Parma. Il rischio che le carceri diventino “polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero” Ristretti Orizzonti, 20 settembre 2019 A pensare a quello che sta succedendo a Parma, tornano in mente le parole che Papa Francesco ha detto di recente, parlando di carcere: “È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. La redazione di Ristretti Orizzonti di Parma, composta da persone detenute in Alta Sicurezza 1, segnala l’arrivo di 8 detenuti provenienti dal medesimo circuito del carcere di Voghera; di questi 7 sono ergastolani. Gli stessi sono rimasti in isolamento, poiché nel carcere emiliano sarebbero costretti a condividere la cella con un’altra persona, mentre a Voghera erano collocati in cella singola, come previsto per i detenuti condannati all’ergastolo. Questa situazione ha prodotto agitazione anche nella nostra redazione, poiché inevitabilmente l’aggiunta di un compagno in cella creerà un forte disagio, visto e considerato che le celle a Parma sono di 9 metri quadrati l’una, compreso lo spazio occupato da letto, sgabello ecc. La decisione di tali trasferimenti è in contrasto con il Decreto del Ministero della Salute (05/07/1975) - richiamato nella Circolare Dap del 7/02/1992 - che stabilisce la superficie minima di 9 metri quadrati per qualsiasi camera di pernottamento per una sola persona, di 14 metri per due persone e di ulteriori 5 per ogni persona in più, oltre che con la Convenzione che l’Università di Parma ha sottoscritto lo scorso dicembre 2018 con il Dap in cui si concorda che gli studenti detenuti siano allocati in celle singole per garantire loro la possibilità di studiare. Ora noi ci chiediamo: - Perché questo trasferimento che pregiudica percorsi trattamentali già intrapresi con impegno? - Perché peggiorare e rendere ancora più afflittiva la condizione di persone che sono in carcere da 20, 30 anni e più?. La redazione di Ristretti-Parma ---- Nota personale Mi è sempre molto difficile comprendere come un’istituzione impegnata a rieducare alla legalità possa infrangere così platealmente una legge dello Stato, oltre che un impegno ufficiale sottoscritto solo qualche mese fa. Come cittadina sono molto confusa e perplessa. Difendere la legge, infrangendo la legge mi sembra un paradosso difficile da sostenere e accettare così come è molto difficile convivere con il senso di impotenza che si prova di fronte a ingiustizie apparentemente illogiche e incomprensibili. Potrebbe forse essere utile parlare, spiegare, fornire qualche motivazione e magari indicare una tempistica come normalmente usa tra persone civili. Carla Chiappini, giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Csm: costituita “Commissione carceri”, con Ardita alla presidenza di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 20 settembre 2019 Il Consiglio Superiore della Magistratura ha istituito una nuova Commissione su “carceri ed esecuzione della pena”, i cui obiettivi comprendono il sostegno alla magistratura di sorveglianza, lo sviluppo delle misure alternative al carcere, la tutela della salute e la rieducazione dei detenuti. La Commissione, composta da nove magistrati, sei dei quali provenienti dalla Sorveglianza e tre dagli Uffici di Procura, conta al suo interno anche tre componenti del Csm: Sebastiano Ardita, Stefano Cavanna e Loredana Micciché. Ardita, che assume le funzioni di presidente, è stato a lungo direttore generale per i detenuti e il trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e rappresentante per l’Italia della Cep, l’organismo europeo che promuove le misure alternative. Esperto in materia di 41bis, il neo presidente è anche autore delle circolari che hanno istituito e regolato il funzionamento dell’area educativa e del trattamento penitenziario. “Lavoreremo per far collaborare le istituzioni coinvolte nella esecuzione della pena - ha dichiarato Ardita - e per sostenere i percorsi di rieducazione in condizioni di sicurezza, nel rispetto della dignità degli operatori penitenziari”. Un programma che sarà portato avanti con audizioni, incontri e studi mirati. Polizia penitenziaria, le donne in divisa contro il maschilismo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2019 La battaglia delle poliziotte contro discriminazioni, battute sessiste e molestie. Nel mondo degli agenti penitenziari regna ancora il maschilismo. Per questo c’è ancora tanta strada da fare per garantire e allargare i diritti delle donne che lavorano nella polizia penitenziaria. Da qualche mese il Sindacato della Cgil ha costituito il Coordinamento donne di Polizia penitenziaria. Ma i primi passi del nuovo organismo sono stati ufficialmente mossi mercoledì scorso a Perugia, con il primo corso di formazione tenuto presso il centro congressi Quattro Torri. “Questo coordinamento nasce per abbattere i tanti paletti eretti dal maschilismo all’interno del nostro corpo di polizia”, ha spiegato la coordinatrice Filomena Rota. Le carceri, infatti, sono luoghi anche strutturalmente pensati per i maschi: “Abbiamo bisogno molto banalmente di bagni e servizi adatti alle donne e di caserme pensate anche per noi”, ha aggiunto Lucia Saba, agente in servizio presso la Casa circondariale di Nuoro. Ma c’è di più: “Io che faccio questo lavoro da 23 anni mi sento in dovere di difendere le giovani colleghe che entrano oggi in servizio, perché non debbano subire quello che ho subito io da giovane - ha detto Giuseppina Gambino, che lavora presso la casa circondariale di Vercelli ovvero discriminazioni, battute sessiste e anche molestie”. Ma cosa vuol dire essere donne poliziotte, in un ambiente sempre più maschile? La presenza di donne nel corpo di polizia penitenziaria è una novità introdotta appena 29 anni fa con la Legge 395 del 1990 e rappresenta oggi il 9% del personale tra gli agenti (il 7% tra i sovrintendenti e il 12% tra gli ispettori). Questa è una conseguenza anche della normativa vigente secondo cui “il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in Istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti”. E se consideriamo che la popolazione carceraria è costituita da oltre 60 mila detenuti, di cui 2.666 detenute donne, va da sé che la presenza maschile è quasi esclusiva. Ma è davvero quella vigente l’unica modalità possibile? Secondo il Coordinamento donne di polizia penitenziaria non è così. Ci sono infatti esperienze europee (come quelle di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia e Germania) in cui le donne della polizia penitenziaria sono ammesse anche nelle sezioni maschili, salvo che per le operazioni di perquisizione dei detenuti. Queste esperienze insegnano che aumentare il numero di donne nel corpo di polizia penitenziaria, se fatto con criterio, è possibile. C’è poi da considerare che l’Italia esclude attualmente le donne non solo dai ruoli che operano all’interno delle sezioni detentive, ma anche da ruoli e mansioni che non prevedono il lavoro in sezione: ispettori e sovrintendenti. Gli ultimi concorsi per accedere ai suddetti ruoli, infatti, hanno previsto soli 172 posti femminili per i sovrintendenti, pari al 6% (contro 2.679 posti maschili) e 35 posti femminili per gli ispettori pari al 5% (contro i 608 maschili). Per gli agenti la percentuale aumenta al 22%, con 196 agenti donne e 678 agenti uomini. Quanto detto fino adesso tocca solo questioni numeriche. C’è poi tutta la questione di come si lavora nelle carceri. Secondo la Cgil, un ambiente storicamente maschile ha mantenuto in sé una serie di aspetti organizzativi e pratici, oltre che psicologici e umani, che rendono difficile il clima per le donne poliziotte. Nelle carceri, per esempio, non ci sono spogliatoi, bagni, armadietti e stanze per il pernottamento che siano riservati alle sole donne. Mancano misure di flessibilità di orari e turni per armonizzare quanto più possibile la conciliazione della vita personale con il lavoro. Sono tanti gli aspetti che fino ad oggi non sono stati curati e che meritano invece la giusta attenzione. Per questo la Cgil ha deciso sensibilizzare la politica a questo tema e di avanzare delle proposte, contenute nella Piattaforma per le pari opportunità realizzata dal sindacato, che permetterebbero a tutto il personale di polizia penitenziaria, uomini e donne, di vivere in armonia, nel rispetto e nella realizzazione personale e professionale. Nel corpo di Polizia penitenziaria vi è una discriminazione verso le donne sostanziale rispetto a quanto avviene negli altri corpi di polizia. “Siamo convinti - commenta il sindacato - che una maggiore presenza femminile in ambienti così chiusi e delicati possa dare un contributo importante, rendendoli più sereni e vivibili. Non possiamo fare passi indietro, dobbiamo procedere in avanti, in direzione di una parità di opportunità tra uomini e donne che è da ritenersi civile”. Il nuovo conflitto sulla Giustizia? Tra Orlando e Renzi di Errico Novi Il Dubbio, 20 settembre 2019 Il dualismo è antico. Di un’altra era politica, si direbbe. Se non fosse che si tratta di un paio d’anni fa. Matteo Renzi e Andrea Orlando sono lo yin e lo yang della giustizia di centrosinistra. Opposti rovesciati, in perenne biunivoca contraddizione. Più fresco di ispirazione garantista il primo, ma meno scrupoloso nelle schermaglie coi magistrati il secondo. A dividerli c’è una faglia grande quanto il Grand Canyon della politica giudiziaria: la riforma del carcere. Quando a febbraio 2018 Orlando era sul punto di ottenerne, in qualità di guardasigilli, la definitiva emanazione in Consiglio dei ministri (trattavasi di decreti delegati già sottoposti al Parlamento) l’allora segretario del Pd Renzi lasciò intendere che non era proprio il caso di essere così zelanti, se non si voleva compromettere l’esito delle Politiche. Poi il 4 marzo l’esito si rivelò ugualmente amaro per il Pd, ma questa è un’altra storia. Assai più che le imperscrutabili venature del voto segreto che due giorni fa ha evitato l’arresto del deputato Sozzani, al di là dell’episodio comunque minimizzato dagli stessi 5 Stelle, il vero dilemma sulla giustizia è ora nella dialettica Orlando- Renzi. Si è spostato l’asse, non più collocato sulla direttrice, controversa ma aperta, tra lo stesso Orlando e il suo successore Alfonso Bonafede. Il vero crocevia è destinato a trasferirsi nel rimpallo di rivendicazioni garantiste tutto interno all’ex casa comune democratica. Quella faglia solcata dal naufragio sul carcere è costellata dalle continue stilettate che Renzi inflisse, da premier, all’allora ministro della Giustizia. Il “suo” ministro, che però Renzi non si trattenne dal bollare come “democristiano”. Adesso come si tradurrà quel marchio affibbiato a Orlando? Rischia di trasfigurare in nuove accuse di eccessivo trattativismo. Accuse che precipiteranno su via Arenula, dove con ogni probabilità continueranno a celebrarsi i vertici sulla giustizia tra Orlando e Bonafede. In concreto né Renzi né alcuno dei suoi parlamentari daranno del “democristiano” a Orlando. Ma lo faranno per vie indirette. Con il contrappunto sulle singole questioni. A cominciare dalla prescrizione. Un deputato che ha scelto di lasciare il Nazareno per costruire l’Italia viva con Renzi, l’ex sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, ha spiegato alcuni giorni fa al Dubbio che l’obiettivo minimo da cogliere sulla prescrizione dovrebbe consistere nel limitarne lo stop alle sole sentenze di condanna. Una riduzione del danno: “Come si fa a sostenere che chi è stato assolto può restare esposto al rischio di essere sotto processo a tempo indeterminato?”. Sempre al nostro giornale, un deputato che ha scelto invece di restare con Zingaretti e Orlando, il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, ha visto in quell’ipotesi “una soluzione abborracciata”, per quanto “migliore dello status quo”. Il punto è che anche quella rimodulazione, davvero insufficiente rispetto alla tenuta delle garanzie, sarà comunque difficile da cogliere. E se il Pd non dovesse convincere i 5 Stelle neppure a una così parziale rettifica della prescrizione, i renziani non mancherebbero di farsi sentire. Lo stesso Bazoli si augura, sempre nell’intervista al Dubbio, che sulla giustizia Italia viva sia d’aiuto al Pd anziché favorire spaccature. Non è da escludere che l’effetto auspicato dal deputato dem si realizzi: è chiaro che le verosimili più marcate “sottolineature” dei renziani su alcuni “punti specifici” potrebbero in realtà agevolare i dem, e dunque Orlando, nell’allontanare la bilancia della politica giudiziaria dall’integralismo pentastellato. Ma è anche vero che la dialettica sarà complessa, sfibrante. Dalle intercettazioni al potere dei procuratori capo, dal pre-sorteggio per eleggere i togati del Csm alle preclusioni nell’accesso alle pene alternative per i rei di corruzione. Una dinamica tripartita, che si preannuncia di difficilissima realizzazione. Ma che potrebbe trovare uno dei rari terreni di pacifica convergenza grazie all’altro protagonista della giurisdizione, l’avvocatura. Sull’equo compenso per le professioni - a cominciare da quella forense - e sul riconoscimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, sono tutti d’accordo: Bonafede, Orlando e Renzi. E forse, quando quella naturale sintonia si manifesterà in Parlamento, se ne riuscirà a dedurre che neppure Renzi e i 5 Stelle sono così lontani, sulla percezione dei diritti come pilastro irrinunciabile della democrazia. Cardinale Sepe: il crimine si può battere riempiendo i banchi di scuola di Rosanna Borzillo Avvenire, 20 settembre 2019 A San Gennaro, carcerato e decapitato per essere andato a fare visita ai suoi amici detenuti, la Chiesa di Napoli affida il nuovo Anno pastorale, la città, i suoi giovani, le sue tante emergenze. In Cattedrale, dove ieri mattina alle 10.04 si è ripetuto il prodigio della liquefazione del sangue, il cardinale Crescenzio Sepe chiede al martire della fede, il coraggio della speranza. “Da Gennaro ci viene una testimonianza di quell’amore che è più forte di ogni paura e rassegnazione. Di questo stesso amore ha urgente bisogno la nostra amata Napoli per ritrovare la sua grandezza e dare fiducia a quanti hanno scelto di abitarla e amarla”. Nella sua omelia Sepe descrive una città “in cui la libertà viene minata e la vita per i cittadini è difficile e proibitiva”. Parla di “disuguaglianza sociale”, di bambini “abbandonati a se stessi che scelgono come “casa” comune del loro svezzamento sociale la strada” definita “la bottega di primo apprendistato per la malavita”. Ma parla soprattutto di disoccupazione giovanile, di emergenza lavoro, di evasione scolastica. “Quando ai giovani - dice - si chiudono le porte del lavoro o dello studio, è inevitabile pensare alla gravità delle conseguenze perché è questo l’ingranaggio che perpetua la “catena” del disagio”. Sepe denuncia “i sicari di odio e di violenza che tentano di uccidere sul nascere la possibilità di fare futuro, quindi di porre le basi per la crescita di una comunità naturalmente orientata al bene comune”. Denuncia il “lavoro negato, l’istruzione mancata, i servizi sociali inadeguati e il diritto alla salute insoddisfatto che danno il via libera a tutto ciò che alimenta le organizzazioni criminali ed è contro il futuro di questa città”. Ma il grido dell’arcivescovo si alza soprattutto contro la piaga dell’evasione scolastica: “ogni banco vuoto lascia pensare a quei bambini avviati a delinquere, alle baby-gang che si trovano a prendere “lezioni” dalla strada sui “modelli” che regolano le gerarchie del crimine”. Nell’omelia - pronunciata dinanzi a padre Mjkail della Chiesa ortodossa russa, al pastore ortodosso rumeno Filippo Bogdan, a una delegazione della diocesi di Saluzzo, guidata dal vescovo Cristiano Bodo, a una delegazione del museo diocesano di Monaco, guidata dal direttore Christoph Kurzeder, al presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, al sindaco Luigi De Magistris, al prefetto Carmela Pagano, al principe don Jaime di Borbone e a tante altre autorità religiose, civili e militari - Sepe accenna anche ai 70mila giovani emigrati che hanno lasciato il Sud. Poi, prosegue: “Non basta lo sdegno occorre mettere mano con coraggio a ciò che può portare a una reale e concreta inversione di tendenza”. Dal martire lo slancio per “riempire di nuovo, ad uno ad uno, quei banchi vuoti dell’evasione e fare in modo che anche i vuoti sociali possano essere colmati da un cambiamento morale e sostanziale che sia espressione di una comunità rinnovata e sana”. L’invito di Sepe è “a rivolgersi al patrono come a un fratello maggiore per avere un incoraggiamento, una guida, un accompagnamento”. Come hanno sempre fatto i napoletani con san Gennaro, che si è sempre fatto attivamente e prodigiosamente presente nelle vicende tragiche di Napoli. Il prodigio, infatti, avviene tre volte l’anno: il 19 settembre, nel sabato che precede la prima domenica di maggio, il 16 dicembre. L’arcivescovo, allora, suggerisce di mettere mano, con coraggio, a ciò che può portare a una reale e concreta inversione di tendenza e cioè “creare luoghi di aggregazione o di potenziare quelli già esistenti, di favorire sviluppo e occupazione, di agevolare e sostenere le iniziative lavorative e professionali”. La legge non perdona i ladri… di biciclette, panini e pigne di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2019 Bagattelle, processi e peripezie. Due anni di carcere per ricettazione di una bicicletta. Ovvero 17.520 ore da trascorrere dietro le sbarre. Silvio Berlusconi, per una frode fiscale da 7,3 milioni di dollari sui diritti Mediaset (per i restanti 368 milioni era intervenuta la prescrizione) se l’è cavata con 168 ore di servizi sociali tra i vecchietti dell’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ieri Il Fatto ha raccontato l’epilogo del processo per un signore che, con l’aggravante di qualche spintone, ha rubato due bottiglie di liquore: rischia quattro anni di carcere per “rapina impropria”. Ovvero ben tre mesi in più, giusto per fare un esempio, dell’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, condannato a 3 anni e 9 mesi, con l’accusa di appropriazione indebita, nell’inchiesta sui fondi della Lega. Ladri di biciclette, ma anche ricettatori - La bicicletta di marca Cinzia, era di colore bianco con una scritta viola e priva di cestino. È il 31 luglio 2014 quando viene parcheggiata per strada. Purtroppo “senza alcuna cautela”, racconta a verbale la proprietaria. L’occasione trasforma una coppia di amici in una coppia di ladruncoli. Che di lì a poco - un paio d’ore circa - vengono trovati da un carabiniere mentre, spugnetta in mano - più precisamente: un gomitolo di lana d’acciaio - sono intenti a cancellare le scritte dal telaio. Risultato: condanna in primo grado - emessa nel novembre 2018 - a due anni di carcere per ricettazione. L’imputata ha ammesso di essersi impossessata (quindi di aver rubato) la bicicletta. E d’altronde sarebbe difficile passare dal furto alla ricettazione in circa due ore. Ma tant’è: il giudice è convinto che lei e l’amico l’abbiano acquistata sapendo che era rubata. Si aspetta l’Appello. L’ovetto Kinder costato tre anni di processo - Processato per aver rubato un ovetto Kinder. Succede a Taranto nel 2009. Il processo dura ben tre anni. Tre anni durante i quali l’imputato deve sospendere la sua richiesta per entrare in Marina Militare. Salvo poi essere assolto perché il fatto non sussiste. Anche perché, sentenzia il giudice, aveva dei pantaloni a vita bassa talmente stretti che gli avrebbero impedito di mettere in tasca l’ovetto in questione. 1.920 ore dietro alle sbarre per un panino - Febbraio 2011, un 70enne entra in un supermercato e infila un panino e una confezione di latte sotto il giubbotto. Valore della refurtiva: un euro e 30 centesimi. Entità della condanna: due mesi e 20 giorni di carcere. Sentenza confermata in Appello dal tribunale di Salerno. Ore da passare dietro le sbarre: 1920. Ovvero 11 volte la pena - 168 ore di servizi sociali - scontata da Berlusconi per i suddetti 7,3 milioni di dollari frodati al fisco nella vicenda diritti Mediaset. Cifra equivalente - centesimo più, centesimo meno - a 4 milioni 319 mila e 526 panini. Confezione di latte inclusa. Voleva solo raccogliere dei fiori per la fidanzata - Fiori di oleandro per la fidanzata. La tentazione è forte per l’etiope El Israel, che per coglierne i fiori, però, danneggia l’albero spezzandone due rametti. La polizia è vicina. Interviene. E denuncia. Ecco il capo d’imputazione: “Danneggiamento aggravato, articolo 635 del codice Penale, comma secondo, per aver danneggiato, spezzando i rami, un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa. Con l’aggravante di aver commesso il fatto su bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede”. La pena va da 6 mesi e a tre anni di reclusione. Il fatto certo è che viene condannato in primo grado. Prende sette pietre, dritto a processo - Un giovane pescatore di Sant’Agata di Militello viene arrestato e processato per direttissima. L’accusa: ha prelevato sette pietre dal Lungomare. Il ragazzo spiega il motivo che l’ha spinto a prenderle: gli servono a fissare le reti sul fondo del mare. Niente da fare. Va a processo. Furto di pigne - A Roma, un ragazzo rumeno viene arrestato e processato, nel 2015, per un furto assai bizzarro: 22 pigne. Se non bastasse, il furto è avvenuto con un’aggravante: c’è stata violenza sull’albero. Un pino, per la precisione. Abbiamo tentato di conoscere l’epilogo giudiziario di queste due vicende. Ma non ci siamo riusciti. Il rischio che abbiano ricevuto una condanna più rapida e persino più severa di chi traffica in mazzette, però, è piuttosto alto. Autorizzazioni a procedere, la libertà del parlamentare ha la massima tutela di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 20 settembre 2019 Fino al 1993 la Costituzione stabiliva che nessun membro del Parlamento poteva essere sottoposto a procedimento penale senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Le origini dell’istituto risalivano nel tempo e si collegavano all’esigenza di evitare che iniziative giudiziarie persecutorie o pretestuose potessero interferire con il corretto funzionamento della funzione legislativa, incidendo sulle maggioranze parlamentari o impedendo la partecipazione alle sedute di singoli parlamentari. Col tempo però l’autorizzazione a procedere si era trasformata in un vero e proprio privilegio corporativo che assicurava ai parlamentari una immunità penale pressoché assoluta: in uno scambio di reciproci favori tra le varie forze politiche, l’autorizzazione a procedere non veniva mai concessa, sino al punto da negarla anche in caso di reati - ad esempio l’omicidio colposo a seguito di incidente stradale - in cui non era ravvisabile alcun sia pur remoto fumus persecutionis. Anche a seguito della dirompente Tangentopoli dei primi anni Novanta del secolo scorso, che aveva coinvolto decine di parlamentari e ministri, la legge costituzionale n. 3 del 1993 ha tempestivamente e profondamente modificato l’istituto dell’autorizzazione a procedere previsto dall’articolo 68 della Costituzione. Fermo restando il fondamentale principio che i membri del Parlamento, a tutela della piena libertà e agibilità politica, non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (qui vengono in gioco soprattutto i reati di ingiuria e diffamazione), la preventiva autorizzazione a procedere è stata abolita. Da allora il magistrato può iniziare il procedimento penale senza alcuna autorizzazione della Camera alla quale il parlamentare appartiene. Forme di autorizzazione intervengono in un momento successivo, a tutela della libertà del singolo parlamentare di svolgere le proprie funzioni e quindi in ultima analisi a tutela del corretto funzionamento del Parlamento nel suo complesso. Da una parte sta l’esigenza della giustizia di compiere gli atti necessari all’accertamento dei reati contestati al parlamentare, dall’altro vi è l’interesse del Parlamento di tutelare i propri rappresentanti da ingerenze e limitazioni della libertà personale che potrebbero ostacolare l’esercizio della funzione legislativa. Il contemperamento tra esigenze della giustizia e tutela dell’attività parlamentare si è tradotto in una disciplina costituzionale che sottopone alla autorizzazione della Camera di appartenenza gli atti di perquisizione personale o domiciliare, nonché l’arresto o altre forme di privazione della libertà o detenzione del parlamentare, salvi i casi di arresto in flagranza di reato e di privazione della libertà in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna. Infine l’autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. Ne emerge un quadro da cui risulta che la Costituzione ha riservato al Parlamento poteri di controllo e di tutela nei confronti delle forme più incisive di privazione o limitazione della libertà del parlamentare, quali appunto l’arresto, la detenzione e la perquisizione personale o domiciliare, nonché in caso di intercettazioni che potrebbero interferire con l’autonomia e la libertà dell’azione politica del parlamentare. Diversa è la disciplina nel caso di reati commessi dal Presidente del consiglio o dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Le cronache istituzionali hanno di recente avuto occasione di parlarne in relazione al caso Diciotti, che ha interessato l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Nei confronti dei reati ministeriali l’intervento del potere politico è più diretto e immediato: a seguito di una riforma costituzionale del 1989 i reati commessi dal Presidente del consiglio e dai ministri sono giudicati dalla magistratura ordinaria, che potrà procedere solo se autorizzata dal Parlamento: in particolare, dalla camera di appartenenza se il ministro è parlamentare, dal Senato se non è parlamentare. Il Parlamento può negare l’autorizzazione ove ritenga sulla base di una valutazione squisitamente politica e insindacabile, che il ministro inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. E così è appunto avvenuto per il caso Diciotti. Ilaria e Miran, non archiviare e non dimenticare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 settembre 2019 Domattina a Roma, a piazzale Clodio, si svolgerà la nuova udienza sulla richiesta di archiviazione, avanzata dalla procura di Roma, delle indagini sull’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin. L’iniziativa, promossa dalla Federazione nazionale della stampa italiana, ha ricevuto l’adesione e il sostegno di numerose organizzazioni della società civile e per la libertà di stampa. La campagna per non archiviare le indagini vuole portare all’attenzione del Gip tutti i punti ancora oscuri dell’inchiesta sul duplice omicidio avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994, riguardo alle fonti dei servizi segreti fino ad oggi taciute, alle presenze ed alle attività del contingente italiano in Somalia, al coinvolgimento dei potentati locali nell’agguato e ai traffici illegali che hanno fatto da sfondo costante a quella tragedia. “Lo dobbiamo a chi ha sofferto direttamente, nella più intima dimensione personale, il dramma che si è consumato quel giorno; all’intera comunità dei giornalisti italiani che è stata sconvolta da quella barbarie; ma anche a chi, nel corso degli anni, ha patito sulla propria pelle gli effetti ‘collaterali’ di un depistaggio che si protrae sino ai giorni nostri”. Sono le parole dell’avvocato Giulio Vasaturo, che nel procedimento Alpi-Hrovatin ha curato la costituzione della Federazione nazionale della stampa italiana quale “parte offesa”, insieme al sindacato dei giornalisti Rai e all’Ordine dei giornalisti. Oggi, presso la sede della Fondazione per gli studi sul giornalismo Paolo Murialdi, Federazione nazionale della stampa italiana, Fondazione Murialdi e Comitato dei garanti dell’archivio “Ilaria Alpi” hanno sottoscritto il protocollo per la conservazione e valorizzazione dell’archivio. Non archiviare e non dimenticare: un impegno doveroso, soprattutto nei confronti dei genitori di Ilaria Alpi, deceduti dopo oltre due decenni di diniego di giustizia. L’allarme della Difesa: Italia troppo indietro nella cyber sicurezza di Francesco Grignetti La Stampa, 20 settembre 2019 C’è un racconto autocelebrativo delle nostre forze armate, tranquillizzante, ottimista. Siamo bravissimi nelle operazioni all’estero. Abbiamo un corpaccione all’antica, ma anche tante eccellenze. In fondo, va bene così. E poi c’è un generale che ti spiazza e dice: “Ho la sensazione che stiamo andando verso il baratro”. Viva la sincerità. E viva il Capo di stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, che ama parlar chiaro. Ospite di Confindustria, alla presentazione di un master universitario che è stato organizzato dal Centro alti studi della Difesa e dall’università di Salerno, Vecciarelli si riferiva a un ritardo culturale delle forze armate, investite dalla rivoluzione digitale, e secondo lui in grave affanno. Basta sfogliare la stampa specializzata per capire che in effetti il ritardo della Difesa italiana è notevole. Altre nazioni stanno investendo in campi che da noi sembrano ancora materie aliene: il cyber (nel duplice aspetto della difesa e dell’offesa), l’automazione, la robotica, l’intelligenza artificiale. È di qualche giorno fa, per dire, la notizia che l’esercito Usa ha portato a termine la prima esercitazione di assalto condotta interamente da macchine. Da noi, si parla di forze armate impegnate come protezione civile e a riparare le buche. Altrove, si interrogano sugli aspetti etici e operativi dei droni a guida robotizzata, con software di riconoscimento facciale e missile pronto a scattare. Anche quando ci dotiamo con enorme sforzo di un singolo sistema d’arma moderno, vedi l’aereo F35 o le navi Fremm, tanto ci deve bastare. La politica sente di avere assolto al suo compito: se poi manca tutto il resto, poco importa. Tanto, si sa, le spese militari sono le prime a saltare quando c’è da rimediare fondi, che siano gli 80 euro di Renzi o il reddito di cittadinanza di Di Maio. La quarta rivoluzione industriale intanto è arrivata e le imprese se ne sono rese conto. Stesso discorso va fatto per il mondo militare. Il digitale sarà la dimensione dove combattere la guerra del futuro. E il generale Vecciarelli evidentemente ha presente le lezioni del passato, quando suoi illustri predecessori arrivarono impreparati all’appuntamento con la storia. Nel 1915, Cadorna affrontò la Prima guerra mondiale con la mentalità risorgimentale e un esercito senza le mitragliatrici. Nel 1939, la tragedia si ripete: gli altri avevano investito sulle forze corazzate e Badoglio schierava le divisioni autotrasportabili, i cavalli, i muli e le famigerate “scatole di latta”. Vecciarelli, insomma, sembra avere ben presente il motto sui “generali sempre pronti a vincere le guerre, ma quelle del passato”. La sfida delle forze armate oggi è quella dell’innovazione. A cominciare dalla cultura e dall’organizzazione interna. Il master in “Leadership, change management and digital innovation”, presentato due giorni fa nella sede di Confindustria è un segnale di vitalità, ma non può bastare. Al presidente del Centro alti studi per la difesa, generale Fernando Giancotti, piace immaginare che gli ufficiali del futuro abbiano presente come sarà il mondo: “Volatile, incerto, complesso, ambiguo, rapidamente mutevole”. Per farvi fronte, già nelle accademie servirà una formazione diversa da quella attuale, un approccio nuovo in grado di recepire l’innovazione tecnologica, una mente aperta. Qualcosa si muove. È stato approvato ieri in consiglio dei ministri il decreto sul “perimetro” della sicurezza nazionale cibernetica, esteso al mercato azionario, ossia la Borsa Italiana. Ma la sfida è immensa. Per concludere con le ultime parole del generale Vecciarelli: “Io non sono pessimista. Sono realista. Qui in Italia tutti si appassionano al digitale, ma siamo fermi all’analogico”. Il detenuto extracomunitario sposato con un’italiana può essere espulso se non hanno mai convissuto quotidianogiuridico.it, 20 settembre 2019 Cassazione penale, sezione I, sentenza 4 settembre 2019, n. 37033. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva confermato il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza aveva applicato, nei riguardi di un detenuto extracomunitario, la misura dell’espulsione dal territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 16, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (cd. T.U. Immigrazione), rilevando che questi non versava in situazioni ostative all’espulsione ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 286/1998, la Corte di Cassazione (sentenza 4 settembre 2019, n. 37033) - nel respingere la tesi difensiva secondo cui il detenuto non poteva essere espulso per essere sposato da 17 anni con una cittadina italiana, e che erroneamente il tribunale di sorveglianza aveva respinto l’impugnazione, ritenendo che il detenuto non aveva dimostrato di essere effettivamente convivente con la coniuge italiana - ha invece affermato che la convivenza deve essere intesa come una situazione di possibile ripristino della comunione di vita, la quale postula, dunque, una valutazione prognostica che il giudice deve articolare sulla base di massime tratte dalla comune esperienza. Droghe “leggere”, ingente quantità da definire di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2019 Saranno le Sezioni unite a sciogliere i dubbi sula quantità minima necessaria a far scattare l’aggravante dell’ingente quantità nel caso delle droghe leggere. La Cassazione, (ordinanza 38635) chiama in causa il Supremo consesso, consapevole di un contrasto sul punto segnalato anche dal massimario già nel 2016. Alla base del rinvio il ricorso di un imputato - condannato per aver coltivato 1087 piante di cannabis - al quale era stata contestata l’aggravante dell’ingente quantità. La sentenza impugnata aveva, infatti, applicato il criterio affermato dalle Sezioni unite con la sentenza 36258 del 2012, secondo la quale l’aggravante non c’è quando la quantità è inferiore a 2 mila volte il valore soglia determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al Dm 11 aprile 2006. La difesa del ricorrente sosteneva che quel il principio è stato più volte superato dalla giurisprudenza di legittimità che ha spostato l’asticella del valore soglia dalle 2 mila unità alle 4 mila. Una “correzione” giustificata, ad avviso dei giudici di legittimità che hanno aumentato il valore massimo, dall’effetto della sentenza della Corte Costituzionale che nel 2014 ha mandato in soffitta la legge Fini- Giovanardi. La sezione remittente dà atto dei due diversi orientamenti. Secondo una prima tesi l’impostazione delle Sezioni unite, che si poggia sul sistema della tabella unica del 2006, deve considerarsi archiviata, dopo il colpo di spugna della Consulta, in seguito al quale sono state introdotte, con il Dl 36/2014, quattro nuove tabelle con distinzione tra droghe pesanti e leggere. Un nuovo quadro normativo dal quale non si può prescindere. Secondo un diverso indirizzo invece il principio affermato dalle Sezioni unite resterebbe valido, nella misura in cui può essere utilizzato come semplice criterio orientativo individuato in seguito a un’indagine condotta su un numero cospicuo di sentenze di merito. Ora alle Sezioni unite si chiede, se la modifica al sistema tabellare del 2014 imponga una nuova verifica per affermare l’esistenza dell’aggravante dell’ingente quantità “in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa” oppure restino validi, per l’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, i criteri affermati dalle Sezioni unite nel 2012 basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile. Dare dell’“animale” a un uomo è reato di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 20 settembre 2019 Offendere qualcuno definendolo “animale” costituisce reato e va perseguito penalmente. A maggior ragione se il destinatario dell’appellativo in questione è un fanciullo. E sia pure se quest’ultimo si sia reso responsabile di un’aggressione ai danni di un’altra bambina dopo averci bisticciato. Lo ha stabilito nelle scorse settimane la quinta sezione della Corte di Cassazione. La stessa Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di un giudice di pace di Lecce, con la quale un condomino salentino - S.G. le sue iniziali, accusato di diffamazione - era stato assolto per insussistenza del fatto, perché la parola incriminata (seppure considerata dal giudice inappropriata od eccessiva) non era stata ritenuta dallo stesso spregiativa della reputazione del minorenne al quale era riferita. Di diverso avviso sono stati gli ermellini che, invece, hanno accolto il ricorso contro la sentenza di assoluzione emessa dal giudice di pace leccese, valutando come offensiva la disumanizzazione della vittima. La vicenda riguarda un messaggio pubblicato dall’imputato nella chat condominiale di Whatsapp, in cui l’uomo, rivolgendosi al genitore del bambino e agli altri vicini di casa, per informarli circa l’aggressione subita dalla figlia, scriveva: “Volevo solo far notare al proprietario dell’animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni”. I giudici della Corte di Cassazione (presidente Vessichelli, relatore Morosini), infatti, hanno rilevato un immediato contenuto offensivo espresso dalla parola “animale” riferita ad un bambino, nei confronti del quale sarebbe opportuno adottare maggiori cautele espressive proprio perché minore, considerando inoltre che alcune espressioni “presentano ex se carattere insultante”, nonostante la recente giurisprudenza di legittimità abbia mostrato alcune aperture verso un linguaggio più diretto e “disinvolto”. Motivando l’accoglimento del ricorso presentato dalla procura leccese, i magistrati romani sottolineano difatti che “sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si disumanizza la vittima, assimilandola a cose o animali. Paragonare un bambino ad un animale, inteso addirittura come “oggetto” visto che il padre ne viene definito “proprietario”, è certamente locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo e scaduto il livello espressivo soprattutto sui social media, conserva intatta la sua valenza offensiva”. Cancellata la sentenza, gli atti sono stati quindi rinviati ad un altro giudice di pace di Lecce, che dovrà adesso emettere un nuovo pronunciamento tenendo conto di quanto stabilito dall’organo supremo della giustizia italiana e del suo “avviso ai litiganti”: dando dell’”animale” a qualcuno adesso si infrange la legge. L’etilometro non revisionato rende sempre nullo il test di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 38618/2019. Ora non ci sono più dubbi: se l’etilometro non è stato sottoposto alla revisione periodica, le misurazioni effettuate non sono valide. Quindi la difesa non deve più dimostrare eventuali malfunzionamenti dell’apparecchio, cosa quasi sempre impossibile. Una svolta nella giurisprudenza penale, impressa dalla Quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza 38618 depositata ieri. Finora, invece, questo principio valeva solo in campo civile. Cioè, in sostanza, quando il tasso alcolemico è compreso tra 0,51 e 0,8 grammi/litro: è la fascia di violazione meno grave, punita con sanzioni amministrative e non penali. Il principio era stato adottato dopo la sentenza della Corte costituzionale 113/2015, che aveva imposto l’obbligo di taratura per i misuratori di velocità, non previsto espressamente né dal Codice della strada né da altre norme. In materia di alcol, nonostante l’articolo 379 del Regolamento di esecuzione del Codice imponesse “verifiche di prova” periodiche, aveva sempre prevalso il principio secondo cui spettava al trasgressore dimostrare l’esistenza di vizi dell’apparecchio, anche quando non era revisionato. In sostanza, la Consulta aveva recepito nel più alto livello della giurisprudenza una verità tecnica ormai acquisita: “qualsiasi strumento di misura, specie se elettronico, è soggetto a variazioni...dovute ad invecchiamento...e ad eventi quali urti, vibrazioni, shock meccanici e termici, mutamenti della tensione di alimentazione”. È per questo che serve una verifica periodica e appare irragionevole e contraddittorio imporre all’interessato di fornire una prova del vizio dell’apparecchio. La Cassazione civile si era adeguata alla Consulta (si veda, per esempio, l’ordinanza 1921/2019), quella penale non ancora. Ora la sentenza 38618 riallinea gli orientamenti, ridimensionando quelle “esigenze di tutela della sicurezza stradale” che avevano giustificato quello più rigido e riconoscendo che il cittadino dovrebbe fornire una prova “pressoché diabolica”, visto che l’etilometro è nella disponibilità del corpo di polizia. La Quarta sezione nota che, mantenendo criteri diversi in campo penale rispetto al civile, si arriverebbe alla “conseguenza irrazionale” che la stessa fattispecie (cioè lo stato di ebbrezza) punita con sanzioni amministrative o penali secondo la sua gravità potrebbe costituire solo un illecito penale. Ciò contrasterebbe col principio secondo cui lo strumento penale va utilizzato solo come extrema ratio. Il problema della mancata verifica periodica è molto frequente: per anni la Motorizzazione ha di fatto avuto un solo laboratorio, con arretrati di mesi e mesi. Da poco è stato riaperto quello centrale di Roma e personale ausiliario è stato assunto a tempo, per cui l’arretrato è stato azzerato. Occorrerà vedere se i fondi disponibili consentiranno di tenere le apparecchiature sempre in efficienza e di avvalersi ancora degli ausiliari esterni. Non va rinnovato il dibattimento in appello per ribaltare la lettura del consulente tecnico di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 19 settembre 2019 n. 38615. Il dentista che - in assenza di somministrazioni ed esami preparatori all’intervento - proceda all’estrazione dei denti del paziente sostituendoli con protesi corre il rischio di pagare, anche a distanza di qualche anno, per gli eventuali danni alla salute, che sia possibile comunque mettere in relazione con l’impianto. Nel caso concreto la Cassazione (sentenza n. 38615 di ieri) ha respinto il ricorso del dentista che era stato riconosciuto responsabile, ai fini civili, dal giudice penale d’appello ribaltando l’assoluzione di primo grado. La Cassazione ora conferma la rilettura delle risultanze probatorie e delle relazioni dei consulenti fatta dalla sentenza di II grado che ha ritenuto la responsabilità del medico dentista insita nell’assenza di somministrazioni di antibiotici, di esami radiologici e di una Tac nell’imminenza dell’oneroso intervento che comportava l’estrazione di ben 7 denti e la fissazione di un impianto osseo da canino a canino. Un intervento altamente invasivo che il dentista aveva realizzato sulla base di esami radiografici eseguiti un anno prima. Questione procedurale dibattuta - Il ricorrente in Cassazione lamentava la violazione dell’obbligo di rinnovazione dibattimentale della prova e quindi l’illegittimità della sentenza d’appello di condanna. Il ricorso respinto dai giudici di legittimità in realtà riapriva una questione che è stata oggetto di storici precedenti della Cassazione come la sentenza “Dasgupta” del 2016, invocata dal ricorrente, e “Patalano” del 2017. In realtà in questo caso il giudice di appello non ha messo in discussione il contenuto della consulenza, ma ha stigmatizzato l’errata lettura da parte del giudice di primo grado dei dati tecnici che la stessa mette in luce (in questo caso l’assenza di consenso informato, di esami preparatori all’intervento e la mancata protezione antibiotica prevista dalle specifiche linee guida). In questo caso i giudici sottolineano che non era stata messa in dubbio l’attendibilità di un teste, in questo caso il consulente, ma il fatto che il primo giudice avesse travisato le conclusioni peritali incorrendo in errore: ciò che - nel rispetto dei principi di economia processuale - non obbliga il giudice di appello alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ossia alla riacquisizione della prova. In conclusione è il differente apprezzamento della prova che fa scattare l’obbligo di rinnovazione che invece non sussiste se il giudice opera una diversa complessiva valutazione probatoria delle risultanze processuali. Lombardia. Patto tra Pirellone e Corte d’Appello: un percorso per i detenuti malati psichici di Fabio Rubini Libero, 20 settembre 2019 L’obiettivo del protocollo firmato nei giorni scorsi da Regione Lombardia, Corte d’Appello di Milano e altri enti, è quello di permettere ai malati psichici che hanno commesso reati di poter essere reinseriti nella società dopo adeguate cure. Quelle cure che spesso le carceri italiane non sono in grado di garantire. Con l’aggravante di un rilascio del detenuto, senza garantirne la non pericolosità. “Con questo importante accordo vogliamo prenderci carico di quelle persone che hanno sì commesso crimini, ma lo hanno fatto a causa dei loro problemi psichici e che, se non adeguatamente curati, potrebbero tornare a delinquere”, spiega l’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera. Per raggiungere questo obiettivo il protocollo d’intesa prevede due possibili strade da seguire. “Da una parte, per i casi più gravi, c’è il ricorso ai Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) - racconta Gallera - e poi, per i casi più gestibili c’è il ricorso al ricovero nelle comunità o strutture adibite presenti sul territorio”. In entrambi i casi Regione Lombardia, attraverso il proprio sistema sanitario garantirà “un percorso di recupero per provare - nei limiti della malattia, ndr - a mettere il malato in condizione di reinserirsi nella società”. Una necessità, quella del recupero dei detenuti per motivi psichici, che è stata evidenziata anche dal Comitato della Salute Mentale e Dipendenze di Regione Lombardia, che si è insediato pochi giorni fa, del quale fanno parte eccellenze negli ambiti della salute psichica. Il tutto, ovviamente, garantendo la sicurezza di tutti. Questo, sottoscritto con Corte d’Appello di Milano, Procura Generale di Milano, Presidenti dei Tribunali Ordinari, Procuratori presso i Tribunali di Distretto, Provveditore Amministrazione Penitenziaria e Direzione dell’Uiepe (Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna), ha come altro obiettivo quello di fissare un modello operativo in grado di superare quello degli ospedali psichiatrici giudiziari (la cui progressiva chiusura si è conclusa nel 2017). L’accordo non è il primo che viene siglato dalla Regione, che lo scorso anno aveva siglato un analogo protocollo con la Corte d’Appello di Brescia che, spiegano da Regione Lombardia che “sta dando ottimi risultati: gli psichiatri si sono fortemente impegnati e sono riusciti a coniugare le cure e il rapporto fiduciario con i pazienti, con le esigenze della tutela”. Ovvio, esportare questa esperienza su un’area ben più vasta come quella della Città Metropolitana, appare molto più complessa, ma “la certezza e la determinazione di operare nel senso giusto, porteranno sicuramente i risultati auspicati”. Napoli. Detenuto si uccide nel carcere di Poggioreale: 40enne trovato impiccato in cella di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 20 settembre 2019 Un uomo di 40 anni, di origine pugliese, è stato trovato morto nella sua cella nel carcere di Poggioreale: è il terzo suicidio nella struttura partenopea quest’anno, il sesto in tutta la Campania. Lo ha comunicato il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. Poche settimane fa, sventato un altro suicidio, sempre a Poggioreale. Un detenuto di 40 anni si è impiccato questo pomeriggio nella propria cella all’interno del carcere napoletano di Poggioreale. Lo ha reso noto Samuele Ciambriello, il garante campano dei detenuti. L’uomo, d’origine pugliese, è stato trovato privo di vita: inutili i tentativi di soccorso da parte degli agenti penitenziari. Si tratta del terzo suicidio nel 2019 all’interno del carcere di Poggioreale, il sesto in Campania dei trentatré che in quest’anno solare ancora in corsa si sono uccisi all’interno delle carceri italiani. Oltre ai tre detenuti morti a Poggioreale, si sono registrati in Campania altri tre casi all’interno del carcere di Secondigliano, di Benevento e di Aversa. “Va rafforzato il sistema di prevenzione dei suicidi che è stato varato dal ministero”, ha spiegato Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, “Bisogna agire con una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria, bisogna prevenire, intuire il disagio”. Ciambriello ha anche aggiungo che nelle carceri “c’è bisogno anche di psichiatri”, e che vanno “rafforzate le figure sociali”, oltre ad “elaborare una cultura del carcere e sul carcere, le pene detentive devono essere garantite salvaguardando dignità e assistenza socio sanitaria”. Poche settimane fa si era registrato un altro tentativo di suicidio nel carcere di Poggioreale, dove un detenuto di quarant’anni, napoletano, aveva ritagliato delle lenzuola legandole poi alle inferriate della finestra del bagno, provando così a togliersi la vita. Ma in quel caso fu provvidenziale l’intervento di un agente e di un compagno di cella dell’uomo, che erano riusciti a salvarlo in extremis. Ravenna. Istigazione al suicidio per la tragedia in carcere di Federico Spadoni Corriere della Romagna, 20 settembre 2019 La procura ha disposto l’autopsia sul corpo del 24enne che lunedì si è tolto la vita nel carcere di Ravenna, dov’era detenuto da metà agosto. Una decisione che segue l’apertura di un fascicolo per il momento contro ignoti, che vede come ipotesi di reato l’istigazione al suicidio. È atteso per questa mattina invece il conferimento dell’incarico al medico legale scelto dal sostituto procuratore Cristina D’Aniello. Barcellona Pozzo Di Gotto (Me). Una situazione sempre più complessa all’interno del carcere di Lina Bruno Quotidiano di Sicilia, 20 settembre 2019 Sempre più concreta l’ipotesi di un ritorno nella Casa circondariale dello psichiatra Rosania. Il recente suicidio di un 25enne è l’ultimo, grave, campanello d’allarme legato alla struttura. Il suicidio di lunedì del ragazzo di 25 anni che si trovava da qualche settimana in osservazione nell’Articolazione per la tutela della salute mentale del Carcere di Barcellona è l’ulteriore segnale che qualcosa in quella struttura non funziona. C’è l’allarme lanciato dal Garante dei detenuti Giovanni Fiandaca, da padre Pippo Insana, ex Cappellano dell’Opg e presidente della Casa di solidarietà ed accoglienza, e da Lillo Italiano, delegato nazionale del Cosp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Tentativi di suicidio, aggressioni agli agenti e tra detenuti, autolesioni, si ripetono ormai da mesi e convivono con l’insoddisfazione del personale per le crepe organizzative e l’insufficiente numero di agenti in servizio. In questo clima è maturata l’ipotesi di fare tornare alla direzione della Casa circondariale di Barcellona Nunziante Rosania, psichiatra, con una lunga esperienza nella struttura quando era Opg. L’attuale direttrice Romina Tajani ha infatti chiesto il trasferimento che si dovrebbe concretizzare a ottobre. “Si sta valutando il mio rientro - ha affermato Rosania - non si sa ancora in quale forma e per quanto tempo. La cosa non mi alletta particolarmente, perché se non cambiano alcune cose fondamentali, in questo Istituto si corrono dei rischi enormi per i detenuti e per il personale”. La proposta è stata fatta dal capo del personale del Dipartimento a Roma, adesso si attende la decisione finale e l’ufficialità. Un ritorno che avevano evocato in molti a Barcellona. “È una situazione oggettivamente difficile - ha affermato Rosania- vanno cambiati alcuni aspetti sia nell’organizzazione dell’Atsm, che nell’interlocuzione con l’Asp. Si dovrà ragionare anche in sede assessoriale per fare destinare risorse adeguate e dare un cambio radicale”. All’Assessorato alla Sanità si dovrebbe anche ultimare quel protocollo su cui da lungo tempo si discute invano per dare delle direttive univoche alle Atsm. “Teniamo anche presente - ha precisato lo psichiatra - che una recente sentenza della Corte costituzionale dice che i detenuti con patologie psichiatriche vanno curati in contesti che non siano di carcerazione”. In ogni caso, nella gestione della Casa circondariale di Barcellona ci sono due istituzioni che sembrano avere evidenti difficoltà di dialogo: l’Amministrazione penitenziaria, che si occupa della custodia, e il sistema sanitario regionale che con l’Asp gestisce la cura con competenze specifiche sull’Atsm, l’ottavo reparto. Qui ci sono circa sessanta detenuti provenienti da vari Istituti che hanno problemi psichiatrici sopraggiunti in regime carcerario. Dovrebbe essere così perché in realtà qui vengono mandati anche detenuti in osservazione oppure con sentenza definitiva, in alternativa alle Rems. In questo momento, per esempio, ci sono due cittadini stranieri trovati su un mezzo pubblico senza biglietto che hanno reagito al controllo. Non si è riusciti a raggiungere alcuna intesa tra Asp e Amministrazione penitenziaria. Un’Articolazione, quindi, che è un ibrido, con nessuna linea guida sul numero massimo di ristretti né sulle modalità di accesso. Lo sono anche le altre in realtà, nate nei vari istituti italiani: l’anomalia è che solo Barcellona è arrivata ad ospitare nell’ottavo reparto più di ottanta detenuti psichiatrici. In tutte le altre strutture carcerarie i posti sono quattro o al massimo dieci. A Barcellona, dietro l’etichetta dell’Articolazione, restano quindi le logiche da Opg. “Alla base del disagio - ha affermato padre Pippo Insana - non c’ è la carenza di personale di vigilanza o sanitario, ma una gestione sbagliata. Le persone detenute con patologia psichiatrica vivono chiuse dentro la sezione, mancano le relazioni, l’attività riabilitativa e occupazionale. Ci sono precise responsabilità della Sanità e dell’Amministrazione penitenziaria, che pur conoscendo la situazione insostenibile non intervengono. A monte ci sono poi le carenze della Salute Mentale del territorio, che non fornisce quei servizi previsti dalla normativa”. Oristano. Ergastolano senza cure. I medici: “Rischia la vita” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2019 “Mario Trudu, 69 anni, detenuto da 41 anni, affetto da una grave sclerodermia polmonare, da oltre un anno nella Casa di Reclusione di Massama aspetta che gli vengano applicate le cure necessarie, nonostante il pronunciamento della magistratura di sorveglianza di Cagliari”, ha detto ieri l’avvocata Monica Murru, legale di fiducia dell’ergastolano di Arzana, durante la conferenza stampa promossa dall’associazione Socialismo diritti riforme, volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle gravi condizioni di salute dell’anziano arzanese. “Non solo - ha aggiunto Murru dallo scorso mese di giugno gli è stato diagnosticato un carcinoma prostatico senza che fino ad ora sia stata applicata una specifica terapia, compresa quella radioterapica prescrittagli lo scorso 31 luglio dal reparto di Urologia del San Martino di Oristano”. Il prossimo 5 novembre è stata fissata l’udienza per l’istanza di concessione della misura della detenzione domiciliare. Nel frattempo però Trudu non riceve i trattamenti sanitari adeguati. “Una situazione inaccettabile in aperto contrasto con le indicazioni della Cedu, della Consulta e della Suprema Corte”, ha denunciato sempre il legale dell’ergastolano, per poi concludere : “Ecco perché a nome del mio assistito mi riservo di depositare un esposto alla Procura della Repubblica per accertare la responsabilità di ciò che si appalesa come una lesione del diritto alla salute di persona privata della libertà ed evidentemente sottoposta a ciò che appare come un trattamento inumano e degradante”. “Mario Trudu - ha sottolineato Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo diritti riforme - è ormai un caso emblematico nazionale di un sistema penitenziario che nega un diritto costituzionale, a fronte di leggi e disposizioni normative vigenti. Si tratta di un uomo anziano, malato, che non reclama la libertà ma soltanto di potersi curare in un ambiente idoneo”. Sulla situazione sanitaria ed in particolare sulla sclerodermia è intervenuto Luca Lacivita, reumatologo, del reparto di Medicina dell’ospedale San Martino, che ha fatto una specifica relazione: “Si tratta di una malattia invalidante che se non curata adeguatamente può provocare la morte”. È intervenuta anche la camera penale di Oristano tramite la sua presidente Maria Rosaria Manconi: “Noi aderiamo convintamente alla richiesta di giustizia di Mario Trudu e auspica che, nel rispetto dei principi costituzionali della umanizzazione e della funzione rieducativa della pena, vengano quanto prima adottati i provvedimenti necessari affinché venga garantito il diritto alle cure e alla vita stessa”. Nel sottolineare le difficili condizioni anche psicologiche di Mario Trudu, il fratello Danilo e la nipote Maria Assunta Mancosu, hanno espresso preoccupazione per la situazione sanitaria. “Chiediamo solo la possibilità - hanno detto - di farlo curare adeguatamente, non altro”. Voghera (Pv). L’artigianato dei detenuti in vendita nel negozio in centro città vogheranews.it, 20 settembre 2019 Nell’ambito della politica di apertura verso il territorio, la Casa Circondariale di Voghera apre a una forma di sinergia che coinvolge anche con le realtà commerciali dell’Oltrepò pavese. Nei giorni sabato 21 e domenica 22 settembre, dalle ore 9:30 alle ore 12.30 e dalle 14 alle 19:30, infatti, il negozio di abbigliamento “Guerci” di Casteggio (P.zza Cavour, n. 40) allestirà un’esposizione di prodotti artigianali realizzati dalle persone detenute nei laboratori di sartoria, falegnameria e dolciario dell’istituto penitenziario vogherese. Nella giornata di sabato, alle ore 17.30, per illustrare il significato e il valore dell’evento, saranno presenti nel punto vendita la direttrice Stefania Mussio e la comandante del reparto, Michela Morello. “Quanto ricavato sarà utilizzato per continuare a valorizzare e sostenere i laboratori - spiega la direttrice -: spazi unici, in grado di suscitare nuove riflessioni e fermenti creativi, nell’ottica di tenere fede all’obiettivo, costituzionalmente sancito, di rendere viva e concreta la funzione rieducativa della pena e restituire alla società persone arricchite e maggiormente consapevoli del disvalore delle scelte passate”. La direttrice ringrazia il negozio “per lo spirito di accoglienza, l’interesse e la sensibilità mostrati nei confronti dell’Istituto di Voghera e per aver colto l’esigenza di favorire preziose dinamiche di inclusione sociale. Accostarsi alla realtà penitenziaria è un gesto di solidarietà e civiltà giuridica e sostenerne le attività è una azione di sicurezza sociale.” Vasto (Ch). Corleone in visita nella Casa lavoro, per i diritti dei detenuti di Paola Calvano Il Centro, 20 settembre 2019 Ispezione dell’ex sottosegretario alla giustizia nella Casa lavoro di Torre Sinello “Voglio aiutare queste persone a rialzarsi, bisogna prevenire e non rinchiudere”. “Buongiorno, sono Franco Corleone”. L’ex sottosegretario alla Giustizia e garante dei detenuti si è presentato con estrema semplicità ieri mattina ai detenuti della Casa lavoro di Torre Sinello che si affacciavano curiosi alle sbarre. Con lui il garante dei detenuti nominato dalla Regione, Gianmarco Cifaldi, la direttrice dell’istituto di pena, Giuseppina Ruggero, rappresentanti della Regione, educatori e due ricercatrici dell’università di Firenze che stanno analizzando il fenomeno delle misure di sicurezza. Le autorità, accompagnate dalla direttrice della Casa lavoro e dalla polizia penitenziaria, hanno visitato l’istituto di pena annotando le richieste dei detenuti e le condizioni della struttura. Tanti quelli che hanno chiesto ascolto. Qualcuno ha preferito restare lontano dalla grata che chiude la cella. Altri hanno ostentato indifferenza. Nel visitare il braccio destinato agli internati che non hanno finito la loro pena ma che conservano una pericolosità sociale e che va eliminata attraverso il lavoro, Corleone ha ribadito che la rieducazione può avvenire anche aprendo le sbarre. “Penso che sia più importante prevenire”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia. “Prevenire la povertà, per esempio, può evitare tanto disagio. Prevenire e rieducare piuttosto che richiudere”, ha sostenuto il politico ribadendo quanto scritto nel suo libro, “Carcere, giustizia, ripartire dalla Costituzione”. “Sono qui per vedere come vivono questi internati”, ha spiegato, “di cosa hanno bisogno, come riescono a inserirsi nel mondo del lavoro. La mia visita istituzionale in questa casa lavoro è per aiutare queste persone a risalire la china”. Per questo Corleone ha ascoltato diverse storie. “La visita in un carcere”, ha proseguito il sottosegretario, “ha anche lo scopo di aprire all’opinione pubblica il mondo del carcere nella speranza che la detenzione possa migliorare”. Accanto a lui il garante dei detenuti, Cifaldi, i consiglieri regionali del M5S Pietro Smargiassi e della Lega Sabrina Bocchino e Manuele Marcovecchio. I rappresentanti delle istituzioni si sono detti pronti a lavorare in modo sinergico. Il comandante di reparto, il commissario Nicola Pellicciaro, insieme al funzionario giuridico pedagogico Lucio Di Blasio, hanno coordinato le operazioni delle due ricercatrici. A Vasto sono detenute circa 150 persone, 30 detenuti e 120 internati. Una popolazione detenuta estremamente eterogenea che determina anche un duro lavoro da parte degli agenti. Una realtà complessa che ieri è stata esaminata e analizzata con estrema cura. La casa lavoro è strutturata su tre livelli: in ogni piano ci sono 25 camere di pernottamento. La vigilanza è affidata ad un comandante di reparto con la qualifica di commissario, 7 ispettori, 6 sovrintendenti e 104 agenti. Milano. A San Vittore torneo di calcio per solidarietà ai bimbi malati di Gianmarco Aimi La Repubblica, 20 settembre 2019 Un progetto che nasce dal dolore, ma in grado di creare amore diffuso: GrandeAle Onlus non è solo una Fondazione benefica indirizzata a un settore delicato come la cura dei bambini malati. La riprova si è avuta ieri quando è stata in grado di aprire per un giorno le porte del carcere di San Vittore. Il calcio, aggregatore sociale, come passe-partout ideale per raccogliere fondi. Tutto nel ricordo del piccolo Alessandro, il bambino che a soli dieci anni è scomparso per una rara forma di leucemia. In campo per il torneo erano schierati: la formazione di ragazzi guariti dopo le cure, la squadra della polizia penitenziaria, quella dei detenuti, un’altra dell’Ordine degli avvocati insieme ai magistrati e quella dei The Dab Game, cioè l’associazione che si è occupata della ristrutturazione del campetto del carcere. In prima fila mamma Luisa Mondella e papà Giorgio Maria Zancan, i motori di un effetto domino di bontà che nelle loro aspettative non vuole conoscere confini. Cinque i progetti già attivi. Prima di tutto per sostenere la ricerca, poi nell’animazione che si svolge direttamente in reparto, e ancora l’introduzione della psicologa infantile per alleviare le paure di questi “piccoli guerrieri”, senza contare un fondo di grande importanza rivolto alle famiglie: “Pensate che il primo anno abbiamo utilizzato questi soldi solo per i funerali dei piccoli malati, visto che in molti non se lo potevano permettere” ha spiegato Luisa, che è un vero vulcano di idee e vitalità che contagiare chiunque le si avvicini. Anche un campione dello sport come Alessandro “Billy” Costacurta o la cantante e conduttrice Joe Squillo, che non hanno fatto mancare la loro presenza: “È bellissimo sostenere persone che hanno sofferto tanto e ora vederle giocare e tornare alla normalità” hanno dichiarato. Ma la beneficenza potrebbe fare poco se al suo fianco non ci fosse la scienza. Infatti, nel consiglio della Fondazione è presente il dottor Momcilo Jankovic, luminare nella cura della leucemia infantile: “Ricerca non significa sperimentazione, ma progresso nella medicina. Ad oggi le cure consentono la guarigione nell’80% dei casi, perciò non dobbiamo fermarci”. Gli esempi tangibili del suo lavoro erano all’interno del rettangolo verde, con le divise fosforescenti e gli scarpini lucidi, pronti a sfidare qualsiasi avversario. Si trattava di quei bambini un tempo affetti da questa tremenda malattia, che dopo averla superata sono riusciti a diventare genitori e a formare a loro volta famiglie. Soddisfatta anche Manuela Federico, comandante della polizia penitenziaria, che quando ha conosciuto la mamma di Alessandro ha fatto di tutto per cercare di unire l’esigenza di supporto ai malati a quella di recupero dei detenuti che scontano giornalmente la pena nella casa circondariale milanese: “Siamo contenti di far parte di una storia d’amore così speciale che ha toccato nel profondo i miei agenti, in particolare dopo la visita all’ospedale San Gerardo di Monza”. Tale la forza del messaggio di GrandeAle Onlus, che ha voluto essere in campo anche Fabrizio Corona, recluso a San Vittore per aver violato le regole dell’affidamento terapeutico all’esterno del carcere. L’ex re dei paparazzi è apparso in buona forma, oltre che particolarmente motivavo tra i pali. Unico vezzo, l’aver scelto un completo total black a dispetto della squadra di appartenenza (in arancione). Poco male, visto il sostegno che è sembrato più che convinto a una iniziativa così importante. Minano. Tre birre non filtrate create dai detenuti di Chiara Amati Sette - Corriere della Sera, 20 settembre 2019 In dialetto milanese indica, in maniera affettuosa, chi è “nato male” senza, per questo, cedere alla sventura. Ma oggi il termine “Malnatt” è anche un marchio, quello dell’omonima birra agricola prodotta dai detenuti dei tre istituti penitenziari milanesi, San Vittore, Bollate e Opera. Il progetto - uno dei pochi a coinvolgere insieme le tre carceri - parte due anni or sono dal desiderio, forte e condiviso, di fare economia sostenibile. A spiegarlo è Filippo Ghidoni, titolare dell’azienda agricola La Morosina, nel parco del Ticino, che è partner dell’iniziativa insieme all’agenzia di comunicazione Take e al distributore Pesce: “Provo soddisfazione emotiva tutte le volte che riesco a offrire un impiego a chi ha una storia meno fortunata della mia. Finora sono stati per lo più richiedenti asilo politico. Poi, l’incontro provvidenziale con Massimo Barboni, oggi consulente nel settore del beverage, ha portato a questa esaltante virata. E al coinvolgimento di Giacinto Siciliano, che dirige San Vittore. Il resto è storia di questi giorni”. Perché è proprio in questi giorni che un detenuto comincia il suo tirocinio. “Sei ore al giorno per sei mesi, dentro a un concreto percorso formativo lungo tutte le fasi della lavorazione. Dopodiché, se si sarà dimostrato responsabile e a lui andrà bene, potrà continuare con noi”, specifica Ghidoni. “L’obiettivo è quello di assumere dieci detenuti nei prossimi due anni. Il lavoro c’è”. E tutto per la realizzazione delle birre: tre - San Vittore, Opera e Bollate dai nomi delle rispettive case circondariali - non filtrate, non pastorizzate e rifermentate in bottiglia sotto l’occhio vigile di Iens Berthelsen, mastro birraio responsabile della produzione. E tutte preparate con ricette diverse così da avere gusti e caratteristiche inconfondibili. Uno solo, invece, il logo: quattro linee stilizzate verticali trapassate da un volo di rondine che muove verso l’alto. “Un segno ciclico nell’immaginario carcerario, simbolo di attesa e speranza, che si trasforma in un’ascesa crescente e liberatoria in direzione del proprio riscatto”, rimarca Ghidoni. “Realizzare queste birre, dando una seconda opportunità a chi ha sbagliato, e poterle commercializzare da Milano a Pavia, hinterland compresi, è per tutti noi una vittoria di civiltà”. Volterra (Pi). Agricoltura inclusiva e birra prodotta in carcere quinewsvolterra.it, 20 settembre 2019 La birra è in preparazione e così il pomodoro per la pizza. Ancora qualche settimana di lavoro e gli ingredienti principali per la cena con menu pizza e birra saranno pronti. Nulla di speciale, se non fosse per le persone e i luoghi che incorniciano questa storia: cinque persone in esecuzione penale, che stanno imparando a produrre birra dentro il carcere di Volterra, e cinque richiedenti asilo, alle prese con la filiera del pomodoro presso l’azienda BioColombini srl. Si chiama progetto FairMenti ed è nel vivo delle sue attività: promosso e finanziato dalla Regione Toscana con capofila l’Associazione di promozione sociale AGRIcultura sociale - Onlus in collaborazione con l’Associazione Arci - La Staffetta, Arnera Cooperativa sociale onlus, l’azienda agricola BioColombini srl e con il sostegno dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) Coldiretti, CIA e di Federsanità - Anci Toscana, questo progetto si rivolge a persone in situazione di svantaggio che possano trovare nell’agricoltura sociale percorsi di inclusione, formazione ed inserimento lavorativo. Per questo si lavora con impegno ed entusiasmo, su due percorsi distinti ma connessi: nelle terre di BioColombini si coltivano i pomodori, mentre con La Staffetta, a Volterra, si fa la birra. I dieci protagonisti di questo progetto hanno un unico obiettivo formativo e di integrazione che coinvolge sia la filiera orticola che quella brassicola. Circa 15 ore settimanali, con corsi integrati di HACCP e Sicurezza a cura dell’azienda: una preparazione completa al mondo del lavoro che si chiuderà con una festa, in programma per ottobre. In questi mesi i cinque richiedenti asilo hanno seguito e imparato ogni fase della coltivazione del pomodoro, dal trapianto delle piantine, passando per la legatura e la pulizia dalle erbe infestanti, fino alla raccolta. Dalla teoria alla pratica dunque, ed il tutto attraverso un metodo di produzione rigorosamente biologico. La Birra al Coriandolo Bio Toscano è invece il punto di arrivo del percorso brassicolo. Il luppolo viene dalla società agricola Versil Green by Oligea, diretta da Elena Giannini, vice presidente di Coldiretti Lucca, che ha messo a disposizione una selezione di cultivar in sinergia con La Staffetta. Il percorso formativo viene svolto all’interno del Carcere di Volterra e coinvolge cinque persone di cui quattro uomini in esecuzione penale e una ragazza che ha già scontato la pena. Le didattica è cominciata a Maggio ed ha visto, nel mese di Settembre, il culmine del progetto formativo nella cotta didattica di birra artigianale della durata di otto ore, dalla macinatura alla successiva fase di ammostamento, bollitura e successivo inoculo del lievito che fermenterà per altri 15 giorni. In tempo per la cena finale in programma a ottobre, prevista per un centinaio di persone e il cui ricavato andrà al carcere stesso. “L’importanza di fare la birra in carcere da parte dei detenuti è legata alla possibilità di sfruttare queste competenze nel mondo del lavoro sia durante i permessi premio che dopo il fine pena”, commenta Matteo Iannone de La Staffetta. “Infatti La Staffetta si impegnerà anche dopo il progetto Fairmenti a includere con progetti ad hoc nei suoi birrifici alcuni dei detenuti che hanno partecipato al progetto”. “È un onore per noi fa parte di questo progetto - commenta Fabrizio Filippi, presidente di Coldiretti Pisa -. L’agricoltura sociale da sempre è un obbiettivo della confederazione e della Fondazione Campagna Amica, che l’anno scorso ha dato vita ad una rete di agricoltura sociale che già conta 937 aziende in tutta Italia. L’agricoltura sociale è lo sviluppo più avanzato della multifunzionalità - conclude - che abbiamo fortemente sostenuto per avvicinare le imprese agricole ai cittadini e conciliare lo sviluppo economico con la sostenibilità ambientale e sociale”. Benevento. “Gli ultimi saranno”, laboratorio creativo alla Casa circondariale ilvaglio.it, 20 settembre 2019 Il 23 settembre alle ore 9,30 si svolgerà alla Casa circondariale di Benevento il laboratorio creativo “Gli ultimi saranno - Conforto dell’arte, vicinanza delle istituzioni”. Raffaele Bruno insieme al gruppo di musicisti, attrici e attori campani, formato da Federica Palo, Maurizio Capone, Massimo De Vita e Enzo Colursi, darà vita ad un rito di improvvisazione che vedrà i detenuti non solo come spettatori, ma anche parte integrante dell’evento. L’arte come strumento di riavvicinamento tra le persone e di inclusione di chi vive ai margini della società, questo è il proposito del progetto, che vede in prima linea nell’ideazione e nell’organizzazione Raffaele Bruno, direttore artistico del collettivo “Delirio Creativo”, è stato assistente di Stefano Benni nei suoi seminari, autore di testi teatrali e canzoni, ha una esperienza decennale nell’insegnamento in contesti diversi (scuole, carceri, comunità, centri per pazienti psichiatrici, aziende e compagnie teatrali). Da marzo 2018 è deputato con il Movimento5stelle. “È tempo di prendersi cura degli emarginati affinché anche loro abbiano la possibilità di sognare e scegliere cosa fare della loro vita. È compito delle istituzioni comprendere, ascoltando, i bisogni delle persone in condizioni di criticità”. Raffaele Bruno precisa, nella nota diffusa alla stampa: “Con questo progetto prestiamo attenzione a quelli che la società tratta da ‘ultimi’, tenendoli ai margini. Al via, quindi, una serie di attività finalizzate a porre l’attenzione su questo tema, troppo spesso ai margini del dibattito pubblico”. Il progetto “Gli ultimi saranno” prevede una serie di appuntamenti nelle carceri, nelle comunità, negli ospedali e nelle scuole per coinvolgere tutti i destinatari attraverso laboratori creativi, in cui i partecipanti avranno spazio per mostrare il loro talento, interagendo con gli artisti. L’iniziativa si inserisce in un progetto più ampio di diffusione e valorizzazione dei laboratori creativi attivi nei luoghi di sofferenza, che mira a mettere in evidenza gli straordinari risultati sulle persone che vi partecipano. Numerosi sono gli appuntamenti in programma: 30 settembre, Casa circondariale di Roma Regina Coeli; 4 novembre Casa circondariale femminile di Pozzuoli (Na); 18 novembre, Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av); 30 novembre, Casa circondariale di Secondigliano (Na); 2 dicembre, Casa circondariale di Salerno; 16 dicembre, Casa di reclusione di Eboli (Sa). “Io e Agnese”, di Monica Sarsini. Tornare libere in carcere recensione di Laura Ricci letteratemagazine.it, 20 settembre 2019 Ancora un’insegnante tra le detenute e un trauma condiviso. Il valore dello scrivere e il reciproco sostenersi nella segregazione di Sollicciano. Un linguaggio che sorprende in tempi di sciatteria linguistica nel libro di Monica Sarsini (che è pure un’artista). Il titolo è “Io e Agnese”, la donna lunatica e vitale con cui ha maggiore feeling. Un libro “sottile”, di quella dimensione che si sceglie volentieri perché ci accompagni, senza soluzione di continuità, lungo un viaggio in treno. E al tempo stesso un libro denso, profondo, in cui ogni parola ha la sua ragione di essere nell’economia del tutto, e la sottigliezza non sta solo nello spessore del dorso del volume, ma nella costruzione della struttura del racconto, nel dipanarsi del pensiero e nella cura della forma narrativa. Sto parlando di “Io e Agnese”, l’ultimo libro di Monica Sarsini, che anche si avvale di un saggio sull’autrice di Ernestina Pellegrini. Il lavoro va a completare una trilogia narrativa scaturita dai corsi di scrittura tenuti dalla scrittrice nella sezione femminile del carcere di Sollicciano, i cui primi due volumi - “Alice nel paese delle domandine” (2011) e “Alice, la guardia e l’asino bianco” (2013) - sono stati pubblicati da Le Lettere di Firenze. C’è però, rispetto ai precedenti libri, uno spostamento, un diverso e originale esperimento di scrittura che non tira in ballo soltanto l’esperienza carceraria, le storie delle donne che frequentano il laboratorio e la relazione tra loro e tra loro e la docente, ma anche il nocciolo più duro, segreto e oscuro del vissuto più intimo e forse irrisolto della narratrice; che rievoca, intrecciata alle vite estreme delle detenute, una sua precoce e altrettanto estrema tragedia familiare: la perdita nell’infanzia dell’adorato fratellino, colpito involontariamente e mortalmente alla nuca da una cartuccia da leprotti scagliata dal suo più assiduo compagno di giochi. E anche nei confronti di quella narrazione del sé che giustamente Ernestina Pellegrini definisce una “poetica del trauma” si fa avanti una sperimentazione più complessa e nuova, in cui la scrittura monologante legata al proprio vissuto non rimane avvitata alla disperazione del proprio io, ma continuamente si intreccia e si raffronta con il vissuto e le storie di Agnese e le altre - Alessia, Daniela, Katia, Laura, Susanna, Giada, Rosalina, Elisa, Malina - le prigioniere del fuori piuttosto che del sé, creando una poetica del rispecchiamento che rispetto all’io stabilisce un’oggettivazione e una distanza e, rispetto alle altre, un avvicinamento al loro esistere. Si determina, in sintesi, un nesso relazionale, in cui non sono tanto le storie di violenza, droga, abbandono, povertà, furti e fughe, peraltro appena tratteggiate con pudore, a contare - del tutto assente, fortunatamente, l’estetizzazione della vita carceraria - quanto la ricerca e il valore dello scrivere e il reciproco sostenersi in una segregazione e in una solitudine differenti ma comuni, così da permettere all’autrice, verso la fine del libro, di dichiarare: “Escono di qui e ci tornano quasi sempre, colpite dagli stessi sintomi che ce le avevano portate, la fame, la debolezza, l’emarginazione che non sono state aiutate a risolvere. Come del resto io, con i miei sortilegi, sono dovuta venire fino a qui, in questo luogo che non esiste, almeno per arrivare a vedere che cosa c’è dentro di me. Spero che anche per loro stare insieme a me sia servito a mettere a fuoco una visione”. Viene da chiedersi perché tra tutte le detenute - tutte osservate, avvicinate, curate - la prescelta sia proprio Agnese. È con lei, infatti, che come non infrequentemente accade tra maestra/o e allieva/o, si stabilisce una relazione privilegiata, se non addirittura talvolta rovesciata, come se fosse la docente ad attingere forza dalla sfortunata ma vitale determinata allieva. Agnese perché è intelligente e sensibile, perché è leader e sa di esserlo, perché trascina le altre. Perché è ribelle e non sempre affidabile - si legga in questo senso, oltre che come iniziazione alla sterminata complessità della vita, l’episodio emblematico dell’uscita docente-allieva al Museo Antropologico - ma in definitiva a suo modo sta ai patti. Perché è lunatica, alterna, ma sa manifestare il suo affetto. Perché ha bisogno di essere rincuorata ma sa rincuorare. Per la sua padronanza delle circostanze, perché sa essere fiera anche lì, “dove la vorrebbero appassita dai pentimenti per essere sicuri che è guarita”. Per una similarità nella differenza forse, perché diffusa e impeccabile nel dire delle condizioni del carcere, “di sé, della sua vita passata si è fatta un rifugio per apparire anche ai suoi occhi impenetrabile”. La prigione, per l’io narrante del libro - che come Ernestina Pellegrini fa giustamente notare non è detto che sia l’essere anagrafico che ha nome Monica Sarsini - è l’insistere della perdita, non rimossa ma coltivata per sentire accanto l’amata presenza fraterna, l’incapacità di una strada del perdono - “ho paura di quello che penso, ma il concetto di perdono non si è fatto avanti in me come rimedio” - e, al tempo stesso, di quello che potrebbe essere lo sfogo della vendetta, l’eruzione del dolore della psiche nei mali del corpo, il premere della tensione che solo nella parola scritta, che riesce a dire l’indicibile, finalmente si allenta. Poetica del trauma, scrittura che nasce ricca, affilata, eccentrica, precisa nel romitaggio scelto come modalità esistenziale e come ascesi del creare. Linguaggio prezioso, quasi orgiasticamente sensualmente scatenato dal silenzio e dall’osservazione minuta della realtà - piante, animali, luoghi, ambienti - ma tagliato e rifinito dalla lama dello stile. Un linguaggio che spiazza e sorprende in questi tempi di sciatteria linguistica, e che proprio per questa sua preziosa, abbondante ricchezza si fa scegliere e gustare. Un linguaggio antico, imbevuto di termini desueti o di toscanismi che altro non sono che scaglie dimenticate della vasta simbologia della lingua. Per ricordarci che una pratica del dire non banalmente standardizzata ma accuratamente selezionata, vissuta, masticata, digerita, diventa quasi un’iniziazione mistica in grado di restituire la complessità del reale e, nel grande teatro dell’universo, di medicare le ferite attraverso un amoroso esercizio di osservazione e restituzione dell’altro da sé. E magari, proprio per questa orgia avvincente di parole, il libro lo leggerete una seconda volta, andata e ritorno, per godere appieno non tanto la trama ormai conosciuta, quanto la trascinante vertigine della lingua. Monica Sarsini, Io e Agnese, Postfazione di Ernestina Pellegrini, Vita Activa Editoria, 2019, Trieste. Senza una guida umana l’intelligenza artificiale colpirà la democrazia di Daniela Piana Il Dubbio, 20 settembre 2019 L’algoritmo rende la macchina dello Stato più veloce ed efficiente, ma non più giusta. Se c’é qualcosa di cui una democrazia che funziona ha bisogno, questo “qualcosa” sono le garanzie, ovvero i baluardi di cui nessuno parla fino a quando non si rischia di perdere, per ragioni spesso contingenti o per fattori congiunturali, il patrimonio costituzionale fatto di diritti individuali e di tutele collettive. Ciò è particolarmente vero in tempi in cui all’intelligenza delle istituzioni, cosi come le abbiamo configurate, ossia improntate sulla base di procedure e funzioni, si accosta a grandi e rapidi passi un’intelligenza alternativa. Possibilmente complementare a questa: quella che deriva dalla capacità computazionale di dispositivi sofisticati applicati a basi date massive, disponibili ormai in formato digitale. Di queste garanzie si devono oggi occupare più che mai coloro che ne sono esperti, gli attori dello Stato di diritto nelle loro configurazioni istituzionali, Cnf, Csm e il governo nell’espressione del Ministero della Giustizia e del Ministero della Innovazione Tecnologica, accomunati, da un lato, dalla consapevolezza di quanto delicato sia l’equilibrio necessario al buon funzionamento della giurisdizione e, dall’altro lato, dalla capacità di fare della trasparenza e dell’eguale accesso le pre- condizioni di uno sviluppo scientifico e tecnologico foriero di sviluppo umano e sociale. È domenica. C’é il sole. Decidete di andare al mare. Salite sull’auto e impostate il navigatore. Indirizzo di arrivo, alcune opzioni specifiche sulla tipologia di itinerario che desiderate escludere, criteri di priorità - economicità, velocità, lunghezza. Il navigatore si connette al mondo dei dati, calcola, determina un itinerario e vi guida. Eppure qualcosa non torna. Ad uno svincolo autostradale le indicazioni fisiche sono in contraddizione con quelle del vostro navigatore di auto. Che fare? Spegnere il navigatore, seguire quest’ultimo senza alcuna valutazione comparata di affidabilità - per esempio comparando con la vostra esperienza -, oppure combinare le due fonti di informazioni. Ed ecco allora che l’expertise diventa cruciale. Quando interrompere l’ “effetto guida” del navigatore per introdurre un “adattamento” esperto dell’intelligenza umana? Quando affidarsi, pur con qualche perplessità, ma pensando che dopotutto il rischio dell’errore del navigatore è basso? Quando invece stabilire che vale proprio la pena affidarsi perché vi mancano dei dati, ad esempio se sono state modificate le istruzioni di viabilità? Nel momento in cui il “navigatore” si applica ai dati che riguardano le domande di soluzione di problemi aventi rilievi giuridici, ai dati che attengono alla applicazione di norme che definiscono diritti e prerogative, ai risultati della interpretazione giurisprudenziale, ai dati che attengono all’interazione fra cittadino ed istituzione in genere, allora il ruolo degli esperti delle garanzie nello Stato di diritto di cui realmente ogni cittadino può fruire, nell’epoca della trasformazione tecnologica, digitale, computazionale, deve divenire fondativo e dirimente. Non si tratta di trasformare le professionalità degli attori che operano nel Cnf, nel Csm e nei Ministeri interessati, chiedendo loro di avere la maîtrise di competenze squisitamente matematiche. Ben il contrario. Si tratta di portare tutta la filiera, dalla profilazione dei bisogni organizzativi, alla progettazione, sviluppo, utilizzo e consolidamento dei dispositivi algoritmici e più generalmente dei sistemi esperti basati sull’intelligenza artificiale in uno spazio che deve essere partecipato, in cui innanzitutto gli esperti delle garanzie abbiano voce. Come per il navigatore fra dati sulla viabilità, la determinazione di quali criteri usare per “orientare” la ricerca dei dati, l’elaborazione dell’informazione ivi contenuta e la validazione di un ventaglio di opzioni con cui rispondere ad un problema - gli itinerari possibili per andare da “A” a “B” - è una scelta che dipende da cosa per noi conta, da cosa ha valore. Altrettanto la scelta di quali priorità assegnare ai dati da cui estrarre le informazioni che formano le regole di calcolo dei dispositivi algoritmici deve essere fatta in uno spazio suscettibile di rispondere alle garanzie costituzionali e alle garanzie processuali, rappresentazione scritta di una ideale di fondo: l’umano al centro della ingegneria istituzionale. Gli esperti delle garanzie sono gli attori istituzionali che hanno la conoscenza della singolarità, ma possono - devono - ragionare in termini di effetti di interdipendenza, fra trasparenza, certezza della risposta del decisore pubblico, efficienza, rapidità, efficacia, leggibilità. Posto che in ogni società il bilanciamento fra questi principi si situa legittimamente in un punto diverso, dato il set che bilancia e combina questi criteri, a chi spetta la prospettazione di quali soluzioni offrire? Se in una società si preferisce la certezza della decisione alla sua leggibilità, l’applicazione di dispositivi computazionali al mondo della giustizia ne dovrà tenere conto, sapendo anche la razionalità matematica si confronta con un trade off: massimizzare le due cose non è possibile e più si cerca di rendere il processo di machine learning leggibile dall’esterno, meno diviene esatto sul piano matematico. L’autonomia e la terzietà degli esperti delle garanzie vanno tutelate: solo istituzioni che possono instaurare rapporti di equilibrata collaborazione con gli attori economici che sviluppano la tecnologia sono in grado di fare si che l’intelligenza artificiale applicata nel rapporto fra cittadini e istituzioni sia rispondente ai principi del primato delle norme del diritto, prima che a qualsiasi altro tipo di normatività, anche quella matematica e informatica. Insomma si immagini una “danza delle intelligenze”, guidata da bussole esperte, non delle intelligenze, ma delle garanzie entro cui esse - le intelligenze - si dispiegano, si combinano, si parlano e si ibridano. Garanzie che non si applicano in modo deduttivo, ma che vanno ribadite, dette, narrate, condivise, come lo si fa con un patrimonio prezioso, il cui valore è diffuso, fra ambiti di vita economica, sociale, politica, e fra generazioni. Per contro, anche gli attori che sviluppano la tecnologia sapranno di muoversi in uno spazio dove non si utilizzano le norme garanti di diritti individuali a valle, ex post, in via di sanzione. Essi saranno chiamati, laddove gli strumenti tecnologici, informatici, matematici, trovano utilizzo nel settore pubblico, a farsi carico di un impegno di lungo periodo, in un percorso di innovazione partecipata fin dall’inizio rispondente al primato della regola del diritto. E c’è un di più, di cui poco si parla. Ragionare sui sistemi esperti e quindi sulla conoscenza che viene utilizzata da coloro che decidono di diritti individuali - non solo attraverso la soluzione di controversie ma anche attraverso la erogazione di servizi in senso ampio - significa fare un passaggio importante, non compiuto e purtuttavia necessario. Il sistema esperto che si basa sull’algoritmo deve essere equiparato ad una qualsiasi altra fonte di conoscenza tecnica e scientifica, quindi oggetto di contraddittorio o, in altro ambito, oggetto di dialettica, pluralità di voci. Perché di fatto, chi decide quali priorità assegnare al navigatore - se l’itinerario più veloce, o quello più economico, o quello più corto - deve essere un eco- sistema di attori che si confrontano, senza che la verità - anche quella matematica - sia asserita in modo apodittico. I ragazzini italiani in balia dell’alcol, quasi un milione beve per sballarsi di Franco Giubilei La Stampa, 20 settembre 2019 Polemiche per la pubblicità aggressiva delle bevande: “Sbagliato associarle all’idea di successo”. I ragazzi italiani possono bere alcolici per svariati motivi - per sentirsi meglio insieme, perché semplicemente gliene offrono e gli piace, perché vogliono sballarsi - ma il dato di fatto è che molti di loro bevono tanto. Troppo. E cominciano a farlo sempre prima, addirittura a 11 anni, dato che ci mette al primo posto in Europa nella posizione poco invidiabile di nazione più precoce. I numeri più recenti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) parlano di 700mila consumatori a rischio nella fascia d’età compresa fra gli 11 e i 17 anni, “un pianeta del tutto inesplorato”, commenta il prof. Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale sull’alcol dell’Iss. Su di loro, gli under 18, si concentrano le preoccupazioni maggiori, anche se non si può dimenticare che dai 18 ai 25 anni ce ne sono altri 850mila di giovani potenzialmente problematici, cioè ragazzi che mediamente mandano giù più di due bicchieri al giorno (i maschi, per le femmine il parametro è un bicchiere quotidiano). C’è poi un mondo ancora più specifico che spesso si interseca con l’altro, quello dei “binge drinker”, cioè di quanti consumano alcolici con lo scopo deliberato di ubriacarsi: cinque, sei bicchieri bevuti in un’unica occasione nello spazio di una-due ore, fino ad ammucchiare 60 grammi di alcol quando il fegato è in grado di smaltirne al massimo 6 in un’ora. Anche qui è un esercito, 900mila sotto i 25 anni, così suddivisi: 100mila fra gli 11 e i 17, 310mila fra i 18 e i 20 e quasi mezzo milione fra i 21 e i 25. “Il problema dell’alcol è che disinibisce, facendo sentire i ragazzi più sicuri e spavaldi - aggiunge Scafato. È un lubrificante sociale e ha molto appeal fra i giovani proprio per questo; se bevono con questo obiettivo, però, la prima volta si euforizzano con un bicchiere e la volta successiva dovranno prenderne due per raggiungere la stessa sensazione, e così via, fino a inguaiarsi. È il meccanismo della tolleranza, lo stesso dell’eroina”. La distrazione degli adulti, spiega l’esperto, ha creato “una generazione chimica che ha elaborato ritualità precise nell’andare a bere”: si comincia col soft drink, poi si passa a birra o vino, spesso a buon prezzo e di scarsa qualità, si passa a bevande con superalcolici e infine, quando le forze si affievoliscono - tecnicamente “il down” - ci si tira su con gli energy drink. Di fronte a questa altalena in cui spesso e volentieri si insinuano le droghe comunemente dette, si risponde con “armi spuntate”, del tutto inadeguate rispetto all’emergenza: “Solo un medico di medicina generale su tre sa che strumento usare per individuare un consumo problematico di alcol - dice Scafato. È un semplice questionario di tre domande per capire quanto beve, con che frequenza e quante volte un ragazzo si è intossicato con alcolici. Stiamo spingendo per farne uno strumento di prevenzione”. Sempre in materia di prevenzione, il medico insiste sulla necessità di “ostacolare gli happy hour, di non rendere gli alcolici più convenienti delle altre bevande e di ridurre l’aggressività del marketing”. Un tasto dolentissimo, questo della pubblicità degli alcolici senza freni: “La diffusione dell’alcol fra i ragazzi va peggiorando perché c’è sempre più normalizzazione dell’uso. La pubblicità non dovrebbe appellarsi al successo sociale e sessuale associato al consumo, pratica proibita in Francia, oltre che dalle direttive Ue”. Peccato che da noi ci si limiti al “bere responsabilmente”, concetto del tutto fuori luogo con gli adolescenti, che per natura responsabili non sono, e che siano “gli stessi pubblicitari e produttori a regolamentare i contenuti degli spot”. Che è un po’ come chiedere all’oste se il suo vino fa male. Migranti. Se l’Europa chiude gli occhi di Federico Fubini Corriere della Sera, 20 settembre 2019 La cooperazione fra i leader non potrà bastare. Le redistribuzioni devono avvenire fra molti più Paesi, non solo con Francia e Germania. Il mare si è riempito di spume fino alla linea azzurra della costa turca, ora che si sente l’autunno, eppure all’alba ne sono spuntati altri due. Come altre decine di gommoni, questi restano sul litorale di Lesbo e quarantuno migranti tra poco verranno portati in bus al cancello. La porta d’Europa, per loro. Sembra l’ingresso in un labirinto nel quale anche gli ultimi sbarcati potranno cercarsi un angolo da qualche parte, se riescono. Si troveranno esattamente fra 10.660 persone in un luogo pensato per contenerne tre volte di meno. In gran parte sono afgani, oltre un decimo siriani ma sempre più anche congolesi, somali, camerunesi, angolani. Volano da Kinshasa su Istanbul, bus fino a Smirne e traversata di notte, con sbarco a Lesbo alle tre. Preferiscono questa rotta a Lampedusa non perché l’Italia avesse chiuso i porti - dicono - ma per il terrore che incute l’idea della Libia. La situazione di Recep Tayyip Erdogan ha fatto il resto. L’autocrate che ha svuotato dall’interno la democrazia turca non è mai stato così impopolare e l’economia non è mai andata così male. Erdogan deve pensare che è ora di tornare a ricattare l’Europa, lavorando sulle sue paure. Tre anni fa aveva ricevuto sei miliardi di euro per fare della Turchia un filtro che bloccasse i flussi. Ora però le polizie di Erdogan tornano a voltarsi dall’altra parte, quando si affacciano sull’Egeo i più spaventati e i sofferenti di un arco di instabilità di un miliardo e mezzo di persone dall’Africa al Medio Oriente. L’uomo forte di Ankara vuole altri soldi, sapendo che l’Europa è disposta a pagare pur di non dover fare i conti con questa umanità. Per questo alza la pressione. Nell’estate i nuovi rifugiati sono almeno 25 mila nelle isole greche e i reticolati che erano stati eretti per loro non li contengono più. L’Europa non dovrebbe aver bisogno di altro per capire, mentre i segnali arrivano da ogni parte. Il centro di Lampedusa è di nuovo al limite della capienza. La procura di Palermo indaga sulle torture che i migranti subiscono in Libia. Intanto procedendo come sonnambuli, ciascun per sé, i suoi leader assoggettano l’ordine politico europeo all’arbitrio di chiunque abbia un po’ do potere alle loro frontiere. Questi leader naturalmente non sono ciechi e pazzi: ciascuno di loro limita la collaborazione con gli altri, perché ogni guadagno politico di un governo rappresenta un costo per l’altro. In Francia il 63% della popolazione pensa che ci siano “troppi stranieri” (Ipsos/Sopra Steria). Dunque ogni rifugiato trasferito da Lampedusa a Lione per “aiutare l’Italia” potrebbe dar fiato ai nemici del presidente in Francia. Anche Emmanuel Macron ha elezioni locali vicine, a marzo, e presidenziali nel 2022. È in questo gioco a somma zero - se vinco io, perdi tu - che i cittadini europei vengono sottoposti allo stress di una duplice dissonanza cognitiva. Si raccontano loro storie che palesemente non sono vere, ma si chiede loro di crederci. C’è la promessa di risolvere chiudendo i porti, mentre poi barchette e gommoni approdano più numerosi sulle spiagge. E c’è la promessa di proteggere la “way of life” europea, il nostro stile di vita, al punto da chiamare così il portafoglio del commissario europeo delegato ai rifugiati. Ma andate un po’ a vederla nel campo di Lesbo, questa “way of life”. Sembra un ghetto progettato da un pazzo per assorbire il dolore del mondo di fuori che l’Europa non vuole vedere. Ci sono tre uomini sbarcati in agosto che passano il pomeriggio attorno alla loro tenda, fissata a un olivo L’hanno appena avuta, dopo un mese all’addiaccio. Il più anziano si chiama Najah Khafaji e si muove in sedia a rotelle, senza una gamba. L’ha persa nel 1991 in Kuwait, da ufficiale di Saddam Hussein sotto le bombe americane e la sua foto in divisa, con due gambe e le medaglie al petto, è ancora la cover del suo smartphone. È fuggito dall’Isis del distretto di Babil, l’antica Babilonia, per arrivare in questa babele di profughi e non tornerebbe mai indietro. Non lontano da lui confabula un gruppo di ragazzi dalle facce d’Asia centrale, quasi mongole. Sono arrivati tre giorni fa, afghani della provincia di Ghazni. Per dormire, il campo per loro ha dato un’unica coperta e un pezzo di strada. Una cicatrice fresca di trenta centimetri attraversa in verticale il petto di uno di loro, ricordo di un’estorsione al padre commerciante. Un altro giace a terra con i segni avanzati di una malattia venerea, ma i dottori sopraffatti dalle urgenze l’hanno giusto invitato a tornare un altro giorno. Il solo che parla un po’ inglese fra loro è un ragazzo di 15 anni, Barakat Mohammadi. In primavera i talebani gli hanno ucciso il padre e perché due suoi fratelli avevano lavorato con gli americani. Lui è partito a piedi per arrivare fino a questo imbuto fra due mondi. “Cosa posso fare adesso?”, chiede. “Non ho niente qua”. Poco lontano fra gli olivi si aggira un 27 enne di Kinshasa magrissimo, Patrick Mafolo, che si è messo in viaggio perché ha scoperto di avere un tumore ai polmoni. Sperava di curarsi in Europa ma nessuno lo visita. Le condizioni sanitarie sono al limite, scabbia e tubercolosi che possono degenerare epidemie in ogni momento, il cibo è scarso. I farmaci per epatite, malattie renali o per le più banali infezioni non vengono più messi a disposizione dalla sanità pubblica. La Ue sta pagando due milioni al giorno per la spesa corrente, ma non vuole vedere neanche un rendiconto da qui. Questo è un girone d’inferno del quale i governi europei, fra loro, preferiscono non parlare. Quelli prosperi e sicuri di sé, perché altrimenti rischiano di doversi spartire queste persone. La Grecia, perché ha bisogno di talmente tante concessioni finanziarie, che preferisce dimenticare e far dimenticare. Non vuole che questo posto sia comodo, o si spargerà la voce e ne verranno ancora di più. Del resto questo è il destino delle zone cuscinetto destinate a far sparire coloro che nessuna terra del mondo vuole. Questa è l’ambiguità di luoghi del genere. Si paga per metterli un po’ meglio e mettere così a posto la propria coscienza, ma il guardiano del vostro cancello sarà sempre un altro. Erdogan si propone, se volete, o magari domani allo stesso modo lo farà un signore della guerra libico battendo cassa all’Italia. Se questa è la realtà, i racconti consolatori non funzionano più. E la cooperazione fra leader non potrà bastare, se resta un gioco a somma zero. Le redistribuzioni devono avvenire fra molti più Paesi, non solo con Francia e Germania. Soprattutto è tempo che un’Europa unita proietti all’esterno il proprio peso e investa almeno in Africa subsahariana per filtrare e prendere controllo dei flussi lì. Oggi, incredibilmente, Bruxelles vi spende in proporzione molto meno di quarant’anni fa. Se l’illusione di ogni Paese è di salvarsi da solo, possiamo solo finire travolti tutti insieme. Su migranti e neoliberismo si gioca la discontinuità della Ue di Nadia Urbinati Il Manifesto, 20 settembre 2019 Bisogna essere consapevoli che non c’è solo il profitto economico, ma c’è una pluralità di beni il cui ottenimento richiede metodi e principi distributivi diversi. Quando abbiamo pubblicato il nostro libro-intervista Utopia Europa, poche settimane prima delle elezioni europee, nulla era ancora successo. A distanza di pochi mesi ci troviamo con un altro governo, ben diverso da quello nel quale dominava Matteo Salvini. Questo rovesciamento di fronte ha avuto l’indubbio merito di rilanciare le aspirazioni di quanti, nel nostro e in altri paesi, vedono nell’Unione europea una straordinaria opportunità da sfruttare al meglio piuttosto che un ostacolo da abbattere. Ciò avviene in un momento in cui le cancellerie europee, dopo aver toccato con mano i rischi di una deriva sovranista, sembrano finalmente disposte a nuove aperture sul fronte dell’immigrazione, della crescita economica e della giustizia sociale. Ci sono ora le condizioni affinché le aspirazioni che hanno motivato quel nostro libro diventino pragmaticamente realistiche. La prima è il ritorno in campo dell’Italia che può rappresentare in questa fase - all’opposto della situazione di isolamento in cui ci aveva cacciato il precedente governo - un’importante leva in Europa per spostare l’ago della bilancia verso una maggiore coralità, dopo anni in cui erano sostanzialmente Parigi e Berlino a dettare l’agenda continentale. Si torna alla pratica della trattativa, delle soluzioni condivise per affrontare problemi epocali come l’immigrazione, che vanno ben oltre la capacità dei singoli stati e che si spera porteranno l’Europa non solo a discutere di quote, ma a riformare finalmente Dublino e, inoltre, a proporsi come attore internazionale nella risoluzione della crisi libica e nell’adozione di politiche di cooperazione con i paesi africani. È questa l’Europea che ci può rendere più sicuri. È questa la politica che meglio incontra gli interessi del nostro paese e dei paesi europei. Tutto bene allora? Non proprio. Si tratta di capire meglio quali siano le reali aspirazioni del nostro governo, sulla base delle quali va giudicato. La proposta avanzata dal Presidente del consiglio sull’immigrazione, che ricalca in molti punti quella votata dal Parlamento europeo, sembra un passo nella giusta direzione. Soprattutto se preludio ad una riforma di Dublino. Sul fronte dell’economia, sono apparse convincenti le affermazioni del ministro Gualtieri contro la flat tax, strumento di ingiustizia redistributiva che privilegia i ricchi e non allevia il peso fiscale di chi ha meno - una proposta anticostituzionale, come l’ha definita lo stesso ministro. Così come mettere in cantiere una politica antievasione non più solo repressiva ma fondata su incentivi, e avviare politiche di stimolo alla produzione. Proposte non più utopistiche anche per la convenienza che potrebbe avere la Germania a una nuova politica riformista per stimolare la sua di crescita, dopo aver imposto per anni la linea dura del rigore, del risparmio e del non debito. Segnali di novità che non devono indurre in facili illusioni. Per cambiare rotta e mettere mano con coerenza alle ragioni che hanno dato ossigeno alla protesta populista, la discontinuità che dovrebbe ora perseguire l’Europa sta nella fine delle politiche di contenimento della spesa pubblica in quei settori cruciali come la scuola, la formazione, la sanità, che hanno per anni subito una draconiana politica di tagli. In altre parole, appare decisivo per l’Europa marcare una discontinuità con il “duro neoliberalismo economico” che, a partire dalla crisi economica, ha mosso le istituzioni meno rappresentative dell’Unione in una logica esclusiva di restaurazione dei vincoli di mercato, con il risultato che masse crescenti di popolazione, proprio qui, nelle nostre democrazie, si sono sentite defraudate e abbandonate al loro destino. Per citare Michael Walzer, bisogna essere consapevoli che non c’è solo il profitto economico, ma c’è una pluralità di beni il cui ottenimento richiede metodi e principi distributivi diversi. E tra i beni quello della dignità della persona è, come recita la nostra Costituzione, fondamentale. L’altro tema è la necessità di un riavvicinamento tra la rappresentanza politica europea e i rappresentati. Ma come, se strumenti tradizionali di mediazione come i partiti non funzionano più come una volta? Oltre ad un rilancio di organizzazioni meno leaderistiche e più articolate e plurali, antidoto al potere di lobbies e gruppi di pressione, occorre avere il coraggio di percorrere fino in fondo strade nuove, usando ad esempio la rete per stabilire relazioni di consultazione e di conoscenza diretta di come operano le istituzioni europee. Abbiamo già gli strumenti per operare in questo senso. La comunicazione può essere cruciale per una rinascita democratica. Il confronto tra democrazia e populismo passa non solo dalla conta dei voti, ma anche dallo stile politico e dalle forme di comunicazione. La vera sfida è adesso sfruttare le potenzialità di internet per strutturare una politica della comunicazione e della conoscenza contro la manipolazione propagandistica dei populisti. Legale ucciso in strada. E l’Olanda si scopre travolta dai narcos di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 20 settembre 2019 Wiersum difendeva il pentito di un processo-chiave. Sono le 7.30 di mercoledì mattina quando Amsterdam, che credeva di essere in Olanda, si risveglia nella Colombia degli anni Ottanta. L’avvocato Derk Wiersum saluta i figli, esce di casa, fa pochi passi e cade riverso sul vialetto, colpito da un ragazzino incappucciato - 16, massimo vent’anni - che dopo aver sparato fugge a piedi. “Sono scioccato - dice al telefono Wouter Laumans, autore già nel 2014 di Mocro Maffia, libro-inchiesta e poi serie tv -. Derk era semplicemente uno che faceva il suo lavoro. L’avevo incrociato più volte in tribunale…”. Il suo lavoro, però, riguardava la difesa di Nabil Bakkali, principale “pentito” al processo del momento: 5 omicidi tra il 2015 e il 2017; 16 imputati tra cui due latitanti considerati “pericolosi”. All’annuncio della collaborazione con la giustizia, un anno fa, il fratello di Bakkali era stato assassinato; cionondimeno il ragazzo aveva affidato al legale 1.500 pagine di dichiarazioni contro la gang Distillato della guerra per il narcotraffico che dilaga esattamente in questa porzione di Europa. Un rapporto di “InSightCrime” indicava a gennaio che i sequestri di cocaina tra il porti di Rotterdam e di Anversa (appena oltre la frontiera belga) sono aumentati di oltre un quarto nell’arco di un anno, fino a raggiungere le 73 mila tonnellate: segnale di una moltiplicazione degli “sbarchi” dall’America Latina (la stima è di 200 mila tonnellate dal valore di 5 miliardi di euro). Appena qualche giorno fa gli inquirenti hanno rintracciato una nuova rotta che collega direttamente la città brasiliana di Santos alla costa olandese. È lo stesso sindacato di polizia ad aver coniato per i Paesi Bassi la definizione di “narco-Stato”. Tanta droga, stoccata tra questi canali come se fosse un gigantesco hub clandestino; distribuita per il resto del Continente grazie a un sistema di assistenza logistica e finanziaria che è nato per il commercio legale, ma che si è rivelato perfetto, a maggior ragione, per quello “sotterraneo”. In un clima generale di fiducia ai confini con l’ingenuità. Tanti soldi, che inevitabilmente hanno attirato interessi più o meno organizzati. I vecchi banditi olandesi, specializzati nella produzione di droghe sintetiche; le mafie intercontinentali, dalla ‘ndrangheta calabrese ai turchi. Ma anche, sempre di più, un giovane crimine locale, figlio delle Antille olandesi e dell’immigrazione dal Marocco, ormai da tempo uscito allo scoperto. Macchine di grossa cilindrata, musica a tutto volume, AK47 e omicidi tra la folla: non è la prima volta che si spara platealmente ad Amsterdam. L’inchiesta di Laumans era cominciata nel 2012 con la guerra tra bande innescata dal furto di una grossa partita di cocaina, almeno 16 morti tra Olanda, Belgio e Spagna; agguati all’uscita dei bar dove si fumano narghilè; teste decapitate rinvenute nei bagagliai; un clamoroso scambio di persona: un ignaro trentenne che guidava lo stesso modello di automobile del bersaglio prestabilito. E poi ancora altre vittime. Appena qualche ora prima dell’avvocato, nella notte tra martedì e mercoledì, due uomini in motorino hanno affiancato l’auto del calciatore Kelvin Maynard e l’hanno ucciso a colpi di pistola. Originario del Suriname, 32 anni, aveva giocato nel campionato nazionale e in quello inglese. E forse, in modo contorto, era collegato a questi traffici. Con una scia così lunga, possibile che politici e inquirenti non fossero preparati? “Chi ha seguito queste vicende - risponde Laumans - sentiva questa escalation arrivare. Non sembri cinico, ma spero che la morte di Derk dia la sveglia”. Ora le bandiere sono a mezz’asta, il ministro della Giustizia discute di come intensificare le misure di sicurezza nei processi più delicati, il capo della polizia dice che “una linea è stata superata”, il primo ministro Mark Rutte parla di “episodio disturbante” e i giornali titolano su “una nuova fase oscura”.”Ma perché - si chiede Laumans - hanno tutti reagito così tardi?”. L’Iran dopo quarant’anni apre gli stadi anche alle donne di Vincenzo Nigro La Repubblica, 20 settembre 2019 Un primo passo, in memoria di Sahar. Il governo iraniano ha preso una decisione sicuramente importante: accettando le pressioni molto forti della Fifa, la federazione mondiale del calcio, in Iran le prossime partite internazionali saranno aperte alle donne. E di sicuro la morte drammatica di Sahar Khodayari ha pesato molto: la donna di 29 anni si era travestita per assistere a una partita dell’Esteghlal, la squadra di Teheran. Riconosciuta fra tutti i tifosi maschi, era stata messa sotto processo. Dopo tre giorni di carcere, quando aveva saputo che sarebbe stata condannata a 6 mesi, Sahar si è data fuoco con la benzina. È morta dopo una settimana in ospedale. Il suo caso ha scosso l’Iran come un terremoto: le donne, i tifosi di calcio, hanno visto il caso di Sahar semplicemente come un caso di ingiustizia suprema, di distanza fra le regole imposte dalla struttura giudiziario- religiosa e il comune sentire del popolo iraniano. Il ministro dello Sport di Teheran, Massud Soltanifar, ieri ha annunciato che il divieto sarebbe caduto dopo l’ennesima nota di protesta di Gianni Infantino, il presidente della Fifa. Da mesi Infantino rivolgeva appelli alla federazione iraniana per spingere l’Iran a dare seguito ai “ripetuti appelli contro una situazione inaccettabile: la nostra posizione è ferma e chiara, alle donne deve essere permesso di entrare negli stadi di calcio in Iran”. Adesso Soltanifar dice che “abbiamo preparato tutto il necessario affinché le donne, inizialmente solo per le partite internazionali, possano entrare negli stadi di calcio”. Allo stadio Azadi di Teheran, dove la nazionale gioca le sue partite, sono stati creati ingressi riservati e toilette separate. Le donne potranno accedere agli spalti, ma in un settore dedicato, per non mescolarsi a gli uomini. “Non c’è alcuna legge che proibisca alle donne di entrare allo stadio e spero che in futuro potranno assistere anche ad incontri di campionato”, ha detto all’Ansa la deputata Tayyebeh Siavoshi, la presidente della Commissione parlamentare per gli affari femminili. Siavoshi è in prima linea a combattere per i diritti delle donne in Iran: per esempio “si è arenato un progetto di legge contro la violenza sulle donne, che il Parlamento ha inviato alla magistratura per la ratifica. Da mesi non abbiamo ancora ricevuto risposta”. Come è stato in altri paesi, in Iran il cammino delle donne è ancora lungo.