Carceri sovraffollate, risse e polemiche di Franco Giubilei La Stampa, 1 settembre 2019 Il sindacato Uil-Pa: “Si aprono le celle e si lasciano vagare i detenuti nell’ozio”. Antigone: “Quando mancano gli spazi, va garantita la vita sociale”. Un detenuto ubriaco si rifiuta di tornare in cella. Due maghrebini danno fuoco a un materasso per attirare l’attenzione. Un altro ancora si pratica un taglio e comincia a sanguinare. Le occasioni di conflitto fra le mura delle carceri italiane sono innumerevoli, ma il punto terminale delle tensioni sono quasi sempre gli agenti di polizia penitenziaria che devono intervenire a risolvere il problema. Il risultato è che non passa giorno senza che il personale in divisa venga aggredito. Secondo la stima del sindacato di categoria Uil-Pa, gli episodi quotidiani in media sarebbero un paio, un numero in linea con l’escalation degli ultimi sei anni: dalle 387 aggressioni del 2014 siamo infatti passati alle 681 dell’anno scorso (dati ufficiali del ministero della Giustizia, ndr), quasi il doppio, e per il 2019 ci si prepara a superare abbondantemente quota 700. Ma cosa sta succedendo negli istituti penitenziari della penisola? Per l’Uil-Pa le cause del malessere sono più d’una, ma fra i motivi principali ci sarebbe “il cambiamento della gestione detentiva che ha portato ad allargare le maglie dei controlli, senza incrementare in maniera adeguata il personale e gli strumenti di sorveglianza tecnologica”, come spiega il responsabile nazionale del sindacato, Gennarino De Fazio. Sotto questo profilo, tutto è cominciato con la “sentenza Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2013, obbligò l’Italia a correre ai ripari contro il disastroso sovraffollamento delle carceri (il caso riguardava sette persone detenute per molti mesi in celle triple a Busto Arsizio, con meno di quattro metri quadri a testa a disposizione, ndr). Un trattamento “inumano e degradante” che, secondo De Fazio, venne risolto così: “Per aggirare il problema si sono aperte le celle per almeno 4 ore al giorno, facendo vagare i detenuti nei corridoi e nelle salette all’interno dei reparti, lasciandoli però a oziare. Quando si verificano risse fra di loro, con un solo agente che spesso presidia più reparti, cominciano i problemi”. La dotazione di poliziotti non aiuta: “Gli agenti sono 36mila, 4mila in meno rispetto ai 40mila previsti dal decreto attuativo del 2017, ma in realtà il fabbisogno vero sarebbe di 50mila unità”, dice il sindacalista. Poi ci sono altri elementi: “Al regime di “custodia aperta” accedono tutti i detenuti, non i più meritevoli. D’altra parte, non vengono inflitte sanzioni disciplinari ai soggetti violenti, perché nelle nostre carceri ci sono poche sezioni a regime chiuso, cioè con la cella chiusa. Spesso il detenuto che compie atti violenti non subisce conseguenze”. Antigone, l’associazione che difende i diritti dei carcerati, dà una lettura diversa del fenomeno aggressioni: “La questione non va sottostimata, ma va tenuto conto che il numero dei detenuti è passato dai 53.623 del 2014 ai 60.280 attuali, dice il presidente, Patrizio Gonnella In questi anni sono aumentati anche suicidi e autolesionismi, ma sappiamo che in un carcere che funziona e dove la situazione è più serena ci sono anche meno aggressioni”. Antigone osserva la restrizione nell’accesso alle misure alternative, sottolinea l’aumento dei detenuti a fronte della riduzione dei reati, ma soprattutto nega che la “custodia aperta” sia all’origine della maggior violenza contro gli agenti: “Quando mancano gli spazi, deve essere garantita almeno più vita sociale: abbiamo visitato una quarantina di carceri, nel 44% dei casi solo alcune celle vengono aperte, nel 31% non si muove nessuno se non accompagnato. Non c’è legame diretto fra custodia aperta e atti aggressivi, ma certo non è sufficiente aprire le celle, occorre dare un senso al tempo che scorre, con attività da far svolgere al detenuto”. Celle aperte o no, per l’Uil-Pa ad aumentare le situazioni a rischio contribuisce la messa al bando degli Ospedali psichiatrici giudiziari: “Una soluzione non supportata da misure alternative adeguate, perché le Rems (le strutture dove devono essere ospitati i condannati con disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr) sono poche e con pochi posti - sostiene De Fazio Se oggi viene arrestata una persona con problemi mentali, come l’uomo che di recente a Cagliari ha ucciso la madre perché credeva che fosse il demonio, spesso finisce in carcere, dove, nelle sezioni psichiatriche, il medico è presente solo qualche ora al giorno. E con lui restano gli agenti”. L’umanità delle carceri e quel canto del Venezuela di Francesco Zanotti Avvenire, 1 settembre 2019 L’impressione è sempre notevole. Ogni volta la stessa. Ci provi a contarli tutti quei possenti cancelli blindati che si chiudono al passaggio. Ma poi perdi il conto. 1, 2, 3...12, 13, 14... si va di certo oltre 20. Pazzesco. Questo è quello che separa il mondo qua fuori, il nostro di uomini liberi e il loro, quello dei detenuti, di chi vive dietro le sbarre, privato della libertà. La casa di reclusione “Due Palazzi” a Padova è una città nella città. Più di 600 i reclusi, quasi tutti con condanne definitive anche molto lunghe. Diversi con il fine pena mai. Si tratta di un carcere moderno, di massima sicurezza, ma dentro al quale è possibile proporre eventi inusuali. Come è accaduto venerdì 23 agosto, quando dentro le mura di quei fabbricati si è svolto un incontro/concerto straordinario. Giovedì, al Meeting di Rimini, è andato in scena “Venezuela - il popolo il canto il lavoro”. Il canto per prendere coscienza che qualcosa è ancora possibile. E dalla Riviera romagnola gli artisti e alcuni amici sono partiti alla volta della città veneta per entrare dentro le mura di una casa di reclusione. Il ponte tra Meeting e detenuti viene realizzato dalla cooperativa sociale “Giotto” guidata dal presidente Nicola Boscoletto. L’associazione da anni offre opportunità di lavoro a quanti sembrano averle smarrite. È qui che le canzoni arrangiate dai musicisti portati da Alejandro Marius di Trabaco y Persona di Caracas hanno scatenato l’entusiasmo delle persone detenute, sotto lo sguardo del direttore Claudio Mazzeo e dei magistrati di sorveglianza Linda Arata e Lara Fortuna. Sui versi della canzone “Cantos de pilon”, il pubblico ha intonato il ritornello “Io io” che ha coinvolto tutti in un ballo. “Sciocco è colui che si lamenta senza che nulla gli faccia male”, ripete il brano. Come non leggere un parallelo tra chi vive qui dentro, chi, oltre oceano, deve fare i conti con la mancanza dell’energia elettrica e di generi di sussistenza e chi invece, come noi, spesso si lamenta per nulla. “Bellissimo, travolgente”, ha detto commosso il leccese Giampaolo, sposato, una bimba di 10 anni a casa. “Qua non si era mai visto un fatto del genere”. E mentre lo accompagno a stringere la mano a chi oggi ha abbattuto un pezzo di muro, mi tornano in mente le porte e i cancelli attraversati due ore prima. Qui non ci sono distanze. Non esiste più il dentro e il fuori. Ci sono uomini e donne, tutti con gli stessi pensieri, le stesse speranze, le stesse trepidazioni. Le distanze si accorciano. Gli sguardi si incrociano, gli occhi si fanno lucidi. “Per quello che oggi avete donato qua, in questo luogo per nulla semplice - dice Boscoletto - e per la passione che avete messo vi siete conquistati un pezzettino di paradiso”: una ricompensa che è già in quello che ci portiamo a casa. Emozioni, come quelle che ci trasmettono Guglielmo, 47 anni, da 26 in carcere, o di Roberto, ragioniere svizzero 54enne, da 16 dietro le inferriate, 3 figli e 2 nipoti. Non puoi credere ai loro racconti. Eppure sono le storie di tutti noi, delle nostre e delle loro famiglie. E quello che prima ci separava, ora non ci divide più. Un viaggio fotografico in dieci carceri italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2019 “Prigionieri” il progetto fotografico di Valerio Bispuri sulle carceri italiane in mostra dal 31 agosto al 15 settembre in Francia, nell’ambito del più importante festival internazionale di fotogiornalismo. In Francia, nell’ambito del più importante festival di fotogiornalismo mondiale, verranno esposte le foto delle carceri italiane. Il fotografo romano Valerio Bispuri presenterà, dal 31 agosto al 15 settembre, il suo nuovo progetto, Prigionieri, che comprende anche un libro fotografico (Contrasto editore), in uscita il 29 agosto. Dopo aver concluso “Encerrados”, un viaggio fotografico di dieci anni attraverso 74 carceri dell’America del Sud, nel 2014 ha deciso di continuare a esplorare il mondo dei detenuti in Italia. Prigionieri, insieme a Encerrados e Paco, forma una trilogia della libertà perduta. Bispuri è il primo fotografo ad aver ottenuto, da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, l’autorizzazione a visitare alcuni dei più importanti penitenziari del nostro paese, costruendo così un progetto di documentazione di queste strutture e di chi le abita: un’indagine sullo stato mentale e fisico dell’essere umano quando è privo della libertà. Il fotografo documenta la condizione di 10 diverse carceri italiane - più o meno grandi e con diversi gradi di sicurezza - dal 2014 ad oggi. Dall’Ucciardone di Palermo, a Poggioreale a Napoli; dalle carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia Femminile, al Capanne a Perugia; passando per Milano ( Bollate e San Vittore) e Venezia ( la Giudecca), fino alla Colonia penale di Isili ( Cagliari) e al piccolo carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Le immagini di Prigionieri si fanno testimonianza dei principali problemi: il sovraffollamento, la precarietà dei fabbricati, la mancanza di personale, la difficoltà a mettere in piedi programmi di rieducazione del detenuto, sancito dalla Costituzione, spesso abbandonato alla inoperosità. Il bianco e nero intenso delle fotografie di Bispuri racconta dei drammi personali e dei drammi collettivi di uomini e donne specchio dell’intera società, rinchiusi in spazi angusti e cadenti, spesso impegnati a crearsi nuovi affetti e nuove abitudini, in un non- luogo fermo nel tempo e nascosto ai margini del mondo. In un fascicolo di accompagnamento al libro troviamo le parole del fotografo stesso, di Edoardo Albinati, che da oltre vent’anni lavora come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, e del docente di Filosofia e Sociologia del diritto Stefano Anastasia, Fondatore e presidente onorario dell’associazione Antigone e Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. Anche il lavoro precedente, Encerrados, merita attenzione. Si tratta delle impressionanti immagini in bianco e nero realizzate dall’autore durante il suo lungo viaggio durato dieci anni in 74 carceri di tutti i paesi del Sudamerica. Un percorso nato dal desiderio di raccontare un continente attraverso il mondo dei detenuti. Dall’Ecuador al Perù, della Bolivia all’Argentina, dal Cile all’Uruguay passando per il Brasile, la Colombia e il Venezuela, la macchina fotografica di Bispuri ha immortalato la vita nelle carceri più pericolose del Sudamerica, come se fossero il riflesso della società, lo specchio di quello che succede nel Sudamerica: dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali. Nel corso degli anni Encerrados ha avuto un forte impatto sociale. Dopo la pubblicazione delle foto e la sensibilizzazione ottenuta attraverso varie mostre internazionali, il padiglione 5 del carcere di Mendoza dove erano reclusi i detenuti argentini più pericolosi è stato chiuso. Fra M5S e Pd un patto sui diritti di Maurizio Molinari La Stampa, 1 settembre 2019 Il tentativo in corso in Italia di dare vita ad un governo composto da un movimento populista ed un partito tradizionale offre la possibilità di raggiungere un compromesso su due temi cruciali inerenti ai diritti: diseguaglianze e migranti. Da quando la Gran Bretagna approvò nel 2016 il referendum su Brexit questi due argomenti sono stati al centro del vento di protesta nelle democrazie avanzate: la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, i 14 mesi di governo gialloverde in Italia, i dieci milioni di voti di Marine Le Pen alle presidenziali francesi, i successi dell’estrema destra in Germania, la rivolta dei Gilet Gialli contro Parigi, il trionfo di Farage e Salvini alle ultime europee come il consolidamento di Orban in Ungheria e dei nazionalisti in Polonia nascono dalla rivolta del ceto medio contro l’indebolimento del benessere e l’arrivo dei migranti, identificati come ferite causate dalla globalizzazione. Non c’è alcun dubbio che leader sovranisti e movimenti populisti hanno cavalcato tali sentimenti in maniera spregiudicata per affermarsi politicamente, ma sarebbe un grave errore ritenere che si tratti di problemi fittizi. La globalizzazione, iniziata dopo il crollo del Muro di Berlino avvenuto 30 anni fa, ha causato una redistribuzione della ricchezza a danno dei ceti medi in Occidente così come gli errori nella gestione dei flussi migratori - in più Continenti - hanno contribuito a cambiare in negativo la percezione dell’immigrazione in molti Paesi, incluso il nostro. Ovvero, diseguaglianze e migranti sono due spine nel fianco delle democrazie avanzate ma finora sono state soprattutto al centro dello scontro politico, giocando a favore dei populisti e contro i partiti tradizionali. Da qui l’interrogativo se tale dinamica possa mutare grazie all’anomala coalizione giallo-rossa, portando gli opposti fronti ad affrontare assieme tali emergenze, provando a trovare delle risposte efficaci. Se l’esperimento dovesse funzionare in Italia fra Movimento Cinque Stelle e Pd potrebbe dunque avere un significato assai più ampio, indicando la strada di una innovativa collaborazione sul tema dei diritti tra forze della protesta e forze tradizionali, capace di interessare più Paesi. Certo, il difficile inizia qui perché metodi e contenuti degli opposti fronti non potrebbero essere più differenti, a cominciare dal fatto che i populisti cercano il consenso moltiplicando i conflitti e non puntando ai compromessi così come le forze tradizionali hanno per le istituzioni democratiche un tipo di rispetto che alla controparte manca. Resta il fatto che si sta manifestando l’opportunità di cercare nuove formule su diseguaglianze e migranti e sarebbe un grave errore ignorarla. Anche perché è un processo che in Italia ha la veste di una precaria trattativa di governo ma in Occidente comincia ad avere basi ben più solide. Per avere un’idea dei cambiamenti in atto bisogna guardare agli Stati Uniti dove una recente dichiarazione del “Business Roundtable” - a cui appartengono le maggiori 200 corporations - indica lo “scopo dell’azienda” non più solo nei profitti ma nell’”investire nei dipendenti, proteggere l’ambiente ed agire eticamente”. In questa maniera i grandi imprenditori degli Stati Uniti mettono il primo mattone sul nuovo possibile edificio della “giustizia economica” in attesa che leader, governi e Stati trovino il coraggio per raccogliere la sfida. È un terreno nuovo, rivoluzionario, che nasce dalla consapevolezza degli imprenditori Usa che oggi per essere credibili bisogna avere un impatto sociale, a favore dei consumatori e dei cittadini, per proteggerli in maniera efficace dalle diseguaglianze che non sono solo uno status economico ma anche uno stato d’animo. Sul fronte dei migranti invece le novità sono più brutali - muri, barriere, divieti ed espulsioni - ma evidenziano in Europa la carenza di una strategia condivisa capace non solo di filtrare gli arrivi ma anche di gestire l’integrazione per trasformarla in un volano della crescita economica comune. Insomma, sulle diseguaglianze dall’America arriva la proposta di rispondere con la “giustizia economica” mentre sui migranti l’Europa ha bisogno di una ricetta per integrarli con successo: il laboratorio dell’Occidente è in pieno movimento sul tema dei diritti e l’insolita coalizione Pd-M5S ha l’occasione di parteciparvi. Con il nuovo Governo già in pista di decollo il Dl Sicurezza ter di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2019 Nonostante nella sua ultima sortita Luigi Di Maio abbia detto che “non ha alcun senso parlare di modifiche ai decreti sicurezza”, se il governo giallorosso nascerà uno dei primi provvedimenti sarà proprio quello che riscrive la bandiera di Matteo Salvini. A confermarlo è lo stesso leader M5S quando aggiunge che si dovrà tener conto delle “osservazioni” trasmesse dal Capo dello Stato alle Camere in occasione della firma sulla legge di conversione del decreto sicurezza bis. Ed è probabile che per dare immediata attuazione a quelle “osservazioni” arriverà un decreto sicurezza ter. Due i punti nel mirino: le sanzioni sulla violazione delle acque territoriali, che sono state aumentate “di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo determinato in un milione di euro, mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione del reato”; l’aumento delle pene per i reati contro i pubblici ufficiali. Mattarella nella missiva sottolinea che una sanzione così alta qual è quella comminata a chi viola le acque territoriali è assimilabile a una sanzione penale e pertanto - come sancito dalla Corte costituzionale - deve esserci il rispetto del principio di “necessaria proporzionalità tra sanzione e comportamenti”. Inoltre, lo stesso decreto sicurezza fa riferimento alla convenzione Onu sul diritto del mare che impone allo Stato di “esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”. Quanto invece alla nonna sulle misure di ordine pubblico, si sottolinea che la qualifica di pubblico ufficiale è troppo generica in quanto non riferibile solo alle forze dell’ordine ma anche a “un ampio numero di funzionari pubblici statali, regionali e comunali nonché soggetti privati che svolgono pubbliche funzioni”: dai vigili urbani ai dipendenti dell’Agenzia delle entrate, dagli impiegati degli uffici provinciali del lavoro agli ufficiali giudiziari, dai controllori ferroviari ai direttori degli uffici postali fino agli insegnanti. Una platea troppo ampia ed eterogenea che “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte” e nel caso di oltraggio “solleva dubbi sulla conformità al nostro ordinamento e sulla ragionevolezza di perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza”. La traccia del decreto sicurezza bis è già scritta. Giustizia, le riforme autogol di Piero Colaprico La Repubblica, 1 settembre 2019 La normativa sul Codice rosso per tutelare le donne rischia di mandare in tilt le procure e generare indagini infruttuose. Di buone intenzioni sono lastricati molti fascicoli giudiziari che si accumulano negli uffici dei tribunali, intasandoli. L’ultima riguarda il Codice rosso per le vittime di molestie, stalking e altri reati nei quali un soggetto debole subisce abusi. La nuova legge contro il porn-revenge prevede che il magistrato della procura sia avvisato subito e che entro tre giorni disponga l’accertamento. Sulla carta, perfetto. Ma tra le trenta, quaranta segnalazioni a settimana di Milano esistono un bel po’ di casi delicati, nei quali le indagini a tambur battente possono essere controproducenti: spesso si dispongono le intercettazioni, si raggiungono prove che vadano al di là delle testimonianze e, solo allora, si organizza il cosiddetto “incidente probatorio” davanti al giudice. Si procede così in modo che il presunto colpevole, se vero colpevole, abbia poco margine di manovra: se si andasse avanti come da rigido Codice rosso, le prove potrebbero andar perse. Nel recente passato, un’altra norma animata dal maggior rispetto per il cittadino è diventata ricettacolo di maledizioni negli uffici finché, come accade nel Paese dell’arte d’arrangiarsi, il buon senso l’ha annullata. Era diventato obbligatorio l’avviso della richiesta d’archiviazione alle “persone offese” per i furti in appartamento e gli scippi. Cioè, in base alla legge, alla vittima bisogna far sapere che non s’è trovato il colpevole e si archivia. Giusto? Se non fosse che in procure come quella di Milano, si iscrivono circa mille furti al mese in casa e mille in strada. Quindi, ci dovrebbero essere duemila notifiche mensili del tutto inutili e una montagna tale di carte da seppellire le cancellerie. In Parlamento si sono accorti dell’errore, nel frattempo era stato trovato un rimedio dagli stessi magistrati: quando fa denuncia, la vittima dichiara di non volere la notifica dell’archiviazione. Si ha insomma la sensazione che in Italia esista uno spartiacque tra chi fa le leggi penali e chi poi deve applicarle. L’apice s’era toccato, lo si ricorderà, con Silvio Berlusconi e le leggi ad personam: un sistema grazie al quale il centrodestra cercava di eliminare (con la riforma dell’abuso d’ufficio, le prescrizioni, il carcere oltre una certa età) i rischi giudiziari del leader e del suo stretto giro. La Cassazione spesso cancellava e riformava, nel frattempo s’era guadagnato tempo utile. Oggi, che non sembrano esserci analoghi interessi oscuri da tutelare, gli errori di prospettiva continuano. Ad esempio con le cosiddette avocazioni. È stato stabilito che scaduti tre mesi dalla fine indagini senza che il fascicolo abbia fatto passi avanti, il procuratore generale deve avocare il procedimento e la procura, visto che il sistema informatico non registra la scadenza delle indagini, deve fornire alla procura generale le varie segnalazioni. Per evitare di aprire un fascicolo ogni volta che c’è un ritardo, s’è però deciso di comune accordo di inviare le segnalazioni solo su reati gravi e solo segnalazioni “ragionate”: nelle quali si spiega che il fascicolo non è chiuso per un’inerzia colpevole, ma per ragioni fisiologiche. Perché si è in attesa di perizie, consulenze, della relazione di conclusione. Si va avanti, a strappi, come in un altro caso di ottima intenzione trascolorata nella pratica quotidiana in un ginepraio: quando c’è un incidente stradale, con lesioni superiori ai 40 giorni, bisogna procedere d’ufficio, cioè il fascicolo deve finire nelle mani della procura. L’idea era tutelare le vittime, l’effetto è che sarebbero aumentati i certificati medici con lesioni superiori ai 40 giorni. E l’ingolfamento delle scrivanie ricorda a volte le autostrade nei giorni dell’esodo. Quali novità nella riforma della giustizia di Paola Balducci Gazzetta del Mezzogiorno, 1 settembre 2019 In attesa di sapere se il governo giallorosso prenderà le mosse mi preme evidenziare tra le priorità troppo spesse predicate, ma in realtà poco attuate, quella della giustizia e della irragionevole durata dei processi. Lo spunto lo ha dato il Presidente Conte quando, nel corso del discorso pronunciato in Aula, ha messo l’accento sulla realizzazione di un governo nel segno della novità, parlando di una nuova e ampia stagione riformatrice. Ha parlato di giustizia più equa ed efficiente. Pochi mesi fa l’Italia è stata bacchettata dalla Ue sui tempi lunghi per risolvere i casi di contenzioso civile, amministrativo e commerciale. Siamo quasi il fanalino di coda con una media di definizione delle controversie civili di primo grado intorno ai cinquecento giorni che precipitano rovinosamente nei gradi successivi. Ma affinché il nostro Paese non continui ad occupare il fanalino di coda sui tempi dei processi con le inevitabili conseguenze, sull’affidamento-sfiducia dei cittadini, non si può prescindere da alcuni punti fermi. È fondamentale l’impiego di risorse economiche e umane, senza le quali non è assolutamente praticabile alcuna riforma, come è parimenti fondamentale lo sfruttamento razionale delle stesse. Questo è uno snodo cruciale; spesso accade che in determinate realtà si disponga di risorse eccessive rispetto ai bisogni e in altre realtà, che hanno uffici giudiziari dotati di modelli organizzativi efficienti, si riesca a distribuire in modo efficiente il lavoro e soddisfare la domanda di giustizia in tempi rapidi. Il corollario diventa la formazione e la preparazione dei giudici e del personale amministrativo per essere pronti alle sfide vecchie e nuove. Un altro punto che si deve con forza sottolineare è la patologica, inesauribile, spesso scoordinata produzione normativa, dettata talvolta dalle sirene del momento, che produce incertezze da parte di tutti gli utenti, compreso coloro che quelle norme devono applicare. La mancanza di chiarezza e di sistematicità porta al non rispetto delle stesse e alla sfiducia da parte del cittadino che ha bisogno di regole chiare e comprensibili. I problemi purtroppo si acuiscono in molte regioni del sud Italia: la inefficienza del sistema giustizia produce non solo insicurezza ma anche sfiducia da parte del cittadino che il più delle volte rinuncia a far valere i propri diritti davanti alla autorità giudiziaria, quando non si affida ad una giustizia “domestica”, rivolgendosi magari, alle sirene della criminalità organizzata, che prospera nel mondo della usura o delle estorsioni. Un’attenzione particolare, in sede di riforme organiche deve essere rivolta anche all’utilizzo di sistemi di proporzione tra il numero dei pubblici ministeri e quello dei giudici. Si devono individuare dei criteri che consentano di non penalizzare troppo il numero dei magistrati che compongono i tribunali. Il rischio concreto è che si celebrino solo i grandi processi di criminalità organizzata (perché tra l’altro, hanno la spada di Damocle delle decorrenze dei termini di custodia cautelare) e si trascurino i procedimenti civili e penali ordinari. Anche in questo caso la coperta troppo corta diventa una facile opportunità per alimentare sistemi di giustizia alternativa e alimentare magari sistemi di corruttele. Da ultimo, ma non per ultimo: l’edilizia giudiziaria. Non si può amministrare la giustizia senza una casa dove la giustizia viene amministrata. Il luogo diventa un simbolo di rassicurazione peri cittadini-utenti. Il Premier Conte nel suo discorso introduttivo ha fatto esplicito riferimento al Mezzogiorno rigoglioso e orgoglioso delle sue ricchezze umane. Il momento del coraggio passa anche attraverso il rimuovere le disuguaglianze in modo concreto ed effettivo. Il momento del coraggio passa attraverso queste riforme per dare finalmente fiducia e credibilità al nostro Paese. Missiva sospetta al boss in carcere, giusto bloccarla anche se del difensore tusciaweb.eu, 1 settembre 2019 Bocciato dalla Cassazione il ricorso di Salvatore Madonia contro il Tribunale di Sorveglianza che avrebbe violato il suo diritto di difesa. Giusto bloccare la missiva sospetta al boss mafioso Salvatore Madonia, detenuto in regime di carcere duro a Mammagialla. Anche se apparentemente inviata dal difensore. È stato bocciato dalla cassazione il ricorso presentato contro la decisione presa l’anno scorso dai tribunali di sorveglianza di Viterbo e Roma da Salvatore Madonia, che oltre a dover pagare le spese processuali dovrà anche versare tremila euro alla cassa delle ammende. Madonia, 63 anni, condannato a più ergastoli per associazione mafiosa, omicidio, traffico di armi, spaccio di droga ed estorsione, è al 41bis da ben 27 anni, dal 1992. Non è la prima volta che il capoclan rivolge alla suprema corte le sue doglianze contro le presunte condizioni di vita inaccettabili nel carcere di Viterbo, contestando via via di non avere biancheria pulita, luce a sufficienza, privacy, possibilità di studiare oppure di non poter tenere la televisione accesa durante la notte. Nel 2008 Madonia, all’epoca detenuto nel supercarcere dell’Aquila, aveva ottenuto dalla cassazione il via libera alla procreazione assistita dopo che gli era stata negata la possibilità di mettere il seme in provetta. I coniugi Madonia avevano già un figlio, oggi maggiorenne, nato nel 2000, durante la detenzione del boss, non si sa se concepito in vitro. Stavolta al centro del contendere c’era il provvedimento con cui, il 5 marzo 2018, il magistrato di sorveglianza di Viterbo ha disposto il trattenimento di una missiva a lui diretta: “Apparentemente proveniente dal suo difensore, in quanto contenente copie di provvedimenti giurisdizionali, le quali, in quanto prive di autenticazione, avrebbero potuto essere state alterate e celare all’interno indebite informazioni”. In seguito al blocco della missiva, Madonia aveva già presentato un reclamo dichiarato inammissibile “perché mancante di specifico contenuto censorio”, il 15 novembre 2018, dal tribunale di sorveglianza di Roma. Secondo il boss, il plico avrebbe contenuto documenti utili per preparare la sua difesa in procedimenti instaurati, o da intraprendere. E secondo la difesa, che ha presentato ricorso in cassazione, il tribunale di sorveglianza di Roma avrebbe dovuto tenere conto del fatto che il reclamo fosse stato redatto personalmente dal detenuto: “Persona non ‘addetta ai lavori’ e alla quale non si sarebbero potuti muovere appunti di natura tecnica sul confezionamento di un’impugnazione giudiziale”. Madonia avrebbe lamentato la violazione del suo diritto di difesa, derivante dalla mancata consegna di atti giudiziari, speditigli dal suo difensore. E il tribunale di sorveglianza sarebbe dovuto scendere nel merito. “Il ricorso è manifestamente infondato”, ha deciso in seguito all’udienza dello sorso 16 giugno la cassazione, la cui sentenza è stata pubblicata il 13 agosto. “Il magistrato di sorveglianza - si legge - nel disporre il trattenimento ‘in ricezionè della missiva, ne aveva esplicitato puntualmente le ragioni, spiegando di avere motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione nella missiva racchiusa; quest’ultima, recando come mittente il difensore, era purtuttavia priva degli indici legali di riconoscibilità che l’avrebbero resa insindacabile nel suo contenuto”. “A fronte, il detenuto avrebbe dovuto svolgere una censura direttamente correlata alla menzionata, e ben intellegibile, affermazione giudiziale, anziché dolersi, in via del tutto generica, della violazione del suo diritto di difesa. Il detenuto, a conoscenza del contenuto della corrispondenza a lui diretta, avrebbe dovuto, in altre parole, contestare in concreto le modalità di esercizio del potere di trattenimento, indicando sotto quale aspetto, e per quali ragioni, la decisione di rigore, assunta ai suoi danni e compiutamente illustrata, dovesse ritenersi illegale, ingiustificata dal punto di vista logico-motivazionale o altrimenti sconveniente o inopportuna. E ciò non era avvenuto”, spiegano i giudici della prima sezione penale, presieduta da Adriano Iasillo, relatore Francesco Centofanti. I tremila euro in favore della cassa delle ammende sono “per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione”. Milano. “Ecco come è cambiato San Vittore, da Telecom, a Cisco, fino a Cusani” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2019 Luigi Pagano, lo storico direttore del carcere milanese, ora in pensione, racconta l’incontro con l’imprenditoria durante e dopo Tangentopoli. Perché servono pene alternative alla detenzione. Per tutta la vita, Luigi Pagano ha provato a risolvere il suo paradosso: permettere con l’isolamento del carcere il reinserimento dei detenuti, fuori dal carcere. E ora che è andato in pensione, per lo storico direttore di San Vittore una riflessione si impone: “Le celle sono anacronistiche. Bisogna pensare talvolta a pene alternative. O il carcere continuerà a riprodurre se stesso”, sentenzia l’uomo che ha cambiato il rapporto tra il mondo di fuori e quello di dentro, già numero due del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dopo gli anni passati nel principale istituto milanese e poi alla guida di quelli lombardi. Sono i numeri e l’esperienza a dimostrarlo: più stai dentro senza prospettiva, più torni dentro. Con buona pace della funzione rieducativa voluta dalla Costituzione, “che temo non venga rispettata”, sospira. Il carcere come extrema ratio è l’obiettivo - “proclamato da qualsiasi legge, ma sempre smentito” - e allo stesso tempo è l’auspicio che quest’inguaribile ottimista napoletano, adottato da Milano, professa da sempre. “È la logica ancor più che l’ideologia”, spiega Pagano, forte degli studi sulla recidiva che dimostrano quanto chi ha più accesso a misure alternative, tenda meno a commettere nuovi reati. Un lavoro dell’Università dell’Essex, con Fondazione Einaudi e Il Sole 24 Ore dimostrò come il ritorno a delinquere diminuisse di nove punti, per ogni anno di prigione passato nel carcere lombardo di Bollate, simbolo delle attività di studio-lavoro. Numeri difficili da far valere nel dibattito politico, ancora più difficili da comunicare nella stagione dell’industria della paura, delle pene esemplari, del “marcire in galera” - “di cui però l’(ex, ndr) ministro Salvini si è scusato”, ricorda Pagano - e delle strette, invocate dopo ogni fatto di cronaca, “col rischio di annullare la stagione di riforme”. Così la risposta all’affollamento, un dramma nell’afa estiva, è l’annuncio di nuovi penitenziari. “È sempre stato così! E comunque per una riforma dell’ordinamento è sempre servito l’appoggio dell’opinione pubblica. E questo può creare un cortocircuito”, è l’obiezione di Pagano, che cita nomi e precedenti dei suoi 40 anni in carcere. Quarant’anni, passati attraverso stagioni diverse, mille colori politici e dentro molti pezzi della storia d’Italia, vissuti da un osservatorio esclusivo. Per primo, il carcere di massima sicurezza di Pianosa, durante l’emergenza terrorismo; poi l’Asinara, negli anni di Raffaele Cutolo, il capo della nuova camorra organizzata, che alla sua presenza tra l’altro si sposò; ci furono poi gli istituti nel mirino dei terroristi, come Badu e Carros dove fu ucciso il boss Francis Turatello o Taranto. Poi nella sua carriera c’è stato soprattutto San Vittore. “Pensavo di resistere un mese, sono durato quindici anni”, sorride Pagano, mentre osserva la riproduzione alla parete dell’immagine cult del film di Totò e Peppino col ghisa in piazza Duomo. All’inizio, anche per lui Milano era quella, poi Milan, l’è sempre un gran Milan e soprattutto quel carcere ottocentesco è diventata “la sua casa amata: qui è nato mio nipote. Ma San Vittore o viene riportato al numero consentito di detenuti o deve vivere in modo diverso”. Più volte, sono stati valutati progetti di spostamento della cittadella giudiziaria nella zona di Porto di Mare. E “anche se il carcere dovrebbe stare in città, i casi di Bollate e Opera - nota, pragmatico - dimostrano che si può stare fuori, se i servizi funzionano”. Quando ci incontriamo nel suo ormai ex ufficio, per Pagano sono gli ultimi giorni da provveditore e più volte questo ex scugnizzo di Torre del Greco, diventato uno dei milanesi insigniti dell’Ambrogino d’oro, si girerà verso l’ingresso di San Vittore, coperto dal cantiere della metro. “È perfetto per venire a seguire da pensionato i lavori”, scherza nel suo orgoglioso accento partenopeo, ben consapevole di poter ancora mettere a frutto l’esperienza fatta. E qualcuno glielo chiederà. Nella sua carriera è passato dalle carceri speciali degli anni di piombo a quelle aperte, dove lui ha introdotto, ad esempio, il rito dell’altra Prima della Scala. Dall’osservatorio di San Vittore, Pagano ha vissuto grandi cambiamenti: la trasformazione della criminalità dai tempi delle bande organizzate; la violenza ceca del terrorismo; il crollo della Prima Repubblica, con Mani Pulite; fino ad assistere alla quasi totale identificazione tra popolazione detenuta e marginalità sociale. “Alcuni non vengono ammessi a misure alternative, perché senza casa, lavoro e famiglia. Il paradosso è che a loro il carcere dà più di quanto avrebbero fuori”. In fondo da sempre, per dirla con il garante dei detenuti Mauro Palma, il carcere è “lo specchio dei problemi non risolti di fuori”. Tanti, a giudicare dalle celle, piene più di quanto potrebbero: 60.522 reclusi dell’ultima stima a fine giugno, per una capienza regolamentare che prevede 10.000 mila posti in meno. A riempire i penitenziari, tanti stranieri, ancora di più quelli che provengono dai gironi della tossicodipendenza, a volte con meno di un anno da scontare. Così la filosofia di questo napoletano, scettico verso tutti i Masanielli e le rivoluzioni immediate, abituato invece a cambiare ogni giorno un po’ le cose, lo porta a “pensare all’introduzione di più servizi per i tantissimi con problemi di droga: bypassare le celle, trovando una comunità, come già prospettato in passato ai servizi per le tossicodipendenze. Già così, si eviterebbe il sovraffollamento”. Quella della capienza è una delle principali questioni nel mondo dell’amministrazione penitenziaria, che diventa dramma quando le celle si arroventano ed è più difficile garantire le minime condizioni di dignità. “Così sovraffollamento e scarsa possibilità di assolvere alla funzione di recupero viaggiano insieme”, riflette Pagano, pronto sempre “a partire da quello che già c’è, piuttosto che aspettare quello che dovrebbe arrivare. Bisogna guardare in prospettiva, ma contemporaneamente darsi da fare o l’attesa di una nuova legge diventa un alibi. E aspettando il carcere del futuro si rischia che quello di oggi torni ancora più indietro. Bollate è stato inaugurato nel 2001, con gli strumenti a disposizione”. Questa impostazione ha ispirato il suo agire, nelle varie emergenze, come nell’aprire le celle all’esterno e in direzione opposta portare la città dentro, nella consapevolezza - leitmotiv di uno storico ex direttore del Dap, Nicolò Amato - che carcere e territorio non sono distinti, ma “il carcere è territorio”. E di quel territorio è specchio. “Non a caso Milano è stata determinante, per realizzare quello che è stato fatto. Altrove Bollate non sarebbe nata”, rivendica Pagano. Nei suoi ricordi, ci sono decine di esempi di collaborazioni con l’imprenditoria, il volontariato, il mondo della cultura, che rendono oggi possibile imbattersi all’interno di San Vittore in una lezione sul Salvator Mundi di Leonardo, nel reparto de La Nave; o incontrare detenuti, impegnati a rispondere al primo call center in carcere. “Attraverso Milly e Massimo Moratti e Lalla Cadeo, moglie del conduttore tv Cesare, entrai in contatto con la Telecom allora guidata da Marco Tronchetti Provera: c’era manodopera, c’era il suolo in comodato gratuito e invece di delocalizzare si dava un’occasione di lavoro. Ora molti penitenziari vivono sui call center. Tra gli altri, ha creduto in noi il capo della Cisco, autorizzando corsi di formazione e ora alcuni ex detenuti hanno la responsabilità della sorveglianza informatica di più banche. Era utopistico pensarlo, è fantastico a dirsi. E un ex ergastolano, ora imprenditore, offre ad altri una seconda possibilità”. Tutto questo è possibile quando ci sono le condizioni per assolvere al mandato di recuperare chi ha rotto il patto sociale. E queste vengono meno, se in una “cella per due, ci sono sei persone, con rischi di contagi, tensioni, cedimenti; ci sono difficoltà per i colloqui e si è costretti a trasferimenti”. Una descrizione che corrisponde all’estate peggiore vissuta da Pagano, quella di Tangentopoli. “C’erano 2.400 detenuti a San Vittore, per una capienza attualmente ridotta a 798 posti. E in quei giorni avemmo una visita della commissione anti-tortura, che nella relazione al Governo definì proprio “tortura” le condizioni dell’istituto”. In quel carcere, nell’estate del 1993, si suicidò Gabriele Cagliari, l’ex presidente Eni. “Avevo parlato con lui un paio di giorni prima, gli proposi di lavorare. Mi rispose che ci avrebbe pensato. Ho riflettuto tante volte su quel colloquio, sulle parole dette, se e come avrei potuto capire. Ogni suicidio è un atto d’accusa, che ti interroga. Quel giorno, chiamai il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Eravamo sconvolti”. Un ricordo, che diventa più nitido, man mano che Pagano ritorna a quella stagione di 26 anni fa e ripensa al capo del pool, morto il 20 luglio scorso. “Un paio di volte mi chiamò alle 20, per avere risposte dopo lamentele di detenuti”. Proprio per il suo sforzo di voler creare occasioni di lavoro, Pagano aveva incontrato a inizio 1992 anche l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, per “sondare il terreno, per una collaborazione con la Croce Rossa”. Poi il 17 febbraio, si ritrovò Mario Chiesa a San Vittore. E uno dietro l’altro, tutti gli altri, come il “difficile” Sergio Cusani, “che si era messo in testa di rivoluzionare il carcere”. In quei raggi, “non ci fu subito l’esatta consapevolezza di quanto stava per succedere. E la complicazione ulteriore era garantire un supporto adeguato a persone non abituate”. Quello però fu il momento in cui il mondo di fuori scoprì il carcere e ascoltò le voci di dentro. “Tangentopoli permise di aprire le celle a commissioni varie, a politici in visita, alla stampa. Tutti si resero conto che la città di Cesare Beccaria non poteva tenere in quelle condizioni chi viveva qui”. Dall’altra parte cioè del muro di cinta, che tiene lontano dallo sguardo e dalle coscienze il mondo dei reclusi, visitato di recente dalla Corte Costituzionale nel suo Viaggio in Italia e dal presidente della Repubblica, che nel ristorante aperto a Rebibbia, come a Bollate, ha voluto cenare. La questione allora ritorna a essere il fatto che “il modello non è Bollate, ma l’ordinamento. Anche se il paradosso - sospira - è che ci viene consentita l’eccezionalità, ma non riusciamo a governare la normalità”. Eppure, ogni giorno un po’, lui è riuscito a cambiare il carcere, anche perché “quando incontri dentro tuoi ex compagni di gioco pensi che a volte sia pure una questione di incontri. Essere dialogante lascia comunque un granello”. Lo capì, quando nel ventre di Napoli un contrabbandiere di sigarette gli disse “siete uno buono”. Più che altro uno che davanti a ogni detenuto si ripeteva con Kafka, che “non aveva più scelta, se accettare o rifiutare il processo. Vi era dentro e doveva difendersi”. E incontrare un “carceriere progressista” può fare la differenza. Roma. La riabilitazione dei detenuti è possibile, ma soprattutto conveniente per lo Stato di Leandro Grasso ultimavoce.it, 1 settembre 2019 Nel 68% dei casi i detenuti nelle carceri tornano a delinquere. Mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19 per cento. La riabilitazione dei detenuti tramite lavori di pubblica utilità può essere una risposta. Il carcere è diventato sempre più una risposta che troppo spesso la politica sa dare alle paure dei cittadini. La riabilitazione dei detenuti, invece, è qualcosa che la politica ignora da anni. Tuttavia la maggioranza dei detenuti sono recidivi. E aumentare le pene non serve, cosa risaputa dal 700. In un momento storico in cui poi la popolazione carceraria è in crescita e con i rischi legati alle condanne già emesse in sede internazionale per il trattamento dei detenuti. Risulta fondamentale trovare un altro sistema. È questo che nella Capitale sta avvenendo. Grazie ad accordi congiunti fra Roma Capitale, il Ministero della Giustizia e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Accordi che hanno portato a risultati incoraggianti. Le iniziative che coinvolgono i detenuti del carcere di Rebibbia vanno dalla cura dei giardini, al rifacimento della segnaletica stradale. Autostrade per l’Italia Spa infatti partecipa al progetto. Il progetto chiamato “Mi Riscatto per Roma” al momento prevede il coinvolgimento di pochi detenuti ed è volto alla loro riabilitazione. I lavori sono svariati, e al termine delle ore di lavoro di pubblica utilità vengono rilasciati attestati. I progetti si basano su lavoro volontario, indirizzando ogni partecipante verso specifici compiti. Il fine ultimo è garantire ai detenuti partecipanti un inquadramento nella società. Una professionalità da poter sfruttare al fine della pena. Insomma un progetto che mira a realizzare in pieno il disposto dell’art. 27 c. III della Costituzione. Cioè la rieducazione attraverso il lavoro. Tramite questo progetto si riduce drasticamente la recidiva. Tesi dimostrata da vari studi statistici. Ci sono già stati detenuti che hanno partecipato ai progetti e che una volta usciti hanno trovato un lavoro stabile. Sviluppare percorsi di reintegrazione per i detenuti, non è un obiettivo importante solo per le carceri. Il sovraffollamento è un problema per cui l’Italia è già stata condannata. I numeri dei suicidi sono in aumento e la Polizia penitenziaria ha enormi lacune. Programmi come quelli posti in essere a Roma mirano ad una prevenzione futura più efficace di qualsiasi incremento di pena o di vigilanza. Inoltre danno un senso alla detenzione e realizzano il disposto costituzionale. Con i dati statistici del programma, insieme a vari studi sul settore già pubblicati, si spera che il legislatore apra gli occhi su questo grave tema da troppo dimenticato. Bologna. L’allarme del Garante dei diritti dei detenuti sulla Dozza di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 1 settembre 2019 Nel 2018 le colluttazioni tra detenuti sono state 195, gli atti di autolesionismo 256 e 23 i tentativi di suicidio (in un caso il detenuto è riuscito a togliersi la vita). Poi ci sono le aggressioni agli agenti della penitenziaria, una ventina lo scorso anno. Numeri che a causa del sovraffollamento rischiano di crescere. Il Garante per i diritti delle persone private della libertà di Bologna, Antonio Ianniello, parla di “drammatica carenza di figure dell’area educativa” e tuttavia “invita ad abbassare i toni e a tener conto che, negli ultimi anni, le condizioni di vita nel carcere della Dozza sono migliorati”. Dottor Ianniello, i numeri dicono che la situazione è allarmante… “I problemi di sovraffollamento ci sono anche se il dato non è drammatico come sembra. A fine luglio, c’erano 853 persone detenute (a fronte di una capienza fissata in 500), ma l’incremento numerico si deve anche al recupero di spazi detentivi che prima risultavano inutilizzati o utilizzati solo in parte. Ovviamente il sovraffollamento comporta un abbassamento complessivo della qualità della vita all’interno dell’istituto, anche se siamo lontani dal passato vergogno in cui si erano anche toccate punte di 1.200 presenze”. Il sovraffollamento è però padre di molte tensioni… “Vero, la popolazione carceraria ha diritto ad una vita dignitosa. Le pene vanno espiate, ma nel farlo ogni detenuto deve essere messo nelle condizioni di guardare al futuro con fiducia, deve poter sperare. La speranza in condizioni difficili come quelle del carcere è legata alla capacità delle istituzioni di dare risposte concrete: Ascolto, lavoro, relazioni familiari. Dignità e risoluzione di piccoli e grandi problemi vanno in parallelo. L’aggressività, ad esempio, è quasi sempre figlia della cattiva gestione di un bisogno essenziale”. Da dove bisogna partire? “Io penso che in questo momento il problema più grave a Bologna sia l’esiguo personale. Mancano troppi gli educatori, cosa che si traduce nella rarefazione dei contatti fra la persona detenuta e professionista di riferimento. Gli “ospiti” si lamentano spesso di questo. Dati alla mano, l’area educativa appare drammaticamente insufficiente rispetto al fabbisogno, essendo attualmente operative 6 unità (compreso il capo area) a fronte di un organico che ne prevede 12 per 500 detenuti (oggi ce ne sono 850). Questa incongruità è un problema per quanti non trovano il giusto ascolto. Ai fini della “rieducazione”, per fare un esempio concreto, si perdono le opportunità di lavoro offerte dal territorio”. Il lavoro è una delle scommesse da vincere per il reinserimento… “Non solo. Per un detenuto significa sia futuro che presente. Significa futuro perché una volta fuori ha una professionalità a partire dalla quale può rimettersi in gioco. È presente perché si traduce nel poter contribuire al mantenimento di se stesso e della propria famiglia. Siamo nel campo della realizzazione personale. Chi non è impegnato quotidianamente trascorre le ore a far nulla a ciondolare tra la cella e il corridoio, e un detenuto che si sente inutile diventa spesso insofferente e, quindi aggressivo. Comunque rappresenta il fallimento dell’istituzione”. E poi ci sono i bisogni quotidiani… “Certo, ma guardi che le richieste dei detenuti sono essenziali. Vogliono la possibilità di una doccia in cella, un ventilatore in estate, qualche telefonata in più e magari video con i familiari all’estero. Non è impossibile, e alla Dozza ci si sta muovendo nella giusta direzione nonostante i toni che si usano quando si parla di persone che hanno sbagliato”. Cosa c’entrano i “toni”? “La situazione delle carceri non è apocalittica come viene descritta. I miglioramenti, sia pure lievi, negli ultimi anni ci sono stati. È chiaro che le criticità esistono e non voglio minimizzarle. Avendo però a cuore la quotidianità detentiva, temo che un utilizzo poco misurato del linguaggio possa anche avere ricadute negative. Frasi come “non deve più uscire”, “deve stare in carcere fine all’ultimo dei giorni che deve scontare”, “devono marcire in galera” alimentano tensione sulla pelle delle persone detenute e di chi lavora in carcere con loro. Innestano nella società la tentazione di pensare che non vale la pena di occuparsi di chi ha sbagliato. Sarebbe un errore, un grave errore soprattutto culturale”. Perugia. Disposto il trasferimento 19 detenuti dopo le tensioni dei giorni scorsi umbriajournal.com, 1 settembre 2019 “Sto seguendo con molta attenzione quanto sta accadendo da qualche giorno nel carcere umbro di Perugia Capanne. Una situazione delicata che ha avuto il suo momento di massima tensione ieri e che, grazie all’abnegazione e alla professionalità della Polizia penitenziaria in servizio nell’istituto, pare essere stato superato già in serata”. Lo dichiara con una nota il Guardasigilli Alfonso Bonafede, in relazione agli ultimi accadimenti che hanno riguardato il carcere di Perugia. “Nelle prossime ore - continua il ministro della Giustizia - partiranno i trasferimenti disposti dal Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria per motivi di sicurezza per 19 detenuti individuati come i più facinorosi, che saranno spostati in altri istituti extra-distretto. Ringrazio per questo, oltre la Polizia penitenziaria, il capo del Dap e la vice, intervenuti in prima persona, e tutti quanti, sia al Provveditorato sia in istituto, si sono adoperati senza risparmio in questi ultimi giorni”, conclude Bonafede. Alba (Cn). “Clinica legale”, detenuti e universitari insieme per un’esperienza formativa cuneodice.it, 1 settembre 2019 Dalle 15 alle 16.30 il confronto con docenti e studenti della “Clinica legale: carcere e diritti” dell’Università di Torino. Sabato 7 settembre dalle ore 15.00 alle 16.30 i detenuti del carcere di Alba si confronteranno con docenti e studenti della “Clinica legale: carcere e diritti I” (titolare del corso: prof.ssa Cecilia Blengino) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino. Il concetto base delle cliniche legali è che gli studenti, già durante il loro percorso formativo universitario, debbano avere la possibilità non solo di apprendere in maniera teorica il sapere giuridico, ma anche di entrare in contatto con il diritto vivente. La Clinica legale - attiva anche in altri ambiti: vittime di tratta, persone senza fissa dimora, famiglie e minori, disabilità - costituisce uno strumento privilegiato per il raggiungimento di tale obiettivo, trattandosi di un metodo didattico basato sull’apprendimento esperienziale volto allo sviluppo non solo di “conoscenze”, ma anche di “abilità” e “valori”, nonché alla promozione della giustizia sociale. Il programma promuove l’attività di rete nel supporto a persone in difficoltà avvalendosi della collaborazione di istituzioni come il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura, le Forze dell’ordine, il Garante Regionale e i Garanti Comunali dei diritti delle persone private della libertà personale; coinvolgendo avvocati esperti in esecuzione penale, realtà del terzo settore e del mondo associativo. L’incontro, promosso dal Garante comunale Alessandro Prandi in collaborazione con la Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, vedrà la partecipazione della dottoressa Costanza Agnella, tutor della “Clinica legale: carcere e diritti I”, del Garante regionale Bruno Mellano e di alcuni studenti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Verranno affrontati alcuni aspetti legati al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. La Spezia. Il carcere che dà lavoro e insegna un mestiere di Chiara Tenca La Repubblica, 1 settembre 2019 Al “Villa Andreino” il patto fra imprese e detenuti. Costruiti qui pezzi delle metro di Lima e Milano. Le sbarre del carcere di Villa Andreino della Spezia lasciano filtrare una luce per i propri detenuti. Una luce che guarda alla rieducazione e spinge verso il futuro. Gli strumenti sono quelli del lavoro e dell’apprendimento di un mestiere: un progetto reso possibile grazie all’affiatato tandem costituito dalla direttrice Maria Cristina Bigi e da Licia Vanni, capo dell’area adattamento. A loro hanno dato fiducia tre aziende: la Metallica srl, che produce arredi in ferro, l’Euroguarco, specializzata in tubature e materiali per isolamento ed interiors (nell’indotto, rispettivamente di Costa Group e di Hitachi Rail) e Il Golfo, che si occupa di digitalizzazione documenti. Così, chi utilizzerà la metropolitana di Lima, in Perù, e della linea 4 di Milano, attualmente in costruzione, salirà su vagoni in cui i manufatti dell’impianto di aria condizionata sono nati dalle mani dei carcerati. Allo stesso modo, ai clienti della catena Eataly potrebbe capitare di consumare un pasto seduti su una delle creazioni artigianali in ferro e pvc interamente realizzate nel penitenziario, già scelte in passato per alcuni padiglioni dell’Expo di Milano. O ancora, ad un professionista di consultare un foglio d’archivio trasferito su supporto informatico a Villa Andreino. “Puntiamo molto sulle componenti pedagogiche dell’inserimento dell’impresa, diverso da quello usuale penitenziario, che consiste in pulizie e manutenzione ordinaria” spiega la Bigi. Una delle peculiarità di questi impieghi è di spezzare la routine della detenzione: “Si tratta di un lavoro vero - continua - con tanto di datore: si passa una selezione e si osservano regolari orari. Finisce così il tunnel dell’essere eternamente assistiti e ci si trova ad attivare le proprie risorse: sono importanti i risultati in termini pedagogici, di crescita e riabilitazione”. Parte dei locali del penitenziario (solo maschile) vengono così dati in comodato d’uso alle aziende, i macchinari sono finanziati dall’amministrazione, mentre i materiali e il know how, che spesso si aggiunge a quello messo da parte seguendo corsi di formazione finanziati dalla Ue ed erogati dalla Regione, sono forniti dalle imprese. Giorgio Manfroni, titolare dell’azienda Metallica di Riccò del Golfo, ci guida insieme alla Vanni nella sua officina speciale all’interno della casa circondariale: nel cortile, una distesa di telai pronti ad essere completati e a diventare sedie coloratissime, nel laboratorio i tre operai indaffarati, per i quali ha acquistato anche una macchinetta del caffè, “della marca migliore” ci tiene a precisare. Si salutano con un cenno d’intesa, scherzano e parlano della produzione. “Credo molto in questo progetto - spiega - e per me sono dipendenti a tutti gli effetti. Con l’amministrazione penitenziaria abbiamo messo in piedi diversi corsi di formazione in saldo-carpenteria a partire dal 2011. Non ho ancora assunto uno di loro, ma so che una volta usciti da qui troveranno facilmente un impiego”. E la passione dei prescelti si vede: “Spesso mi chiedono di fare gli straordinari - continua - e non sono mancati gli episodi che mi hanno commosso, come quando un ragazzo straniero che aveva lavorato con me è stato espulso: prima di andare via, ha voluto a tutti i costi salutarmi. Per me l’aspetto umano è al primo posto. Quando ho iniziato questa collaborazione, non ho certo pensato agli sgravi fiscali, che fra l’altro sono stati ridotti dal governo Renzi dal 50 al 30%. In totale, ho messo a contratto negli anni oltre 15 persone”. Risultati tangibili, che hanno convinto la Euroguarco ad allargare il progetto: “Ci stiamo preparando, ancora in collaborazione con la dottoressa Bigi, che dirige anche questo istituto, ad estendere l’esperienza al carcere di Massa” ha annunciato l’imprenditore Massimiliano Ghirlanda. Attualmente sono 3 gli assunti da Metallica, 1 da Il Golfo di Antonio Milano, che pur avendo attività altrove, ha scelto di puntare anche qui, mentre Euroguarco ha dato lavoro a 2 detenuti dentro Villa Andreino e altrettanti articolo 21 presso la propria sede. Una buona notizia in una struttura che, come tante, soffre di problemi di sovraffollamento: “La nostra capienza massima tollerabile è di 215 persone - spiega la Bigi - e attualmente siamo a quota 240. Scontiamo la chiusura del penitenziario di Savona e assorbiamo anche dal Piemonte. Nonostante una recente ristrutturazione, gli spazi sono troppo ridotti e la situazione è pesante”. Si realizza così, in barba alle difficoltà, l’idea della Vanni: “Evitare carceri autoreferenziali, che cercano la visibilità, concentrandosi piuttosto su ciò che serve davvero. Possiamo verificare sul campo quale sia l’attaccamento dei detenuti alle aziende: il pentimento è reale. Non è un caso che tante madri dei detenuti ci vengano a ringraziare”. Trani (Bat). Dolci Scappatelle dalle carceri di Nicola Lavacca Avvenire, 1 settembre 2019 Si chiamano “Scappatelle” e sono biscotti a forma di cuore realizzati dai ragazzi detenuti nelle carceri minorili di Bari e di Nisida, la piccola isola ai margini del golfo di Napoli. È un nuovo progetto di integrazione sociale e di recupero che porta la firma di Luciana Delle Donne, fondatrice di Made in Carcere, che si è avvalsa del sostegno della Fondazione Megamark di Trani. L’obiettivo è dare una seconda chançe ai ragazzi detenuti affinché possano imparare un mestiere, quello del pasticciere, in modo da proporsi, una volta scontata la pena, nel mondo del lavoro forti delle competenze specifiche acquisite. Nei due istituti penali minorili sono stati avviati dei laboratori artigianali con impastatrici e forni per la cottura messi a disposizione dalla Megamark. Biscotti solidali ma anche genuini perché fatti con pochi ingredienti sani, senza latte e uova e soprattutto senza additivi chimici e conservanti: farina di grano duro, zucchero di canna biologico, vino Primitivo di Manduria Dop e olio extravergine pugliese. “Il progetto Made in Carcere - sottolinea Luciana Delle Donne, fondatrice del brand sociale - è diventato in qualche modo simbolo del riscatto e del coraggio. I biscotti, che abbiamo voluto ironicamente chiamare Scappatelle, hanno per i minori coinvolti nel progetto il gusto buono della libertà”. Bologna. Teatro-carcere, il regista Paolo Billi e gli “Eredi eretici” di Massimo Marino Corriere di Bologna, 1 settembre 2019 Dal 3 al 6 il Teatro del Pratello al carcere minorile. Il Teatro del Pratello torna a recitare tra le mura dell’Istituto penale minorile e festeggia i vent’anni di attività. Paolo Billi, regista e autore, ha iniziato nel 1999 a fare spettacoli tra le mura del carcere minorile, prima nei locali del teatro, poi nella chiesa. Nel 2013 l’ultima opera, “Il patto col diavolo”. Poi per motivi di agibilità e sicurezza le rappresentazioni nell’Istituto sono state sospese, e sono riprese solo l’anno scorso, con un compromesso: spettacoli in estate nel cortile. Intanto il regista ha lavorato con i ragazzi affidati all’area penale esterna al carcere (Compagnia Out) e ora torna a portare in scena quelli reclusi, con gli apporti delle giovani attrici di Botteghe Molière. Lo spettacolo, “Eredi eretici”, andrà in scena dal 3 al 6. Billi, come é tornare nell’Istituto? “Ho trovato una situazione diversa. Allo spettacolo partecipano 15 su 23 reclusi. Non mi era mai capitato un numero così alto di adesioni e soprattutto che nessuno abbandonasse”. Che “eredità eretica” lasciano questi ragazzi? “In realtà non hanno eredità, perché per loro il padre non esiste. È una figura in dismissione. È un gruppo variegato, sono tutti nati in Italia anche se spesso di seconda generazione. Hanno origini arabe, africane, balcaniche, italiane. È un bel gruppo, si sono messi in gioco. E così le parole che dicono sono più evidenti... ma…”. Ma? “Non essendoci padri, cade la possibilità di criticarne l’eredità, di essere eretici. Però il testo, scritto da me, lo capiscono bene, lo dicono bene, e anzi lo hanno integrato con parti scritte da loro, che hanno chiesto di inserire”. Potremo vedere ancora spettacoli dentro il carcere? “Credo di no. L’attività teatrale diventa estiva e si conclude con lo spettacolo nel cortile. Abbiamo cominciato la preparazione in maggio con alcuni ragazzi che avevano le parti più lunghe. Poi abbiamo lavorato quotidianamente da metà luglio”. Un bilancio di questi vent’anni? “Alla luce di quest’ultimo spettacolo mi convinco sempre di più che il mio lavoro ha senso se riesco a farli stare in margini molto definiti. In quel caso esplodono: i confini danno libertà, che detto in galera è un po’ un problema”. Come recitano? “Molti hanno ben introiettato il testo. Per esempio, c’è un ragazzo di colore che lo rende con un’intensità che ho visto poche volte. Non gli dico come fare. Lo ha riempito di parole sue, facendo discorsi sulle paure”. Prossime tappe? “Come sempre in inverno uno spettacolo all’Arena del Sole con la Compagnia Out. Sarà il sequel di questo e si intitolerà Le orme dei figli. Provo a ribaltare il luogo comune che sono i figli a seguire le orme di qualcuno”. Lei ha messo spesso a confronto adolescenti delle scuole e giovani affidati alla giustizia. Cosa succedeva? “All’inizio gli studenti entravano in carcere, era un bell’impatto. Ora vanno in teatro: è diverso. Con qualche classe facciamo un lavoro più approfondito, con l’alternanza scuola-lavoro: li facciamo entrare in carcere ed è un’esperienza intensa”. Che differenze trova tra i ragazzi reclusi e gli studenti della stessa età? “Poche. Prima dentro trovavi minori non accompagnati, casi sociali. Ora è cambiato. Sono più “normali”. Ne trovi di tutti i tipi e sono simili ai loro coetanei fuori. Forse perché anche il commettere reati si è trasformato”. Può spiegare meglio? “È, credo, un problema di regole non acquisite o non conosciute. Per esempio il consumo di droghe leggere: per loro non è “spaccio”, ma pagarsi la propria roba e darne agli amici. Il bullismo è un comportamento ugualmente diffuso. Insomma, anche gli adolescenti che stanno dentro hanno faccine da bravi ragazzi”. Migranti. I disabili mentali due volte fragili di Marialaura Iazzetti L’Espresso, 1 settembre 2019 Lidia ha 35 anni. Samir ne ha 22. Lei è somala, lui pakistano. Sono richiedenti asilo. Samir è autistico. Lidia, da quando ha subito ripetute violenze sessuali nei centri di detenzione libici, presenta traumi irreversibili. Hanno disturbi diversi, uno legato alla persona, l’altro alle sue esperienze. Ma, nonostante ciò, in Italia le loro vite sono vincolate a un destino comune. Come Lidia e Samir ne esistono molti: profughi affetti da forme di psicosi che, proprio a causa delle patologie che li affliggono, sono ancora più invisibili dei compagni con cui hanno attraversato il mare. Il numero è in constante aumento, ma le strutture specializzate nell’accoglienza di questi soggetti vulnerabili sono insufficienti: per 2.000 persone sono disponibili 700 posti. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che dal 2002 gestisce a livello locale il fenomeno migratorio, con il decreto sicurezza potrà occuparsi soltanto di chi ha già ottenuto una forma di protezione internazionale. Quindi, non dei richiedenti asilo. Lidia è arrivata in Italia scappando dalla Libia. Lì, una volta, ha dovuto lanciarsi dal terzo piano di un edificio per sfuggire a una violenza di gruppo: ha perso la vista da un occhio ed è rimasta in corna per tre mesi. Quando si è svegliata, è riuscita a fuggire insieme a un amico. Si è imbarcata e ha attraversato il Mediterraneo. Samir è fuggito insieme a sua madre dal Pakistan ed è arrivato in Italia a 22 anni. “Prima di attraversare il Mediterraneo, nessuno gli aveva mai diagnosticato l’autismo. Fino ad allora ha vissuto senza sapere quale patologia lo affliggesse”, spiega Laura Arduini, responsabile dell’Area Salute della Casa della Carità di Milano, che accoglie i migranti con forme di psicosi. Samir però è stato uno dei più fortunati. In alcune zone dell’Africa molti ragazzi affetti da forme di ritardi mentali vengono uccisi. perché considerati creature diaboliche. Quando Lidia è arrivata in Sicilia, è stata mandata in un centro di prima accoglienza come prevede l’iter. Poi, viste le sue condizioni, è stata inviata alla Casa della Carità di Milano: “Mordeva, piangeva, urlava e si colpiva ripetutamente il corpo”, racconta Arduini. In Italia i progetti attivi per i migranti con disabilità mentale sono 49. La geografia dei luoghi Sprar dedicati a questi soggetti vulnerabili è disomogenea. Mancano centri specializzati in otto regioni, tra cui Abruzzo, Campania, Sardegna e Veneto. Mentre nella maggior parte dei territori i posti disponibili si aggirano intorno alla trentina. Come dimostra la storia di Lidia, non conta soltanto se esistano o meno questi centri, ma anche quanti posti abbiano. In tutta la Sicilia possono essere accolte 209 persone, ma a Palermo, dove è sbarcata Lidia, solo quattro e in provincia 16. Capita spesso, infatti, che dalla Sicilia i migranti vengano spostati in altre parti d’Italia, dove l’arrivo di richiedenti asilo, e perciò anche di migranti con disabilità mentale, è minore. “Il 70 per cento dei soggetti vulnerabili viene mandato nei singoli Sprar dal servizio centrale, l’altro 30 per cento lo accogliamo direttamente sul territorio”, spiega la dottoressa Letizia Zanini, coordinatrice di Cidas, la cooperativa che gestisce il centro per soggetti con disabilità mentale di Bologna. Completamente sedata, Lidia è arrivata a Milano dalla Sicilia senza avere idea di dove fosse. Qui oltre a lei potevano essere accolte altre 7 persone. In tutta la Lombardia i posti disponibili sono 13. Nel capoluogo è la Casa della carità, in collaborazione con il Comune, a seguire i migranti affetti da disabilità mentale. “Nei centri di prima accoglienza e negli altri Sprar non riescono a gestire queste patologie, quindi accogliamo molti più soggetti di quanti dovremmo. Attualmente sono una settantina, ma i casi continuano ad aumentare”, dice Arduini. Un aumento che, sia al livello locale che nazionale, dipende dalle sempre più frequenti vessazioni sopportate da chi cerca di raggiungere l’Europa. Proprio per questo motivo esistono realtà, come la Caritas, che si occupano di seguire i soggetti più fragili. Sopperiscono a un bisogno di cui dovrebbe occuparsi lo Stato. “Noi non siamo un centro Sprar. Diamo assistenza ai migranti vulnerabili che rischiano di non ricevere un supporto adeguato”, dice Marco Mazzetti, responsabile del progetto Ferite invisibili. Ma la carenza di strutture adatte è solo il primo dei molti problemi legati a questo sistema d’accoglienza. Per la natura stessa degli Sprar, anche i migranti con disabilità mentale possono rimanere nei centri solo per un anno e mezzo. Poi, sia per le persone con sofferenze psichiche pregresse e più strutturali (come l’autismo) sia per i soggetti con vulnerabilità legate alle esperienze vissute, esiste soltanto la “libertà”. Cioè, la maggior parte delle volte, l’abbandono. “Dovrebbero essere inseriti in strutture pubbliche, le stesse dove sono seguiti i cittadini italiani. Ma è difficile che i migranti riescano a intraprendere questo percorso perché mancano mediatori linguistici”, spiega Arduini. Di fatto, quindi, una volta concluso il soggiorno nei centri Sprar, questi soggetti vulnerabili si ritrovano senza fissa dimora: non importa se siano clandestini o rifugiati. Molti migranti con disabilità mentale, però, non arrivano neanche a sapere se avranno diritto a una forma di protezione internazionale. La maggior parte non riesce a presentarsi davanti alle commissioni territoriali per formalizzare la richiesta d’asilo. Rimangono in un limbo: fantasmi non riconosciuti dalla legge perché non hanno mai avuto la forza di narrare e ricordare cosa gli è accaduto. Non possono esimersi dal comparire davanti ai funzionari del ministero e l’unica facoltà che gli è concessa è di richiedere un supporto psicologico. “Il problema è che questi percorsi, dedicati esclusivamente ai soggetti con difficoltà, sono a discrezione dei Comuni”, racconta Zanini. Lidia, ad esempio, non è mai riuscita a presentarsi davanti agli esaminatori. Per anni è stata una nomade: vagava da una parte all’altra dell’Italia e quando aveva bisogno tornava alla Casa della Carità. “È rimasta incinta e ha partorito qui da noi”, dice Arduini, “poi improvvisamente non l’ho più vista. Tramite alcune conoscenze ho saputo che era fuggita in Francia”. Come tanti, è scappata lontano. Da quando era arrivata in Italia fino a quando è andata via, per lo Stato è stata invisibile. Queste condizioni di abbandono, con il decreto sicurezza e l’esclusione dei richiedenti asilo dai centri Sprar, potrebbero coinvolgere sempre più migranti. “La situazione esploderà, perché le strutture specializzate accoglieranno soltanto chi ha già ottenuto una forma di protezione internazionale. Le persone che stanno ancora aspettando una risposta dal ministero, invece, finiranno nei centri di prima accoglienza. Ma qui, diminuiti i fondi, sono praticamente scomparsi anche i supporti psicologici”, spiega la dottoressa Arduini. Inoltre, per queste persone diventerà ancora più difficile presentare la richiesta d’asilo, perché i permessi umanitari - la protezione più utilizzata per tutelare i migranti con disabilità mentale - sarà erogata dal questore dopo un colloquio e non più dai funzionari delle commissioni territoriali. Ancora una volta, e probabilmente molto più di prima, saranno gli enti privati e i volontari a occuparsi dei soggetti in difficoltà. “Ma almeno le nostre porte rimarranno aperte”, promette Mazzetti. Migranti. Sportelli legali: centinaia di persone assistite a Roma e Terracina di Sara Ficocelli La Repubblica, 1 settembre 2019 Il progetto punta a favorire l’integrazione della popolazione immigrata, con particolare riguardo alle fasce più vulnerabili, e propone attività che favoriscano il confronto. Favorire l’integrazione della popolazione immigrata con un occhio di riguardo alle fasce più vulnerabili e promuovendo attività di confronto fra società civile, istituzioni, autorità locali e cittadinanza: questo il fine degli Sportelli legali per immigrati e rifugiati di Roma e Terracina, sostenuti con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. Il progetto Slir è partito a maggio di quest’anno e in pochi mesi gli sportelli legali di Progetto Diritti hanno già ascoltato e assistito centinaia di persone, molte delle quali disorientate e spaventate dal rischio di perdere la propria condizione di regolarità nel soggiorno in Italia. Il servizio legale - nato grazie all’impegno di alcuni giovani avvocati che credevano nei valori della solidarietà e della giustizia sociale - è stato tra i primi del genere ad essere avviato nella Capitale all’inizio degli anni Novanta. Più che semplici uffici informazioni, gli sportelli rappresentano dei punti di riferimento, luoghi dove i cittadini stranieri possono rivolgersi a operatori e avvocati per confrontarsi e ricevere consulenze e informazioni su diritti e doveri riconosciuti nel nostro Paese, e sui servizi e le iniziative di scambio e dialogo culturale. L’associazione Progetto Diritti Onlus è un luogo di iniziativa, ricerca e discussione intorno ai temi dei diritti degli individui e delle formazioni sociali, con particolare attenzione ai cittadini stranieri, ai minori, alle donne, ai detenuti e, in generale, a tutti i soggetti particolarmente vulnerabili, colpiti da discriminazioni e emarginazioni di tipo sociale ed economico. All’inizio del 2008, l’organizzazione ha contribuito alla costituzione del “Comitato Singh Mohinder per la tutela dei migranti vittime del lavoro e di reati violenti e dei loro familiari” e nel 2009 all’”Associazione degli Imprenditori Stranieri in Italia”. Nel 2010, ha promosso la nascita dell’”Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno” a Roma. Dal 2013 Progetto Diritti, insieme all’associazione Roma-Dakar, gestisce uno sportello legale a Dakar, Senegal, per fornire consulenza e assistenza legale ai cittadini di quest’area dell’Africa subsahariana che desiderano intraprendere progetti di migrazione regolare verso l’Europa. Nel 2014 l’associazione ha fondato, insieme ad Antigone e con il patrocinio dell’Università Roma Tre, la società polisportiva “Atletico Diritti”. Dal 2015 gli operatori e gli avvocati di Progetto Diritti collaborano con la cooperativa sociale Inopera prestando assistenza legale ai richiedenti asilo direttamente negli Sprar. L’organizzazione promuove la cultura della solidarietà e della cooperazione tra l’Italia e i Paesi svantaggiati e in via di sviluppo, con particolare attenzione a quelli di origine dei migranti. Kenya. “Silvia Romano si trova in Somalia”, si indaga per terrorismo di Francesco Battistini Corriere della Sera, 1 settembre 2019 Le conclusioni della procura generale di Nairobi. Le mosse degli inquirenti italiani. Non sanno chi ce l’ha, ma sanno chi non ce l’ha: dopo dieci mesi di dubbi e di smentite, la Procura generale di Nairobi s’è convinta che Silvia Romano sia stata rapita non da una scalcagnata banda di criminali kenyoti a caccia di soldi facili, ma “per fini di terrorismo”. E che quindi sia finita nelle mani di Al Shabaab, i qaedisti somali, ai quali potrebbe essere stata ceduta in un secondo momento. È un’ipotesi che girava fin dal primo giorno, a suo tempo confermata dai corpi speciali impegnati nelle ricerche lungo il fiume Tana, ma ora è nero su bianco: troppo frequenti, i contatti telefonici della gang con la Somalia; assai “sproporzionati” i mezzi impiegati nel sequestro, gli uomini e le armi e le moto, rispetto alle tecniche usate dalla mala locale; anomala quella fuga nella savana, fra gli spari e verso la porosa frontiera somala. Insomma “s’è trattato d’un sequestro su commissione”, l’idea che ci s’è fatti, anche se è sempre inspiegabile e inquietante il silenzio che ne è seguito. L’ultima volta che Silvia fu vista, ferita a un piede, era Natale. L’ultimo contatto utile, risale a gennaio. Poi, il nulla. Ancora non si sa se è viva, dunque, ma ora si sa chi potrebbe volerla morta. In carcere, sotto processo, ci sono solo tre degli otto che il 20 novembre presero la ventitreenne volontaria milanese a Chakama, un villaggio a un’ottantina di km da Malindi: forti della nuova convinzione acquisita, e sollecitati dai Ros italiani che finalmente hanno potuto vedere il materiale investigativo, i giudici hanno deciso di contestare ai tre imputati l’aggravante del terrorismo e di negare la libertà su cauzione. Abdullah Gaba Wario, Moses Luwali Chembe e Said Adhan Abdi restano dentro, e si cercherà di verificare l’attendibilità di quanto raccontato finora. Da quando i carabinieri sono tornati in Kenya, con una rogatoria internazionale, qualcosa si tenta di smuovere: in un quarto incontro dei prossimi giorni coi colleghi africani, saranno acquisiti nuovi verbali, altri tabulati telefonici e documenti vari da inserire nel fascicolo del sostituto romano Sergio Colaiocco. Siamo a una svolta? Non c’è da sperare chissà che. Ma stabilire che Silvia sia cascata nelle mani dei fondamentalisti islamici, è già un passo avanti in un’inchiesta che ne ha fatti solo all’indietro. E mette in gioco apparati che stavano fuori: il Kenya ha un diverso modo d’investigare i fatti di terrorismo e quelli di criminalità comune, anche la spinta “politica” è differente. In queste ore, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Nairobi ha lavorato per estendere alla Somalia (e ad Al Shabaab) le sanzioni previste dalla risoluzione 1267 nei territori controllati da Isis e Al Qaeda. La battaglia al Palazzo di vetro però è andata perduta. Perché molte ong e soprattutto sei Paesi - Usa, Germania, Francia, Belgio, Polonia e Kuwait - si sono opposti. Meglio evitare d’affamare Al Shabaab, sostengono: significherebbe condannare anche milioni di somali disperati. E forse complicare il caso Silvia, ancora di più. Stati Uniti. Accoltellato in carcere Sirhan Sirhanm, l’uomo che uccise Bob Kennedy rainews.it, 1 settembre 2019 Una storia che riemerge dalla notte della Storia, oltre 50 anni fa. L’uomo accusato di aver ucciso Robert F. Kennedy è stato accoltellato ieri nella prigione della California, dove sta scontando l’ergastolo. Il 75enne Sirhan Bishara Sirhanm è ricoverato in condizioni stabili. L’aggressione è avvenuta alle 14.21 (ora locale, 23.21 in Italia) nel penitenziario Richard J. Donovan”, nella contea di San Diego. “Gli agenti hanno risposto rapidamente e hanno trovato un detenuto con ferite da coltellate. Le sue condizioni sono state stabilizzate dopo il ricovero in ospedale”, ha aggiunto. Palestinese, ossessionato da Bob Kennedy Ha passato circa due terzi della sua vita in carcere Sirhan Bishara Sirhan, l’uomo accusato di aver ucciso Robert F. Kennedy. Ma nel penitenziario Richard J. Donovan nella contea di San Diego, vicino al confine con il Messico, dove ieri è stato accoltellato, era stato trasferito solo 6 anni fa, nel novembre 2013. Sirhan Bishara Sirhanm, cristiano palestinese di cittadinanza giordana, aveva 24 anni quando poco dopo la mezzanotte del 5 giugno 1968 uccise con diversi colpi di pistola “Bobby” Kennedy all’hotel Amabassador di Los Angeles, dove l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti aveva appena tenuto un discorso ai suoi sostenitori per festeggiare la vittoria alle primarie del Partito Democratico del 4 giugno. Sirhan era nato a Gerusalemme e viveva da dodici anni negli Stati Uniti. Si era trasferito con i genitori, prima a New York e poi in California. Durante le indagini emerse che aveva una vera e propria ossessione per Robert F. Kennedy. La polizia trovò nel suo appartamento un diario in cui esprimeva la volonta’ di ucciderlo, dopo che il senatore in campagna elettorale aveva annunciato il suo sostegno a Israele. La notte del 5 giugno, mentre Kennedy lasciava il palco nel salone dell’hotel e attraversava le cucine per andare a un incontro con i giornalisti, Sirhan si fece largo tra la folla e sparò dei colpi di pistola, uno colpì Bob alla testa. Dall’autopsia emerse un foro d’entrata del proiettile dietro l’orecchio destro del senatore e la foto scattata subito dopo la sparatoria rivelò una ptosi palpebrale tipica di una lesione cerebrale. Bangladesh. La generazione perduta dei bambini rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 settembre 2019 Due anni dopo la brutale campagna di pulizia etnica che costrinse circa 700.000 rohingya a fuggire da Myanmar e a riparare in Bangladesh, questi rifugiati sono ancora intrappolati, in condizioni insopportabili, in campi sovraffollati. Lo ha denunciato Amnesty International in un rapporto intitolato “Non so quale sarà il mio futuro”, che paventa il rischio che una generazione di bambini rohingya vada perduta a causa del sistematico diniego dell’accesso all’istruzione da parte delle autorità del Bangladesh, del senso d’incertezza e della perdita di speranza che dominano la vita di molti giovani nei campi rifugiati. Quasi la metà del milione di rifugiati rohingya residenti in Bangladesh ha meno di 18 anni. Alcuni sono nati in Bangladesh, mentre la maggior parte è fuggita da Myanmar con le famiglie dopo l’ondata di violenti attacchi contro i loro villaggi iniziata alla fine di agosto del 2017. Per gli uni e gli altri, le opportunità di ricevere un’istruzione sono estremamente limitate, per quanto riguarda sia le strutture autorizzate a operare all’interno dei campi che i permessi per i rifugiati registrati di frequentare le scuole locali all’estero delle strutture di accoglienza. Di fatto, se si eccettuano gli “spazi amici dei bambini” e strutture che offrono opportunità di gioco e i primi rudimenti della scuola elementare, il diritto all’istruzione dei bambini rohingya nei campi e fuori è negato. Secondo il governo, consentire l’accesso all’istruzione incoraggerebbe i rifugiati rohingya a rimanere in Bangladesh anziché rientrare in Myanmar. Ecco il punto. Due anni fa il Bangladesh, paese povero, si è fatto carico con uno sforzo straordinario di accogliere, nel giro di poche settimane, centinaia di migliaia di persone in fuga. Comprensibilmente, le autorità di Dacca hanno ritenuto che l’accoglienza dovesse essere temporanea. Il rifiuto di pensare che i rifugiati rohingya potessero avere bisogno di protezione nel medio e nel lungo periodo ha fatto sì che la priorità venisse data a misure provvisorie di emergenza. Al mancato accesso all’istruzione si aggiunge il divieto, per i rifugiati rohingya in Bangladesh, di lavorare. Questo li rende interamente dipendenti dagli aiuti umanitari per la sopravvivenza quotidiana. Amnesty International ha potuto osservare che, per quanto riguarda gli aspetti più importanti dell’assistenza umanitaria - rifugi, acqua, strutture igienico-sanitarie, salute e cibo - la qualità dei servizi è inadeguata. Alcune di queste difficoltà sono inevitabilmente dovute alla dimensione dei campi e al tempo necessario per migliorare quei servizi. Ma, di nuovo, migliorarli metterebbe a rischio i rimpatri. Ecco che, ad esempio, a causa delle limitazioni imposte ai rifugiati sui materiali da costruzione che possono utilizzare, durante la stagione dei monsoni essi rimangono in strutture temporanee, torride e scarsamente ventilate. Il sovraffollamento è un altro enorme problema: spesso famiglie numerose devono condividere una stanza singola. Vi sono poi difficoltà riguardo all’igiene: l’acqua da bere è frequentemente contaminata e le strutture per pompare l’acqua sono difficili da raggiungere. Infine, le limitazioni alla libertà di movimento impediscono di uscire dai campi per cercare cure mediche. All’interno dei campi è disponibile solo un’assistenza di base. Negli ultimi mesi, poi, si è parlato molto di un progetto che prevede il trasferimento di fino a 100.000 rifugiati rohingya a Bhasar Char, un’isola di 39 chilometri quadrati nel golfo del Bengala, mai abitata, a tre ore di viaggio dalla terraferma, esposta a inondazioni e ad altre avversità climatiche. Questo progetto presenta grandi rischi dal punto di vista dei diritti umani. Isolerebbe e segregherebbe ancora di più i rifugiati rohingya. Per Amnesty International c’è urgente bisogno di piani e strategie a lungo termine basate sulla tutela dei diritti umani e che assicurino libertà di movimento, alloggi adeguati, accesso alle cure mediche e all’istruzione e che prevedano la possibilità di ricevere protezione per lunghi periodi di tempo in Bangladesh, secondo quanto dispone il diritto internazionale. La comunità dei donatori internazionali è chiamata a condividere le responsabilità col Bangladesh, aumentando e sostenendo l’assistenza tecnica e finanziaria per rispondere alle necessità della popolazione rifugiata rohingya e alleviare l’onere dell’accoglienza per le autorità locali. Hong Kong. Da dove nasce la protesta degli ombrelli di Franco Cardini Il Mattino, 1 settembre 2019 Ormai sembra diventata una consuetudine, se non un tormentone. In una società che non si dimostra più all’altezza di esprimere forze politiche dotate di una capacità organica di programmazione politica - da noi, i vecchi partiti bene o male ci - riuscivano - si moltiplicano le manifestazioni di folle, spesso di masse, che protestano a colpi di slogan e magari di atti di violenza contro persone e cose e che, al posto della sistematicità delle proposte, scelgono la periodicità dei loro shows. Così, dopo il Sabato del Villaggio, il Sabato Inglese e il Sabato Fascista, ecco il sabato dei Gilets Jaunes lo scopo conclamato dei quali, la “fine della società capitalista”, sarebbe anche condivisibile se fosse, ammettiamolo, un po’ meno generico. Da qualche mese a questa parte, una folla - dirlo - immensa, a Hong Kong, sembra aver adottato il simbolo dell’ombrello multicolore (necessario del resto, in stagione monsonica) per il loro Sabato degli Ombrelli. Che cosa vuole, questa folla che sfida le intemperie estive e il rigore di una polizia non proprio rispettosa dei diritti civili, alla quale essa risponde peraltro nelle rime e qualche volta sopra le righe. Per dare una risposta adeguata, bisogna cominciare con il rimuove un pochino la coltre di un’antica e pesante disinformazione italica: quella che concerne la storia della colonizzazione del mondo, che non fu proprio una passeggiata e tanto meno un’impresa umanitaria di suffragette e di missionari. Nel 1840, durante quel massacro senza nome scatenato dalla sua volontà di costringere l’impero cinese ad aprire le sue frontiere all’oppio indiano importato dall’East India Company e pudicamente denominato “Guerra dell’Oppio”, Sua Maestà Britannica fra le altre cose s’impadronì dello scalo di Hong Kong, che mantenne al titolo fittizio di “affitto perpetuo”, quindi praticamente come colonia, grazie a un accordo firmato ne11898 che gli dava diritto di mantenere il suo governatorato per 99 anni. A parte la breve occupazione giapponese tra ‘41 e ‘45, tale condizione si mantenne anche in seguito; ma a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso si avviarono le trattative per la normalizzazione di quello che a noialtri occidentali sembrava uno “stato libero” incastrato nell’immensa compagine rossa. Dopo trattative estenuanti, nel 19841a premier Margaret Tatcher e il presidente Deng Xiaoping siglarono un accordo secondo il quale la Gran Bretagna accettava di restituire il territorio alla Cina nel 1997, in cambio della promessa che la Cina avrebbe concesso a Hong Kong un “alto grado di autonomia” per 50 anni, fino al 2047. Hong Kong divenne una “regione ad amministrazione speciale” della Repubblica Popolare Cinese (Rashk), ma il suo statuto prevede per il prossimo mezzo secolo il mantenimento del “precedente sistema capitalistico” con i relativi “stili di vita”, secondo una norma nota come “un paese, due sistemi”. Ora, il punto è che molti sono i cittadini della Rashk scontenti dei provvedimenti legislativi assunti dagli organi dirigenti, che a loro avviso diminuirebbero sino a vanificarle le prerogative delle quali essi dovrebbero godere e in pratica ad assoggettarli prima del tempo alla legislazione cinese. In particolare, a scatenare la protesta che ormai dura dalla primavera è stato un nuovo disegno di legge sull’estradizione proposto dal governo della Rashk che, se approvato dal suo parlamento, ridurrebbe di molto la libertà personale dei cittadini. Ai manifestanti la polizia della Rashk e in particolare le formazioni antisommossa avrebbero risposto secondo molte testimonianze con un’escalation di violenza (dai proiettili di gomma ai gas tossici), mentre altre fonti denunziano al contrario attacchi contro le forze dell’ordine, costruzione di barricate, catene di scioperi, blocchi del traffico, detenzione di armi offensive e atti diffusi di vandalismo. Al di là di questo peraltro abituale “gioco delle parti”, i manifestanti chiedono il ritiro del disegno-legge sull’estradizione, un’inchiesta indipendente sulla brutalità della polizia, il rilascio dei manifestanti arrestati, una ritrattazione della caratterizzazione ufficiale delle proteste come “rivolte” ed elezioni dirette per scegliere i membri del Consiglio legislativo e il capo dell’esecutivo. In conseguenza della situazione, molti voli da e per Hong Kong sono stati annullati. La manifestazione, ormai, da ciclica e periodica sembra essersi trasformata in permanente: e molte sono state le adesioni globali a quello che si può definire un movimento, appoggiato fino ad oggi da pubblici funzionari, insegnanti, operatori dei settori amministrativo e finanziario, ospedalieri. Il sabato 31 agosto, tredicesimo week end di protesta e quinto anniversario del giorno nel quale, nel 2014, la repubblica cinese ha annunciato un progetto di limitazione delle libertà civili, ha visto migliaia di manifestanti riversarsi ancora nelle vie cittadine: ma non sono mancate le denunzie relative alla presenza di agenti provocatori magari di opposta tendenza, da una parte cinesi interessati a far degenerare la protesta (che le autorità definiscono “sommossa”) fino a rendere necessaria un’azione repressiva dura e dall’altra emissari di potenze estranee alle repubblica popolare decisi a sviluppare quella che potrebbe diventare una rivolta eversiva. Il governo della Rashk insiste sulla legittimità delle leggi proposte, che restano a suo avviso nel quadro dello “stato di diritto”, e denunzia ingerenze straniere, mentre va detto che alcuni osservatori autorevoli hanno parlato apertamente degli Usa e dell’Unione europea. Sulla stessa linea si muove ufficialmente la risposta del governo cinese ai rilievi esposti il 30 agosto (quindi alla vigilia di una nuova giornata si tensione) dal responsabile della “politica estera” dell’Ue Federica Mogherini, la quale ha definito “preoccupante” la misura di polizia governativa consistente nell’arresto di tre manifestanti: il governo cinese replica ribadendo la legittimità del provvedimento e ipotizzando, da parte dell’esponente dell’UE, un’indebita ingerenza negli affari interni della Cina. “Il problema attuale a Hong Kong non riguarda affatto i cosiddetti diritti umani, la libertà o la democrazia, ma il sostegno dello stato di diritto e la lotta contro i crimini in conformità con la legge”, ha dichiarato al riguardo il portavoce governativo cinese. Restiamo in attesa degli sviluppi della situazione, che magari matureranno tracimando oltre i limiti degli ormai rituali (anche se d’intensità crescenti) scontri del sabato. Va da sé, e lo sappiamo bene, che la fine dello statuto transitorio della situazione che faceva di Hong Kong una “svizzera estremo-orientale” disturbi la sensibilità e gli interessi di molti; ed è comprensibile, in particolare per i giovani e gli studenti, che il passare dalla condizione di cittadini di una democrazia all’occidentale a quelli sempre più simile agli abitanti della repubblica popolare, possa non sorridere. Ma, per il resto - e stando proprio al documento prodotto dalla signora Mogherini - io che ormai abito prevalentemente a Parigi mi domando se il nostro Alto Commissario abbia mai girato per le strade della Ville Lumière in un “sabato dei Gilets Jaunes”. Avrebbe assistito a scene di arbitrio e di violenza intollerabili in un paese civile e in uno “stato di diritto”: ma anche a risposte degli organi preposti all’ordine pubblico che in fatto di gas lacrimogeni, proiettili di plastica, pestaggi ed arresti (molti i feriti gravi) non agisce in modo diverso da quanto finora sappiamo degli agenti della Rashk. Signora Mogherini, lo segnali a Monsieur Macron. In fondo, la Cina sarà anche vicina: ma noi siamo pur sempre in Europa.