto 25 immigrati, ma circa la metà di loro era stata catturata subito dopo la fuga. Roma. In piazza san Pietro i detenuti di Isola Solidale distribuiscono pasti ai senza tetto vaticannews.va, 21 settembre 2019 Questa sera, alle ore 21, i detenuti dell’Isola Solidale insieme ai volontari dell’Opera Divin Redentore saranno in via della Conciliazione dove distribuiranno i pasti alle numerose persone senza fissa dimora che vivono nelle vicinanze della basilica di San Pietro. Saranno serviti 40 pasti che prevedono pollo e un contorno di verdure. Tutto preparato in casa dai detenuti dell’Isola Solidale che si sono mobilitati per questa nuova esperienza, che viene ormai ripetuta ogni mese dallo scorso febbraio. Alcuni di loro hanno avuto un permesso speciale dal magistrato e saranno in via della Conciliazione per distribuire i pasti insieme agli altri volontari, mentre gli altri detenuti si occuperanno della cucina, dello sporzionamento dei pasti e del loro confezionamento. “Per i nostri ospiti questo gesto di solidarietà è ormai una vera e propria tradizione - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - un’occasione in cui preparano i pasti con grande cura, dimostrandosi sempre molto felici di poter aiutare chi ha più bisogno. È un impegno che fa bene anche per loro, nel ritrovarsi di nuovo parte attiva della società, che è proprio l’obiettivo che vogliamo perseguire qui all’Isola Solidale”. L’Isola Solidale è una struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000. Salerno. L’arcivescovo ha incontrato i detenuti: “Non chiudete mai il cuore in una cella” di Carmen Autuori La Città di Salerno, 21 settembre 2019 Il presidente del tribunale di Sorveglianza: “Magistrati, alto il rischio di diventare farisei”. “Il perdono di Dio non è mai proporzionale al peso dei peccati, bensì alla capacità di mantenere un cuore vivo”. Così monsignor Andrea Bellandi, Arcivescovo della Diocesi di Salerno - Campagna - Acerno, ha salutato i detenuti reclusi nella Casa Circondariale di Fuorni in occasione della ormai consueta visita con la sacra reliquia del braccio di San Matteo, nei giorni che precedono la festa patronale del 21 settembre. Grande commozione hanno destato le parole dell’Arcivescovo che, prendendo spunto dal Vangelo di Luca precisamente dal brano del fariseo e della donna adultera, ha invitato i presenti a “non chiudere il cuore in una cella, così come il fariseo che ha un cuore arido perché, a differenza della donna, non è capace di amare”. “Dobbiamo avere il coraggio di amare - ha proseguito monsignor Bellandi sulla falsariga dell’ultimo messaggio di Papa Francesco ai detenuti- perché coraggio e speranza sono intimamente connessi”. Ad attenderlo, nella cappella gremita il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Monica Amirante, il direttore del carcere Rita Romano con i dirigenti amministrativi, il comandante della polizia penitenziaria Gianluigi Lancellotta e 120 ospiti della casa circondariale in rappresentanza di tutte le sezioni del carcere, comprese quelle di massima sicurezza. “Ed è quest’ultima presenza la novità rispetto agli anni precedenti” ha spiegato don Rosario Petrone, cappellano del carcere di Fuorni. E rifacendosi alle parole di Bellandi il presidente Amirante ha dichiarato: “L’aridità del cuore può essere traslata nella rigidità burocratica. Per noi magistrati è alto il rischio di diventare come il fariseo se non teniamo conto dei diritti di chi è privato della libertà. I diritti che afferiscono alla dignità della persona vanno ampliati, soprattutto qui, in carcere”. La reliquia, portata dall’Arcivescovo Bellandi, è stata accolta da un grande applauso e dalle braccia tese attraverso le inferriate dei detenuti nella sezione “protetti” che hanno avuto così l’impressione di ricevere, anche se solo per un attimo, la carezza del Santo. “Qui, privati degli affetti, è difficile credere in Dio. Ci affidiamo a San Matteo che possa alimentare in noi la speranza” ha dichiara Antonio, uno dei detenuti. “Nel 1996 con monsignor Gerardo Pierro, allora Arcivescovo di Salerno, abbiamo dato inizio a questa tradizione dalla grande valenza simbolica perché rappresenta l’esserci. - ha sottolineato Rita Romano, direttore della struttura penitenziaria - In genere gli istituti penitenziari sono ubicati nelle periferie perché devono essere una realtà dimenticata e da dimenticare. Con l’ingresso delle reliquie si è voluto ristabilire il legame con la città che in questi giorni è in festa per il suo patrono. Proprio in quest’occasione, dunque, la città non può e non deve dimenticare quelli che sono gli ultimi”. La stessa Romano ha aggiunto che “il sentimento religioso è molto presente tra i detenuti e queste occasioni, oltre a vedere la presenza delle istituzioni civili e religiose, aprono il carcere all’esterno, servono a far sentire a chi è privato della libertà che esiste un fuori che non li ha dimenticati”. Arienzo (Ce). Laboratorio di scrittura creativa promosso dal Garante dei detenuti linkabile.it, 21 settembre 2019 Nella giornata di ieri si è tenuto l’evento di chiusura del Laboratorio di Scrittura creativa organizzato dal Garante delle persone detenute della Regione Campania nell’ambito del programma “Oltre le mura” e affidato a Less - Società Cooperativa Sociale a r.l. Alla conferenza stampa sono stati presenti le persone detenute che hanno preso parte alle attività laboratoriali; hanno partecipato la Direttrice della C.C. di Arienzo, Dott.ssa Annalaura De Fusco, il Garante delle persone detenute della Regione Campania, Prof.Samuele Ciambriello che durante la presentazione ha dichiarato: “l’anagramma di carcere è cercare, abbiamo promosso questa iniziativa perché attraverso questa scrittura (un articolo, una poesia, una racconto) i detenuti possono ricevere un aiuto per ritrovarsi, recuperarsi, risarcire. La possibilità di esserci, di pensare, di immaginare e di ricordare fanno parte della propria individualità e sono potenzialità di ogni persona. E i diversamente liberi hanno trovato forme e parole per dirlo”. Per il Presidente e della Cooperativa Sociale Less, Daniela Fiore:” il laboratorio di scrittura creativa ha costituito un’esperienza significativa sia per gli esperti che lo hanno condotto sia per le persone detenute che hanno partecipato; crescita professionale e personale per gli uni e spazio di espressione, creatività ed evasione per gli altri, il percorso ha avuto un impostante valenza pedagogica che ci auguriamo posso replicarsi dando continuità ad attività culturali e formative negli istituti penitenziari”. Per la direttrice De Fusco: “Questo loro scrivere in carcere ha prodotto effetti positivi sul piano personale e sul piano relazionale”. È stato presentato il lavoro realizzato nell’ambito del Laboratorio e l’opera di un giovane detenuto dell’Istituto Penitenziario di Arienzo, finalista al Concorso letterario LiberAzioni - Io sono tante/i. Tutte/i quelle/i che sono stata/o, sono e sarò, promosso dal Progetto LiberAzioni - Festival delle Arti dentro e fuori, che si terrà a Torino dal 18 al 20 ottobre di quest’anno. Durante la presentazione i detenuti che hanno partecipato al laboratorio hanno presentato i loro elaborati di particolare impatto emotivo sono state alcune autobiografie, che mostrano la loro intimità d’animo altri invece hanno allietato l’evento con canzoni classiche napoletane. La giornata si è conclusa con gli attesti di partecipazione consegnati dalla Direttrice Annalaura De Fusco e il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello a ogni singolo partecipate del laboratorio. La Cooperativa Less pubblicherà i lavori del corso. “Prigionieri”, istantanee di corpi e luoghi senza Stato recensione di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 21 settembre 2019 È uscito in questi giorni “Prigionieri” (Contrasto editore), nuovo libro di Valerio Bispuri, racconto fotografico incentrato sulla libertà perduta e che si aggiunge a “Encerrados” reportage realizzato nelle carceri sudamericane e a “Paco” sulla cocaina dei poveri che sta facendo stragi di giovani nei sobborghi delle grandi città sudamericane. Con questo “Prigionieri”, con i suoi 108 scatti in bianco e nero, Valerio Bispuri ci porta dentro Poggioreale, Rebibbia, San Vittore, l’Ucciardone, la Giudecca e in altri istituti di pena e ci fa incontrare la popolazione detenuta, donne e uomini, soprattutto uomini. “Non un lavoro di denuncia - precisa il fotografo - il mio è un lavoro antropologico, per capire chi sono e come si vive privati della libertà”. Un lavoro che è stato compiuto in circa tre anni e mezzo di visite in carcere, a stretto contatto con i detenuti, pranzando con loro nelle celle, ascoltando i loro racconti, condividendo pianti e risate, e che è culminato con la pubblicazione del libro e con un’anteprima al festival di fotogiornalismo “Visa Pour l’Image” di Perpignan, in Francia. Mi sono procurato il libro, l’ho sfogliato con cura, approfitto del lavoro di Valerio Bispuri per provare a interpretare queste immagini o meglio per dire quello che mi suggeriscono questi corpi in questi luoghi. Scontato che mostrano il classico cliché del criminale (che mi piace poco) non aggiungendo nulla a ciò che da sempre, da Lombroso in poi potrei dire, ci propinano in modo superficiale e di parte certo cinema, certa stampa e tanti format televisivi con criminologi buca-schermo, dandoci l’illusione di essere al riparo dal brutto ceffo, precisato cioè questo, va dato comunque merito che in questi scatti emerge la sofferenza dei corpi, il loro essere corpi di persone dimenticate, emarginate, lasciate andare alla deriva come scarti, rifiuti non riciclabili. Certo, sia ben chiaro, non tutta la popolazione carceraria è quella che si vede in questi scatti, non tutti sono così come appaiono qui nelle foto di Valerio Bispuri, non tutti interpretano alla perfezione lo stereotipo del pericoloso deviante che disegna nel corpo e con il corpo i segni della guerra, ma tutti - e oggi sono oltre sessantamila ripartiti in 200 istituti - vivono giorno e notte in spazi fatiscenti, dove il gabinetto è accanto al lavandino che serve per lavare i piatti, per lavare la verdura, ma anche per lavarsi i capelli; dove in uno spazio che è grande come una normalissima camera da letto di una qualunque casa sono costretti a vivere in letti a castello quattro, sei, anche otto persone, dove uno legge, mentre l’altro dorme, l’altro guarda la Tv, l’altro sta disteso a dormire, un altro scrive una lettera. Perché altro è molto difficile poter fare: nel 2018 ai corsi professionali in carcere hanno partecipato 1.757 detenuti, nelle lavorazioni (pulizia, porta-vitto, spesino eccetera) poco più di 15 mila impiegati a rotazione ogni tre mesi per poche ore al giorno. Davvero ben poco da fare in questo enorme e diffuso degrado strutturale fatto di muri scrostati, umidi e sporchi, spesso in compagnia dei topi, in una desolazione che nulla ha a che vedere con il rispetto della dignità umana. In spazi disumani che nulla hanno a che vedere con il fine della risocializzazione prescritto dalla nostra Costituzione. E nei quali regna oltre che la sofferenza la solitudine. Il vuoto assoluto. Guardate bene queste foto, andate oltre a quello che già vi hanno fatto vedere tanti altri in tante altre scene di malavita, e soffermatevi a guardare le aree dei passeggi, questi cubi di cemento ai quali è stato tolto il tetto, guardate “i prigionieri” mentre guardano il nulla, mentre giocano a pallone da soli, mentre scolpiscono i muscoli, mentre mantengono in vita le loro braccia e le loro spalle per difesa e per offesa, per aggrapparsi a quell’unica cosa che hanno: il loro corpo. Corpo di classe, classe subalterna, la classe preferita e verso la quale è tutto orientato/disorientato il diritto penale e lo stesso sistema penitenziario. (I dati ce lo dicono da tempo: gran parte dei detenuti hanno determinate e sempre le stesse origini territoriali ed estrazioni sociali). Guardate al di là della foto e dentro le foto di Bispuri: scoprirete che in questi luoghi abitati da questi corpi manca soprattutto lo Stato, quello Stato che deve garantire il lavoro e la pari dignità sociale, che deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che promuove lo sviluppo della cultura, che non considera nessuno colpevole fino alla condanna definitiva. Quello Stato che deve tendere alla rieducazione del condannato. Ecco, questo in carcere, nonostante la volontà, le raccomandazioni e gli intenti è solo una parola vuota. Prima di scrivere questi miei pensieri ho chiamato al telefono e ho parlato con Valerio Bispuri. È stato uno scambio di idee utile, una chiacchierata che ha confermato le mie posizioni per lavorare per fare a meno del carcere: “Con le mie fotografie - mi ha detto il fotografo di “Prigionieri” - ho voluto raccontare gli invisibili, le persone prive di libertà e con questa parola intendo non solo la libertà fisica. Ho capito che in carcere o ci si abitua o ci si deprime. Le carceri sono lo specchio della società di un Paese, dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali. Mi sono accorto come il sistema penitenziario italiano ha problemi di sovraffollamento, disoccupazione per i detenuti e strutture precarie. Negli ultimi anni c’è stato un lento miglioramento in alcuni carceri, ma la condizione dei detenuti resta sempre di estrema difficoltà e isolamento. In questi non-luoghi, le persone private della libertà cercano di ricostruire abitudini, affetti e trovare un’alternativa per il futuro che spesso non esiste. Non c’è alcuno sforzo da parte dello Stato di aiutare al reinserimento di chi esce dal carcere dopo anni di detenzione. Sono così moltissimi i detenuti che tornano dopo breve tempo in prigione”. Concludo con una mia piccola considerazione: corpi così (persi, abbruttiti, sfiniti, soprattutto corpi strappati a opera di un diritto di parte) oggi non serve andare a cercarli in carcere perché li possiamo trovare ovunque, purtroppo: nelle stazioni, sopra i cartoni nei sottopassi delle metropolitane, nei parchi mentre spacciano o si infilano un ago nel braccio, nelle nostre grandi città diventate centri senza scopo e senza bussola, nelle periferie, nei quartieri abbandonati, nel punto più basso della piramide sociale e dove c’è scarsissimo livello di istruzione, poca o nessuna esperienza lavorativa, dove si resta in vita solo grazie al lavoro nella terra della devianza, nel mondo illegale-criminale. Ideali e perfette aree di preparazione per soggetti adatti al prossimo internamento. A meno che non ci sia finalmente e nell’interesse di tutti un progetto di cambiamento per una società migliore, soprattutto una società non diseguale. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Lo scrittore e il detenuto. “Vento in scatola”, un romanzo giallo nato in carcere recensione di Mario Valentini siecom.org, 21 settembre 2019 Inizialmente “Vento in scatola” sembra un resoconto - in bilico tra verità e finzione - di un’esperienza di carcere. Scritto da Marco Malvaldi con Glay Ghammouri e pubblicato da Sellerio, il risvolto di copertina ci informa del fatto che i due autori si sono conosciuti appunto presso il carcere di Pisa, dove Malvaldi ha portato avanti un corso di scrittura creativa che il detenuto (“a causa di un grave delitto”) Ghammouri ha frequentato. Lo stesso risvolto definisce il libro “commedia da camera”, avvertendo che in questo caso la camera è molto estesa, è l’ambiente chiuso di un intero carcere, e che il libro “non ha niente di autobiografico pur avvalendosi di esperienze vissute”. Spulci un po’ di notizie dalle note di copertina, dunque, intanto che continui a leggere. Poi, a fine lettura, il libro si rivela quel che a metà lettura avevi il sospetto che fosse: un vero e proprio romanzo giallo. La trama inizialmente è un po’ esile. Poi si va irrobustendo. Si dipana poco per volta, come a velocità ridotta. È ben gestita. Ti piace il modo in cui diversi paragrafi vengono montati, riproponendo nel paragrafo successivo una frase, un’immagine o una parola che chiude il paragrafo precedente, come a creare un incatenamento, mentre intanto si opera un netto stacco, un brusco passaggio di scena o di ambiente. L’esperienza della detenzione la ritrovi tutta, nel libro: molti spunti di riflessione e esperienze dirette di vita in carcere, raccontate da chi sta dentro, da chi quei luoghi li attraversa ogni giorno e li conosce bene. Il libro, insomma, si legge con interesse e offre numerose informazioni sulla vita in condizione di detenzione, che non è facile recuperare altrimenti. Eppure il tutto ti sembra un po’ troppo ripulito, disinfettato, igienizzato. E hai il sospetto che sia proprio la tramatura romanzesca, quel tono tipicamente anaffettivo e per tradizione scarsamente emotivo del giallo deduttivo o a enigma (che a un certo punto, in tutta la seconda parte, abbiamo detto che prende piede) a provocare questo effetto di igienico distacco rispetto ai luoghi, alle esperienze, al contesto, agli eventi narrati. Ti vien da pensare, insomma, che se il bello dei gialli metropolitani di Scerbanenco era una rara, potente capacità di narrare e descrivere un ambiente irreversibilmente infettato e corrotto, stucchevole è la dimensione di certi altri gialli in cui gli omicidi sembrano una breve parentesi in un mondo che sostanzialmente rimane incontaminato: come se fossero tuffi nell’acqua immobile di una piscina che nessun alito di vento agiterà mai. Finito il tuffo, passata quell’inaspettata e imprevista increspatura, quello specchio d’acqua ritorna fermo. E rimarrà così, intonso. Dicevo, intanto che la storia va avanti e le vicende “gialle” si dipanano senza mai riuscire a infettare o contaminare nel profondo ambienti, eventi, personaggi della storia (la narrazione piuttosto prende la piega un po’ più pacificata della commedia); mentre gli eventi pian piano si susseguono senza riuscire a scombinare o sgranare la resa stilistica del racconto, tante cose della vita in carcere le scopri. Le poche ore d’aria concesse ai carcerati, la vita in una cella angusta in cui si cucina, si va in bagno, si lavano stoviglie a stretto contatto con altre quattro o cinque persone, senza nemmeno riuscire a muoversi. Le chiacchiere interminabili, la solidarietà, i conflitti violenti con i compagni di cella. L’abuso di alcuni carcerieri sui carcerati. La dimensione abusante dell’istituto di pena in sé, in quanto dispositivo in cui si esercita la forza della coercizione. Gli incontri e le amicizie pericolose con un camorrista che prima prova ad affiliare il protagonista del romanzo per utilizzare i suoi preziosi servigi e poi inizia a controllare ogni suo spostamento tramite i suoi scagnozzi, provando a impadronirsi della sua esistenza. I rapporti, sempre in bilico tra conflitto e allettamento, tra controllo e connivenza, che si instaurano con i secondini (che- avvertono gli autori- in carcere vengono sempre chiamati assistenti). L’amato calcio, rispetto al quale però si diventa esperti solo di Coppa Italia, perché è l’unica competizione che i carcerati riescono a seguire in chiaro sulle emittenti nazionali. E poi quel modo di orientarsi tra gli spazi chiusi degli istituti di pena. Quel progressivo rinunciare alla vista perché non si ha la possibilità di guardare spazi aperti e mettere a fuoco cose lontane (“il disturbo più diffuso in carcere non è la depressione ma, molto più banalmente, la miopia”). Per cui è l’udito il senso che maggiormente si sviluppa: è attraverso l’udito che si impara a prevedere i pericoli, che si apprende cosa avviene nei corridoi o in un’altra cella, che si riconoscono gli umori, le inquietudini, le tensioni e i conflitti pronti a esplodere nell’ambiente carcerario. E altri dettagli propri dell’organizzazione degli istituti di pena: il rancio immangiabile, la possibilità di farsi recapitare settimanalmente un “sopravvitto” (una spesa aggiuntiva rispetto alla dotazione standard del carcere, di prodotti a scelta dei detenuti) e l’astrusa, sfiancante modulistica da compilare per una qualsivoglia, anche minima, richiesta il carcerato debba rivolgere all’Istituzione. Mentre descrive molti aspetti della vita in carcere, intanto “Vento in scatola” struttura la sua dimensione più propriamente finzionale citando una storia classica di ambientazione carceraria. Una delle più belle: “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”, il lungo racconto di Stephen King raccolto in “Stagioni diverse”, da cui è stato tratto il film “Le ali della libertà”. È un procedimento parodico, in un certo senso, anch’esso tipico della commedia: si sfrutta uno spunto narrativo già noto e presente in un’altra opera, abbassandolo, addomesticandolo, facendolo deragliare verso altri esiti. Lì, in “Rita Hayworth…” di Stephen King, il protagonista era un bancario molto esperto in transazioni finanziarie, che doveva scontare il carcere a vita per l’omicidio (che con ogni probabilità non era stato lui a commettere) della moglie con l’amante (un giocatore di golf). Il bancario, Andy Dufresne, utilizzava le sue competenze finanziarie per ingraziarsi prima le guardie carcerarie, poi perfino il direttore del carcere e organizzare, sfruttando il buon trattamento e i privilegi ottenuti in questo modo, un’epica fuga. Qui, in “Vento in scatola”, il protagonista è un broker tunisino piuttosto truffaldino, che prima ottiene dei privilegi da parte delle guardie carcerarie grazie alle sue capacità di cuoco (nel giallo italiano pare sia impossibile non parlare di cibo e cucina, ti viene da pensare mentre leggi), poi utilizza le sue capacità di broker per stringere alleanza con alcuni agenti della polizia penitenziaria e inacastrare un camorrista. Il romanzo mette in scena le relazioni tra detenuti, i reciproci racconti scambiati nelle lunghe ore passate in cella. Ma parla anche a lungo dello strano dialogo (o incastro) che si instaura con gli assistenti, con le guardie carcerarie. Il disagio è duplice: degli strani suicidi avvengono dall’una e dall’altra parte, perché il carcere segna le vite sia di chi lì dentro vi è detenuto sia di chi vi lavora. Eppure al paesaggio manca qualcosa, come si è detto. Il chiuso contesto carcerario non ti arriva dritto, violento, messo a fuoco nell’interezza di tutti i suoi possibili contorni. Ed allora è come se durante la lettura si sentisse il bisogno di compensare quella che si percepisce come una leggera sfocatura dello sguardo attingendo ad altri tipi di resoconto per riuscire a capire con maggiore chiarezza come sia la vita dietro le sbarre. Si incomincia a cercare altrove qualche altro riferimento. Sarà che il tuo livello d’attenzione si è fatto particolarmente acuto per via del libro che stai leggendo, ma inizi a ritrovare e selezionare tra le pagine dei giornali che compri, tra le riviste che sfogli, tra le storie che ascolti, tra i libri che hai in casa: articoli, servizi, report fotografici che parlano di carcere. Ed è così che il quadro si completa, il paesaggio diventa più nitido. Alla fine isoli due titoli per completare quel quadro: uno di recente uscita, uno di ormai diciotto anni fa. Due reportage fotografici: “Prigionieri” di Valerio Bispuri, da poco pubblicato da Contrasto, e “Detenuti” di Mauro D’Agati, pubblicato da cal.co editore nel 2001. Ma questa è probabilmente un’altra storia, che merita un articolo a sé. Intanto ora, qui, lasci quei titoli come due meri riferimenti bibliografici ripromettendoti di parlarne diffusamente al più presto. Eutanasia, il Papa in campo. Consulta verso la decisione di Barbara Acquaviti e Valentina Errante Il Messaggero, 21 settembre 2019 Contro ogni possibile apertura a pratiche di eutanasia o suicidio assistito. Papa Francesco torna a far sentire la propria voce alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità delle norme che puniscono l’aiuto al suicidio. Sulla questione, sollevata dalla Corte di Assise di Milano nell’ambito del procedimento contro Marco Cappato, autodenunciatosi dopo aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo, la Corte aveva concesso, invano, un anno al parlamento per legiferare. Nulla è stato fatto ed è molto improbabile che ora la Consulta decida di concedere una ulteriore proroga. Come chiedono alcune forze politiche, anche perché fino ad ora neppure l’avvocatura dello Stato è stata coinvolta per chiedere in giudizio più tempo per formulare una nuova norma. Così alla vigilia delle due udienze, che il 24 settembre potrebbero consegnare al Paese un verdetto epocale, cresce la tensione. Lo scenario potrebbe cambiare in corner: i legali di Palazzo Chigi potrebbero ricevere un mandato per costituirsi davanti alla Corte e chiedere che conceda più tempo al legislatore visto che la questione riguarda “un incrocio di valori di primario rilievo”, come avevano sostenuto gli stessi giudici lo scorso anno. Nella sollecitazione al Parlamento, però, la Corte anticipava il proprio sentire, definendo come “costituzionalmente non compatibili” gli effetti della norma vigente, ma sollecitava le Camere a “scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale”. Sul rischio le forze politiche si dividono, da un lato Forza Italia, che spera ancora in un rinvio. Dall’altro i Cinque Stelle che si trovano sulla posizione più liberale. In mezzo i dem, divisi anche all’interno, ai quali avere più tempo per trattare non dispiacerebbe. Parla ai cattolici, Papa Francesco, e non vacilla: “Si può e si deve respingere la tentazione - indotta anche da mutamenti legislativi - di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”. È tornato a dirlo ieri, ricevendo la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. Non è il primo appello del pontefice che torna a fare riferimento ai valori cattolici e alla tutela della vita. La prova di forza alla Camera, le commissioni riunite Giustizia e Affari sociali, il 31 luglio scorso, nonostante un dibattito durato due mesi, si sono arrese di fronte all’impossibilità di produrre almeno un testo base. Principalmente a causa della distanza siderale all’interno dell’allora maggioranza, vista la posizione assolutamente liberale del Movimento Cinque Stelle. Pur se meno lontani, tuttavia, anche gli orientamenti tra i giallorossi non combaciano. Il Pd, e altrettanto vale per Italia viva di Renzi, è attraversato da diverse opinioni. E c’è una parte consistente che ritiene necessario fare da sponda al mondo cattolico. D’altra parte, ora che la Lega non è più in maggioranza, è proprio ai dem che guarda la Chiesa per stoppare le posizioni del M5s. In tutto, oltre a quella di iniziativa popolare, alla Camera, le altre proposte sono state presentate: da Andrea Cecconi del gruppo Misto, Michela Rostan di Liberi e uguali, Doriana Sarli del Movimento Cinque Stelle e Alessandro Pagano della Lega. Altre due sono invece state depositate al Senato, una da Tommaso Cerno del Pd e l’altra dal pentastellato Matteo Mantero. A Palazzo Madama, tuttavia, l’esame non è mai cominciato. Per questo, Forza Italia ha presentato una mozione nella speranza che la Corte Costituzionale conceda altro tempo, visto che - in virtù del bicameralismo perfetto - il tema è stato affrontato soltanto da Montecitorio. Polemiche, inoltre, ha suscitato la notizia di una telefonata, definita informale, del presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, al presidente della Corte Costituzionale. Una scelta che è stata apertamente criticata da Marco Cappato che ha commentato: “È stata una “pressione indebita”. Clima. Sette continenti in marcia per una nuova idea di mondo di Marina Catucci Il Manifesto, 21 settembre 2019 Lo sciopero di New York è cominciato ufficialmente alle 12:30, con un concentramento nella piazza di Foley square da dove è partita una marcia verso Battery Park, l’estrema punta sud di Manhattan, dove si è tenuto un comizio dalle 15 alle 17 con l’intervento conclusivo di Greta Thunberg. E proprio Greta ha celebrato le prime mosse dell’azione globale: “I primi numeri - ha raccontato - dicono 400.000 persone in tutta l’Australia, 100.000 a Berlino, 100.000 a Londra, 50.000 ad Amburgo”. 2993 cittá, 162 nazioni, 7 continenti: il #ClimateStrike, lo sciopero per il clima, si è inserito nella lista delle manifestazioni globali che hanno avuto inizio il 15 febbraio del 2003, quando per la prima volta il mondo è sceso in piazza compatto per portare avanti un’istanza comune, trasversale, in quell’occasione era l’opposizione alla guerra in Iraq, questa volta è la difesa del pianeta. I temi non sono generici, lo sciopero ha una serie di richieste che si legano ampiamente a quelle del Green New Deal che lega l’ambiente all’economia, e includono l’abbandono dei combustibili fossili e un adeguato carico di responsabilità per gli inquinanti. Le origini di queste manifestazioni risalgono a un anno fa, e sono ispirate dalle proteste solitarie della sedicenne Greta Thunberg davanti al Parlamento svedese; i ragazzi di tutto il mondo hanno iniziato ad aderire ai Climate Strikes for Future, per ricordare agli adulti che contro i cambiamenti climatici bisogna agire e subito. Questi scioperi globali per il clima in un anno sono diventati un movimento di protesta civile capace di portare in piazza milioni di persone alla vigilia del Climate Summit dell’Onu che si terrà a New York il 23 settembre. “Oggi abbiamo fatto un walk out - dice Jordan 17enne del Queens - siamo usciti in massa da scuola per aderire al Climate Strike, e questa non ci verrà contata come assenza. Dobbiamo invertire ciò che hanno fatto i nostri genitori. Hanno rovinato tutto lasciando che troppe cose progredissero solo perché pensavano ci avrebbero aiutato in futuro, beh in realtà non ci aiutano affatto in futuro”. Gli studenti sono arrivati al concentramento di Foley Square con un messaggio che ricorda molto quello dei loro coetanei del movimento contro le armi, NeverAgain. “Sappiamo che i potenti fino ad ora hanno privilegiato il capitalismo e le industrie private rispetto al nostro benessere reale - dice la 17enne Olivia - e abbiamo un messaggio per loro: li stiamo guardando e anche se non siamo ancora in età di voto, lo saremo presto”. A parlare dal palco di Foley square prima dell’inizio del corteo, c’era Marisol Rivera, attivista di 13 anni la cui casa è stata distrutta durante l’uragano Sandy: “Non possiamo lasciare che le persone soffrano, tutti noi meritiamo di vivere liberi da combustibili fossili e avere una vita migliore. Ciò che è accaduto a me può accadere alle persone che conoscete e a cui volete bene”. Mentre Manhattan si aspettava l’intervento di Greta Thunberg, a Brooklyn un altro gruppo di attivisti aveva organizzando il Frontline Climate Strike, focalizzato sulle comunità a basso reddito che rischiano di essere maggiormente colpite dall’ingiustizia ambientale e dalla crisi climatica. “È tutto un solo problema - dice il 16enne Pedro, che si definisce newyorican, newyorchese di origine portoricana - la gente che scappa da zone dove gli uragani sono devastanti e non ci sono risorse per ricostruire scappa in altri Paesi dove non li vogliono, i poveri diventano sempre più poveri, insicuri, svantaggiati. Bisogna aggiustare questo tipo di società e ciò che fa impazzire il clima, perché sono la stessa cosa”. L’inviato Onu per il clima: “Italia in prima fila, ma bisogna fare di più” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 21 settembre 2019 Luis Alfonso de Alba: il tempo dei negoziati è finito. “L’Europa e l’Italia sono protagonisti molto positivi della lotta contro i cambiamenti climatici, ma abbiamo bisogno che tutti facciano di più. Per centrare gli obiettivi che ci siamo dati a Parigi, gli Stati devono raddoppiare o triplicare gli impegni presi. La fase del negoziato è finita: il vertice sul clima all’Onu avrà lo scopo di accelerare l’implementazione”. A trasmettere questo senso di urgenza è l’ambasciatore messicano Luis Alfonso de Alba, inviato speciale del segretario generale Antonio Guterres per il 2019 Climate Action Summit, che incontriamo alla conferenza organizzata alla vigilia del vertice da United for Climate Justice. Lei ha gestito il negoziato per il Summit, che comincia oggi con l’incontro dei giovani. Cosa sperate di ottenere? “Il segretario generale Guterres ha posto obiettivi ambiziosi, perché l’emergenza lo impone. Ha chiesto di non costruire più centrali elettriche a carbone a partire dal 2020, e rilanciare gli impegni per arrivare a zero emissioni entro il 2050. Non ci aspettiamo bei discorsi, ma piani concreti. Il summit non è un punto di arrivo, ma l’inizio di un nuovo processo: il tempo dei negoziati è finito, ora bisogna agire. È necessario cambiare in maniera radicale il modo in cui consumiamo e produciamo. Per riuscire a centrare i parametri di Parigi gli Stati devono raddoppiare o triplicare i loro impegni. Governi, imprese e società civile devono dimostrare la leadership con i fatti”. Lei ha lavorato con l’amministrazione Trump, ma non c’è dubbio che l’uscita degli Usa dall’accordo di Parigi abbia complicato il lavoro. L’Europa deve fare di più per compensare? “La Ue è un grande partner, lo ha dimostrato attraverso l’impegno di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, e centrare l’obiettivo della neutralità entro il 2050. Non tutti i Paesi, ma la maggioranza. Noi speriamo che oltre alle decisioni interne, la Ue svolga un forte ruolo di traino a livello internazionale. Siamo felici di vedere che molti Paesi europei hanno raddoppiato i contributi al Green Climate Fund. Si erano impegnati a Cancun di aiutare i Paesi in via di sviluppo, e stanno lavorando su questioni concrete come i semi più efficaci. È un pacchetto, e ci serve anche che la Ue unisca le sue forze con quelle delle grandi economie dei Paesi in via di sviluppo, perché abbiamo bisogno di Cina, India, Brasile, per avere successo”. Il governo italiano sta discutendo il Decreto Ambiente. Cosa si aspetta da Roma? “L’Italia è uno dei campioni dell’Unione Europea su questi temi. È stata molto attiva e utile per la preparazione del summit, sta facendo progressi con le fonti rinnovabili, e ha un’intensa collaborazione con i Paesi insulari. Molte iniziative, non solo al livello del governo, ma anche del settore privato. La società civile italiana è convinta dell’urgenza di agire”. Però abbiamo aderito alla nuova Via della Seta cinese, che rischia di aumentare l’inquinamento. “È un progetto molto ambizioso. La Cina sta sostenendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili in molti Paesi, ma continua anche a costruire le centrali a carbone, e questo deve finire”. Diritti, una Carta etica contro ogni discriminazione di genere di Cristina Nadotti La Repubblica, 21 settembre 2019 Quattro i punti dell’iniziativa promossa dal linguista Massimo Arcangeli e da Antonello Sannino a cui hanno aderito due sindaci: “Sarebbe stato importante se avesse aderito il governatore Emiliano, ma invece non ha firmato la Carta”. Un segnale da una regione dove negli ultimi tempi si sono registrati casi di discriminazione di genere. Ieri mattina a San Severo, il sindaco del comune foggiano, Francesco Miglio, e la sindaca di Ricadi, in provincia di Vibo Valentia, Giulia Russo, hanno firmato la “Carta Etica” per contrastare ogni forma di discriminazione sessuale. All’iniziativa, promossa dal linguista Massimo Arcangeli, fondatore del movimento Omofobi del mio Stivale, e da Antonello Sannino, vicepresidente del comitato Arcigay Antinoo di Napoli, ha aderito anche Luigi de Magistris, sindaco della città metropolitana di Napoli. La firma della carta conclude tre giornate di mobilitazione a Sorrento e San Severo, organizzate per dire NO alla discriminazione contro le persone Lgbt+ alle quali hanno partecipato intellettuali, scrittori, addetti ai lavori e migliaia di cittadini italiani e stranieri. Il documento che i sindaci hanno firmato vuole essere uno strumento operativo per rispondere alla discriminazione legata all’identità sessuale, un fenomeno preoccupante a livello nazionale e che ha visto proprio nel foggiano, a Ricadi nel 2017 un episodio grave che ha dato via alla mobilitazione di “Omofobi del mio stivale”. La grave discriminazione di due ragazzi gay che si videro rifiutare l’alloggio prenotato in un b&b fu denunciato dal linguista Massimo Arcangeli, che oggi ha consegnato, insieme ad Antonello Sannino la copia in pergamena del manifesto contro la discriminazione sessuale sottoscritto dal Comune foggiano. Arcangeli e Sannino hanno anche annunciato la nascita di un osservatorio nazionale di monitoraggio sulla diffusione dell’odio verbale omotransfobico, accompagnato dalla pubblicazione di un rapporto annuale da parte dell’editore Aracne. La Carta etica si rivolge “ai Comuni, agli addetti ai lavori nel campo del turismo e degli esercizi pubblici e a tutte le coscienze disposte a sottoscriverla per dire no a ogni forma di discriminazione di genere e su base sessuale”. I suoi 4 punti impegnano al rispetto di tutte le differenze di genere; alla tutela della dignità delle persone qualunque sia il loro orientamento sessuale e la loro identità di genere; al favorire il dialogo in materia di discriminazione sessuale e di genere e a promuovere la Carta e applicarne i contenuti in tutti i luoghi pubblici e privati. Al professor Arcangeli abbiamo chiesto quale sia l’importanza della Carta al di là del suo valore simbolico. “I simboli sono oggi molto più importanti di una miriade di leggi approvate e mai applicate - osserva il linguista - Le tante persone che hanno risposto al nostro appello firmandola, stanno già producendo i loro effetti a catena. Diversi giornalisti, addetti ai lavori, personaggi pubblici l’hanno già sottoscritta. La compagnia aerea Easy Jet era insieme a noi nell’evento di Sorrento del 12 settembre, una sorta di anticipazione del Pride di due giorni dopo. La prossima tappa saranno le Marche: faremo un evento a Camerino, lasciata desolatamente sola dopo il terremoto, per cui sarà un’azione anche a sostegno della ricostruzione”. La presentazione della vostra iniziativa a San Severo aggiunge significato alla firma dei due sindaci? “Sì, perché a San Severo, quest’estate, si è riproposto lo “schema” del caso avvenuto nel 2017 a Ricadi, che fece il giro del mondo. La proprietaria di un bed & breakfast si è rifiutata di accogliere una coppia di ragazzi omosessuali perché omosessuali”. Cosa è cambiato dalla discriminazione subita dalla coppia a Vibo Valentia, che lei aveva denunciato? “Per me è cambiato tutto, perché il coraggio di Gennaro Casalino (uno dei due ragazzi discriminati a Ricadi) mi ha dato la forza di lanciare negli anni col mio movimento, “Omofobi del mio Stivale”, importanti iniziative contro l’omofobia in ogni luogo d’Italia dove si fossero registrati casi particolarmente gravi di discriminazione sessuale. Questo ci ha consentito di sensibilizzare sul tema tantissime persone, ci ha permesso di aiutare molti giovani a uscire allo scoperto, a non avere paura di manifestare apertamente la loro sessualità. Continua invece a essere sorda in molti casi la politica. Siamo grati ai sindaci che ci hanno seguito, ma ci sono ancora troppi amministratori locali che esprimono il loro sostegno solo a parole o non si esprimono affatto”. Perché non vi seguono? “I casi più emblematici (e imbarazzanti) sono proprio quelli che riguardano la Puglia e la Calabria. Michele Emiliano è fra quelli che dice ma non fa. Quando lo contattai in agosto, per chiedergli di partecipare alla manifestazione di San Severo del 13 settembre scorso, mi scrisse che sarebbe stato felice di esserci. La sua segreteria inserì l’appuntamento in agenda, ma poi lui non è venuto né ha più risposto ai miei messaggi e sarebbe stato un gesto significativo se avesse firmato la Carta. Intanto il disegno di legge per contrastare l’omofobia (approvato dalla Giunta regionale nel novembre del 2017) non è ancora stato sottoposto all’approvazione dell’assemblea legislativa pugliese. Mario Oliverio nel 2017, quando lo invitammo a Ricadi, non venne, e ancora oggi tace. La proposta di legge regionale contro la discriminazione sessuale, promossa e portata avanti da Alessia Bausone (anche lei parte attiva del nostro movimento), è stata approvata all’unanimità dalla Commissione cultura del Consiglio regionale nel gennaio scorso, superando anche il vaglio della Commissione finanze, ma la regione Calabria non la approva ancora”. Migranti. Rotte dalla Tunisia con piccole barche: così cambiano i viaggi verso l’Italia di Fabio Albanese La Stampa, 21 settembre 2019 Il procuratore Vella: “Poco efficaci i blocchi navali”. Visco: “I migranti sono spesso un capro espiatorio”. “Ormai sono più i migranti che arrivano con gli sbarchi autonomi di quelli che partono dalla Libia e vengono recuperati in mare”. Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella, titolare con il capo dell’ufficio Luigi Patronaggio di numerose e delicate inchieste su sbarchi e traffico di migranti, analizza i fenomeni migratori da un osservatorio privilegiato. Di questi temi ha parlato anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: “L’immigrazione può dare un contributo alla capacità produttiva del Paese. Gli studi non rilevano effetti negativi dell’immigrazione sui lavoratori del Paese ospitante né in termini di tassi di occupazione né di livelli retributivi”. Il governatore ha invitato ad “abbandonare definitivamente la facile e illusoria ricerca di capri espiatori fra cui anche i migranti”. Il fronte caldo - Agrigentino, e l’isola di Lampedusa, sono i luoghi in cui da un anno a questa parte arrivano più migranti. Ci sono quelli salvati nel Mediterraneo centrale sulla rotta libica e portati dalle navi militari e delle Ong; ma ci sono anche quelli che arrivano dalla Tunisia, su barche in legno, con “sbarchi autonomi” se le imbarcazioni arrivano fin dentro i porti o sono “agganciate” da Guardia costiera e Guardia di finanza davanti alla costa, o con “sbarchi fantasma” se invece le barche arrivano indisturbate sulle spiagge e i migranti, probabilmente aiutati a terra da un’organizzazione, fanno perdere le tracce. Da anni è proprio quella tunisina la nazionalità della maggior parte dei migranti arrivati in Italia: 1758 solo quest’anno, dato del Viminale aggiornato a ieri, furono 5181 l’anno scorso: “Ma i dati sugli arrivi dalla Tunisia - avverte il pm Vella - non contemplano tutti quelli che sbarcano in piccoli gruppi sulle spiagge e che sfuggono ai controlli”. È così dall’estate 2017, con tutti i governi che si sono succeduti. In questo scenario, l’estate 2019 ha però registrato qualcosa di nuovo: “Stiamo approfondendo un fenomeno dell’ultimo periodo - dice l’aggiunto Salvatore Vella che a Vienna ha appena presentato una relazione all’Onu sul traffico di migranti -. Sui barchini che arrivano autonomamente stiamo cominciando a vedere non solo tunisini ma anche subsahariani. Capire cosa sta accadendo è complicato, pensiamo però ci siano nuove rotte che non arrivano più in Libia ma in Tunisia, da dove la traversata in mare è più semplice perché dura meno e si può fare con piccole barche e pochi rischi”. L’ennesima conferma di un fatto noto da sempre, e cioè che i trafficanti di uomini adattano il loro business alle situazioni contingenti: se prima era più proficuo usare gommoni dal galleggiamento precario acquistati via internet in Paesi asiatici per un costo tra 500 a 2000 dollari (il prezzo della traversata di uno o due migranti), ora che in mare a salvare queste persone non ci sono più le navi militari, e quelle delle Ong sono quasi tutte sotto sequestro in Sicilia o a Malta, è possibile che i trafficanti abbiano ritenuto più utile tornare alla traversata con barche in legno. Una modalità “storica” è quella con l’uso di navi-madre, vecchi pescherecci condotti da 5 o 6 scafisti esperti, con al seguito piccole barche su cui, in vista delle acque territoriali italiane, si fanno salire 60 o 70 migranti; a due di loro vengono date le istruzioni per arrivare a terra mentre i veri scafisti tornano indietro con la preziosa nave-madre e senza timore di arresti: “Ma gli sbarchi autonomi e quelli fantasma di adesso - chiarisce Vella - non sembrano legati a navi-madre, sono barchini con qualche decina di persone a bordo che da soli compiono le 14-16 ore di traversata dalla Tunisia”. Nella sua relazione all’Onu, il pm ha definito questa modalità “viaggi in business class” perché si usano mezzi veloci, organizzati da tunisini o da egiziani, che arrivano sulla costa siciliana, “lontano da abitazioni e strade”. Per il procuratore aggiunto, “la continua modifica dei modelli di business delle organizzazioni dei trafficanti deve portare necessariamente a una conseguente modifica delle attività di contrasto da parte delle forze di polizia”. La lotta ai trafficanti va svolta, dice Vella, “sulla terraferma e non in mare. Sono poco utili e difficilmente attuabili i blocchi navali. I trafficanti non stanno mai da questa parte del Mediterraneo dove possiamo prendere solo pesci piccoli”. Nella relazione Vella ha proposto una banca dati in comune tra Paesi di partenza e di arrivo, ufficiali di collegamento anche con i Paesi di partenza, lo scambio di informazioni tra gli Stati sul ruolo delle Ong per capire “se si tratta di organizzazioni che svolgono un’attività diretta a salvare i migranti o se hanno accordi illegali con i trafficanti”. E, infine, canali di accesso legali per i migranti, per spazzare via il lucroso affare del traffico di migranti. Libia. Ucciso perché si rifiuta di tornare nei Centri di detenzione di Leo Lancari Il Manifesto, 21 settembre 2019 Vittima un giovane sudanese intercettato dalla Guardia costiera libica con altri 103 migranti. L’Oim. “Tragedia annunciata”. È la testimonianza drammatica di come opera davvero la cosiddetta Guardia costiera libica e di cosa accade ai migranti che vengono riportati nel Paese nordafricano. Un giovane di origine sudanese è morto giovedì dopo essere stato ferito allo stomaco dai colpi sparati da uomini armati perché, insieme ad altri migranti, si rifiutava di tornare in un centro di detenzione dopo che il gruppo era stato intercettato e catturato nel Mediterraneo. Tutto è avvenuto sulla spiaggia della base navale di Abu Sitta, non distante da Tripoli e che in passato ha ospitato il premier libico Fayez Al Serraj. A denunciare la morte del giovane sono stati invece gli operatori dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, presenti sul posto. Fermato dalla Guardia costiera libica mentre con un gommone cercava di raggiungere l’Italia, il gruppo di 103 migranti, tra quali anche donne e bambini, è stato riportato indietro e doveva essere smistato nei vari centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. Gli stessi centri, come denunciato da numerose testimonianze, tristemente famosi per le continue violazioni dei diritti umani e per le violenze subite dai migranti. Consapevoli di cosa li aspettava, i migranti si sono ribellati rifiutandosi di obbedire agli ordini degli uomini armati incaricati di gestire il trasferimento, che hanno cominciato a sparare. Un colpo ha ferito il giovane sudanese allo stomaco. Soccorso dai medici dell’Oim, è morto poco dopo. “Una tragedia per certi versi inevitabile” secondo Leonard Doyle portavoce dell’Oim. “L’uso di pallottole contro civili disarmati e vulnerabili, uomini, donne e bambini, è inaccettabile in qualsiasi circostanza e pone allarmi sulla sicurezza dei migranti e dello staff umanitario”. Per l’Organizzazione che fa capo all’Onu la morte del giovane migrante deve servire come “severo promemoria delle gravi condizioni in cui si trovano i migranti raccolti dalla Guardia costiera libica dopo aver pagato i trafficanti per essere portasti in Europa, solo per poi ritrovarsi nei centri di detenzione dove ci sono condizioni disumane”. L’Oim ha infine chiesto alle autorità libiche di aprire un’inchiesta “per trovare i responsabili e consegnarli alla giustizia”. Preoccupazione per quanto accaduto è stata espressa anche dalla Commissione europea. In Libia - ha spiegato una portavoce - la “situazione non è cambiata recentemente” e l’Ue continua a lavorare per la “chiusura dei centri e per mettere in piedi strutture che siano in linea con gli standard internazionali”. Il responsabile migrazioni dell’Arci Filippo Miraglia ha chiesto invece di mettere fine agli accordi con la Libia: “Continuare a sostenerli - ha spiegato -, finanziando le milizie che gestiscono il traffico di essere umani, vuol dire essere responsabili di crimini contro l’umanità”. Intanto alle autorità di Tripoli viene ancora permesso di indicare quelli libici come porti sicuri. È stato così anche per la Ocean Viking delle ong Sos Mediterranée e Medici senza frontiere che ovviamente si è rifiutata di obbedire all’indicazione ricevuta. Ieri la nave ha chiesto a Italia e Malta l’indicazione di u porto sicuro, senza però ricevere risposta. le autorità della Valletta hanno accettato di far sbarcare solo 36 migranti salvati nell’area Sar maltese, lasciando a bordo i restanti 182. “Il governo sta lavorando per trovare una soluzione che consenta lo sbarco di queste persone. Vedremo nelle prossime ore”, ha assicurato ieri il ministro dei Trasporti Paola De Micheli. Yemen, l’inferno dei bambini di Francesca Mannocchi L’Espresso, 21 settembre 2019 La guerra senza fine tra i ribelli houti e le forze governative appoggiate dall’Arabia Saudita uccide soprattutto i più piccoli, con malattie e fame. Nell’indifferenza del mondo. Era sera, la casa ha tremato. I nostri cugini e zii aspettavano che tornasse Ahmed dalla bottega del pane per cenare in cortile. Il cane era sulla porta, impediva a tutti di entrare. Al rientro Ahmed si è spazientito, ha afferrato un sasso da terra e gliel’ha lanciato, per allontanarlo ed è entrato. Pochi minuti dopo l’edificio è stato colpito da un missile”. Ibrahim al Abid ha 14 anni, indossa un caftano del colore della sabbia, cammina sui detriti di un palazzo nella città vecchia di Sana’a. Mentre racconta l’avvertimento del cane rivive i ricordi della notte di tre anni fa, del razzo che ha colpito l’edificio e ucciso dieci dei suoi parenti. Dalla sua camera, nella casa di fronte, non ha sentito niente, perché - dice - in guerra lo impari da bambino che quando senti il colpo è già tardi. Mima con le mani l’oscillazione del palazzo. Ha sentito tremare i muri e poi è precipitato fuori per aiutare a estrarre i morti e cercare di salvare i vivi. Alza gli occhi al cielo, descrive il rumore dei droni. La consuetudine alla paura. “Ci siamo abituati ormai”, lo sostengono gli altri, Mohammed e Kamal, i cugini, 12 e 11 anni. Nessuno di loro va a scuola, ma il sogno, per il futuro, è diventare piloti di caccia militari “per proteggere il paese”. Il cane della profezia è sopravvissuto all’attacco e ancora oggi impedisce l’accesso tra le macerie di quelle che al piano terra erano un bagno e una cucina, come a proteggere la memoria delle vittime. Tra gli estratti vivi, quella notte, c’era la cugina di Ibrahim, che avrebbe potuto farcela se solo l’ambulanza arrivata sul posto quella notte avesse avuto l’ossigeno. Ma non l’aveva: “manca tutto”, dicono i bambini. È stata la prima volta che lo Yemen ci ha consegnato parole che avremmo ascoltato ogni giorno: manca tutto. Eppure l’entrata nel suq della città vecchia è già un contrasto, restituisce, tra i posti di blocco Houti e le insegne onnipresenti della propaganda che impongono, il fascino degli antichi commerci, degli incensi e delle spezie, dei colori e delle case di fango. È il primo segno delle contraddizioni della lunga, irrisolta, crisi yemenita. Mercati pieni di frutta, verdura, khat, la tradizionale droga coltivata nel paese, che provoca stati di eccitazione e euforia, masticata compulsivamente da tutti, adulti e ragazzi. Gli scaffali delle botteghe provvisti di farina, le farmacie rifornite come i negozi di carne. Però nelle case manca tutto, le corsie degli ospedali sono piene di bambini malnutriti e i bambini muoiono di fame. Sono gli effetti delle guerre quando assumono la forma più subdola, quando diventano cioè guerre economiche e i morti che si contano, nel burocratico vocabolario bellico, si chiamano vittime indirette. L’entrata dell’ospedale Al-Sabaeen, a Sana’a, è affollata dalle prime ore del mattino. Madri, neonati, anziani procedono senza nervosismo verso gli sportelli e da lì ordinati verso i reparti. Ogni struttura medica ancora in piedi ha una sezione dedicata alla malnutrizione e una ai malati di colera. Il dottor Abdullah Aji disinfetta le mani, le scarpe, indossa la mascherina e entra nel tendone del triage. “Ieri sono arrivate settanta persone con sospetto colera. I sintomi uguali per tutti: diarrea, vomito, disidratazione. I bambini nascono in condizioni estreme da madri a loro volta malnutrite. Li spostiamo da un reparto all’altro. Curiamo il colera, poi la malnutrizione. Poi li mandiamo a casa, o nei campi profughi da cui arrivano e le pene cominciano da capo, non hanno cibo, non c’è acqua potabile. I fortunati tornano, gli altri muiono. E la maggioranza di quelli che muoiono restano fuori dalle statistiche perché muoiono in villaggi remoti”. Il dottor Aji bussa a ogni porta del reparto, in ogni stanza due, tre bambini. Per ogni bambino la stessa diagnosi: Asma ha un anno e mezzo, dovrebbe pesare 10 chili, ne pesa poco più di quattro, Mohammad ha dieci mesi dovrebbe pesare 8 chili, ne pesa due e mezzo. Sono i bambini malnutriti dello Yemen. Fatima, la madre di Mohammed, ha ventinove anni e altri sette figli. Il volto coperto dal velo nero. Non piange, non si scompone, nelle sue risposte monosillabiche, sussurrate, traspare più che il dolore dei vivi, la rassegnazione di chi è costretto a un presente di sopravvivenza. Non grida, Fatima, di fronte alla pelle raggrinzita del figlio, alle sue costole, alle sue piaghe da decubito. Nello spessore millimetrico del velo, dai suoi occhi traspare solo rassegnazione. La voce affaticata dice: “Eravamo già poveri, ora siamo mendicanti. Siamo diventati un paese di mendicanti”. Il marito lavorava in Arabia Saudita, come autista. Dopo l’inizio della guerra, più nulla. Ogni tanto porta a casa mille rial di elemosine (3,5 euro ndr) che a malapena bastano per un sacco di farina e zucchero. “Gli aiuti non arrivano come prima, sono tre mesi che non riceviamo niente”. Anche lei con un filo di voce ripete: “Manca tutto”. E la situazione è destinata a peggiorare. Secondo dati diffusi dalle Nazioni Unite, nelle prossime settimane le razioni alimentari saranno ulteriormente diminute per 12 milioni di persone, 2 milioni e mezzo di bambini malnutriti saranno esclusi dai servizi primari, e alla fine di ottobre saranno chiusi i programmi per l’acqua potabile. Diciannove milioni di persone perderanno l’accesso alle assistenze mediche, l’approvvigionamento di medicinali è stato interrotto e migliaia di operatori sanitari non ricevono più sostegno finanziario. I piani per la costruzione di 30 nuovi centri di nutrizione sono stati accantonati e un impianto di trattamento che purifica l’acqua utilizzata per irrigare i campi agricoli ha chiuso a giugno. Significa che le persone malate non potranno curarsi, che crescerà il numero delle persone in stato di bisogno. Che l’acqua non purificata genererà altre epidemia di colera. Significa che la comunità internazionale osserva lo stallo, con colpevole ignavia. In una conferenza programmatica per lo Yemen dello scorso febbraio, alle Nazioni Unite e agli attori umanitari che lavorano nel paese sono stati promessi 2,6 miliardi di dollari per soddisfare necessità urgenti di oltre 20 milioni di persone. Ad oggi, ne sono arrivati meno della metà. “Combattiamo con il colera, con la difterite. La guerra ha fatto riemergere malattie scomparse da anni. La difterite è altamente contagiosa le famiglie non hanno soldi per la benzina necessaria ad arrivare nei centri medici”, continua il dottor Abdullah Aji, “in condizioni normali basterebbe un vaccino a contenere le epidemie. Ma qui manca tutto”. La strada che porta a nord, verso il confine con l’Arabia Saudita, verso Saada, fortino degli Houti, attraversa zone remote e dimenticate, le valli, i villaggi di montagne, le aree rurali con i campi profughi sparpagliati tra monti e deserti. Senza elettricità, spesso senz’acqua. Capanne costruite con foglie e fango. Molti degli sfollati del campo di Khamir arrivano da Saada, dal 2015 bombardata massicciamente dalla coalizione. I ribelli arrivano da lì, dunque l’intera città è un target militare. Civili inclusi, incluso chi cercava la fuga. Come Alima Mussala Abdallah, 35 anni e otto figli. Stava tentando di scappare su un bus dalla periferia di Saada quando il veicolo è stato colpito da un razzo. Una scheggia ha colpito uno dei figli alla schiena, suo marito ha avuto un infarto sul colpo e da allora lei è sola a prendersi cura di tutti, in una grotta di pochi metri quadrati che fa da casa. “A volte abbiamo qualcosa da mangiare e da bere, a volte niente. Capita che riceviamo aiuti alimentari ma sempre più raramente. Allora esco dal campo a mendicare, oppure raccolgo la plastica e la vendo per una manciata di rial, ma quello che a stento metto insieme al mattino la sera è già finito”. Alima, come le altre madri, sembra anestetizzata dalla fatica di sopravvivere. Non inveisce, non si lamenta. Però racconta che a volte la sua fatica si trasforma in violenza contro i bambini. Perché ricorda la fuga, il colpo, il corpo di suo marito giacere a terra sull’asfalto. E non ha nessuno che la sostenga, nessuno con cui sfogarsi. Anche Ali Nassir, che vive in una tenda a poche decine di metri da lei con i suoi sette figli e sua moglie, stava scappando da Saada. Era un autista, poi con la guerra non ha più potuto permettersi il carburante. “O la benzina o il cibo”, dice. E poi, se pure avesse potuto comprare il carburante, nessuno poteva più permettersi di pagare i trasporti. Quindi tanto valeva lasciare tutto, scappare via. E almeno provare a restare vivi. Quando sono scappati da Saada sua moglie era incinta al nono mese ma lui non ha potuto aiutarla perché aveva sulle spalle il figlio, handicappato, allora tredicenne. Oggi il ragazzo ha le ginocchia segnate dai calli, Ali Nassir non può permettersi una sedia a rotelle e il giovane per muoversi nel campo striscia tra la polvere e la sabbia tra le tende e le baracche. L’ultima figlia di Ali Nassir è nata nella tenda di Khamir, soffre di malnutrizione acuta e per badare a tutta la famiglia Ali chiede alla più grande Fatima, quattordicenne, di mendicare in strada. Fatima che, come tutti, non va a scuola e ha lo sguardo sempre basso di chi è afflitto dall’umiliazione quotidiana di dover chiedere la carità. “Non è colpa nostra”, dice Ali Nasser mentre mostra le taniche per l’acqua potabile, vuote, “la nostra fame è prodotta dagli uomini. Ci sarebbe cibo per tutti eppure lasciano morire di stenti i nostri figli come fossero oggetti di cui si può fare a meno”. Secondo lo Yemen Data Project che raccoglie i dati sugli attacchi aerei, la coalizione a guida saudita ha effettuato 20 mila attacchi aerei, un terzo dei quali su siti non militari: infrastrutture, ospedali, scuole. I danni materiali, uniti al blocco aereo, navale e marittimo imposto alle aree settentrionali, hanno paralizzato l’accesso di beni primari, mettendo in ginocchio il paese che era già il più precario dell’area, e impoverendolo al punto da essere considerato sull’orlo della carestia. Lo stallo in corso dal 2015 ha prodotto una crisi economica permanente, il crollo della valuta e un’inflazione insostenibile. Chi aveva un lavoro l’ha perso. Chi poteva sfamare la propria famiglia, oggi vive di elemosina. Per anni la strategia della coalizione contro gli Houti è stata: se li assediamo cederanno. Ma gli Houti non cedono e, per dimostrare che il nemico non abbia pietà dei civili, espongono le proprie vittime come una macabra prova delle ripercussioni dell’assedio. Perciò è vero che i ventimila attacchi aerei hanno colpito infrastrutture e campi, minando l’agricoltura e danneggiando l’economia, come è vero che gli Houti rendono il lavoro delle agenzie umanitarie un percorso a ostacoli tra ricatti e mediazioni. Nel tutti contro tutti della guerra, gli Houti hanno usato le derrate alimentari come arma di ricatto constringendo per mesi il Wfp (World Food Program) a una parziale interruzione dei rifornimenti: il cibo sotto il loro controllo era distribuito a parenti e sostenitori, consegnato a fronte del pagamento di qualche migliaio di ryad sottobanco, o semplicemente trattenuto. Gli altri dimenticati e affamati. E nel tutti contro tutti la guerra militare è anche una guerra di propagande nemiche che alimentano l’arma più subdola: la fame, la più insidiosa delle battaglie, perché la fame uccide lentamente e dalla fame nessuno può scappare. Secondo Save the children dall’inizio della guerra 85 mila bambini sono morti di stenti ma la guerra economica è una zona grigia nel diritto internazionale, e sebbene la carestia yemenita sia interamente prodotta dall’uomo, è difficile stabilire se la fame possa o meno ritenersi un crimine di guerra. È il fuoco degli studi di Alex de Waal, direttore esecutivo della World Peace Foundation, un’organizzazione di ricerca con sede negli Stati Uniti, che sostiene che “la carestia dello Yemen non è il risultato di un atto specifico, ma il prodotto di molte azioni e politiche diverse - molte di per sé non intrinsecamente criminali, come la chiusura della banca centrale o il bombardamento di ponti - che si sommano e cumulativamente diventano un vasto crimine. La carestia nello Yemen non è semplicemente “creata dall’uomo”. Ci sono precisi responsabili che dovrebbero essere processati”. Ipotesi confermata all’inizio di settembre dal gruppo di esperti istituito dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani in un report che denuncia i crimini di guerra compiuti dalle parti in conflitto. Gli esperti dell’Onu ritengono che il governo yemenita e la coalizione a guida saudita che lo sostiene da una parte, e i ribelli Houti dall’altra, abbiano usato per anni raid aerei indiscriminati, torture, violenze sessuali, ponendo ostacoli agli aiuti umanitari e facendo ricorso alla fame come metodo di guerra. Crimini di cui potrebbero essere considerati complici anche Stati terzi, con “un’influenza specifica sulle parti in conflitto”, attraverso intelligence, supporto logistico, vendita di armi. È il caso della Francia, dell’Iran, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Crimini commessi beneficiando di un’assenza generale dell’obbligo di rispondere per tali violazioni. Crimini commessi beneficiando di una collettiva indifferenza del dramma yemenita. La gente moriva, insomma, mentre il mondo stava a guardare. Come Nada, che ha otto mesi, e pesa a malapena tre chili. Suo padre l’ha stesa su un letto di paglia. La guarda come se stesse aspettando che muoia. La guarda come qualcuno che non può fare nulla. Per quello, come tutti gli altri genitori incontrati in Yemen, che osservano i propri figli morire di fame, non piange, non grida, non chiede. Sa che non servirebbe. Nada è l’ultima di nove figli. Sua madre Mariam Hussein Ali Agrabi non sa quanti anni ha, più o meno trenta dice. Nella capanna del villaggio a quindici chilometri dal primo centro abitato, Aslam, una delle aree più povere del paese, hanno solo due taniche d’acqua e un sacco di farina. Mariam ha detto che per tre giorni non aveva niente per sfamare Nada. E che quando la piccola piange per la fame, lei si sente soffocare. “Ho un peso sul cuore, soffoco. Soffoco”, ripete, mentre sussurra che l’acqua è sporca e la bambina vomita e non c’è un rial per pagare il trasporto in ospedale. È la storia comune dei bambini dello Yemen. Le vittime create, le vittime esposte nella violenza, inaudita, scandalosa, dei loro scheletri. Armi della propaganda incrociata. Il mondo visto dallo Yemen, sembra non aver imparato nulla dalla lezione siriana, da quella irachena, da quella libica. La guerra yemenita non vede soluzioni, piuttosto vede la frammentazione delle alleanze, nuovi attori in campo, nuove rivendicazioni. Le potenze regionali a giocare a dadi seguendo ognuno la propria agenda e nel mezzo della tragedia umanitaria lo spazio di nuove radicalizzazioni. La nascita dell’ambiente più fertile per gruppi fondamentalisti. In un paese che vive il dramma dei bambini soldato e in cui solo lo scorso anno, secondo Matwana, organizzazione per i diritti umani con base nello Yemen, sono stati reclutati e mandati a combattere 1.200 bambini sotto i 17 anni. Principalmente da Ansar Allah - il nome ufficiale degli Houti - “che li usa al fronte, custodire i posti di blocco e fornire supporto logistico ai militari”, si legge nel rapporto. In una bottega della città vecchia di Sana’a un uomo siede su una stretta tavola di legno. Mastica stancamente khat. Di fronte alle sue gambe, incrociate l’una sull’altra, bottigliette di plastica di diversa misura. È olio di sesamo, ottenuto con un’antica, tradizionale spremitura. La bottega è un frantoio, e i semi di sesamo non sono spremuti a mano, ma dalla pressa di legno legata a un cammello che cammina in tondo - ogni giorno - intorno alla macina. Il cammello fa un passo dopo l’altro, con un’andatura costante, lentissima, e dalla pressa cola l’olio che, si dice, lenisca dolori muscolari. Il frantoio è uno spazio angusto, una stanza buia di quattro metri per quattro. Ma il cammello non può saperlo. Il suo sguardo è coperto da paraocchi di cuoio. Così gira intorno alla roccia trascinando la pressa per ore, ogni giorno. Senza salti, senza inciampi. Ogni passo una goccia d’olio, finché il suo corpo sostiene la fatica. Mohammed, una delle guide che il ministero dell’Informazione ha imposto alla nostra visita nel Paese, osserva i passi dell’animale e il suo infaticabile incedere in tondo. “Il cammello ha buona memoria e serba rancore. Non dimentica e si vendica dei torti che ha subito. Se il suo sguardo fosse improvvisamente libero e capisse di aver vissuto così per anni, impazzirebbe. E pareggerebbe i conti. Perciò è destinato ad avere i paraocchi per sempre”. All’esterno del frantoio un gruppo di ragazzini osserva le foto dei caduti in guerra, le istantanee della morte al fronte, diventate per i bambini di Sana’a l’equivalente delle figurine dei personaggi famosi per i loro coetanei più fortunati ad altri angoli del pianeta. “Quello è mio zio”, grida uno di loro indicando l’immagine in alto a sinistra. “Quello lì ha respinto un attacco a Saada”, dice un ragazzino più grande col dito che punta l’effigie che spicca sulle altre. “È il figlio del governatore”, spiega il funzionario del ministero. La dimensione dei ritratti non corrisponde tanto al coraggio della gesta, quanto piuttosto all’opulenza della famiglia di origine. L’esposizione dei martiri come simboli di prestigio sociale. “Quello aveva la mia età, quattordici anni”, dice il terzo. Poi insieme si voltano distratti, corrono lungo la strada che porta all’hotel Burj al Salam, un tempo meta di visitatori da ogni parte del mondo, oggi deserto. Ridono, saltano intorno a un pallone sfasciato. E di colpo gridano “Allahu akbar, al-mawt li-amrika, al-mawt li-israil, al-la nah ‘ala ‘l-yahud, an-nasr lil-islam”, il motto degli Houti, che significa: “Dio è Sommo, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l’Islam”. E sembrano loro i cammelli destinati a non vedere, gli animali in cattività, che girano in tondo, costretti in una spazio privo di luce a sostenere una causa di cui non conoscono i contorni, se non il nome comune di un nemico da debellare. Al posto dei paraocchi di cuoio l’oblio della propaganda Houti, al posto dell’olio di sesamo, i semi di odio del futuro dello Yemen.