Papa Francesco parla di carceri, giustizia ed ergastolo di Valter Vecellio lindro.it, 19 settembre 2019 Ogni otto ore una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Silenziato, come accadeva a Marco Pannella. Ignorato, grido soffocato, senza voce, come il celebre “Urlo” di Edvard Munch. È quanto accade a Papa Francesco: un paio di giorni fa riceve in udienza i rappresentanti dei cappellani delle carceri italiane, della polizia e del personale dell’amministrazione penitenziaria. Rivolge loro un accorato appello: essere e “costruire” speranza per quell’umanità derelitta che è rinchiusa nelle celle. ‘Messaggio’ sostanzialmente ignorato dai mezzi di comunicazione. Eppure si tratta di un ‘messaggio’ forte, meditato; non un estemporaneo, improvvisato parlare a braccio, dove qualche parola può anche, a volte, sfuggire, o essere malamente interpretato. Papa Bergoglio ha detto quello che ha detto con la precisa volontà di volerlo dire. Chiede di diventare di essere “ponti” tra il carcere e la società civile. Invita a raccogliere e ad ascoltare il silenziato grido della disperazione e della rassegnazione di tanti detenuti. Esorta a garantire “prospettive di riconciliazione e reinserimento”; ricorda che tutti e ciascuno hanno sempre e comunque diritto al rispetto della dignità; e tutti e ciascuno vale anche, ovviamente, per chi è in carcere. Tre i concetti chiavi. Il primo è un ringraziamento e un riconoscimento al lavoro nascosto, oscuro, prezioso, essenziale, della polizia penitenziaria e al personale amministrativo. Una ‘comunità’ con una grande responsabilità “spesso difficile e poco appagante, ma essenziale”, che li rende “custodi di persone”, “ponti tra il carcere e la società civile”, capaci di “retta compassione” per contrastare la paura e l’indifferenza: “So che non è facile ma quando, oltre a essere custodi della sicurezza siete presenza vicina per chi è caduto nelle reti del male, diventate costruttori di futuro: ponete le basi per una convivenza più rispettosa e dunque per una società più sicura. Grazie perché, così facendo, diventate giorno dopo giorno tessitori di giustizia e di speranza”. Il Pontefice pone poi l’accento sul rispetto delle persone: “Non dimenticatevi, per favore, del bene che potete fare ogni giorno. Il vostro comportamento, i vostri atteggiamenti, i vostri sguardi sono preziosi. Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità”. Segue poi la parte ‘politica’. Politica, ben inteso, in senso alto, non partitico, ma di chi con senso di responsabilità si pone il problema di “governare” i fenomeni e i fatti, le cose concrete: “Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, è un problema grande che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. Altri concetti chiave, con specifico riferimento all’istituto dell’ergastolo: non compromettere il diritto alla speranza, garantire prospettive di riconciliazione e di reinserimento: “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare”. Un intervento ‘alto’, di grande respiro; meriterebbe discussione, confronto, riflessione; pone l’accento su questioni urgenti che invece da troppo tempo sono lasciate irresponsabilmente incancrenire; questioni che per pavidità o incoscienza non fanno parte dell’agenda politica di questo paese, e che invece costituiscono l’epifenomeno della madre di tutte le emergenze, la Giustizia, la sua amministrazione, il suo pessimo funzionamento. Quell’uomo “venuto da quasi la fine del mondo” ha posato il suo dito su una piaga che da troppo tempo sanguina e attende di essere medicata. La risposta, finora, è stata silenzio e indifferenza. Purtroppo silenzio e indifferenza anche da parte di chi ‘naturalmentè dovrebbe levare la sua voce, e “fare”. Solo il Partito Radicale tiene alta questa bandiera sollevata in solitudine, anni fa, da Marco Pannella. Ma come si può anche solo concepire una politica e un’alternativa autenticamente riformatrice, se una questione urgente come il carcere viene ignorata? Questione, urgenze silenziate, di fatto negate, anche quando un Pontefice leva la sua voce, come un radicale qualunque… Intanto accade che ogni otto ore una persona innocente subisca ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Dal 1991 a oggi lo Stato ha speso circa 800 milioni di euro, 56 euro al minuto, come liquidazione dell’indennizzo ai malcapitati. Catanzaro, Napoli e Roma guidano la classifica delle Corti di appello nelle quali si è verificato il maggior numero di casi nel 2018. Il penoso ‘bilancio’ è stato reso noto nel corso del convegno “Errori giudiziari e ingiusta detenzione: perché non possiamo non parlarne”, svoltosi ieri a Milano e organizzato dall’Ordine degli avvocati. Nel corso dell’incontro è stato proiettato il docu-film ‘Non voltarti indietro’, realizzato da ErroriGiudiziari.com, archivio online che raccoglie circa 800 casi di errori giudiziari. Dai dati diffusi dal ministero della giustizia, nel solo 2018 sono state presentate circa mille istanze di riparazione per ingiusta detenzione, delle quali 630 sono state accolte, conducendo alla liquidazione di un indennizzo medio di 37 mila euro a persona e con una spesa complessiva di 23 milioni di euro. Dati comunque parziali. Enrico Costa, ex Ministro e parlamentare membro della Commissione giustizia della Camera, autore di una proposta di legge in materia, osserva che solo l’80 per cento dei tribunali ha fornito al ministero i dati relativi all’anno appena trascorso. Secondo Costa, su una media 50 mila misure di custodia cautelare all’anno, almeno il 20 per cento di esse non avrebbero dovuto essere state adottate. In cella non per vendetta, l’antidoto alla “polveriera”. Si ascolti il Papa di Mauro Leonardi Avvenire, 19 settembre 2019 Nella settimana - quella trascorsa - in cui quasi l’intero Paese esultava per l’ergastolo comminato a Vincenzo Paduano, Papa Francesco, nell’incontro di sabato 14 settembre in piazza San Pietro con chi opera all’interno delle carceri, ha ripetuto: “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare”. Mi sarei aspettato da questo contrasto - un ergastolo comminato e 48 ore dopo il Papa che ribadisce di essere contro l’ergastolo - la nascita di un dibattito o, quanto meno, di una riflessione: invece pare che affermazioni così forti del Pontefice e la vita procedano su binari paralleli. Eppure, non è certo la prima volta che un Papa si esprime con parole di questo tenore: si pensi al costante impegno di Giovanni Paolo II, agli incontri di Benedetto XVI in carcere, prima ancora all’attenzione di Paolo VI e, soprattutto, a Giovanni XXIII nella sua storica visita a Regina Coeli nel dicembre 1958. Mercoledì scorso Paduano era stato condannato all’ergastolo perché, ai trent’anni presi per aver ucciso e bruciato l’ex fidanzata Sara Di Pietrantonio, la Corte d’Appello aveva deciso di aggiungere altri quattro anni per stalking, cambiando così la sentenza precedente che aveva assorbito il reato di stalking in quello di omicidio. In questo modo la pena ha superato i 33 anni diventando automaticamente ergastolo. Non è vero che l’ergastolo in Italia ‘di fatto’ non esiste, come si ripete sempre. C’è, ed è di due tipi: l’ergastolo semplice, al quale se ci comporta in un certo modo possono essere applicate le procedure premiali; o quello ostativo: quest’ultimo è per esempio il carcere dei mafiosi se non divengono collaboratori di giustizia. Per i secondi uscire dal carcere solo se si è in una bara è una certezza; per i primi è una possibilità. Il Vescovo di Roma - ma non è l’unico a pensarla così - ritiene che l’ergastolo vada, in sostanza, contro il principio che in Italia è racchiuso nell’articolo 27 della Costituzione laddove proclama che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”: che rieducazione è pensabile per una persona che, almeno in linea di principio, uscirà dal carcere solo in una bara? Iniziare un dibattito civile sull’ergastolo non significa sminuire l’orrendo femminicidio di Paduano, né togliere importanza al reato di stalking: c’è solo da chiedersi perché nessuno, nell’elogiare il rigore della punizione per la tragica morte di Sara, si sia posto il problema di coniugare la certezza della pena con la richiesta di abolire l’ergastolo. A rigor di logica, chi è contro la pena di morte dovrebbe essere anche contro l’ergastolo, che lo stesso Pontefice ha più volte definito “pena di morte coperta” (come nel discorso ai penalisti, 23 ottobre 2014). Nel 1981 ci fu un referendum per l’abolizione dell’ergastolo, ma vinse il fronte del no. Da allora è stato un argomento tabù, tanto che fino a papa Francesco l’ergastolo era teoricamente presente anche in Vaticano. L’ha abolito l’attuale Pontefice il 12 luglio 2013 ribadendo che “chiude in cella la speranza”: in altre parole, con l’ergastolo, si perde una delle due finalità della carcerazione: quella di recuperare il condannato. Questa è la vera domanda che la società si deve porre. È per noi sufficiente mettere una persona nelle condizioni di ‘non nuocere più’? Quando mi capita di parlare di carceri e carcerati a volte sento dire che il colpevole ‘deve marcire in cella’. Chi parla così non coglie la differenza, profondissima, tra giustizia e vendetta. La vendetta non è una ‘giustizia eccessiva’: la vendetta è l’anti-giustizia, il combustibile che fa diventare il carcere una polveriera. “È essenziale garantire condizioni di vita decorose - ha detto Francesco -, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. Tutte le statistiche confermano che la pena di morte non fa diminuire i delitti. Che senso ha dunque tenere nel nostro ordinamento un provvedimento inefficace che fa crescere i potenziali di vendetta, perché ‘vendetta chiama vendetta’? Uno sforzo comune per affrontare il dramma carceri di Giorgio Silli* Corriere Fiorentino, 19 settembre 2019 In coincidenza della nascita di un nuovo governo e conscio dell’attenzione che il suo giornale pone a questioni di carattere nazionale rispetto al territorio in cui viviamo, vorrei far riflettere i suoi lettori su una questione che percepisco come un’urgenza non rinviabile. A prescindere dalla presenza territoriale di toscani nel governo del Paese e al netto del fatto che io continui ad essere all’opposizione dell’esecutivo, sento la necessità di condividere la volontà di preoccuparmi seriamente e sistematicamente della condizione disumana che viviamo nelle nostre carceri. Dico ‘viviamo’ perché lo Stato siamo noi e soprattutto perché la più diretta emanazione di esso sono coloro che debbono occuparsi di organizzare fisicamente uno schema di lavoro per garantire ai detenuti la dignità. Ebbene, non sono degne le condizioni in cui versano i detenuti delle nostre carceri, né quelle dei poliziotti penitenziari costretti a combattere con se stessi e con un sistema che mette a rischio persino la loro vita. Da tempo seguo attivamente con preoccupazione di questa problematica, senza pensare che una difficoltà così strutturale possa essere prerogativa dell’una o dell’altra parte politica. Pochissimi giorni fa una nuova aggressione di un detenuto nei confronti di un poliziotto penitenziario è avvenuta nella casa circondariale della città dove sono nato e cresciuto, nonché sito del mio collegio elettorale, Prato. Si tratta dell’ennesimo episodio nel giro di pochi mesi, di una spia di un disagio che, come tutti ben sappiamo, va avanti aggravandosi da molti anni: le carceri sono sovrappopolate, gli organici degli agenti penitenziari sono sotto dimensionati. Quello dei numeri è solo uno dei tantissimi aspetti che come società e classe dirigente abbiamo il dovere di affrontare per iniziare seriamente a cercare di risolvere questo dramma, ma si tratta di un punto di partenza ineluttabile. Nell’anno e mezzo in cui ho svolto le funzioni di deputato ho presentato diversi quesiti al ministero della Giustizia perché si prendesse coscienza di questo indegno dramma quotidiano. Tuttavia appare necessario che per raggiungere lo scopo il governo e l’opinione pubblica se ne facciano carico. Chiedo aiuto a Lei e ai suoi lettori per riflettere e mi metto a disposizione dei cittadini per cercare di venire a capo di questa assurdità. *Deputato di “Cambiamo!” Che forma può assumere la libertà in carcere: il lavoro e la cultura di Luca Cereda lifegate.it, 19 settembre 2019 Le pene devono tendere alla rieducazione, recita l’articolo 27 della Costituzione. I racconti dal carcere di chi da anni ci prova da anni, attraverso i filati, l’agricoltura biologica e la filosofia. Riducono la recidiva, restituiscono dignità e danno valore al tempo della pena. Questa storia ci conduce all’interno degli istituti di pena lombardi, alla scoperta dei progetti di lavoro e delle iniziative culturali per i detenuti: ancora poche, ma in crescita. In carcere la libertà può assumere forme inaspettate. Può avere il profumo dei prodotti della terra coltivati con metodi biologici o il suono delle macchine da cucire. Può raccontare e riflettere attraverso la filosofia. Le attività che i detenuti portano avanti all’interno degli istituti di pena, non sono soltanto occupazioni e lavori fini a se stessi, ma hanno l’obiettivo di essere un vero e proprio progetto sociale, e di influire sulla vita dei detenuti. Crescono infatti nelle case circondariali lombarde progetti di lavoro, formazione e cultura. Forse gocce nel mare, rispetto ai dati allarmistici sul soprannumero di detenuti nelle carceri italiane e le conseguenti difficoltà annesse. Elementi però che svolgono una funzione fondamentale per trasformare il tempo in carcere in tempo di rieducazione e dignità, così come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Alice vuole essere la possibilità per le detenute di fare di nuovo parte di un progetto: “Con queste donne, dopo un lungo percorso di formazione che dura anni, realizziamo sartoria artigianale di abiti femminili e arredi tessili - racconta Luisa Della Morte, responsabile sociale della cooperativa Alice. Gatti Galeotti e Sartoria San Vittore sono i nostri due marchi risultato delle attività svolte in carcere. Un giorno, un magistrato del tribunale di sorveglianza ci ha invitate a tessere con queste donne anche le toghe per i magistrati: oggi produciamo circa duemila toghe non solo per giudici ma anche per magistrati e avvocati”. Questo è il tipo di pena che guida verso la rieducazione i condannati. “Il nostro obiettivo - conclude Luisa - e il nostro più grande risultato è che queste donne continuino anche fuori dal carcere a collaborare con Alice, tessendo e mettendo in pratica quanto appreso all’interno dell’istituto di pena”. Azioni e attività come quelle della cooperativa Alice affrontano non solo il problema della dignità del tempo trascorso in carcere dai detenuti, ma anche quello della mancanza di possibilità di lavoro per le persone ristrette nella libertà: così facendo - in questo caso - le detenute apprendono un lavoro che, una volta scontata la pena, sia spendibile in termini di occupazione anche nel mercato del lavoro. Sartoria San Vittore - “Con queste donne, dopo un lungo percorso di formazione che dura anni, realizziamo sartoria artigianale di abiti femminili e arredi tessili”. Non solo, l’esperienza lavorativa in carcere produce un aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi, e promuove l’interazione con gli altri, la puntualità, l’affidabilità nella relazione. Il lavoro in carcere è contro la recidiva. Il lavoro in carcere è un ponte con la società, tra chi sta dentro e chi vive fuori. Ed è proprio in quest’ottica che la cooperativa cremonese Nazareth dal 2014 ha deciso di fare impresa in carcere e di farla con un’impronta sociale. La cooperativa è partita da un campo con pochi ortaggi e frutta coltivati con i metodi dell’agricoltura biologica. “Ci hanno detto che in carcere c’era una cucina dismessa ma ancora funzionante - racconta Giusi Brignoli, Responsabile dell’area produttiva della cooperativa Nazareth - e abbiamo deciso di integrare la nostra filiera produttiva con la creazione dei trasformati delle materie prime. Gli ortaggi raccolti quindi vengono portati all’interno del carcere e lì vengono lavorati dai detenuti insieme allo staff della cooperativa”. Il prodotto finale sono conserve o verdura già pronta per essere venduta. “Il lavoro agricolo conferisce una professionalità sia ai ragazzi seguiti dalla cooperativa che ai detenuti che li affiancano - continua il racconto Giusi -. La comunità agricola di Cremona inizia ad acquistare i nostri prodotti di agricoltura biologica perché quello che produciamo non ha solo un valore legato al prodotto, ma ha anche un valore sociale”. Cooperativa Nazareth - Nazareth è attiva sul territorio dal 2001. La sua attività core è sempre stata quella dei servizi educativi per minori e famiglie. Anche in questo caso il lavoro diventa un ponte tra chi sta dentro il carcere e chi sta fuori. Un ponte composto da buone pratiche, lastricato dal buon cibo biologico. Una pratica che dal carcere richiama anche la collettività ad applicare modi di produrre e consumare diversi, puliti, sani, biologici e solidali. Rieducazione la maieutica della pena - Non è solo il lavoro a restituire dignità a chi sta in carcere. Lo è anche la formazione, l’educazione, la cura dello spirito. Lo dicono i dati dell’associazione Antigone: lavoro e formazione abbattono la recidiva dell’80 per cento. In pratica, studiare, imparare un mestiere, sono solidi mattoni su cui plasmare una vita nuova una volta fuori dall’universo del carcere. La filosofa e docente Paola Saporiti, grazie all’associazione Sesta opera San Fedele, ha deciso nel 2014 di far incontrare la filosofia con il carcere per creare semi che con il tempo e la giusta cura, possano crescere e dare frutti. Da questa idea e dalla sua volontà è nato il Café Philò. “Porto avanti questa attività insieme ai miei studenti dell’ultimo anno del liceo sia nel reparto maschile che dal 2015 anche in quello femminile del carcere di Bollate - spiega la docente. Questo è un momento che stimola la riflessione degli studenti e dei detenuti su temi che sono stati oggetto dei ragionamenti dei grandi filosofi, come la felicità, l’altro, il rispetto, il successo, la scelta”. Nel momento in cui la filosofia viene riportata all’ordinarietà del quotidiano, all’interno del carcere, non solo essa ritorna alle sue origini più autentiche, ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica e formativa, manifestando il vero significato dell’articolo 27 della nostra Costituzione per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il lavoro, la formazione e la cultura, le toghe e i filati di Alice, il buon cibo biologico della cooperativa Nazareth e le riflessioni stimolate dalla filosofia consentono al carcere di non essere un luogo d’isolamento, ma di essere un ponte che rimette in contatto chi ha sbagliato e sta all’interno dell’istituto di pena con chi vive all’esterno, con la società. Pericolosi ma fuori dal carcere, il rebus dei malati non imputabili di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 settembre 2019 La domanda è sempre la stessa: affinché ci si ricordi della carenza di posti nelle “Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” aperte dopo la sacrosanta chiusura dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, bisogna proprio aspettare sempre che una persona “socialmente pericolosa”, ma “non imputabile per incapacità di intendere e volere” al momento del reato commesso (e dunque per legge incompatibile con il carcere), faccia del male a qualcuno? O che, tacitamente e illegalmente trattenuta in carcere, si suicidi? Prova a svincolarsi da questa condanna il protocollo appena sottoscritto in Corte d’appello da magistrati, avvocati, Regione e sistema penitenziario per sbloccare l’impasse delle situazioni pratiche. Con una premessa: che la Rems, avverte il giudice Simone Luerti, “sia applicata solo in caso di pericolosità sociale particolarmente elevata in rapporto a condizione clinica della persona e gravità del reato”, in modo da offrire la “migliore cura” nel rispetto “delle esigenze di sicurezza sociale”. Le poliziotte della penitenziaria alzano la voce umbriacronaca.it, 19 settembre 2019 “Servono più diritti e più rispetto, nelle carceri regna il maschilismo”. La strada per garantire ed allargare i diritti delle donne che lavorano in Polizia penitenziaria è ancora molto lunga, ma da oggi a spingere in questa direzione c’è un soggetto in più, il Coordinamento Donne di Polizia Penitenziaria della Fp Cgil. Il nuovo organismo, nazionale, formato da lavoratrici di polizia penitenziaria di tutta Italia, ha ufficialmente mosso i suoi primi passi ieri, 18 settembre, a Perugia, con il primo corso di formazione tenuto presso il centro congressi Quattro Torri. “Questo coordinamento nasce per abbattere i tanti paletti eretti dal maschilismo all’interno del nostro corpo di polizia”, ha spiegato la coordinatrice Filomena Rota. Le carceri, infatti, sono luoghi anche strutturalmente pensati per i maschi: “Abbiamo bisogno molto banalmente di bagni e servizi adatti alle donne e di caserme pensate anche per noi”, ha aggiunto Lucia Saba, agente in servizio presso la Casa circondariale di Nuoro. Ma c’è di più: “Io che faccio questo lavoro da 23 anni mi sento in dovere di difendere le giovani colleghe che entrano oggi in servizio, perché non debbano subire quello che ho subito io da giovane - ha detto Giuseppina Gambino, che lavora presso la casa circondariale di Vercelli - ovvero discriminazioni, battute sessiste e anche molestie”. “La Cgil è il primo sindacato a creare un coordinamento delle donne lavoratrici di polizia penitenziaria e siamo molto orgogliosi di questo - spiega Stefano Branchi, coordinatore nazionale della Fp Cgil Polizia Penitenziaria - Voglio quindi ringraziare tutta la Fp, a partire dalla segreteria generale Serena Sorrentino, perché quello che realizziamo oggi è qualcosa di veramente importante. Noi crediamo fermamente nel ruolo fondamentale delle donne per la democratizzazione del corpo di polizia penitenziaria e per risolvere i problemi di natura contrattuale e non che permangono. Ad esempio - conclude Branchi - è assolutamente anacronistico avere ancora una quota di assunzioni femminili così bassa. Per questo e per gli altri diritti da conquistare la Cgil vuole essere al fianco delle donne di polizia penitenziaria”. Bonafede tira dritto, ma nel governo la giustizia resta una mina di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 settembre 2019 Il ministro si concentra sulla riforma di sua competenza, ma la bocciatura della richiesta di autorizzazione all’arresto del deputato di Forza Italia rischia di ostacolarne il percorso, già difficile in partenza. Finge di non essere preoccupato, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Concentrandosi sulla riforma di sua competenza e mostrando di credere che la bocciatura della richiesta di autorizzazione all’arresto del deputato di Forza Italia Diego Sozzani non ne ostacolerà il percorso. Già di per sé irto di ostacoli, visto che si tratta di mettere d’accordo Cinque Stelle, democratici e adesso anche renziani; tutti improvvisamente schierati dalla stessa parte della barricata, dopo un anno e più trascorso su fronti opposti, sempre uno contro l’altro su uno dei temi più divisivi dell’agenda politica. Del resto, l’ordine di scuderia generale nella nuova maggioranza è rassicurare tutti che il voto di ieri “non si ripercuoterà sulla tenuta del governo”, e il Guardasigilli ha buon gioco a ripetere la stessa cosa nel settore di propria competenza. “Dopotutto non è che con la Lega le cose andassero diversamente, né molto meglio”, si diceva ieri pomeriggio nei corridoi del ministero di via Arenula; ricordando i compromessi a cui i grillini si sono dovuti sottoporre per approvare qualcosa del loro programma (anticorruzione in cambio di legittima difesa, per dirne uno) e lo stop di Salvini contro il progetto di riforma Bonafede nel momento in cui ha scelto di rompere. Ma al di là di apparenze e atteggiamenti di facciata, un problema giustizia esiste all’interno della coalizione che sostiene il Conte 2. Certo, esisteva anche l’altroieri, prima che i franchi tiratori (verosimilmente sparsi tra grillini e Pd, oltre a Leu che ha lasciato libertà di voto) smentissero le dichiarazioni di voto ufficiali dei rispettivi partiti. Tuttavia possono rappresentare un campanello d’allarme sulle future mosse di Cinque Stelle, democratici e renziani su un terreno dove la partita non è ancora cominciata. La scorsa settimana il faccia a faccia tra il ministro Bonafede e Andrea Orlando, vicesegretario del Pd nonché suo predecessore a via Arenula, è andato bene anche perché ci si è limitati a parlare di metodo di lavoro, tempi entro i quali muoversi e “orizzonti” sugli argomenti da affrontare. Il che significa capire che cosa si può salvare della riforma varata “salvo intese” dal governo Conte 1 in punto di morte, e che cosa sarà meglio accantonare. Sui meccanismi per accelerare i processi - obiettivo comune che nessuno rinnega, ovviamente - ci possono essere soluzioni condivise ma anche scelte considerate punitive e insensate dai magistrati, sulle quali il Pd vuole chiarirsi le idee. Resta però la scadenza-mannaia del 1° gennaio, quando scatterà l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, bandiera dei grillini. Il capogruppo democratico in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, vorrebbe rinviare l’entrata in vigore di quella norma, ma non sarà semplice. “Il cammino sarà in salita perché noi siamo saldamente ancorati a garanzie e diritti, mentre loro su questo sono meno attenti”, confida Bazoli. Pure lui non è d’accordo a enfatizzare le conseguenze del voto di ieri, “visto che sull’autorizzazione all’uso delle intercettazioni indirette a Sozzani avevamo divergenze dichiarate, i Cinque Stelle favorevoli e noi contrari”. Divisioni alla luce del sole, quindi. Com’è prevedibile che accada, per citare un altro aspetto del progetto Bonafede, sulle modifiche al Csm e al suo sistema elettorale. O sulle intercettazioni, dopo che il Guardasigilli, appena arrivato in via Arenula, ha bloccato la legge rinominata “bavaglio” firmata proprio da Orlando. Ma nonostante queste premesse Bonafede, unico ministro “politico” che ha mantenuto l’incarico nel Conte 2, ottimista per carattere, lavora fiducioso alla riforma che porterà ancora il suo nome. Intercettazioni negate ora Sozzani, poi il Csm: da garanzia a privilegio di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 settembre 2019 Il no della Camera si può trasformare in un precedente. Si scrive Sozzani (e vale ieri per l’indagine milanese su illeciti finanziamenti), ma si legge Csm-Palamara-Lotti, nel senso che potrà pesare sull’inchiesta perugina sulla spartizione di nomine Csm. Perché il no della Camera all’uso di 4 intercettazioni contro il deputato di Fi Diego Sozzani tratta l’analogo futuro tema dell’utilizzabilità a carico di parlamentari (come i pd Ferri e Lotti) delle conversazioni in albergo con l’indagato pm Palamara, intercettate dal captatore informatico (trojan) inoculato dalla GdF sul cellulare del pm. Per garanzie e giurisprudenza costituzionali, gli onorevoli non possono essere direttamente intercettati senza preventivo via libera del Parlamento, ma verso loro è utilizzabile l’intercettazione indiretta (cioè sull’utenza dell’interlocutore) a condizione che essa sia occasionale: “accidentale ingresso del parlamentare nell’area di ascolto” (Consulta 2007), e non trucco di gip e pm per aggirare la legge intercettando un interlocutore che già si sappia destinato a parlare con il parlamentare. Il gip milanese aveva smesso di intercettare i telefoni di Sozzani una volta divenuto deputato (salvo un caso su cui il gip aveva fatto ammenda). Ma voleva 5 sue conversazioni ambientali successive all’elezione e occasionalmente captate dal trojan installato sul telefonino di Caianiello (il ras varesino di Forza Italia che parlava con mezzo mondo) al bar, in un ristorante, o in auto: come il giorno in cui Sozzani va dal gommista, resta a piedi e si fa dare da un collaboratore un passaggio sull’auto teatro poi dell’intercettazione. Dinamica che rende ardito il voto ieri della Camera per sostenerne la non occasionalità. A meno che non si voglia ritagliare a (dis)misura di parlamentari una totale impermeabilità alle indagini. 4 anni di carcere per il furto di due bottiglie, il giudice si ribella: “pena sproporzionata” di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2019 Il Tribunale di Torino solleva la questione di costituzionalità sul caso di un uomo che rischia una lunga detenzione per aver rubato liquori in un supermercato. Almeno quattro anni di carcere per due bottiglie di liquori e qualche spintone. Un giudice ha correttamente applicato la legge, ma si è posto il dubbio se la pena fosse proporzionata. E ha deciso di investire della questione la Corte costituzionale. Tutto nasce dal processo a un torinese, R.T., italiano, arrestato il 24 aprile dopo un furto in un supermercato. Il giudice, resosi conto dell’entità della pena, si è domandato se la sanzione forse troppo “brutale e irragionevole”, non violasse alcuni articoli della Costituzione. Per questa ragione il 9 maggio il giudice Paolo Gallo del Tribunale di Torino ha sollevato delle questioni di legittimità costituzionale sul reato di “rapina impropria”, cioè quella commessa da chi ruba e poi minaccia o compie gesti violenti per scappare. Sulla colpevolezza dell’uomo non ci sono dubbi. È stato filmato dal circuito di video- sorveglianza mentre prendeva le bottiglie dal reparto degli alcolici nascondendole sotto il giaccone. Avvicinato dall’addetta che aveva visto tutto, l’uomo ha proseguito indifferente verso l’uscita, ma qui si è trovato di fronte a un uomo - un nigeriano - che ha tentato di fermarlo. Lui l’ha affrontato e “con spintoni e strattonamenti” è riuscito “a divincolarsi e darsi alla fuga”. Poi è stato bloccato dai vigilantes del supermercato. R.T. è finito in manette accusato di “rapina impropria”. “Alla stregua dei verbali sopra riportati i fatti si sono verificati in maniera pienamente conforme al paradigma normativo dell’art. 628, comma 2 codice penale”, si legge nell’ordinanza. Tuttavia il giudice fa notare alcuni aspetti critici della norma. Innanzitutto ipotizza una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” per come il reato di rapina impropria mette in rapporto l’aggressione al patrimonio e quella alla persona. Il giudice sottolinea la differenza tra la rapina propria in cui si minaccia o si compie un gesto violento prima di rubare, e quella impropria, come in questo caso. Chi compie quest’ultima inizialmente scarta la violenza, ma la compie come reazione: “Demarca - scrive il giudice - una diversa e meno grave struttura oggettiva del reato e un diverso atteggiamento soggettivo quanto a intensità del dolo e capacità a delinquere”. Sembrerebbe quindi meno grave del primo. Il magistrato si sofferma poi su un altro aspetto che sarebbe in contraddizione con l’articolo 25 comma 2 della Carta, secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Il “fatto commesso” andrebbe messo in relazione al “principio di offensività” che “implica la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi e, a monte, la necessità di distinguere, in sede di redazione delle norme penali incriminatrici, i vari fenomeni delittuosi per le loro oggettive caratteristiche di lesività o pericolosità”. Chi ha scritto quel comma del codice penale potrebbe aver sbagliato non soppesando alcune caratteristiche del reato improprio: “Qualunque sottrazione, quando sia immediatamente seguita da violenza o minaccia, ancorché lievi, è reputata dal legislatore meritevole di almeno quattro anni di reclusione”, mentre per casi simili, come il furto, sono previste pene più lievi. “Non v’è più differenza, ad esempio, se la violenza segue al furto di una costosa autovettura commesso con effrazione sulla pubblica via, ovvero segue al furto semplice di due bottiglie di liquore in un supermercato”, nota il magistrato secondo il quale questa norma è una “disposizione ‘rozza’” che sacrifica tutto “sull’altare della esemplarità sanzionatoria”. Infine, violazione più vistosa, quella dell’articolo 27, che, nel secondo comma, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: “Una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata - osserva il magistrato - dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice “ perché “gli apparirà solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali”. Per questo secondo il giudice “l’inflizione di quattro anni di reclusione più multa per la sottrazione di due bottiglie di liquore seguite da qualche strattone non può essere considerata una risposta sanzionatoria proporzionata”. La parola, ora, va ai giudici della Corte. “Aumentano le sanzioni, ma anche i cavilli. Così ne fanno le spese soltanto i poveracci” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2019 Chi ruba sta in carcere in media 250 giorni, chi fa bancarotta con frode 190. Le misure alternative sono quasi solo per il secondo. Il consigliere Sebastiano Ardita è da oggi il presidente della Commissione esecuzione pena del Csm. È stato anche direttore dell’ufficio detenuti del Dap. Concorda con la scelta del giudice torinese Paolo Gallo di rivolgersi alla Corte costituzionale perché, tra l’altro, ritiene “sproporzionata” la pena di quattro anni per “rapina impropria”? Credo possa essere una soluzione corretta in un sistema di giustizia penale bloccato tra i rigori del vecchio codice Rocco e l’inefficienza del processo e della esecuzione penale. Le norme che stabiliscono le pene e quelle attraverso cui dovrebbero applicarsi sembra che non si parlino: le prime prevedono punizioni severe, le seconde interminabili procedure per la loro applicazione e finiscono per sminuire la portata delle sentenze (come la liberazione anticipata) per non parlare di amnistie, indulti e indultini. Prendendo l’esempio del ladro di due bottiglie di liquori a Torino che rischia quattro anni di pena, l’Italia si conferma il Paese dal carcere facile per i “disgraziati” più che per delinquenti incalliti e del guanto di velluto per i colletti bianchi... Il guanto di velluto per i colletti bianchi in Italia è particolarmente più evidente che altrove: lo 0,3 per cento dei detenuti appartiene a questa categoria, mentre tutto il resto è suddiviso tra criminalità violenta o professionale e soggetti espressione del disagio sociale. Le statistiche raccolte di recente, ma riferite all’anno 2015, ci suggeriscono che la permanenza media in carcere per un furto è di 250 giorni, solo il 5% dei detenuti viene ammesso ad una misura alternativa. Mentre per una bancarotta viene ammesso alla misura alternativa il 40% dei condannati e questo fa precipitare la loro media di permanenza a 190 giorni. Peccato che per una bancarotta - si pensi al caso Parmalat - le vittime possono essere anche decine di migliaia. Per non parlare, poi, dei casi in cui per tirare fuori qualcuno dal carcere o impedire ad altri di entrare sono state proposte o varate leggi ad personam. Inoltre, quella del sistema che schiacciai delinquenti più deboli è il logico sbocco dell’esistenza di “strumenti” per modificare o eliminare le conseguenze penali, di fatto, per chi ha più mezzi economici. Se un tossicodipendente o uno straniero commette quattro reati in quattro diversi territori prenderà quattro condanne e possibilmente non avrà i mezzi per farsi riconoscere la continuazione: la differenza è drastica: dovrà scontare sette anni di cm-cere anziché averne due con la condizionale. Nella mia precedente esperienza di direttore dell’ufficio detenuti ho sperimentato un carcere fatto di disperati, mentre esso dovrebbe essere riservato solo ai soggetti pericolosi, cioè capaci di commettere altri reati e ledere beni giuridici rilevanti di singoli e della collettività. Pensa che siano da rivedere le pene per alcuni reati meno gravi? A ogni riforma non si fa altro che introdurre nuovi reati e alzare le pene di quelli esistenti. E poi siamo il Paese europeo con la più bassa applicazione di strumenti alternativi al carcere. Il nostro sistema penale è impostato su un codice che prevede la detenzione come una costante. Da qui, le incongruenze di un sistema che lavora per demolire ciò che le sentenze penali hanno stabilito. Sarebbe molto più semplice irrogare direttamente sanzioni diverse dal carcere: pene anche pecuniarie o semplicemente amministrative. Ma l’Italia è un paese “carcerocentrico”, non c’è una cultura delle misure alternative e neppure una polizia stabilmente impegnata all’esterno per i controlli quotidiani degli “affidati” e ciò comporta la sfiducia verso questo strumento. Anche Criscuoli lascia il Csm. “Pago pressioni da stato etico” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 19 settembre 2019 Il Consiglio superiore della magistratura perde un altro pezzo. Paolo Criscuoli, dopo una strenua resistenza, si è dimesso. Il capo dello Stato Sergio Mattarella gli riconosce “senso di responsabilità istituzionale”. Si era autosospeso il 4 giugno, come altri quattro membri del Csm sottoposti a procedimento disciplinare per aver partecipato, in maggio, all’incontro notturno in hotel con il magistrato Luca Palamara e i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (che ieri ha seguito Renzi in Italia Viva) per decidere la nomina del procuratore di Roma. Con Criscuoli salgono a sei i membri del Csm che hanno lasciato dopo l’esplosione dello scandalo: due sono stati sostituiti pescando i primi dei non eletti nel 2018; due nuovi membri saranno eletti il 6 ottobre; il procuratore generale della Cassazione, membro di diritto, deve ancora essere rimpiazzato; il sostituto di Criscuoli richiederà un’altra elezione suppletiva, in dicembre. Le motivazioni in una lettera Sollecitate da gran parte dell’Associazione nazionale magistrati, le dimissioni di Criscuoli (di Magistratura Indipendente, la corrente più colpita) non placano le polemiche. Criscuoli le ha motivate in una lettera dai toni tutt’altro che pacificati. Lamenta di aver ceduto alle pressioni anche se “avevo pieno diritto e anzi sentivo il dovere di continuare”, convinto “in piena coscienza di non aver mai tradito il mio mandato”. Si difende, come nell’interrogatorio reso nel procedimento disciplinare, dicendo di essere capitato per caso all’incontro con Ferri, Lotti e Palamara, rimanendo “silente e avulso dalla conversazione”. Motivi per cui gli sembrava naturale riprendere la sua funzione di consigliere del Csm. Ma ha dovuto ripensarci dopo che alcuni consiglieri hanno pubblicamente annunciato che avrebbero bloccato i lavori se egli si fosse ripresentato, con una “evidente e non dissimulata conculcazione delle mie prerogative”, per non dire delle “ulteriori e indebite iniziative anche da parte di alcuni componenti dell’Anm”, condite da “comportamenti scomposti, arbitrari, illegittimi e scorretti” per “coartare la mia coscienza”, propri di una magistratura “sensibile più alle pulsioni di uno stato etico che ai precetti di uno stato di diritto”. In attesa della conclusione dell’inchiesta di Perugia, i veleni non si prosciugano mentre il Csm riapre i dossier sulle nomine nelle Procure. Oggi si riparte da Torino con quattro candidati in pole position: Borgna, Loreto, Ferrando e Vitello. No al pc portatile in carcere se il difensore non dimostra l’assenza di strumenti alternativi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 18 settembre 2019 n. 38609. Non è affatto scontato l’accesso del difensore - munito di computer - al colloquio in carcere con il suo assistito. Ma non è neanche vietato, perché può essere autorizzato. Ciò che rileva è l’impossibilità di utilizzare mezzi alternativi all’uso di un pc portatile e questa va dimostrata. Sono quindi fondamentali le motivazioni addotte dal legale - che chiede di poter introdurre in carcere lo strumento informatico - a sostegno delle esigenze di una piena difesa della persona sottoposta alla misura restrittiva della libertà. Motivazioni giustificative che, per la loro genericità, evidentemente non sussistevano o non è stato possibile per i giudici apprezzare nel caso concreto di cui si è occupata la Cassazione penale con la sentenza n. 38609 depositata ieri. I giudici di legittimità confermavano il divieto opposto all’introduzione dello strumento informatico proprio per tale carenza motivazionale dell’istanza presentata dal difensore e rigettata. La richiesta respinta - Non è stata sufficiente la generica formulazione di dover consultare insieme al proprio cliente il “corposo fascicolo processuale” per predisporre una ponderata e condivisa memoria difensiva per garantire una concreta affermazione delle ragioni della parte sottoposta a processo. Riteneva il ricorrente di aver diritto a portare con sé il computer e anche al fine di evitare la disparità di mezzi e strumentazione tra difesa e accusa. Nessuna delle norme su cui si fonda il ricorso di fatto vieta tale eventualità, ma il rischio che la connessione a internet o i dati contenuti nel portatile siano materiale cui non deve avere accesso la persona sottoposta a misura cautelare sono ragioni sufficienti a obbligare il difensore a spiegare - ad esempio - perché non gli è possibile copiare su una pen drive il fascicolo da consultare. Motivazione valida potrebbe essere l’assenza di pc su cui leggerla in carcere. L’indebita compensazione non si estende ai contributi di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2019 Il reato di indebita compensazione scatta soltanto se i tributi omessi riguardano le imposte dirette e l’Iva, non potendosi estendere anche agli inadempimenti di contributi previdenziali e assistenziali. A fornire questo importante principio è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 38042 del 13 settembre 2019 che rivisita il precedente orientamento di legittimità. Nel caso specifico, un Tribunale del riesame, in un procedimento penale per vari reati tributari, annullava il sequestro preventivo disposto dal gip solo con riferimento al delitto di indebita compensazione di imposte. Secondo il collegio territoriale, il delitto in questione riguarda esclusivamente le indebite compensazioni alle quali consegue l’omesso versamento delle imposte sui redditi e l’Iva e non, come nella specie, dei contributi previdenziali e assistenziali. Si ricorda che l’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000, punisce chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione, in base all’articolo 17 del Dlgs 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti superiore a 50mila euro annui. La Procura ricorreva per Cassazione lamentando un’errata applicazione della norma, in quanto l’articolo 10-quater, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, è riferibile a tutte le indebite compensazioni senza distinzioni fra debiti fiscali e di diversa natura. Tale interpretazione si basa sul tenore letterale della fattispecie la quale fa riferimento alle “somme dovute” transitate nell’apposito “modello F24”. A rafforzare la tesi, secondo la ricostruzione del pm sarebbe recentemente intervenuta anche la Corte costituzionale (ordinanza 35 del 2018) secondo cui il titolo della legge (che fa espresso riferimento alle sole imposte dirette e l’Iva) non risulterebbe vincolante per l’interprete, dovendosi invece valorizzare il richiamo all’articolo 17 del Dlgs 241/1997 che disciplina le compensazioni con il modello F24. La Cassazione ha respinto il ricorso con una motivazione molto approfondita e del tutto condivisibile. Secondo i giudici, occorre una lettura tesa a valorizzare la collocazione del reato nel relativo decreto il cui titolo fa espresso riferimento alla disciplina dei soli reati in materia di imposte dirette e Iva. Ne consegue che il riferimento all’articolo 17 riguarda tutti i crediti idonei alla compensazione, ma l’omesso versamento delle somme dovute deve riferirsi alle sole imposte sui redditi e Iva e non ad altro di cui l’intero testo normativo non si occupa. La sentenza riconosce che la medesima sezione della Corte ha ritenuto penalmente rilevante anche l’omesso versamento di contributi previdenziali ed assistenziali attraverso indebite compensazioni, ma tale interpretazione non appare condivisibile stante il titolo del decreto sui reati tributari. In merito al pronunciamento della Corte costituzionale, i giudici di legittimità evidenziano che in realtà la Consulta si è limitata a enunciare l’orientamento di legittimità in materia, senza spingersi oltre la sua mera descrizione con i conseguenti effetti. Il principio fornito dalla sentenza è pienamente condivisibile in quanto risulta abbastanza singolare che in un testo normativo volto a disciplinare (a seguito di specifica legge delega) i reati in materia di imposte dirette e Iva possano essere sanzionati gli omessi versamenti contributivi attraverso compensazione. Non a caso, il delitto in esame (10-quater), nel testo normativo, segue l’omesso versamento delle ritenute (10-bis) e dell’Iva (10-ter): il legislatore dell’epoca, infatti, ha inteso criminalizzare tutte le modalità di mancata corresponsione di tali imposte, anche, in ultima analisi, mediante compensazione. Confisca, la banca mutuante in buona fede conserva il privilegio sulla vendita di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 18 settembre 2019 n. 38608. La confisca di un immobile gravato da un mutuo fondiario (per 200mila euro, con ipoteca per 422mila), a seguito della commissione di reati tributari da parte del mutuatario (sentenza patteggiata), non pregiudica il credito della banca che abbia agito in “buona fede” e con “affidamento incolpevole”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38608 di ieri, accogliendo (con rinvio) il ricorso di Italfondiario, quale cessionario di Intesa Sanpaolo, contro l’ordinanza del Gip che invece gli aveva negato il diritto di partecipare in via privilegiata alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita dell’immobile. Per il Giudice dell’esecuzione la documentazione presentata dalla società non comprovava la buona fede della banca, “non essendo stato provato quale procedura sia stata seguita per la erogazione del credito, se standardizzata o meno, quali fossero i tempi e le modalità di gestione della pratica creditizia, quali fossero stati i controlli esegui sulla persona e sul reddito del debitore e quale sia stata la valutazione tecnica di stima dell’immobile rispetto al patrimonio del debitore e al valore erogato”. Una lettura bocciata dalla Terza Sezione penale secondo cui la decisione “non ha chiarito, in concreto, quali elementi si siano rivelati idonei a escludere la buona fede e l’affidamento incolpevole dell’istituto bancario”. All’epoca della stipula del mutuo (2008), infatti, prosegue la decisione, “non vi era alcuna evidenza di procedimenti penali a carico dell’imputata”, essendo iniziati soltanto nel 2011, ovvero tre anni dopo l’operazione contrattuale. “Né - continua - risulta accertato se e in che termini la conoscenza dei reati tributari che sono poi risultati coevi alla stipula del mutuo fosse esigibile dalla Banca, non essendo noto il collegamento tra la concessione del finanziamento e delitti ascritti all’imputata, che in ogni caso sembrano riferiti alla società da lei amministrata” e rimasta estranea all’operazione contrattuale intercorsa con l’istituto bancario. Infine, anche l’importo non era tale da “rendere l’operazione sospetta” o comunque meritevole di una “procedura diversa da quella standard”, considerato che l’immobile “non presentava alcuna connotazione illecita”. In definitiva, per la Cassazione, “l’esclusione dei requisiti della buona fede e dell’affidamento incolpevole del terzo titolare del diritto reale di garanzia risulta affermata in maniera apodittica, senza un’adeguata disamina degli elementi di fatto disponibili e ritenuti eventualmente rilevanti, elementi la cui valutazione deve necessariamente essere operata in una prospettiva non astratta, ma riferita in concreto elle modalità e a la tipologia de ‘operazione contrattuale”. In particolare, ciò che risulta carente “è l’individuazione dell’impegno informativo che sarebbe stato necessario e al quale l’istituto bancario sarebbe venuto colposamente meno, dovendo la violazione del dovere di diligenza negoziale essere ancorata a parametri oggettivi e non assertivi”. Sicilia. “La difficoltà di gestione dei detenuti psichiatrici” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2019 Il Garante regionale interviene su Barcellona Pozzo di Gotto. Il suicidio del ventenne detenuto palermitano nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto ha riacceso i riflettori su un dramma che purtroppo si ripete troppo spesso. Quello del mancato funzionamento del sistema a supporto dei detenuti con patologie d’igiene mentale. Con una nota è intervenuto il Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia, Giovanni Fiandaca, sottolineando l’urgenza di un nuovo modello organizzativo. “Due drammatici eventi recenti, e cioè il suicidio per impiccagione di un giovane detenuto ventenne affetto da disturbi psichiatrici e l’aggressione al collo di un poliziotto penitenziario da parte di un altro detenuto con disturbi psichici - spiega Fiandaca - comprovano le persistenti e gravi difficoltà di gestione e funzionamento del reparto 8 che ospita la cosiddetta “articolazione per la tutela della salute mentale” del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”. Per il garante “la difficoltà di prevenire eventi del genere - sottolinea Fiandaca - è accentuata dalla perdurante mancata adozione di un modello organizzativo adeguato del reparto in questione (una bozza di modello organizzativo attende ancora sui tavoli dell’Assessorato regionale della Salute) nonché dalla insufficienza di personale, non avendo ancora il Dipartimento di salute mentale di Messina preso effettivamente in carico l’articolazione suddetta”. Il problema dei detenuti con problemi psichiatrici è tuttora irrisolto. Gli agenti penitenziari stessi ne subiscono conseguenze, non avendo per ovvie ragioni competenze specifiche per rapportarsi con loro, visto che è una peculiarità che spetta ai medici e operatori sanitari specializzati. Ma il problema, sottolineato non solo dal Garante nazionale delle persone private della libertà, ma anche dal Comitato di bioetica, è il mancato adeguamento al superamento degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). La legge delega per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 2017, e il successivo lavoro delle Commissioni ministeriali incaricate di studiare i problemi dell’assistenza psichiatrica, avevano indicato i primi interventi per superare le difficoltà: sia ribadendo la destinazione delle Rems ai prosciolti sottoposti a misura di sicurezza (e solo in via transitoria e subordinata ai condannati con disturbo mentale sopravvenuto, quando le articolazioni psichiatriche del carcere non fossero adeguate al trattamento); sia disegnando la cornice giuridica per potenziare l’assistenza psichiatrica fuori dal carcere, nella previsione della priorità del trattamento territoriale. In questa direzione, si prevedeva l’abrogazione dell’art. 148 e la modifica dell’art. 147 per consentire il differimento pena anche per sopravvenuta infermità psichica e non solo fisica, cosa però finalmente risolta non grazie all’intervento politico, ma quello della corte costituzionale. Ciò, al fine di permettere la detenzione domiciliare in luogo di cura, in carico al Dipartimento di Salute mentale. Inoltre, si introduceva una nuova modalità di affidamento in prova a finalità terapeutica (ricalcato su quello per tossicodipendenti): da applicarsi al di sotto dei 6 anni di pena, o di residuo pena. Inoltre si prevedeva di fare chiarezza su come debbano essere le articolazioni psichiatriche penitenziarie. Tuttavia, il decreto legislativo del 2 ottobre 2018 di attuazione della legge delega approvato dallo scorso governo legastellato, non comprende gran parte di queste proposte, di fatto eludendo la problematica della salute mentale. Ravenna. 29enne muore suicida in carcere, sciopero della fame dei detenuti di Federico Spadoni Corriere Romagna, 19 settembre 2019 Pensavano di averlo salvato per un soffio, strappandolo a una morte che aveva cercato annodando un lenzuolo nella cella in cui era rinchiuso dal mese scorso. Ma le condizioni del 29enne che lunedì ha tentato il suicidio nel carcere di Ravenna erano ormai disperate; all’arrivo al pronto soccorso non è passato molto prima che i medici dichiarassero il decesso, avvenuto nel corso della giornata di martedì. Ma prima ancora di sapere della morte, nella serata di lunedì la totalità dei carcerati ha deciso di fare lo “sciopero della fame”, disertando la cena. Una decisione, quella del rifiuto pacifico del vitto per una sera, presa in segno di rispetto verso il giovane che da poco aveva varcato i cancelli di “Port’Aurea”, per avere commesso una rapina impropria e avere ricevuto una denuncia per stalking. Oristano. Intervista a Paolo Mocci, Garante comunale per i diritti dei detenuti di Michele Antonio Corona arborense.it, 19 settembre 2019 Nei mesi scorsi si è risollevata l’immancabile denuncia sul sovraffollamento nelle carceri della Penisola e nel nostro territorio. Abbiamo incontrato Paolo Mocci, avvocato e Garante per i Diritti dei detenuti per capire meglio la situazione e iniziare un discorso che possa farci conoscere meglio le criticità negli Istituti di pena. In che modo possiamo comprendere il fenomeno del sovraffollamento carcerario? È necessario porre un’importante premessa per evitare, come spesso avviene, che il fenomeno possa diventare pretesto per campagne demagogiche e giustizialiste. Il Ministero di Grazia e Giustizia svolge annualmente un’indagine demografica sulla popolazione carceraria, che può essere consultata sul sito del Ministero. Nell’analizzare i dati generali (aggiornati al 31 agosto 2019) ci rendiamo conto che il numero dei detenuti nei 189 istituti italiani supera di gran lunga la capienza regolamentare: 60.741 detenuti per 50.469 posti. Pertanto, notiamo che il problema è reale. Tuttavia, se controlliamo regione per regione (e successivamente per singolo istituto) ci si rende conto che le situazioni sono estremamente differenti. Solo un esempio: mentre negli 11 istituti pugliesi sono presenti 3784 detenuti a fronte di 2319 posti regolamentari, nei 10 istituti sardi si contano 2.281 detenuti per 2.706 posti regolamentari. Per stare vicino a noi, nei dati del rilevamento risulta che il numero dei detenuti a Massama e dei posti regolamentari è di 265 per entrambi. Nella colonia penale di Isili il rapporto è 96 detenuti su 130 posti disponibili. Dunque, a livello numerico il problema è fasullo. Intende dire che bisogna saper leggere meglio i dati e andare più a fondo rispetto a una mera indagine statistico-anagrafica? Certamente. Se, da una parte, il problema numerico è una criticità costante, dall’altra non può essere considerato né l’unica né la principale piaga del sistema carcerario italiano. Forse potremmo riflettere in modo più adeguato e sistematico sullo spazio che ogni detenuto deve avere nella propria cella. La Corte Europea per i Diritti Umani, dopo la famosa sentenza Torreggiani del 2013, decretò che lo spazio vitale per ogni detenuto deve essere di 3 mq escluse le suppellettili. A molti potrebbe sembrare uno spazio poco congruo alla detenzione, quando essa è vista solo come pena detentiva. Durante il pernottamento di una settimana in una camera d’albergo come state se aprite la valigia e sistemate in modo confuso il vostro abbigliamento? Pensate cosa significa questo per una persona che deve passare in una piccola cella 20 o 30 anni o tutta la vita. In una logica giustizialista questo è scontato, in una dimensione in cui l’umanità del colpevole è al centro, non si può ammettere ciò. Molti potrebbero obbiettare che i detenuti rischiano di avere più diritti e confort delle persone libere... La detenzione, in qualsiasi ordine di cose, non è mai confortevole. Dostoevskij sosteneva che “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Questa affermazione è capitale per rendere tutti i cittadini consapevoli di cosa si viva in carcere e in modo speculare come viva la società esterna. Provocatoriamente possiamo dire che fino a che in carcere non sono garantiti i diritti necessari dei detenuti, non si può essere certi che la società libera possa essere certa di essere civile. A questo proposito, cosa si può dire della possibilità di istruzione, di crescita sociale e di formazione professionale negli istituti di pena? L’istruzione è un diritto generale e tutti, in teoria, possono frequentare un percorso didattico e scolastico e perseguire il titolo. Tuttavia, l’assetto strutturale del carcere nega continuamente il diritto per ragioni di sicurezza o di convivenza. Nella fattispecie, se due detenuti che non possono stare in una classe per ragioni pregresse e che minerebbero la serena convivenza, a uno dei due viene negata la possibilità di formarsi. Una tra le strade possibili per rimediare a questa falla, sarebbe pensare le nuove strutture con due modalità: una del Ministero di Grazia e Giustizia e una con gli obiettivi del Ministero dell’Istruzione. Per semplificare, basterebbe avere più spazi dediti alla formazione. Il discorso di fa interessante. Quali fenomeni preoccupanti combatterebbero lo studio, l’istruzione, la formazione? Il problema più grande in carcere si chiama suicidio, autolesionismo, annichilimento. La tendenza a infliggersi sofferenza fino alla morte è sempre più frequente, non solo nei detenuti ma anche nei detentori. La vita in carcere per il comparto della Polizia penitenziaria non è meno pesante di quella di chi è rinchiuso in cella. Turni massacranti e prolungati, tensioni continue, convivenza in situazioni difficili rendono la vita negli istituti di pena a rischio. Esistono dei protocolli preventivi anti-suicidio che spesso non vengono applicati, generando fenomeni violenti. Il nostro colloquio non può fermarsi qui. Tuttavia, per concludere quest’analisi, cosa potrebbe sperare per il prossimo futuro? Spero in una società che sappia leggere, voglia leggere e possa leggere. Non si tratta di sperare in cambiamenti utopici e repentini. Occorre invece uscire dal desiderio di consenso immediato a vantaggio di progetti che permettano alla società civile una presa di coscienza dei fenomeni per capire cosa sia il carcere nei suoi molteplici aspetti. Fino a che i cittadini non hanno la capacità di capire ciò che leggono, non desiderano andare a fondo sulla natura dei fenomeni e non si interrogano sulle criticità, non possiamo sperare in un cambiamento. Vasto (Ch). Casa Lavoro, l’On. Smargiassi in visita col Garante regionale dei detenuti chietitoday.it, 19 settembre 2019 “Tanto il lavoro da fare, con Cifaldi discusso su come migliorare la qualità’ della vita degli ospiti e del personale”. “Personale insufficiente e poche prospettive per il futuro per gli ospiti della Casa del Lavoro di Vasto” è questo il commento del presidente della Commissione Vigilanza di Regione Abruzzo Pietro Smargiassi (M5S) che questa mattina, con altri consiglieri regionali, ha accompagnato il professor Cifaldi, Garante dei detenuti, nella Casa Lavoro di Vasto. “È la mia terza visita in questa struttura come Consigliere Regionale. Le difficoltà sono tante, specie per il personale in servizio che opera in inferiorità numerica rispetto a quanto necessario. Tanto lavoro deve essere ancora svolto, anche se qualche nota positiva c’è, come per esempio la disponibilità della Sartoria, per anni in attesa delle autorizzazioni Ministeriali, oggi perfettamente funzionante”. “Resta il dubbio generale su questa misura di sicurezza “casa lavoro”, a Vasto come nel resto d’Italia, nella sua funzione di mezzo per il recupero dei detenuti. Uomini che dopo aver pagato la loro pena, restano in una condizione di Ergastolo Bianco (così definito), che non prevede, di fatto, una “fine pena”. Questo perché le condizioni di riscatto sono limitate e spesso possono diventare occasione per reiterare un reato facendo scattare una nuova proroga alla misura cautelare. In pratica da lì non si esce. Si dovrebbe poi ragionare sulle misure a garanzia del personale (educatori, personale amministrativo, guardie) che opera in una condizione di rischio inaccettabile. Sono uomini e donne di Stato e come tali vanno rispettati e tutelati. Abbiamo discusso e ragionato su questo il garante Cifaldi”, conclude. Ancona. Un progetto aiuta i detenuti a riabilitarsi e i cani a trovare casa di Guido Minciotti Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2019 Riabilitare i detenuti delle carceri di Ancona attraverso l’educazione cinofila e formare i cani per una successiva adozione. È la duplice finalità del progetto presentato dall’associazione no profit “Sguinzagliàti” di Senigallia e che ha vinto il bando emesso dal Comune di Ancona. Le 15 lezioni - iniziate a Montacuto mentre a ottobre partiranno a Barcaglione - prevedono una parte teorica per i detenuti con nozioni sull’addestramento dei cani; poi un focus sulla pet therapy e sulla preparazione dei cani per disabili, grazie alla collaborazione dell’associazione “Il mio Labrador” di Macerata. Infine una parte pratica: i dieci detenuti coinvolti nel progetto impareranno a educare i cani finalizzando le attività a una successiva adozione. Momenti importanti sia per il riscatto delle persone, che al termine del percorso saranno in grado di gestire un cane, leggerne i segnali di benessere o stress; sia per gli animali che dopo le attività ludiche ed educative saranno pronti per essere accolti in una casa. Treviso. Celle sovraffollate, nel carcere ci sono 70 detenuti di troppo di Mauro Favaro Il Gazzettino, 19 settembre 2019 A oggi se ne contano 211 (più della metà stranieri) a fronte dei 141 posti della struttura. Gli agenti, di contro, sono meno del previsto. Ne mancano venti: in servizio ce ne sono 145, l’organico ne prevedrebbe 165. Quest’anno non sono state registrate violenze fisiche da parte dei detenuti, ma crescono le aggressioni verbali. Lo stato di salute di Santa Bona è stato descritto ieri in occasione del 202esimo anniversario della fondazione della Polizia penitenziaria, celebrato nell’aula magna dell’istituto delle Canossiane presenti il direttore del carcere Alberto Quagliotto, il comandante Donatella Nardacchione, il prefetto Maria Rosaria Laganà e il sindaco Mario Conte. “In questa situazione cerchiamo di distribuire le persone all’interno delle celle nel modo più equilibrato - fa il punto Quagliotto poi c’è il nodo della carenza di personale. Siamo particolarmente in sofferenza sul fronte delle figure intermedie, come ispettori e sovrintendenti. Nonostante questo, riusciamo a rispondere alle necessità grazie alla professionalità degli operatori. Anche se, va detto, le aggressioni verbali sono in deciso aumento”. Negli ultimi mesi sono arrivati a Treviso cinque nuovi agenti. Non si può però abbassare la guardia. L’anno scorso ci sono stati 465 ingressi in carcere e 271 scarcerazioni. Più 461 trasferimenti in tribunale, 164 verso gli ospedali e 23 piantonamenti. Ieri Quagliotto ha ripercorso la storia della Polizia penitenziaria in Italia, sottolineando il significato del motto Despondere spem munus nostrum, garantire la speranza è il nostro compito, per tendere alla rieducazione dei condannati. “Il carcere doveva essere quasi una fucina di riparazione sociale, ma bastarono gli Anni di piombo, il crescere della criminalità organizzata, il sovraffollamento disumano e l’introduzione del 41Bis per ridimensionare questa visione e far capire a tutti che il compito a cui siamo chiamati è chiaro e facile per salottieri pensatori che il carcere non l’hanno mai visto, ma arduo e in salita per chi lo conosce mette in chiaro il direttore. Oggi siamo di chiamati a ripensare il nostro lavoro per affrontare i mutamenti della contemporaneità. C’è il sovraffollamento affrontato in modo estemporaneo. L’aumento pauroso delle persone con disagio psichiatrico, frutto innegabile di ideologiche scelte legislative. E l’ingresso prepotente di diverse nazionalità e di diverse culture, spesso indecifrabili, il più delle volte ostili alla stessa nostra visione del mondo, compreso il concetto di rieducazione”. “Il carcere testimonia lo spostamento sempre più avanti della frontiera della deresponsabilizzazione degli individui conclude Quagliotto - perché sempre più spesso nelle persone che abbiamo in custodia manca l’alfabeto di un’educazione di base, che non possiamo certo dare noi. E cresce un atteggiamento di sfida e di rivendicazione che sfocia in aggressioni fisiche e verbali e che, inevitabilmente, richiede un’attenzione particolare sul piano della sicurezza”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il carcere “scoppia”, allarme per il sovraffollamento cronachedellacampania.it, 19 settembre 2019 Oltre 200 detenuti sopra la capienza regolare, 100 unità di personale della polizia penitenziaria in meno rispetto al dovuto. Sono i numeri denunciati dal sindacato Sippe dopo la visita di una delegazione formata da Carmine Olanda. Alessandro De Pasquale, Michele Vergale e Ciro Borrelli presso il Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. “A prima vista la struttura si presenta accogliente - commenta De Pasquale - certamente ci sono diverse problematiche che abbiamo segnalato in varie occasioni, anche attraverso delle lettere importanti. Alcuni problemi sono stati risolti, mentre gli altri problemi li abbiamo segnalato ancora oggi”. “La direttrice Elisabetta Palmieri ed il comandante di Reparto Gaetano Manganelli si sono resi disponibili - spiega Ciro Borrelli - ad affrontare le problematiche che gli abbiamo segnalato, chiaramente questo istituto “come nelle altre realtà” necessita di un protocollo di intesa locale che disciplina la vita lavorativa dei poliziotti che operano nel Penitenziario”. “Abbiamo preso atto - aggiunge Michele Vergale - che la gravissima carenza di personale di Polizia Penitenzia che oggi ammonta a circa 100 unità, dato in continua crescita a causa dei prossimi pensionamenti, rende difficile tutte le attività del penitenziario. Al 31 Agosto 2019 la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere ospitava 1.020 detenuti, di cui 58 donne e 184 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 819 posti letto. Il dato è allarmante anche a livello regionale perché nei 15 istituti erano presenti complessivamente 7.577 detenuti di cui 982 stranieri, 374 donne, a fronte dei 6.157 posti letto. Per questi motivi faremo i nostri interventi presso il Ministero della Giustizia per segnalare questi dati allarmanti”. “Come sindacato - conclude Carmine Olanda - ringraziamo pubblicamente Elisabetta Palmieri ed il Comandante di Reparto Manganelli Gaetano averci ricevuto con accoglienza ed ospitalità. Apprezziamo i loro sforzi che quotidianamente affrontano per garantire la sicurezza dell’Istituto e tutti i servizi annessi per mandare avanti la struttura. Auspichiamo che i nostri successivi confronti siano dettati sempre dallo spirito di collaborazione e di rispetto reciproco. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede deve dare una risposta urgente e concreta a queste problematiche, la Polizia Penitenziaria ha bisogno di fatti non dei semplici sorrisini”. Voghera: Festa della Polizia penitenziaria, grande e partecipata cerimonia vogheranews.it, 19 settembre 2019 La Festa del Corpo. Ma anche la festa di una comunità che vive in un ambiente particolare, con problemi particolari, persino “drammatici” come è stato detto oggi, difficili e spesso rischiosi. Una comunità che, nonostante le difficoltà, al proprio interno sa dimostrare una grande vitalità, tanta passione e senso del dovere. Sono arrivati molti questo pomeriggio al Museo storico Beccari per la celebrazione della festa della Polizia Penitenziaria cittadina: agenti, autorità, ma anche tanti parenti, mogli, figli, amici, di tutti gli operatori che lavorano all’interno della Casa Circondariale di Voghera. Tutti insieme hanno dato vita ad una vera e propria festa, non solo Istituzionale ma anche ‘di famiglia’. Una festa con momenti solenni (dai discorsi delle autorità, al Silenzio suonato in ricordo degli operatori caduti, all’Inno d’Italia finale); a momenti di pura convivialità, come durante il buffet finale ricco e partecipato, consumato sotto i gazebo allestiti sul prato dell’ex Caserma di via Gramsci. Mentre fuori il plotone d’onore faceva la guardia all’ingresso del Museo, e due poliziotti penitenziari a cavallo presidiavano il viale chiuso al traffico, nel grande salone interno si sono succeduti i momenti ufficiali: con la lettura del messaggio del Capo dello Stato, del Ministro della Giustizia e del Capo del Dipartimento, nonché con i discorsi del comandante del Reparto e della direttrice. Il Commissario Coordinatore Michela Morello, nella sua allocuzione ha voluto ringraziare tutti i suoi operatori: da chi lavora nelle Sezioni dei detenuti e “svolge operazioni di sicurezza e di ordine ma anche di osservazione, la cui attività, insieme a quella di tutti gli altri operatori, punta a tracciare le linee di un trattamento sempre più personalizzato per il detenuto, con l’obiettivo del recupero alla società”; a chi ogni giorno è impegnato nei nuclei di traduzione e di piantonamento; al personale amministrativo, a tutto il resto dei collaboratori. Un ringraziamento globale e collettivo quello di Stefania Morello “per tutto ciò che ognuno ha fatto, fa, e per quello che faremo insieme”. “Non dimentichiamo che il nostro ruolo, il mio, e il vostro ruolo, è quello di concorrere al progresso materiale e spirituale della società - ha detto la neo direttrice Stefania Mussio (per lei però è un ritorno al supercarcere) -. Un ruolo che l’articolo 4 della Costituzione affida come dovere fondamentale ad ogni cittadino, ancor più se quel cittadino veste una divisa”. La direttrice ha poi elogiato “coloro che hanno forza creativa; che sono capaci di rinnovarsi, che non si arrendono alle chiacchiere, che sono capaci di ascoltare, che non reagiscono alle provocazioni ma rispondono all’ignoranza con la forza della consapevolezza”. “Con loro - ha proseguito Mussio, elogiando il ruolo che sta avendo in tutto ciò la Comandante del Reparto - vorrei costruire spazi di dignità, per permettere di utilizzare il tempo della detenzione in maniera costruttiva, riparativa, al fine di offrire alla persona detenuta, per chi la vuole, l’opportunità di intraprendere una nuova relazione sociale”. Alla festa della polizia penitenziaria di Voghera hanno ho partecipato - oltre ai rappresentanti delle forze di polizia della realtà iriense, Carabinieri, Polizia di Stato, Polfer, guardia di finanza e polizia locale… e alle associazioni - il prefetto Silvana Tizzano, il Questore Gerardo Acquaviva e le autorità cittadine. Presenti, il vicesindaco Daniele Salerno, il presidente il consiglio comunale Nicola Affronti, e gli assessori Marina Azzaretti, Simona Panigazzi, Giuseppe Carbone e Simona Virgilio. Al termine della cerimonia la festa è proseguita con le famiglie degli agenti radunate attorno al buffet allestito sul prato dei giardini di via Gramsci. Genova. L’intelligenza artificiale vuole entrare in tribunale di Luca Imperatore gnewsonline.it, 19 settembre 2019 Il 15 e il 16 novembre a palazzo San Giorgio, nel porto antico di Genova, si terrà il C1a0 Expo, rassegna internazionale sull’Intelligenza Artificiale (IA) che avrà come tema l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società del futuro. Sarà un momento di confronto tra grandi imprese del settore ma anche un’occasione per mostrare quanto l’utilizzo dell’IA sia già diffuso nella vita quotidiana. Anche il settore della Giustizia sarà interessato a questo rinnovamento. Infatti la Commissione europea per l’efficacia della giustizia (Cepej) del Consiglio d’Europa, il 4 dicembre scorso, ha emanato la Carta etica europea per l’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi di giustizia penale e nei relativi ambienti. Un documento in cui vengono individuate alcune fondamentali linee guida, a cui dovranno attenersi “i soggetti pubblici e privati responsabili del progetto e sviluppo degli strumenti e dei servizi della IA”. Ieri, nell’aula Dino Col del Tribunale di Genova, è stata firmata una convenzione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Hanno presentato il progetto Enrico Ravera, presidente del Tribunale di Genova, Domenico Pellegrini, presidente della sezione ligure dell’Anm e Giovanni Comandè, professore ordinario di Diritto privato comparato alla Scuola Superiore Sant’Anna. Grazie alla convenzione siglata verranno messi a disposizione dell’ufficio giudiziario i risultati di un’indagine tecnologica complessa e ambiziosa. “Esaminando le decisioni dei giudici genovesi, la Scuola Sant’Anna eseguirà una prima analisi delle tendenze in un periodo dato per estrarre gli orientamenti giurisprudenziali che emergono nelle materie indagate” si legge in una nota. “Si potranno così stabilire al termine della ricognizione e della rielaborazione dei dati, quali siano le soluzioni prevalenti e quali quelle minoritarie, in presenza di presupposti di fatto comuni e determinati. Questo risultato iniziale dell’indagine sarà d’interesse soprattutto per i giudici, che avranno così a disposizione dati sintetici e analitici per valutare la correttezza delle proprie decisioni, l’esistenza o meno di orientamenti dominanti per comprendere la ragione e l’eventuale incoerenza di queste ultime”. Si sottolinea come “più le decisioni dei giudici sono coerenti tra loro, più risultano prevedibili gli esiti delle cause intraprese dai cittadini. Scontate diventano così le ricadute in termini di riduzione del contenzioso e possibilità di soluzioni concordate tra le parti in causa”. Si partirà da tre casi di studio: le sentenze in materia di separazione e divorzio; quelle che quantificano i risarcimenti dei danni non patrimoniali; tra queste, specificamente, quelle di risarcimento del danno da stress e da mobbing lavorativo. Il passaggio ulteriore sarà prevedere come il giudice deciderà in presenza di situazioni identiche o analoghe a quelle analizzate. Il progetto, che per ora prevede il popolamento della banca dati delle sentenze, si prefigge di “istruire” il programma informatico all’inizio del 2020 e testare l’algoritmo prima dell’estate. “L’ambizione della Scuola Superiore Sant’Anna - afferma Comandé - è quella di esportare il progetto in altri tribunali e definire dei modelli verificabili rispetto alle esperienze di altri ordinamenti europei”. Anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, durante il Rousseau city lab svoltosi il 30 e 31 marzo a Genova, era intervenuto sul tema della digitalizzazione al servizio della giustizia: “L’intelligenza artificiale può aiutare il lavoro dei magistrati - aveva affermato il Guardasigilli. La giustizia è un settore delicato in cui l’elemento della presenza della persona, per esempio del magistrato così come degli avvocati, è imprescindibile. Ma l’intelligenza artificiale può senza dubbio dare un contributo importante, permettendo al magistrato di lavorare meglio. Le tecnologie arrivano e non possiamo scegliere di non farle arrivare: possiamo semplicemente fare in modo che la loro utilità migliori i servizi prestati al cittadino”. Pavia. Così i detenuti-attori raccontano le migrazioni sul palco di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 19 settembre 2019 I detenuti di Torre del Gallo escono dalla Casa Circondariale per offrire uno spettacolo teatrale alla città. È quanto accadrà giovedì, alle 21, al teatro Fraschini (ingresso libero) quando la compagnia teatrale USB, nata e cresciuta nel carcere pavese, porterà in scena il suo “Com’è profondo il mare”, che affronta un argomento estremamente delicato e attuale come l’immigrazione. USB sta per Uomini Senza Barriere ma è anche il nome della chiavetta da inserire nel computer che dietro le sbarre non si piò avere e che rappresenta un po’ il collegamento col mondo di fuori. È un fatto straordinario per Pavia, ma anche a livello nazionale, che un gruppo di detenuti abbia il permesso di uscire per un’iniziativa culturale. “Accade questo solo grazie ai permessi di necessità che sono stati accordati dal magistrato di sorveglianza - sottolinea la direttrice della casa circondariale Stefania D’Agostino - le nostre richieste sono state accolte: si tratta di permessi veramente speciali, concessi solo per motivi ritenuti di grande valenza. Ringrazio per questo tutta la squadra all’interno dell’Istituto, che si accolla un grande sforzo, a partire dalla polizia penitenziaria”. Sul pieno appoggio di tutti arriva la conferma anche del comandante di polizia penitenziaria Angelo Napolitano e del responsabile dell’area trattamentale Federico Traversetti. E che il lavoro del laboratorio teatrale di Torre del Gallo sia riconosciuto nella sua serietà lo testimonia anche il fatto che USB è nel coordinamento nazionale del teatri in carcere, sostenuto dal Ministero di Giustizia e dall’Università La Sapienza di Roma. Ad alimentare la Compagnia teatrale di Torre del Gallo sono da anni Vanna Jahier, garante dei diritti dei detenuti e responsabile del progetto con la sua associazione Amici della Mongolfiera, e Stefania Grossi, teatroterapeuta che ha consacrato la sua vita al teatro sociale. “Nel 2014 abbiamo avviato questa compagnia grazie a un bando provinciale sul disagio, ottenendo i finanziamenti necessari - spiega Vanna Jahier - dalla Provincia, ma anche da Fondazione Banca del Monte e Ubi Banca. Ora abbiamo invece beneficiato del progetto europeo Work in Progress e, insieme a Stefania e ai detenuti, è nato questo spettacolo”. Una decina i ragazzi del carcere saliranno sul palco insieme ad attori esterni. Dopo la prova generale ora è arrivato il momento di uscire e approdare in un teatro vero, con la musica in presa diretta di Arthur Bianchini, musicista brasiliano. Lavorando sul senso del viaggio, raccontando il fenomeno migratorio senza copioni, con una drammaturgia autoprodotta e usando anche molto il linguaggio del corpo. “Il teatro permette di scaricare tensione - dice l’educatore Filippo Ottaviani - e uscire è una sorta di ponte interno-esterno, che i detenuti vivono anche come un’occasione per offrire qualcosa di positivo alla società”. Ascoli Piceno. “Il mio campo libero”, al via il progetto sportivo nel carcere di Diana Dord picenooggi.it, 19 settembre 2019 L’inaugurazione si terrà il prossimo 5 ottobre. In arrivo un’iniziativa per favorire lo sport nelle carceri. In virtù della sensibilità umana e civica che la contraddistingue, la Casa Circondariale di Marino del Tronto invita i cittadini all’inaugurazione del progetto “Il mio campo libero - attività sportiva a sostegno della popolazione carceraria”. Si tratta di un piccolo ma significativo contributo alla costruzione di percorsi di responsabilizzazione e alla funzione rieducativa, voluta dalla Costituzione, di chi ha rotto il patto sociale. Questo nella consapevolezza che il mondo dei reclusi è anch’esso “territorio” e come tale va reso più umano. Si informa inoltre che, per accedere alla manifestazione ed entrare all’interno della Casa Circondariale di Ascoli Piceno, è necessario inoltrare alla Segreteria Provinciale del Csi Comitato di Ascoli Piceno, all’indirizzo, info@csi-ap.it, il documento di identità della persona che parteciperà all’evento, entro e non oltre le ore 17 di venerdì 20 Settembre. Ricordiamo inoltre che il giorno della manifestazione si potrà accedere solo presentando il documento di identità per la comparazione con la copia inviataci preventivamente. Aiuto al suicidio, la presidente Casellati telefona alla Consulta per fermarla di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 settembre 2019 Marco Cappato, sotto processo per aver accompagnato in Svizzera a morire Dj Fabo: “Pressione indebita, intervenga il presidente Mattarella”. La presidente del Senato precisa: “Telefonata informale”. Il M5S: “Non c’è accordo”. Oggi a Roma dalle 16,30 alle 23 grande manifestazione/concerto. “Liberi fino alla fine”, in Piazza Don Bosco, con decine di artisti, musicisti, giornalisti e personalità varie, per il diritto a scegliere come morire. “La Presidente del Senato chiama il Presidente della Corte costituzionale per bloccare la sentenza sul mio processo per l’aiuto a #djFabo??!! Ma a nome di chi?? #Pd #M5s #ForzaItalia #Lega #FdI #Leu. #piùEuropa. Qualcuno dica qualcosa”. Il tweet di Marco Cappato rompe il silenzio assordante che ha accompagnato l’annuncio di una telefonata che suona come uno scivolone istituzionale, scomposto, irriverente nei confronti dei ruoli, delle funzioni e dei poteri dello Stato. Tanto che, dopo averla annunciata martedì sera, ieri la forzista Elisabetta Casellati è stata costretta a correggere il tiro con una nota formale: “La telefonata del Presidente del Senato al Presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi sul tema dell’eutanasia, alla vigilia dell’udienza fissata dalla stessa Corte per il 24 settembre, è stata una comunicazione meramente informale sullo stato delle iniziative legislative depositate in Senato, così come concordato in sede di conferenza dei capigruppo”. In realtà al Senato solo il centrodestra preme fortemente per chiedere alla Consulta di fermare il giudizio sull’art. 580 c.p. che vieta l’aiuto al suicidio e per violazione del quale - avendo accompagnato in Svizzera dj Fabo - l’imputato Marco Cappato rischia dai 5 ai 12 anni di carcere. Il pronunciamento è atteso per il 25 settembre, giorno in cui la Corte si riunirà in camera di consiglio, dopo due giorni di udienza pubblica, allo scadere degli 11 mesi che i giudici costituzionalisti avevano concesso al Parlamento per legiferare correttamente in materia, visto che l’attuale assetto legislativo, scrivevano nell’ottobre scorso, “lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Il M5S infatti ha immediatamente puntualizzato: “La presidente del Senato si è offerta di fare una telefonata informale alla Consulta per chiedere più tempo all’Aula prima della pronuncia. La posizione del nostro gruppo però è chiara: non bisogna interferire nei lavori della Corte in modo che si possa esprimere senza ulteriori rinvii”. Al contrario, il centrodestra, dopo la chiamata alle armi della Cei, sta cercando tutte le scorciatoie possibili per scongiurare l’intervento della Consulta, asserendo che il Senato è pronto a varare in pochi giorni una legge che non ha trovato la luce in un anno. E neppure nei sei precedenti anni nei quali il ddl di iniziativa popolare, presentato con 130 mila firme dall’associazione Coscioni, è rimasto ad ammuffire in un cassetto. Forza Italia ha preparato una mozione per chiedere, spiega Lucio Malan, “di poter esercitare come Parlamento la funzione che la Costituzione gli assegna. È assurdo che prima arrivi il giudice e poi la legge”. Cappato invece lancia un appello al presidente della Repubblica: “Questa telefonata, formale o informale che sia, è una forma di abuso di potere, una pressione esercitata, su richiesta di alcuni partiti politici, dalla presidente del Senato sul massimo organo di garanzia costituzionale. Poiché il presidente della Consulta non è un esponente politico, non può difendersi pubblicamente dall’evidente attacco di non rispettare il Parlamento. A questo punto intervenga il presidente Mattarella”. Alla luce di questi avvenimenti, conclude Cappato, “il compito e la funzione della manifestazione/concerto che si terrà oggi pomeriggio a Roma - far uscire dai palazzi una questione che riguarda la libertà di tutti e di ciascuno - è ancora più cogente”. Concerto oggi a Roma È difficile trovare un precedente alla manifestazione concerto che si terrà oggi dalle 16,30 alle 23 a Roma, in piazza Don Bosco, nei giardini intitolati a Piergiorgio Welby, davanti alla chiesa che nel 2006 gli negò i funerali cattolici. Neri Marcorè conduce l’evento “Liberi fino alla fine”, organizzato dall’Associazione Luca Coscioni, con decine di artisti e personalità che animeranno il palco: Roy Paci, Nina Zilli, Pau e Mac dei Negrita, Il Muro del Canto, il dj Claudio Coccoluto, Kento + dj Fuzzten, Andrea Delogu, Giulio Golia e Giulia Innocenzi delle Iene, Selvaggia Lucarelli, Francesco Montanari, Stella Pende, dj Marc Robijn, Emanuele Vezzoli, Enrico Zambianchi e molti altri ancora. Ad accoglierli Marco Cappato e Filomena Gallo, tesoriere e segretario dell’Associazione Coscioni. Il razzismo del cretino di Luigi Manconi La Repubblica, 19 settembre 2019 Preoccupa la crescita della xenofobia, ovvero l’atteggiamento di diffidenza verso lo sconosciuto, l’ignoto, lo straniero. Domenica scorsa, durante una trasmissione sportiva di Telelombardia, l’autorevole “opinionista”, Luciano Passirani, a proposito del giocatore dell’Inter Lukaku ha detto: “Questi qua hanno qualcosa in più: questo nell’uno contro uno ti uccide, o c’hai 10 banane qui per mangiare che gliele dai, altrimenti...”. La frase solleva un profondo dilemma, come dire, di natura filosofica e antropologica: chi l’ha pronunciata è un razzista o un cretino? La risposta più convincente è che si tratti, né più né meno, di un cretino razzista. A confermarlo è proprio l’attenuante addotta da Passirani, dopo aver presentato le proprie scuse: “Da 17 anni ho una compagna marocchina. Mio figlio ha sposato una donna africana ed è padre (quindi io sono nonno) di due bambine nere”. Sempre, chi fa affermazioni ostili nei confronti di una etnia o di una minoranza, ricorre - al fine di negare, o per lo meno attenuare, la gravità di quanto detto - a quella strategia discorsiva: “Io omofobo? Ma se ho tanti amici froci!”. Una simile procedura retorica viene utilizzata come ricorrente contrappunto dialettico delle dichiarazioni che stigmatizzano o discriminano: e la seconda affermazione (“ho tanti amici…”) vorrebbe disinnescare il senso di precedenti parole e atti riprovevoli. Peraltro quel “questi qua hanno qualcosa in più...” è, nelle intenzioni, un apprezzamento che nasconde tuttavia lo stesso pregiudizio celato nella frase “gli africani hanno il ritmo nel sangue”. Anche qui il giudizio si basa su un’idea monolitica delle etnie e delle confessioni religiose. Ma è giusto caricare di una responsabilità tanto pesante quel Passirani che, alla resa dei conti, risulta addirittura simpatico nella sua drammatica goffaggine? L’universo del calcio, si sa, esprime allo stesso tempo il sublime e il sordido e, dunque, ci parla mirabilmente di noi. Di conseguenza, definire “cretino” chi fa affermazioni razziste o chi si rifiuta di affittare casa a un meridionale, e pensare così di liquidare il problema, è un errore grave. Ora, questo argomento - “è un cretino” - è correntemente usato dai commentatori di destra per ridimensionare e banalizzare le parole e gli atti di intolleranza etnica. E lo fanno in polemica con la sinistra che, a loro dire, parlerebbe di “un’Italia razzista” o sul punto di diventarlo. Ma che scemenza. Ovviamente l’Italia non è un Paese razzista. E già porre la questione in questi termini (gli italiani sono razzisti? Verona o Macerata sono razziste?), contiene una tonalità sottilmente razzistica, perché presuppone che un’intera comunità (nazione o città) possa essere omologata a una parte più o meno grande dei propri membri. Dunque, l’Italia non è affatto un Paese razzista, pur se aumenta il numero dei razzisti e degli atti di razzismo. Ciò che deve preoccupare è, piuttosto, la crescita della xenofobia, ovvero un atteggiamento, connaturato allo sviluppo della civiltà umana, di diffidenza verso lo sconosciuto, l’ignoto, lo straniero. La xenofobia non è destinata, né fatalmente, né rapidamente, a tradursi in aggressività e violenza etnica. Ma perché ciò non accada, è necessario operare in quella zona grigia, tra xenofobia e razzismo, dove il sentimento di insicurezza può diventare volontà di esclusione e di sopraffazione del diverso. Finora, in quella zona grigia, hanno operato solo gli imprenditori politici della paura; la buona politica è stata pavida, o retoricamente solidaristica. Torniamo al razzismo dei cretini. Esso non è né insignificante, né innocuo. Intanto perché esprime una tendenza del linguaggio che corrisponde a una rilassatezza del giudizio morale e a una decadenza delle relazioni sociali. E poi perché discende direttamente dalla crisi del tabù del razzismo e dall’abbrutimento del discorso pubblico. Se Calderoli afferma che le sembianze di Cecile Kyenge gli ricordano quelle di un orango tango, perché mai dovrebbe funzionare la capacità di autocontrollo nelle conversazioni e nelle controversie pubbliche? Se in Italia e in Europa si utilizza ancora il termine “ebreo” come un insulto, senza che vi sia un’adeguata risposta, come si può contrastare quell’avvelenamento del senso comune, dove l’antisemitismo popolare e clericale incontra il complottismo paranoico dei nuovi e dei vecchi fascismi? Migranti. “Roma non cercherà risse. La Ue deve garantire una politica dei rimpatri” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 19 settembre 2019 “Sulle migrazioni faremo proposte, non risse o annunci roboanti”, dice il neo ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, in visita a Strasburgo dove ha incontrato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. “In tutte le sedi europee - spiega Amendola - cercheremo di trovare soluzioni strutturali in modo condiviso e solidale al problema dei migranti. Non vogliamo blocchi contrapposti. È un lavoro di riforma di vari settori della politica europea”. Cosa significa? “In primo luogo c’è la proiezione esterna, cioè la politica estera. Non a caso il presidente Conte ha incontrato il premier libico Serraj: provare a sciogliere il nodo della Libia è cruciale. Le migrazioni sono un tema centrale anche della visita odierna del presidente Macron perché la Francia è decisiva in questo lavoro. La questione è a più livelli. C’è bisogno di un’accresciuta sensibilità dell’Europa verso l’intero continente africano. Non ci sono solo gli sbarchi. Da parte dell’Ue servono un’efficace gestione dei rimpatri e la volontà di investire politicamente ed economicamente sui Paesi di origine e di transito dei flussi. Il secondo filone riguarda vari versanti, che toccheranno sia il bilancio pluriennale dell’Ue che le strutture normative: bisognerà migliorare l’efficacia di Frontex per garantire maggior sicurezza alle frontiere. Poi, come ha detto la nuova presidente della Commissione, von der Leyen, si possono anche immaginare nuovi strumenti. Per esempio i corridoi umanitari europei, che consentirebbero in casi di emergenza proprio come la Libia, di evitare il traffico di morte dei mercanti di esseri umani”. Ma sosterrete la riforma di Dublino già votata dal Parlamento? “Il presidente Conte è stato chiaro. Siamo per una gestione ordinata del fenomeno che utilizzi tutti gli strumenti, migliorandoli quando è necessario. È ovvio che la revisione dell’accordo di Dublino è una delle nostre priorità”. Che clima ha trovato a Bruxelles al suo primo Consiglio affari generali? “Un’accoglienza molto positiva. Il governo precedente aveva scelto una linea isolazionista e il nostro orientamento di tornare a un dialogo produttivo con i partner europei viene apprezzato. C’è molto da fare. Il quadro finanziario pluriennale ha bisogno di numeri stabili e nuove soluzioni per le risorse proprie della Ue. Bisogna essere creativi nell’aprire margini di intervento migliori, sul clima e sulla disoccupazione. L’Italia deve parteciparvi con le sue proposte, ma anche dando un segnale di stabilità sul proprio impegno e lavorando per una svolta. Il quadro mondiale non è rassicurante: guerre commerciali, squilibri fra i continenti, rallentamento della crescita negli ultimi mesi. Il nostro governo deve unire i suoi sforzi a quelli della Commissione proprio nel momento in cui si discute il bilancio dei prossimi 7 anni”. Che margini reali esistono per una efficace politica della crescita? “Il riesame del Patto di Stabilità e Crescita non si fa in un paio di giorni. È un processo nell’interesse di tutti, come ha auspicato anche il presidente Mattarella. Questo avverrà nei prossimi mesi. Dobbiamo trovare strumenti originali, in termini di flessibilità e condizionalità. Ci sono fondi tradizionali, come quelli per la politica agricola o di coesione. Ma servirà trovare anche nuove risorse e soluzioni, che possano consentirci determinanti interventi. E sarà un negoziato interessante, dove si dovrà valutare l’impatto di manovre che riguardano la difesa del clima o la tassazione dei giganti del web. L’Italia non starà a guardare, vuole giocare questa partita”. E in Paolo Gentiloni troveremo un commissario all’economia comprensivo o severo? “Gentiloni è una personalità che fa onore a tutta la politica italiana. Ma è ovvio che lui è commissario nell’esecutivo europeo e si muoverà nello spirito collegiale della Commissione e non della rappresentanza italiana. Ci fa piacere che conoscendo le sue idee sulla stabilità e sulla politica della crescita, porterà argomenti forti in favore dello sviluppo”. Migranti. Riconosciuto lo status di rifugiato dopo la revoca dell’accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2019 Un ragazzo gambiano, richiedente asilo, è affetto da un disturbo schizzo-affettivo. A causa del suo disturbo si era reso protagonista di improvvisi atteggiamenti violenti, un uno dei quali aveva tentato - convinto di essere in comunicazione con Dio - di bruciare gli oggetti contenuti in una borsa presente in una stanza del centro di accoglienza. Dopo questo episodio la Prefettura gli ha revocato le misure di accoglienza, il quale nel frattempo è stato ricoverato. Il ragazzo ha avuto una vita difficile. Non ha mai conosciuto il padre, mentre la madre lo ha affidato a un’altra famiglia. Quest’ultima lo mandava a lavorare, da giovanissimo, per contribuire al loro mantenimento. Quando “gli affari” non andavano bene e la famiglia non era soddisfatta del suo lavoro, veniva brutalmente picchiato. Un giorno la famiglia aveva dovuto trovare un altro appartamento dove stare, ma per il ragazzo non c’era posto e quindi dovette arrangiarsi da solo facendosi ospitare da un suo amico, ma dopo qualche giorno ha dovuto lasciare anche quel posto perché i genitori dell’amico non lo volevano più. Era andato a vivere alla casa di un signore, il quale però beveva molto, ma soprattutto la casa era senza bagno e non poteva lavarsi. Una vita difficile, che ha contribuito alla nascita della sua patologia mentale. Malattia che in Gambia, di fatto, impatta fortemente sulle concrete condizioni di vita, impedendone l’accesso ai servizi sanitari e assistenziali, al lavoro e l’esercizio dei diritti civili e politici. Come detto, la prefettura gli ha revocato le misure di accoglienza, ma tramite il difensore ha fatto ricorso e ha vinto. Parliamo di un recentissimo provvedimento emesso dal Tribunale di Milano - Sezione Specializzata in materia di Immigrazione -, con il quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato al giovane cittadino gambiano, affetto da una grave patologia mentale. Il motivo? In Gambia le persone con problemi mentali subiscono forti discriminazioni e non vengono, di fatto, tutelati. Infatti, nella nota difensiva, la difesa sottolineava come il sistema gambiano fosse, in generale, carente sia sotto il profilo della presenza di strutture e personale, sia sotto il profilo della disponibilità di medicinali. Ma la parte interessata riguarda il settore psichiatrico che, nonostante gli inviti ricevuti dall’organizzazione mondiale della sanità e dalla comunità internazionale, il Gambia non ha ancora provveduto a modificare l Suspect Lunatic Act, una legge sulla salute mentale risalente al 1917 e dai contenuti fortemente discriminatori nei confronti dei malati mentali. Secondo le fonti consultate dalla difesa, in Gambia i malati di mente superavano le 120 mila unità. Le ricerche effettuate dal difensore evidenziavano l’assenza di medici psichiatrici specializzati e l’assoluta carenza di strutture destinate o comunque idonee alla cura dei malati mentali. Secondo le fonti citate nel ricorso, l’unica struttura ospedaliera presente in Gambia contava su un’unica infermiera specializzata nel settore psichiatrico, e due infermieri con formazione generale. A tale riquadro si aggiunge quella che è stata definita da una risposta dell’ambasciata italiana a Dakar, come una “grande percezione negativa della malattia”. Questa è confermata dalle ulteriori fonti consultate: infatti in Gambia “si riscontra la tendenza a ritenere che le persone con malattie mentali siano meno umane di loro stesse, con ciò finendo per negare loro i diritti umani fondamentali. Ciò sembrerebbe essere ulteriormente esacerbato dalle credenze culturali e all’ignoranza che circonda la malattia che è sovente ricondotta alla stregoneria”. Il Tribunale ha rilevato come la Costituzione del Gambia, pur proibendo la discriminazione e/ o lo sfruttamento delle persone con disabilità, non faccia espressamente riferimento ai tipi di disabilità tutelati né alle tipologie di servizi cui hanno diritto di accedere, rimanendo, di fatto lettera morta. Tutto questo, rileva il Giudice, si traduce in gravi violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e limitazioni ampiamente discriminatorie nell’accesso ai servizi e nell’esercizio dei diritti civili e politici. Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Milano ha ritenuto integrati i presupposti di cui all’art. 7 D.Lgs. 251/2007 per il riconoscimento dello status di rifugiato: il ricorrente appartiene a un determinato gruppo sociale, perseguitato sia dalle autorità nazionali, che non provvedono a modificare le discriminatorie disposizioni in vigore nei confronti dei malati mentali, sia dalla società maggioritaria che si rende responsabile di gravissime violazioni anche a danno dell’integrità fisica dei malati. Migranti. Tra i disperati di Lesbo, in coda per un uovo e un futuro in Europa di Pietro Del Re La Repubblica, 19 settembre 2019 È accanto alle latrine che si snoda la coda per il cibo, sulla collina dov’è stato allestito il campo profughi di Moria, che coni suoi diecimila ospiti è il più affollato e malconcio d’Europa. “Due ore d’attesa per un uovo, un pomodoro e una patata bollita”, si lamenta Mohamed, 32 anni, afgano di Herat, sbarcato la notte scorsa assieme a 194 persone dalle coste turche, che dalle spiagge di Lesbo distano meno di tre miglia marine. “Mi hanno registrato, messo una coperta in mano e detto che per me al campo non c’è posto e che devo arrangiarmi come posso”. Come lui, dall’inizio dell’anno sono già arrivati 40mila disperati, la maggior parte dall’Afghanistan e dalla Siria, gli altri dall’Iraq, dal Congo e dalla Striscia di Gaza. “Ogni giorno, sulla nostra isola approda una mezza dozzina di barconi ed è soltanto l’inizio di una nuova catastrofe migratoria”, dice Giannis Balpakakis, che la settimana scorsa per protestare contro il sovraffollamento e le pessime condizioni igieniche di Moria s’è dimesso da direttore del campo. È vero, la struttura è colma fino all’inverosimile: prevista per tremila persone ne ospita adesso diecimila, con quattro famiglie per container, la cui privacy è assicurata soltanto da un telo divisorio. Tutto ciò per colpa della nuova politica migratoria del presidente Recep Tayyip Erdogan, che da qualche mese ha reso più poroso il confine turco: da un lato, perché in questo modo spera di sollecitare il saldo dei 6 miliardi promessi dall’Europa nell’accordo del 2016, dei quali gliene sono stati versati un po’ più della metà; dall’altro per evocare la possibile sciagura che comporterebbe l’evacuazione degli oltre due milioni di rifugiati ammassati nella regione siriana di Idlib, che è ancora nelle mani delle rivolta e che dallo scorso aprile è pesantemente bombardata dall’aviazione di Mosca e del regime di Damasco. Eppure, tornata a essere il principale punto di arrivo dell’immigrazione illegale nell’Unione europea, superando Spagna e Italia, la Grecia è totalmente inadeguata ad affrontare una futura, massiccia crisi migratoria. Basti dire che Atene ha mobilitato due soli medici per i diecimila ospiti di Moria, dove si registra una doccia per 440 persone e una latrina per 83. Per fortuna, a Lesbo sono accorse anche le organizzazioni non governative, prima tra tutte Medici senza frontiere che ha aperto una clinica pediatrica fuori dal campo e una di salute mentale a pochi chilometri da li, al porto di Mitilene. L’altro dato agghiacciante è che questa nuova massa di migranti è composta per il 43% da bambini, che qui vengono morsi da scorpioni, serpenti e topi, che giocano tra escrementi umani e che patiscono la fame. Negli ultimi due mesi, quasi un centinaio è stato indirizzato verso la clinica di Msf: tre di loro avevano tentato il suicidio, e diciassette avevano compiuto gesti di autolesionismo, ferendosi con dei coltelli o strappandosi con violenza ciocche di capelli. “Sono sempre più numerosi i bambini che smettono di giocare, che hanno incubi, che hanno paura di uscire dalle loro tende e che iniziano a isolarsi dalla vita. Alcuni di loro smettono di parlare. Con il costante aumento di sovraffollamento, violenze e insicurezza nel campo, la loro situazione peggiora di giorno in giorno. Per prevenire danni permanenti, devono essere immediatamente portati via da Moria”, ci spiega Tommaso Santo, capomissione dell’organizzazione umanitaria in Grecia. Intanto, l’afgano Mohamed ha finalmente trovato un angolo dove pernottare, a pochi metri dalla recinzione del campo di Moria, in quello che chiamano il “giardino degli ulivi” o anche, usando un toponimo già tristemente noto sulle coste della Manica, la “giungla”. Al momento, sono già duemila le persone che vi hanno trovato rifugio, accampate alla meglio, senza alcuna protezione e usufruendo delle poche e malandate strutture predisposte per gli ospiti di Moria. “C’è chi sta molto peggio di lui. Qui, fuori dal campo ufficiale, giace in una tenda senza materasso una donna all’ottavo mese di gravidanza. Poco lontano, nelle sue stesse condizioni c’è un malato di cancro”, dice Maurizio Debanne, operatore di Msf che ci fa da guida in quest’inferno. “C’è poi una bimba afgana con una brutta ferita di guerra a una gamba che viene a farsi curare nella nostra clinica e che invano, da settimane, aspetta di essere evacuata sul continente o verso altri Paesi europei”. Tutto ciò avviene a pochi passi dalle splendide spiagge e dagli affollati locali di Lesbo dove ancora si divertono i molti villeggianti, per lo più nordeuropei, che riempiono gli hotel dell’isola. “Siamo ancora in piena stagione turistica, ma l’inverno è diverso: può anche nevicare e l’isola è spazzata da venti gelidi, il che in passato ha provocato vittime a Moria. Non oso immaginare quello che accadrà quest’anno tra le tende della “giungla”“, dice ancora Debanne. Fatto sta che quattro anni dopo la più grande crisi migratoria dei tempi moderni, c’è il rischio che la storia si ripeta. I migranti possono liberamente circolare per tutta Lesbo, ma sono prigionieri sull’isola. Molti di loro aspettano da più di un anno la decisione delle autorità greche e nell’attesa sono l’angoscia, l’inattività e la promiscuità a minare la loro salute mentale, soprattutto per chi fugge la guerra, la tortura o la miseria. Mohamed sembra consapevole del destino che l’aspetta. “Ma adesso sono troppo stanco per pensarci”, dice, infilando la testa sotto la coperta. Svizzera. L’estremismo dietro le sbarre di Martina Salvini Corriere del Ticino, 19 settembre 2019 Ecco come fanno gli agenti di custodia a prevenire la radicalizzazione dei detenuti - Il direttore delle carceri Laffranchini: “È un fenomeno sotto controllo, ma restiamo vigili”. “Siamo in un periodo di bel tempo, ma ci stiamo preparando al giorno in cui inizierà a piovere”. Usa una metafora legata al meteo Stefano Laffranchini, direttore delle strutture carcerarie ticinesi, per raccontare il fenomeno della radicalizzazione. Pressoché sconosciuto alle nostre latitudini, l’estremismo islamico è un problema sempre più diffuso in Europa. E non è escluso che possa un giorno interessare anche la Svizzera. Da qui è nata l’esigenza, quattro anni fa, di introdurre un corso pensato per le guardie carcerarie, in modo da fornire agli agenti gli strumenti per riconoscere tempestivamente i segnali di radicalizzazione tra i detenuti. “Il progetto è nato sulla scorta dei fatti di Parigi, Nizza e Barcellona. Il fenomeno è particolarmente avvertito nelle carceri italiane e francesi. Più in generale, negli anni ci si è accorti che il carcere può essere un luogo favorevole alla radicalizzazione”, spiega Laffanchini. “In Ticino, così come in Svizzera, non abbiamo finora notato alcun segnale preoccupante. Sintomo che anche sul nostro territorio si tratta di un fenomeno tenuto sotto controllo. Tuttavia, questo non significa che non ci toccherà mai”, prosegue. Meglio dunque prepararsi. E il progetto ticinese intende agire alla radice, cogliendo tempestivamente i segnali preoccupanti e arginandoli. Uno strumento in più - “Non è un unicum, anche il Centro svizzero di formazione del personale penitenziario si è interessato al tema e sta proponendo diversi corsi che affrontano la questione”. Il Ticino ha però preferito affidarsi alla collaborazione con un’università radicata sul territorio, collaborando con la facoltà di Teologia dell’Università della Svizzera italiana. I corsi, della durata di una giornata, si svolgono nelle strutture carcerarie. “Agli agenti vengono spiegate le peculiarità dell’islam come cultura e come religione. In più, vengono illustrate anche le esigenze spirituali dei musulmani praticanti. A questo si aggiunge tutto il lato della prevenzione: vengono cioè forniti alcuni strumenti per poter cogliere in maniera tempestiva eventuali segnali di radicalizzazione”, racconta Laffranchini. “All’interno del carcere ci siamo inoltre strutturati in una rete di osservazione per cui tutte le persone a contatto con il detenuto hanno un ruolo preciso di segnalazione, volto a combattere l’insorgere del fenomeno”. Detto altrimenti, chiunque nota qualcosa di strano segnala il comportamento sospetto, partendo proprio dagli insegnamenti acquisiti durante il corso. Una proposta che ha immediatamente incassato il sostegno delle guardie carcerarie, conferma il direttore: “In generale, gli agenti accolgono sempre positivamente tutti quegli aggiornamenti che consentano loro di gestire al meglio i detenuti, indipendentemente dal fattore religioso. Ogni lezione legata alla diversità - di qualsiasi natura essa sia - è di solito benvenuta, perché consente di avere mezzi aggiuntivi per meglio approcciarsi ai detenuti”. I segnali d’allerta - Il corso, attivo da quattro anni, si è progressivamente strutturato, permettendo al carcere di dotarsi di procedure via via più efficaci nel riconoscere eventuali segnali di radicalizzazione. Tutto parte da un comportamento insolito notato da una guardia. “Da lì - spiega il nostro interlocutore - vengono poi coinvolti tutti gli attori per capire se la sensazione è condivisa. Fondamentale è anche l’intervento del servizio medico psichiatrico, per capire cioè se un comportamento possa sfociare in estremismo”. Laddove vi sono indicazioni tangibili, scattano le misure specifiche: a dipendenza del “rischio di contagio”, il detenuto viene messo in isolamento, oppure gli viene permesso il contatto “solo con quella parte di popolazione carceraria più refrattaria a qualsiasi fenomeno di radicalizzazione”. Negli ultimi quattro anni, Laffranchini riferisce di un unico caso sospetto: “Si trattava di un detenuto che si è progressivamente isolato. Poi, con i colloqui e monitorando la situazione, abbiamo capito che si trattava di un falso allarme”. In carcere, la radicalizzazione è però solo uno degli aspetti che devono essere monitorati. “Per noi è prioritario arginare anche la creazione di bande e lottare contro la prevaricazione. Il carcere deve garantire un ambiente idoneo alla risocializzazione. Tutto quello che va contro questo obiettivo, deve essere osteggiato”, evidenzia. Le cifre - In Ticino, i detenuti musulmani sono 87, il 30% del totale. Di questi, una quarantina sono praticanti. A loro, spiega il direttore delle strutture carcerarie, “viene garantita tutta la libertà che desiderano, a patto che ciò non influenzi le attività all’ordine del giorno”. Questo perché “rientra fra i compiti del reinserimento far capire che è possibile praticare il culto, a patto che questo non contraddica le regole della società e non infranga il regolamento”. Nessun problema, dunque, se durante il periodo del Ramadan il detenuto mangia solo dopo il tramonto, l’importante è che si presenti puntualmente al lavoro il giorno dopo. Saltuariamente, soprattutto in occasione delle due festività principali islamiche, a varcare le porte del carcere è un imam che officia le due celebrazioni. “Si tratta - spiega Laffranchini - di una persona di fiducia, a cui i detenuti possono sempre rivolgersi. Proprio in virtù di questa fiducia, non esiste alcun obbligo per l’imam di tenere il sermone in italiano. Come non mi metterei mai ad ascoltare quanto un cattolico dice al prete, così non mi sogno di chiedere a un agente di presenziare alla funzione di un imam per controllare cosa viene detto. Significherebbe non garantire davvero la libertà di culto e andrebbe a vanificare quel rapporto di fiducia che si crea tra i detenuti e l’imam, ma anche tra lui e noi”. Medio Oriente. Le prove saudite e le sanzioni sconosciute: tutti contro l’Iran di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 settembre 2019 Dopo giorni di accuse a mezza bocca, Riyadh e Washington accusano Teheran. La Casa bianca annuncia nuove restrizioni finanziarie ma da sanzionare c’è rimasto ben poco. Pompeo vola a Gedda per consolare bin Salman. Le reazioni saudita e statunitense all’attacco di sabato scorso ai due impianti petroliferi dell’Aramco alla fine sono arrivate. Dopo giorni di accuse a mezza bocca, affidate a non meglio specificate fonti interne, Riyadh e Washington partono alla carica. Il “la” lo dà la monarchia presentando quella che definisce “la prova inconfutabile” del mittente dei 18 droni e i 7 missili da crociera che hanno centrato la raffineria di Abqaiq e il giacimento di Khurais: l’Iran. Dalla Repubblica islamica sarebbe partito l’attacco invisibile a tutti, alla difesa dei Saud e alle flotte occidentali nel più pattugliato degli specchi d’acqua, il Golfo persico. “L’attacco è stato lanciato da nord - dice il ministero della Difesa saudita, mostrando in conferenza stampa i resti dei missili incriminati - sicuramente sponsorizzato dall’Iran”. Non dunque da sud, dallo Yemen e dai ribelli Houthi, unici (finora) a rivendicare il colpo grosso. Gioco facile per Mohammed bin Salman, principe ereditario ma di fatto reggente della monarchia, piuttosto silente in questi giorni: impegnato a leccarsi le ferite di una bruciante umiliazione militare ed economica, forse (chissà) pegno da pagare per dimostrare la sua lealtà a Washington, ieri ha rialzato la testa chiedendo al mondo una ferrea presa di posizione anti-iraniana. Da parte sua Teheran continua a smentire: in una nota diplomatica indirizzata alla Casa bianca - tramite l’ambasciata svizzera nella capitale, suo riferimento diplomatico quando c’è da parlare con gli Stati uniti - la Repubblica islamica “enfatizza che l’Iran non ha giocato alcun ruolo”. Il presidente Rouhani ha ribadito la versione Houthi: “Gli yemeniti non hanno colpito un ospedale, una scuola o un bazar di Sana’a, ma un centro industriale. Per avvertirvi”. E, Teheran tiene a precisare, reagirà nel caso di un attacco militare. Per ora l’attacco del presidente Trump è la solita pioggia di sanzioni, anche se a questo punto, a 16 mesi dall’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare del 2015, c’è rimasto ben poco da sanzionare: dal maggio 2018 la politica statunitense verso l’Iran è uno stillicidio di punizioni economiche, finanziarie e commerciali. Quali siano le nuove sanzioni non si sa. Al momento a disposizione c’è solo un tweet di Trump in cui dice di aver “ordinato al Dipartimento del Tesoro di incrementare le sanzioni all’Iran”. Da segnalare la presenza a Riyadh del falco che gli Usa hanno per segretario di Stato: Pompeo è in visita a Gedda per discutere con MbS di “come reagire all’aggressione iraniana”, spiega una nota del Dipartimento. Al suo arrivo ha detto tutto: “È un atto di guerra”. Russia. In piazza per Ustinov, l’opposizione moscovita non si fa intimidire di Yurii Colombo Il Manifesto, 19 settembre 2019 Raccolte 1 milione e 200mile firme contro la condanna dell’attore, e ieri sit in davanti all’ufficio di presidenza di Vladimir Putin. I moscoviti ci hanno preso ormai gusto a mettere il granello di polvere della loro mobilitazione negli ingranaggi della repressione poliziesca e giudiziaria. Lunedì il 24enne attore Pavel Ustinov è stato condannato a tre anni e mezzo di detenzione per resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione non autorizzata dell’opposizione il 3 agosto scorso. In un processo-farsa Ustinov è stato accusato di aver ferito alla mano l’agente antisommossa Alexander Lyagin, causandogli “danni morali e la necessità di restare in ospedale per 20 giorni con una spalla lussata”. A nulla è valsa la difesa del giovane che ha sostenuto di non aver resistito in alcun modo all’arresto. Martedì però il caso è esploso in concomitanza con due fatti che hanno indignato l’opinione pubblica della capitale e non solo. In rete è stato diffuso un video, di cui la difesa aveva chiesto la messa agli atti durante il processo, in cui si vede chiaramente che Ustinov viene attaccato inerme da un gruppo di poliziotti e picchiato selvaggiamente provocando il sarcasmo del pubblico dei social: “Forse l’agente si era lussato la spalla a furia di menarlo” era stata la reazione più blanda. A far infuriare ancora di più l’opinione pubblica è però la notizia della scarcerazione dei calciatori Alexander Kokorin o Pavel Mamaev dopo un solo un mese di detenzione. I due erano stati condannati a 18 mesi di carcere dopo una “notte da leoni” in cui avevano messo a soqquadro, sotto l’effetto di alcool e stupefacenti, alcuni locali della capitale e pestato malcapitati avventori. Non poteva non stridere l’immagine di una Mosca ricca, volgare e impunita con quella di un giovane a cui vengono calpestati anche i minimi diritti come quello a un giusto processo. Ed è iniziato il tam tam. Sono state raccolte 1 milione e 200mila firme di protesta sulla rete nel giro di 24 ore, ma è stato solo il preludio a quanto successo ieri; dal pomeriggio, a migliaia, con striscioni e cartelli si sono radunati davanti all’ufficio di presidenza di Vladimir Putin per chiedere l’immediata liberazione di Ustinov. Il Cremlino è stato costretto a emettere un comunicato sulla vicenda goffo e imbarazzato: “Si consiglierebbe ai cittadini di attendere la sentenza di secondo grado” ha dichiarato Dmitry Peskov il portavoce personale di Putin. Ma sembra che i moscoviti abbiano ormai preso gusto a mettere alla berlina il potere e non abbiano intenzione di attendere tanto, promettendo di mobilitarsi fino alla vittoria. E anche alcuni grandi giornali indipendenti come Vedomosti e Kommersant hanno annunciato già per domani “iniziative straordinarie” a sostegno di Ustinov. Il rischio per il governo è ora di dover assistere a un altro sabato di cortei e presidi come quelli di agosto, cercherà probabilmente già nelle prossime ore di trovare una via d’uscita. Il muro contro muro e i sistemi autoritari usati contro l’opposizione nell’ultimo decennio si stanno sgretolando e mostrano la corda ma sembra che gli organi di sicurezza e la magistratura russa non abbiano cultura e tradizione per imprimere una “svolta riformista” alle politiche di ordine pubblico. Del resto sta diventando coscienza comune di non potersi arrestare al caso eclatante. “Abbiamo già una parola d’ordine “Io/Noi siamo tutto il paese”. Con ciò vogliamo affermare che tutti i casi giudiziari dei detenuti politici ora in prigione devono essere rivisti. Anche io non sapevo come andassero di preciso i processi da noi, ma purtroppo ora lo so” ha sostenuto il noto attore russo Alexander Pal, tra i primi a mobilitarsi lunedì in difesa del giovane collega. Argentina. Una legge dichiara l’emergenza alimentare fino al 2022 di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 19 settembre 2019 È stata varata dal Senato: nel Paese latino-americano è sempre più crisi. L’Argentina ha varato una legge che dichiara l’emergenza alimentare fino al 2022. L’ha approvata il Senato con i voti di entrambi gli schieramenti. Voto bipartisan. Perché la gente non mangia e ha fame e questo dramma diventa tema di campagna elettorale. Nel Paese la povertà è aumentata notevolmente in questi mesi a causa della caduta del valore del peso argentino, della contrazione dell’economia nazionale e del contemporaneo aumento del costo della vita. Proliferano le mense per poveri e le organizzazioni che aiutano la gente che non ce la fa più. Il grande paese di Evita e Perón, la seconda patria degli italiani, sprofonda in una crisi a questo punto vitale. Macri ha fatto quello che ha fatto. Male, ma qualcosa ha fatto. La partita era grossa. Sostituire Cristina, farsi stritolare dal Fmi con cui hai un debito di 57 miliardi di dollari che non sai come restituire, non era facile. Adesso la de Kirchner gongola. Il 27 ottobre ci sono le presidenziali e lei si candida in ticket come vice con Alberto Fernández, suo ex braccio destro al governo che l’aveva poi abbandonata in polemica. Il ritorno del peronismo. Macri ha poche chance di essere rieletto. I sondaggi dicono che Fernández e Cristina sono sopra di 15 punti. E così non ha altra scelta: deve dichiarare la fame. L’opposizione, il Frente de Todos che supporta Fernandez, aveva appunto presentato una legge per aumentare del 50% gli aiuti agli indigenti. Si pensava che Macri avrebbe posto il veto alla misura che arriva a ridosso delle elezioni, invece la legge è passata all’unanimità.