Provvedimento favorevole al detenuto? Allora non si esegue... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2019 Il caso di un detenuto di Perugia finisce davanti la Consulta. I magistrati di sorveglianza emanano provvedimenti e se sono positivi per i detenuti l’amministrazione penitenziaria non esegue. Questo accade soprattutto quando si tratta dei diritti dei detenuti reclusi al 41bis. Parliamo del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che si palesa ogni volta, tanto che la Corte costituzionale, nel passato, si è dovuta pronunciare stabilendo che l’amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti. Si tratta della sentenza del 7 giugno del 2013, riguardante la vicenda di un detenuto sottoposto nel carcere romano di Rebibbia nuovo complesso al regime del 41bis, il quale aveva proposto, a norma degli articoli 35 e 69 dell’ordinamento penitenziario, un reclamo innanzi al magistrato di sorveglianza, prospettando l’intervenuta lesione del proprio diritto all’informazione per effetto del provvedimento del competente Direttore generale del ministero della Giustizia, con il quale era stata sancita per i reclusi nel regime di cui sopra la preclusione della visione dei programmi irradiati dalle emittenti “Rai Sport” e “Rai Storia”. Il magistrato di sorveglianza aveva accolto il reclamo, ma l’amministrazione penitenziaria aveva deciso la via della non applicazione. La storia si ripete puntualmente fino ai giorni nostri. Ora un nuovo caso sarà sottoposto alla Corte costituzionale. Il detenuto al 41bis Alessio Attanasio, tramite il suo avvocato Maria Teresa Pintus, aveva mandato un reclamo al magistrato di sorveglianza di Perugia, il quale l’ha accolto. Ma l’amministrazione penitenziaria ha rifiutato di dare esecuzione al provvedimento autorizzativo e ciò, secondo il tribunale di sorveglianza, viola palesemente le attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Per questo il magistrato di sorveglianza ha ritenuto necessario demandare al giudizio della Corte costituzionale la risoluzione del relativo conflitto di attribuzione. Quindi, ora, la Corte dovrà nuovamente pronunciarsi su un singolo caso che riguarda l’evidente negazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Un caso, come detto, che puntualmente si ripete. Ma che fu stigmatizzato dalla famosa sentenza Torreggiani della corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte Edu aveva censurato anche la prassi italiana di non rendere “effettivo nella pratica” il reclamo, al punto da affermare che “anche ammesso che esista una via di ricorso riguardante l’esecuzione delle ordinanze dei magistrati di sorveglianza (...) non si può pretendere che un detenuto che ha ottenuto una decisione favorevole proponga ripetutamente ricorsi al fine di ottenere il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali a livello dell’Amministrazione penitenziaria”. Ciò che rende singolare la vicenda eterna sui conflitti di attribuzione è che lo Stato italiano, da un lato ritiene - nei casi di mancata esecuzione delle ordinanze - tramite il suo ministro della Giustizia, che sia possibile non ottemperare al provvedimento del magistrato di sorveglianza - dando il proprio assenso alla determinazione dell’Amministrazione penitenziaria - dall’altro ha affermato innanzi alla Corte di Strasburgo che “il procedimento davanti al magistrato di sorveglianza costituisce un rimedio pienamente giudiziario, all’esito del quale l’autorità adita può prescrivere all’Amministrazione penitenziaria misure obbligatorie volte a migliorare le condizioni detentive della persona interessata”. Un conflitto eterno, ma evidentemente le sentenze della Corte costituzionale non bastano per mettere la parola fine. La discontinuità che il carcere si merita di Stefano Anastasia Il Manifesto, 18 settembre 2019 Significa riprendere la strada segnata dalla Costituzione, non solo nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone detenute, ma anche nella offerta di opportunità di reinserimento sociale dei condannati. Completata la squadra, il secondo governo Conte prende il largo. Di molte cose si è discusso nei giorni scorsi, riguardo alla “compatibilità” programmatica tra Pd e 5 Stelle, lambendo i temi di politica della giustizia più presenti nel dibattito pubblico, come la riforma del processo penale e quella del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura. Non altrettanta attenzione, come sempre, è stata invece prestata al mondo del carcere e dell’esecuzione penale, oggetto di specifici interventi solo grazie alla penna e all’intelligenza di Franco Corleone e Giovanni Fiandaca. La preoccupazione diffusa è che l’assenza di impegni in materia celi una sostanziale continuità con i quattordici mesi passati. Quattordici mesi in cui la popolazione detenuta è cresciuta insieme con i suicidi e gli atti di autolesionismo. Quattordici mesi in cui il clima di paura e di tensione alimentato all’esterno si è specchiato in una chiusura del sistema penitenziario e in una conflittualità sempre maggiore all’interno delle carceri. Insomma, gli infausti propositi di chi intendeva “buttare la chiave” per far “marcire in galera” i detenuti hanno segnato l’ambiente penitenziario, non solo accompagnando la crescita della popolazione detenuta, ma anche generando una significativa e preoccupante conflittualità tra detenuti e polizia penitenziaria. Discontinuità, in carcere, significa riprendere la strada segnata dalla Costituzione, non solo nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone detenute, ma anche nella offerta di opportunità di reinserimento sociale dei condannati. Discontinuità significa riprendere il modello costituzionale della inclusione sociale e abbandonare quello della esclusione, fondato - appunto - sulla criminalizzazione della marginalità sociale, sull’uso populista del diritto e della giustizia penale, sulla centralità e la chiusura del carcere rispetto alle prospettive del reinserimento sociale dei condannati. Discontinuità è dare credito alle parole con cui papa Francesco ha voluto accogliere il personale di polizia penitenziaria sabato scorso: “garantire condizioni di vita decorose” e “mai privare del diritto di ricominciare”, fino a riconoscere che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Non sappiamo se la nuova maggioranza sarà capace di produrre questa necessaria discontinuità, e immaginiamo quanto può essere gravoso farlo per chi anche ieri ha avuto la responsabilità dell’indirizzo politico di governo in materia. Ma le alternative restano queste: inclusione o esclusione sociale? Centralità del carcere o sua extrema ratio? Su questo aspettiamo alla prova dei fatti la nuova maggioranza e, in particolare, il Movimento 5 Stelle, da cui ci si attende l’abbandono degli slogan (la certezza della pena, il principio di legalità, e altri vieti slogan come se l’esecuzione penale esterna non sia anch’essa una forma di pena sancita dalla legge), e la fatale scoperta che la giustizia penale non produce giustizia sociale, ma - se va bene - il corrispettivo di specifiche prevaricazioni e violenze e magari un po’ di prevenzione. La giustizia sociale marcia per altre strade, e merita di essere offerta anche agli autori di reato, che spesso lo sono perché anch’esse vittime, appunto, dell’ingiustizia sociale. Dei contenuti della discontinuità necessaria alle politiche penali e penitenziarie discuteremo i prossimi 4 e 5 ottobre a Milano, nell’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, aperta alla partecipazione e al contributo di operatori e volontari interessati a un nuovo percorso di riforma del sistema penale e penitenziario. Speriamo che già da questa prossima occasione possa avviarsi un confronto nuovo con il nuovo Governo e con la nuova maggioranza. Diritto alla speranza, anche in carcere di Vittoria Terenzi Città Nuova, 18 settembre 2019 Incontro del Papa Francesco con una rappresentanza dei cappellani delle carceri italiane e delle associazioni di volontariato, assieme a polizia e personale dell’amministrazione penitenziaria. Francesco invita a diventare “costruttori di futuro” e di “ponti” tra il mondo dei reclusi e la società civile. “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13,3). Speranza e compassione nelle parole di papa Francesco che, pochi giorni dopo l’annuncio del prossimo viaggio in Tailandia e in Giappone, è tornato a parlare delle carceri. Ancora una volta, risuona il suo invito a mettere al centro la sacralità della persona e a individuare percorsi di recupero sociale e umano per i detenuti; a creare un ambiente in cui possa crescere la speranza in un domani diverso, riconciliato, cercando di risolvere anche il problema del sovraffollamento che alimenta la stanchezza e la sfiducia. Diritto alla speranza, diritto di ricominciare: “l’ergastolo - dice il Papa - non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare!”. Un discorso che si articola attraverso tre parole: “grazie”, “avanti” e “coraggio”. Il suo “grazie” è indirizzato alla polizia penitenziaria e al personale amministrativo riuniti in piazza S. Pietro per un’udienza speciale. “Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma come un sostegno a chi è debole”, dice il papa invitandoli a essere non solo custodi della sicurezza, ma presenza accanto a chi ha sbagliato aiutandolo a rialzarsi diventando, in tal modo, “tessitori di giustizia e di speranza”. Quindi, l’appello ad essere “custodi” dell’altro, senza mai dimenticare tutto il bene che si può fare quotidianamente in modo silenzioso e nascosto, ma prezioso per l’individuo e per la società. “Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità”, aggiunge. “Siete così chiamati a essere ponti tra il carcere e la società civile: col vostro servizio, esercitando una retta compassione, potete scavalcare le paure reciproche e il dramma dell’indifferenza”. Papa Francesco li incoraggia anche ad essere sostegno l’uno per l’altro, per riuscire ad affrontare gravi problemi come quello del sovraffollamento delle carceri: “Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. La seconda parola è rivolta ai cappellani, alle religiose, ai religiosi e ai volontari: “avanti”. Avanti, per portare la Parola del Vangelo dove più ce ne è bisogno; avanti con un cuore che ascolta; avanti “quando vi caricate dei pesi altrui e li portate nella preghiera” o “quando, a contatto con le povertà che incontrate, vedete le vostre stesse povertà”. Avanti, perché la missione è offrire consolazione, non lasciare solo nessuno. La consegna è quella di essere seminatori pazienti della Parola, cercatori instancabili di ciò che è perduto, annunciatori della certezza che ognuno è prezioso agli occhi di Dio. La terza parola è invece indirizzata ai detenuti: “coraggio”. Una parola che deriva da “cuore”. Coraggio perché “Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,20). Da Lui, infatti, viene la speranza nel perdono che dà la forza per andare avanti: “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi”. C’è un futuro di speranza, sempre, afferma il papa, ed è compito di tutti tenere accesa questa fiammella: “Sta ad ogni società alimentarla, fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. Carceri, i dirigenti penitenziari attendono la riforma di Lia Faldini L’Opinione, 18 settembre 2019 Non si può attendere oltre. È arrivato il tempo di una riforma del mondo carcerario. Lo chiede a gran voce l’Associazione dirigenti di polizia penitenziaria. “Il nuovo governo - scrive in una nota la segretaria nazionale Daniela Caputo - non ci abbandoni: migliaia di donne e uomini in uniforme attendono una importantissima revisione degli schemi organizzativi delle forze di polizia, militari e civili. Si è lavorato un anno per trovare una sintesi tra le amministrazioni di polizia coinvolte e un equilibrio interno alle amministrazioni interessate. Le risorse sono stanziate e si rischia che vadano perse”. La Caputo, rivolgendosi al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, chiede “di portare a compimento, entro il 30 settembre 2019, termine ultimo, inesorabilmente vicino, per l’esercizio della delega da parte del governo, il progetto a cui da tempo si lavora nell’ambito dell’ufficio di coordinamento delle forze di polizia del ministero dell’Interno”. Per la segretaria, “lasciare spirare quel termine senza assumere determinazioni sarebbe un brutto segnale di disattenzione del governo Conte bis nei confronti di migliaia di donne e uomini che presidiano quotidianamente la sicurezza dei cittadini”. Assistenza in carcere, infermieri in prima linea quotidianosanita.it, 18 settembre 2019 Sileri: “Un problema di nicchia su cui bisogna accendere i riflettori”. Voluta dal Viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, si è svolta a Roma una tavola rotonda con gli infermieri membri della sezione infermieristica della Simpse-Onlus. “Il problema carceri e sanità mi è sempre stato a cuore: sono nicchie su cui è necessario accendere i riflettori”. A dirlo è il Viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, che ha promosso, assieme alla senatrice Bruna Piarulli, della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, una tavola rotonda con la partecipazione degli infermieri membri della sezione Infermieristica della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simpse-Onlus). “Manca personale - ha proseguito Sileri - e al centro della nostra agenda, dell’agenda di Governo, dovremo stilare un cronoprogramma che si occupi delle emergenze: carenza di medici e infermieri, retribuzioni, carceri, salute mentale, territorio. Ad esempio, per le carceri è fondamentale organizzare ciò che poi c’è fuori per una vera riabilitazione e per un’assistenza a tutte quelle problematiche che sono subentrate con la detenzione”. “Il carcere è ambito fortemente patogeno - ha detto la senatrice Piarulli - e il rischio di salute è maggiore dell’ambiente extracarcerario: dipendenze, infezioni, patologie psichiatriche, cronicità. I detenuti fanno parte a tutti gli effetti del Snn, ma spesso chi li assiste non sono figure omogenee all’interno delle strutture come dovrebbero essere. C’è un disallineamento nel rapporto giuridico ed economico e c’è necessità di avere all’interno dei carceri dotazioni organiche precise”. Durante la tavola rotonda, Pierpaolo Pateri, presidente dell’Opi di Cagliari e in rappresentanza della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, ha sottolineato che se in generale, l’infermiere è l’unica figura professionale che, occupandosi di assistenza, quotidianamente entra in contatto con il detenuto, è anche quello che corre quotidianamente il rischio nello svolgimento del proprio lavoro: non sempre l’assistito è persona tranquilla con il quale è possibile effettuare un percorso assistenziale senza problemi e spesso l’infermiere è minacciato dal detenuto con lo scopo di ricevere farmaci non prescritti. “È fondamentale - ha sottolineato Pateri - avere una preparazione adeguata nell’affrontare un contesto lavorativo come quello presente all’interno dei penitenziari, per salvaguardare se stessi e soprattutto, cosa più difficile, per erogare un’assistenza sanitaria, e in particolare infermieristica, adeguata. Da questo punto di vista sono insufficienti gli strumenti per realizzare una formazione adatta”. Pateri ha anche annunciato la decisione della Fnopi di riattivare il tavolo tecnico della Federazione per approfondire tematiche peculiari dell’assistenza infermieristica all’interno delle comunità confinate, ma non solo, individuare criticità e fornire elementi utili agli organi nazionali e al Comitato centrale della Federazione per formulare proposte operative ma anche promuovere confronto continuo tra operatori sul piano nazionale col coinvolgimento Opi, diffondere le buone pratiche e studiare possibili soluzioni a criticità evidenziate. Da un’analisi effettuata nel 2015 proprio dalla Società italiana di Medicina Penitenziaria e Sanità Penitenziaria (Simpse-Onlus), su una popolazione di riferimento di quasi 100.000 detenuti transitati nelle carceri italiane, circa la metà non sapeva di essere malato; nel 60-80% dei casi era presente almeno una patologia e almeno due persone su tre erano malate, come ha rilevato nel 2015 Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe-Onlus, consulente infettivologo della Casa circondariale di Sassari e direttore malattie infettive università di Sassari. Nell’ambito della sanità penitenziaria le competenze infermieristiche sono di natura tecnico specialistica, organizzativo-gestionale e relazionale-comunicative proprie del profilo dell’infermiere e devono integrarsi con l’interfaccia organizzativa del ministero di Giustizia e il rispetto delle esigenze di sicurezza degli istituti penitenziari. In questo senso gli infermieri della Simpse identificano sei aree specifiche di competenza: 1. rispetto dei diritti dei soggetti detenuti, riflessioni deontologiche e considerazioni etiche, transculturalità, educazione sanitaria del detenuto e gestione del counselling; 2. valutazione del profilo epidemiologico e della domanda di salute dei detenuti e analisi delle situazioni prevalenti che in penitenziario richiedono l’intervento infermieristico; 3. gestione della assistenza infermieristica nel contesto penitenziario, in relazione alla legislazione penitenziaria e alla normativa sanitaria vigente; 4. integrazione interprofessionale, abilità di mediazione e cooperazione; 5. definizione delle opportunità di cura da parte del SSN e di percorsi assistenziali negli ambiti d’intervento di promozione, prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione; 6.gestione delle terapie farmacologiche, con particolare riferimento a farmaci sostitutivi e gestione di terapie per salute pubblica comunitaria, medicina interna, odontoiatria, cardiologia, malattie infettive, oncologia. In queste il ruolo dell’infermiere potrebbe manifestarsi nel programmare e garantire una corretta presa in carico del detenuto; garantire le fasi del processo assistenziale; garantire processi assistenziali applicando i principi legislativi che regolano l’ambito penitenziario; programmare e gestire l’assistenza in un contesto multiculturale; gestire problematiche assistenziali peculiari della popolazione detenuta; programmare e gestire interventi di tipo educativo e relazionale; definire e applicare le norme in materia di igiene ambientale, valutare e gestire situazioni di sanità pubblica e igiene ambientale nel contesto specifico degli istituti penitenziari; gestire le situazioni di urgenza e di emergenza, ed eventi critici. Per sottolineare l’importanza dell’assistenza infermieristica in questi ambienti confinati, Pateri ha ricordato alcuni articoli del nuovo Codice deontologico che ben illustrano la volontà di prendersi cura. All’articolo 3, infatti, il Codice prevede che l’Infermiere cura e si prende cura della persona assistita, nel rispetto della dignità, della libertà, dell’eguaglianza, delle sue scelte di vita e concezione di salute e benessere, senza alcuna distinzione sociale, di genere, di orientamento della sessualità, etnica, religiosa e culturale. Si astiene da ogni forma di discriminazione e colpevolizzazione nei confronti di tutti coloro che incontra nel suo operare. Ed è essenziale accanto a questo la prescrizione dell’articolo 4: “Nell’agire professionale l’Infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. Si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono coinvolgendo, con il consenso dell’interessato, le sue figure di riferimento, nonché le altre figure professionali e istituzionali. Il tempo di relazione è tempo di cura”. Il tutto, visti gli argomenti affrontati e le soluzioni possibili, supportato dall’articolo 7 dove si stabilisce, appunto, che l’Infermiere promuove la cultura della salute favorendo stili di vita sani e la tutela ambientale nell’ottica dei determinanti della salute, della riduzione delle disuguaglianze e progettando specifici interventi educativi e informativi a singoli, gruppi e collettività. “Anche confinate ovviamente”, ha sottolineato Pateri. L’interesse pubblico esclude la ricettazione per il giornalista di Patrizia Macciocchi Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 38277/2019. L’interesse ad informare la collettività, può scriminare il giornalista dal reato di ricettazione. Partendo da questo principio, adottato sulla scia della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, la Cassazione (sentenza 38277) ha annullato con rinvio la condanna per ricettazione a carico di Nuzzi e Belpietro per aver acquisito un Cd rom con telefonate illecitamente registrate. La condanna, a 10 mesi e 20 giorni di reclusione, è relativa al processo perla campagna diffamatoria che sarebbe stata ordita e finanziata nove anni fa dal patron dei supermercati Esselunga Bernardo Caprotti, morto nel 2016, ai danni della concorrente Coop Lombardia. Per i giudici, i giornalisti erano consapevoli della provenienza illecita delle notizie pubblicate, che si sono rivelate vere. L’appello bis dovrà appurare se la campagna di “Libero” apportasse un contributo a un dibattito pubblico su un tema di interesse generale. La Cassazione ricorda che la Cedu, ha affermato che la scriminate del diritto di cronaca può essere configurata non solo per i reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche per quelli compiuti per procacciarsela. Gli strumenti finalizzati alla telemedicina non sono soggetti a misure cautelari di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2019 Corte di cassazione - sezione III penale - Sentenza 17 settembre 2019 n. 38485. Non sono soggetti a misura cautelare gli strumenti rinvenuti in un centro medico che hanno la sola finalità di raccogliere i dati del paziente, la patologia da cui sono affetti e un preventivo della cura. Questo il contenuto della sentenza della Cassazione di ieri n. 38485/19. La Corte si è trovata alle prese con un centro in Roma presso il centro commerciale Cinecittà 2 non propriamente medico in cui erano presenti strumenti elettronici e un’infermiera. Come si era espresso il Tribunale. Nel grado precedente era stata eccepita l’incompetenza di quest’ultima a gestire mezzi elettronici accostati al mondo medico. E, quindi, anche in funzione di ciò il tribunale si era espresso per il sequestro. Niente di più sbagliato, sottolinea la Corte, secondo cui la funzione dell’infermiera era assolutamente paragonabile a quella di una segretaria, perché doveva aiutare i pazienti a inserire nei computer dati e ricevere preventivi. Tutti gli interventi, non venivano effettuati presso questo centro ma in un centro medico vero e proprio ubicato in altra zona della Capitale. Si tratta di quella che la Cassazione ha definito telemedicina, assolutamente legittima e che in nessun caso prevede la misura cautelare sui mezzi che servono a raccogliere dati dei pazienti. Secondo la giurisprudenza di Cassazione, ai fini dell’integrazione del reato (nel caso non avere apposita autorizzazione regionale) è necessario che nella struttura avente una finalità imprenditoriale e non meramente libero professionale, siano erogate in assenza di autorizzazione, prestazioni tipicamente sanitarie quali - a titolo meramente esemplificativo -, quelle relative alla somministrazione di farmaci, all’assistenza medica e infermieristica o relative alla medicina estetica e dermatologica. In definitiva il requisito fondamentale è che all’interno della struttura siano compiuti atti aventi una rilevanza medica. Non rientrano, invece, in questa categoria gli atti il cui svolgimento sia scevro da una qualsivoglia attività organizzativa oppure gli atti nei quali è lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici che egli successivamente trasferirà al personale sanitario tramite l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi Ipotesi falso in bilancio, ok al sequestro del pc dei vertici della banca di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17 settembre 2019 n. 38456. A seguito di una segnalazione di Bankitalia, per un’ipotesi di falso in bilancio, sono legittimi i decreti del Pm che dispongono la perquisizione e il sequestro di computer e pen drive dei vertici della banca. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38456 di ieri, respingendo i ricorsi del Presidente del Cda, del Direttore centrale crediti, del direttore generale e del Risk manager della Banca di Pisa e Fornacette Credito Cooperativo. Secondo l’ipotesi accusatoria, le false comunicazioni sociali, riguardanti il bilancio 2016, erano avvenute mediante la cessione infragruppo, a favore della controllata Sigest, del residuo patrimonio immobiliare della Banca e attraverso la rivitalizzazione di crediti, inizialmente portati a sofferenza verso cinque creditori. Il management, e la banca stessa, hanno proposto ricorso contro la misura giudicata “sproporzionata” rispetto all’accusa. La V Sezione, per prima cosa, ricorda che “l’art. 244, comma 2, c.p.p. prevede la possibilità di adottare, riguardo ai rilievi ed alle operazioni tecniche da effettuare in relazione a Sistemi informatici o telematici, misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originari e ad impedirne l’alterazione”. E “l’art. 247, comma 1 bis, c.p.p. prevede analoghi accorgimenti, nel consentire la perquisizione di un sistema informatico o telematico, anche se protetto da misure di sicurezza, quando vi è fondato motivo di ritenere che in ess si trovino dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti a reato analoga possibilità di perquisizione è riconosciuta alla polizia Giudiziaria dall’art. 352, comma 1-bis, c.p.p.”. Riguardo invece alla supposta sproporzione della misura, la Suprema corte afferma che “l’ordinanza impugnata ha dato conto dell’impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri e meno invasivi strumenti cautelari, sulla base della valutazione della complessiva vicenda e, segnatamente, rilevando le difficoltà operative e tecniche di procedere ad una perquisizione mirata di dati relativi ad accertamenti complessi, riguardanti più parti (banca e diversi creditori, nonché rapporti infragruppo, con la controllata Sigest) e l’acquisizione di documentazione contabile, anche di natura tecnica, relativa al confezionamento del bilancio”. Una misura dunque conforme al consolidato orientamento della Cassazione per cui “in tema di acquisizione della prova, l’autorità giudiziaria, ai fine di esaminare un’ampia massa di dati i cui contenuti sono potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre il sequestro dai contenuti molto estesi”. “Il sequestro probatorio, infatti, può coprire il singolo apparato, il dato Informatico in sé, ovvero il medesimo dato quale mero “recipiente” di informazioni”. Del resto, conclude la Corte, i ricorrenti non hanno neppure dedotto quale sia “l’interesse leso”, mentre esso deve essere “concreto ed attuale, specifico ed oggettivamente valutabile, sulla base di elementi univocamente indicativi della lesione di interessi primari (quali quello alla riservatezza o al segreto), conseguenti all’indisponibilità temporanea delle informazioni contenute nei documenti informatici sottoposti a sequestro”. Piemonte. Viaggio nelle carceri: carenze strutturali e poco personale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2019 Sempre più pressanti problematiche strutturali per ciascuno dei 13 istituti penitenziari piemontesi. Ma anche altre criticità come la mancanza di personale di direzione, di comando, di custodia, educativo, sanitario, scolastico, di interpretariato e mediazione culturale, o la scarsa valorizzazione del volontariato o, ancora, la complessiva cattiva qualità della vita in carcere, che si ripercuote su chi in carcere vive, operatori e ristretti, con conseguenze spesso drammatiche. Questo è ciò che emerge dalla relazione annuale di Bruno Mellano, il garante della regione Piemonte delle persone private della libertà. Martedì scorso, durante l’ottava seduta del nuovo consiglio regionale, il garante ha avuto la possibilità di raccontare e fotografare non solo un anno di lavoro e impegno, ma un iter lungo, al momento cinque anni, fatto di collaborazione con Amministrazione penitenziaria, assessorati ed Enti, per far sì che il carcere e l’espiazione della pena rispondano ai dettami costituzionali in ottica rieducativa e non meramente afflittiva. Un dato positivo che emerge è il fatto che il Piemonte è l’unica regione con un o una garante comunale per ogni città sede di carcere. Tredici, in quanto a Torino sono presenti la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” e l’Istituto penale per Minori “Ferrante Aporti” e con una presenza femminile maggioritaria, il 67% per cento. Ricordando gli ambiti d’intervento e monitoraggio del proprio ruolo a tutela della dignità umana, in collaborazione con l’Ufficio del Garante nazionale e i singoli garanti comunali, ha evidenziato come i luoghi e i modi della privazione della libertà in Piemonte scontino “una situazione difficile, anche per chi vi lavora”. In merito all’esecuzione penale, oggi i numeri parlano di un “sovraffollamento strutturale”, sia a livello nazionale che regionale. “Sono oltre 4.700 i detenuti nelle 13 carceri piemontesi, un dato in aumento negli ultimi dieci anni che si avvicina ai livelli di guardia del 2010 quando le persone ristrette erano oltre 5.000. In Italia superano le 60.000 unità, per una capienza dichiarata, secondo le statistiche ufficiali, pari a circa 50.500 posti. Questo numero non tiene conto delle chiusure parziali, o dell’inagibilità di alcune sezioni o padiglioni, portando la capienza effettiva a circa 47.500”. Dalla relazione, infatti, si evincono diverse criticità su questo punto. Rappresentativi i casi della Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba (su 142 posti 109 non sono disponibili perché una parte dell’Istituto è ancora chiusa da inizio 2016 a seguito di un’epidemia di legionellosi), o degli istituti di Cuneo dove “un intero padiglione è chiuso per restauro da dieci anni” e Vercelli “dove per avviare i lavori di restauro c’è voluto l’intervento dell’Asl”. Un’esecuzione penale e una popolazione ristretta quella piemontese che vedono “crescere il numero di detenuti attenzionati in regime particolare per affiliazione alla ‘ndrangheta e alla mafia. Sono due gli istituti in regione, Cuneo e Novara, con il regime del 41bis (il cosiddetto carcere duro), così come due sono le sezioni negli istituti con presenza femminile, Torino e Vercelli, per complessive 170 donne recluse (circa 134 a Torino). Sempre nel capoluogo è presente il “Ferrante Aporti”, che ospita una quarantina di minori reclusi, nonché l’Icam, Istituto di custodia attenuata per madri, con a oggi presenti 11 mamme e 13 bambini”. Non solo le criticità nella relazione, ma anche gli aspetti virtuosi, come “la formazione, o il lavoro, intesi quali elementi di vita all’interno del carcere ed elementi trattamentali imprescindibili”. Alcuni esempi messi in campo dalla regione e dagli enti nazionali e locali sono i diversi protocolli d’intesa sottoscritti. Come quello del marzo scorso quando il Garante ha aderito al “Protocollo per l’attivazione di uno Sportello di orientamento legale del detenuto presso gli istituti penitenziari di Cuneo, Fossano, Saluzzo”, sottoscritto il dall’Ordine degli avvocati di Cuneo, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, la Camera penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Suicidio in carcere, interviene il Garante dei detenuti Gazzetta del Sud, 18 settembre 2019 “Serve un nuovo modello organizzativo”. “Due drammatici eventi recenti, e cioè il suicidio per impiccagione di un giovane detenuto ventenne affetto da disturbi psichiatrici e l’aggressione al collo di un poliziotto penitenziario da parte di un altro detenuto con disturbi psichici, comprovano le persistenti e gravi difficoltà di gestione e funzionamento del reparto 8 che ospita la cosiddetta “articolazione per la tutela della salute mentale” del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”. Lo sottolinea in una nota il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca. “La difficoltà di prevenire eventi del genere - sottolinea Fiandaca - è accentuata dalla perdurante mancata adozione di un modello organizzativo adeguato del reparto in questione (una bozza di modello organizzativo attende ancora sui tavoli dell’Assessorato regionale della Salute) nonché dalla insufficienza di personale, non avendo ancora il Dipartimento di salute mentale di Messina preso effettivamente in carico l’articolazione suddetta”. Fiandaca sollecita, pertanto, tutte le autorità competenti a provvedere nel più breve tempo possibile “a disporre tutti i provvedimenti e le misure necessarie per assicurare un funzionamento dell’A.T.S.M. di Barcellona Pozzo di Gotto conforme a esigenze di efficacia operativa e preventiva”. Padre Insana: “Il problema è il sistema, non la carenza di personale” Il suicidio del ventenne detenuto palermitano nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto ha riacceso i riflettori su un dramma che purtroppo si ripete troppo spesso. Padre Pippo Insana, da sempre in prima linea su questo problema, esprime la sua chiara posizione: “Non funziona il sistema a supporto dei detenuti con patologie d’igiene mentale. Non è un problema di carenza di personale, ma di organizzazione delle giornate, per chi come il ragazzo palermitano, tossicodipendente in carcere per rapina, avrebbe bisogno di un’assistenza diversa, non solo di un’osservazione sterile. Serve dare stimoli, superare la noia e favorire la socializzazione ed il reinserimento perché troppo spesso la convivenza nello stesso reparto non fa che esasperare le singole patologie, con le conseguenze a cui assistiamo troppo spesso, aggressioni al personale ed episodi di autolesionismo, che portano anche al suicidio. Se non si cambia sistema e non si riempiono le giornate dei detenuti con problemi di salute mentale questa catena non si potrà spezzare”. Venezia. “Giudecca carcere modello, ma se non si investe chiuderà” Il Gazzettino, 18 settembre 2019 “Lo dico provocatoriamente: o si investe su questa struttura o va chiusa. E sarebbe un grosso peccato”. L’appello al ministro pentastellato della Giustizia, Alfonso Bonafede, lo firma Giuseppe Moretti, presidente nazionale dell’Uspp, l’unione dei sindacati della polizia penitenziaria ieri mattina in vista al carcere femminile della Giudecca, dopo che venerdì la tappa del tour dei sindacati aveva toccato l’istituto di Santa Maria Maggiore. A sentire il numero uno dell’unione dei sindacati di polizia penitenziaria la maggiore criticità del carcere della Giudecca è la struttura stessa. “Bellissima, del 1.400” la definisce Moretti “ma proprio per questo soggetta al tempo. Manca una portineria adeguata, l’automazione dei sistemi che permetterebbe di migliorare le condizioni di lavoro degli agenti in servizio. E mancano soprattutto gli alloggi per il personale”. Nella loro visita i rappresentanti dell’Uspp (con Moretti anche il segretario regionale Leo Angiulli e il segretario provinciale Umberto Carrano) hanno portato alla luce il caso di quattro agenti che lavorano a Venezia ma dormono a Padova (“Per entrare in servizio alle 14, partono alle 10”, la denuncia) e di altri tre colleghi alloggiati in una struttura della guardia di finanza. “Le caserme interne ed esterne non sono più sufficienti, si potrebbe ristrutturare la palazzina dell’ex Sat (Sezione attenuata tossicodipendenti) - è la proposta di Moretti - chiusa da tempo e con cui si risolverebbe il problema alloggio. Investire sul carcere della Giudecca è la strada migliore, quella per cui ci rivolgiamo al ministro”. Chiamato a risolvere pure la “mancanza di continuità nella gestione”. Anche perché il penitenziario femminile veneziano è considerato all’avanguardia sotto certi punti di vista, soprattutto per il coinvolgimento delle detenute e la presenza dell’Icam, la sezione dedicata alle madri recluse a cui è concesso di vivere con i figli piccoli. “Qui c’è una lavanderia che serve molti alberghi, c’è un rapporto numerico detenuti-agenti ottimo - conclude Moretti - sarebbe un peccato non si risolvesse la situazione”. Forlì. “Fuori luogo”, boutique con abiti creati dalle detenute gnewsonline.it, 18 settembre 2019 Si chiama “Fuori luogo” ma in realtà il nuovo negozio aperto nell’ambito del progetto “Laboratorio sartoriale” si trova proprio nel posto-simbolo giusto: a Forlì in via Regnoli, 52, una delle 452 social street italiane i cui residenti promuovono pratiche di buon vicinato e di condivisione. Promosso dalla cooperativa sociale Formula Solidale in collaborazione col Soroptimist Club, “Fuori luogo” vende abiti e altre creazioni di otto donne, tre delle quali detenute nella casa circondariale di Forlì e le altre in condizioni di svantaggio. 4Più che un negozio di abbigliamento è una specie di un concept store della creatività eco sostenibile made in carcere. Pareti variopinte, materiali e tessuti innovativi o riciclati, atmosfera accogliente e la possibilità di curiosare con calma alla ricerca di abiti, accessori, magliette, borse e vintage d’autore. La sperimentazione comprende anche un modo nuovo di coinvolgere le donne nel progetto sartoriale mettendole nelle condizioni di realizzare capi tutti diversi, che rispecchiano la loro sensibilità. “L’apertura di Fuori luogo è il frutto di un lavoro che dura da diversi anni - ha dichiarato Palma Mercurio, direttrice del carcere. Ora la città può toccare con mano il risultato finale. Dare gli strumenti a queste donne è fondamentale per il loro reinserimento”. Nel negozio si possono trovare anche articoli realizzati da donne detenute degli istituti penitenziari di Genova e Venezia. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Un defibrillatore in palestra nel carcere di Maria Gabriella Romano gnewsonline.it, 18 settembre 2019 Antonio Mirra, sindaco di Santa Maria Capua Vetere, ha consegnato un defibrillatore a Elisabetta Palmieri, direttrice della casa circondariale della cittadina campana. Clemente Russo, pugile campione olimpionico delle Fiamme Azzurre noto con il soprannome di Tatanka, e Tommaso Rossano, tecnico della sezione pugilato del gruppo sportivo, erano presenti alla cerimonia di consegna del prezioso salvavita che si è svolta nella sala della Giunta comunale. Il defibrillatore verrà sistemato nella palestra delle Fiamme Azzurre inaugurata nel maggio scorso presso il carcere. Clemente Russo ha tenuto a precisare che “la consegna del defibrillatore da parte del sindaco Mirra è al carcere di Santa Maria Capua Vetere e precisamente alla struttura sportiva, la casa della boxe delle Fiamme Azzurre dove ci alleniamo”. “Piano piano - prosegue l’atleta medaglia d’argento tra i pesi massimi alle Olimpiadi di Pechino 2008 e Londra 2012 - cercheremo di aprire le porte non solo ai dipendenti della struttura, ma anche ai giovani atleti del settore giovanile delle Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria e al pubblico”. Il tecnico Tommaso Rossano ha sottolineato il rapporto che lega lo sport delle Fiamme Azzurre, gli istituti detentivi/riabilitativi e la scelta della città di Santa Maria Capua Vetere. “Abbiamo individuato questa struttura - ha spiegato Rossano - che già fa parte della nostra amministrazione. Per noi è fondamentale coltivare il rapporto tra gruppo sportivo e il personale che opera negli istituti penitenziari. Sul binomio Polizia Penitenziaria-sport intendiamo investire perché a noi offre la possibilità di stare accanto ai nostri colleghi e a loro dà la chance di allenarsi al nostro fianco. Un’esperienza che vale tanto”. Verona. “Montorio, muffa nei pasti ai detenuti”. Imputati assolti di Laura Tedesco Corriere di Verona, 18 settembre 2019 “Il fatto non sussiste”. Cibo scadente ai detenuti di Montorio: nessun colpo di scena ieri al processo davanti al giudice Camilla Cognetti che, dopo la richiesta di assoluzione formulata a luglio dal pm, ha effettivamente visto cadere le accuse contestate agli imputati. L’ipotesi di reato era frode nelle pubbliche forniture: dalla Procura vennero indagati il rappresentante della ditta che gestiva la fornitura del cibo e le due responsabili di una delle ditte a cui è subappaltato il servizio. La frode si sarebbe consumata dall’ottobre 2012 all’ottobre 2013: ma in aula, a raccontare tutt’altra verità, erano stati due imputati, ovvero i responsabili di una delle ditte subappaltanti, Michela e Savino Tiraboschi, rispettivamente legale rappresentante e gestore di fatto della Ortobergamo srl. Stando all’accusa, avrebbero “fornito beni in cattivo stato di conservazione e alterati, con muffa, marci, inadatti al consumo, da qualificare in più occasione come materiali di scarto e difformi per qualità dal contratto di fornitura”. Otto detenuti, al processo si erano costituiti parte civile, chiedendo i danni. Alle scorse udienze, tra i vari testimoni, spiccavano appunto i Tiraboschi, padre e figlia, secondo cui “nessuno ha mai agito per lamentare l’inadempimento nelle forniture svolte a Montorio né chiesto la risoluzione del contratto e le occasionali contestazioni sulla qualità della merce giungevano solo da questa casa circondariale, e non da altre strutture, come quella di Vicenza”. E ieri sono stati assolti. Palermo. Da detenuto a pasticciere per ragazzi in difficoltà di Maria Stefania D’Angelo sicilianpost.it, 18 settembre 2019 Marcello, salvato dalla scuola in carcere. Con l’associazione “Dolce Buonaspina”, ispirata al nome del carcere minorile palermitano in cui ha conosciuto una seconda possibilità dopo un’infanzia difficile, il 45enne coinvolge giovani disagiati e disabili nella realizzazione di tipici dolci siciliani da vendere nei teatri cittadini. “Il sogno? Un punto vendita tutto nostro”. Aveva soltanto 11 anni quando tra i vicoli del quartiere Ballarò di Palermo ha conosciuto la terribile faccia dell’illegalità, quella fatta di droga e criminalità. Ma dal sapore amaro dell’esperienza in carcere, Marcello Patricola, oggi 45enne, ha trovato la spinta per costruirsi un futuro che profuma di cannella e arancia. Un profumo di vita, che lo rende protagonista delle attività portate avanti con la sua associazione “Dolce Buonaspina”, fondata proprio in ricordo del carcere minorile Malaspina di Palermo, con la speranza che si possano diffondere sempre di più misure alternative alla pena, soprattutto per i giovani. Con il suo cappello da chef e un sorriso che testimonia un lungo percorso di riscatto sociale, Marcello si occupa con l’associazione di produrre dolci tipici siciliani, come i biscotti alla cannella e il pan d’arancio, e venderli nei foyer dei teatri cittadini. Una professione, quella da pasticciere, che ha coltivato durante gli anni trascorsi in carcere. “La scuola mi ha salvato la vita - commenta. Oggi il carcere è molto più riabilitativo rispetto a tanti anni fa, io ho avuto la fortuna di frequentare l’Istituto Alberghiero e apprendere un mestiere che mi è servito per ricominciare”. Figlio di entrambi genitori disabili, Marcello conosce sin da piccolissimo modelli di vita sbagliati, che lo portano a scontrarsi con la dipendenza e il consumo di droghe pesanti fino a quando viene segnalato dal tribunale per minorenni e inserito nella comunità di recupero di San Patrignano. “Dopo un percorso in comunità - aggiunge - avevo superato il problema della dipendenza, ma non quello del “fascino del quartiere”. Quei motorini, quelle luci sono per chi cresce in periferia delle altalene, se ci fossero più interventi di rigenerazione urbana, più centri aggregativi, più contaminazione con modelli positivi forse molti ragazzi prenderebbero strade diverse. Io non ho scelto di rubare, conoscevo solo quel modello”. Ha studiato la Divina Commedia più volte, letto intere pagine dei Promessi Sposi ma poco importa se qualche volta ha dovuto ripetere l’anno scolastico. La scuola e soprattutto gli insegnanti sono stati i migliori compagni di vita con il quale confrontarsi e riflettere su tematiche sociali. “Quando suonava la campanella ero il primo ad entrare in classe e l’ultimo ad andare. A differenza del carcere, dove devi mantenere il ruolo del duro, a scuola sei libero. Libero di costruirti nuovi modelli, parlare di valori e alimentare il tuo pensiero critico. Non smetterò mai di dirlo: ogni giovane che sfortunatamente vive l’esperienza del carcere deve avere la possibilità di studiare”. Non soltanto legalità e riscatto sociale, il cuore pulsante dell’associazione è promuovere buone pratiche di inclusione coinvolgendo sia gli ex detenuti che le persone disabili. “Dolce Buonaspina” collabora, infatti, con l’Aias, Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici, attraverso un laboratorio di pasticceria, guidato da Marcello, che appassiona sempre di più i disabili nella preparazione dei dolci. “Da loro ricevo tantissimo - confessa - e questo mi dà la carica per continuare a portare avanti la mia battaglia. Che è quella di donare ai giovani meno fortunati speranza ed esempi positivi. Da qualche anno, mi vengono affidati inoltre alcuni ragazzi che vivono nelle case famiglie e attraverso lezioni di pasticceria cerco in tutti i modi di far comprendere che c’è sempre un’alternativa”. L’associazione non ha un punto vendita dove proporre le proprie specialità, ma in maniera del tutto itinerante si garantisce la sostenibilità. Ma il sogno adesso è di avviare una vera e propria attività che coinvolga ex detenuti e disabili. “Una pasticceria o un mini market, mi piacerebbe vedere dietro il bancone il sorriso di un ragazzo disabile o lo sguardo di chi ce l’ha fatta. Confido proprio nella generosità di chi ci apprezza e spero prima o poi di realizzare questo sogno”. Cagliari. Carcere minorile, inaugurata la nuova sala d’attesa per i familiari in visita di Alessandro Congia sardegnalive.net, 18 settembre 2019 È possibile, assieme ai ragazzi che hanno sbagliato, che sono “caduti”, cercare di dar loro un motivo di riscatto sociale, anche attraverso il lavoro? Detto e fatto, all’Ipm è stato possibile ed è tuttora fattibile scontare la pena detentiva attraverso il lavoro manuale e le attività ricreative e non, come già raccontato recentemente nella video intervista di Sardegna Live, a Quartucciu. Nel settembre 2018 infatti, è stato avviato un laboratorio di falegnameria all’interno dell’Ipm, grazie alla fattiva sinergie di un Ente della Procura generale e quello della congregazione delle missionarie figlie di San Girolamo emiliani Casa Emmaus, di Elmas, che gestisce da 20 anni una comunità alloggio per minori adolescenti (ragazze) affidate dai servizi sociali degli enti locali di residenza delle minori, servizi sanitari (neuropsichiatria infantile) e servizi della giustizia minorile per le minori autori di reato). Una scommessa a più mani, da un lato la Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna - Centro Giustizia Minorile, educatori ed operatori, dall’altro suor Silvia carboni, da sempre in aiuto ai disagiati: “Nell’ottobre 2018 - racconta con entusiasmo suor Silvia Carboni - è stato avviato un nuovo Centro semiresidenziale Borgotremani, situato a Cagliar in via Parraguez, anche questo destinato all’accoglienza di minori adolescenti di entrambi i sessi provenienti dai servizi sociali sanitari e della giustizia minorile. All’interno del borgo si trovano varie botteghe e tra questa la bottega del falegname. da settembre 2018 il nostro ente sta gestendo un laboratorio di falegnameria presso il carcere di Quartucciu, dopo aver vinto un bando promosso dal Centro giustizia minorile della Sardegna. Essendo noi un ente che lavora nel sociale e non una falegnameria, abbiamo accettato la sfida di gestire la falegnameria “a modo nostro”. Gli operatori che lavorano coi ragazzi - aggiunge Suor Silvia - sono Valerio Ancis, 43 anni, psicologo psicoterapeuta familiare con la passione della lavorazione del legno e Rita Marongiu, 40 anni, creatrice del marchio officina del pallet, esperta nel lavoro del riciclo pallet, ma soprattutto con una grande sensibilità. Sono loro due che hanno dato anima a questo laboratorio, obiettivo principale per noi missionarie è creare la relazione coi ragazzi attraverso un laboratorio “del fare”. Altro obiettivo del laboratorio è la formazione al lavoro, ovvero l’etica vera e propria: rispettare gli orari, le regole della sicurezza, saper seguire le indicazioni del “datore di lavoro”, collaborare coi colleghi, sentirsi parte di un processo produttivo. Queste per noi le regole base. da qui abbiamo avviato i percorsi per l’apprendimento delle varie tecniche di lavorazione la maggior parte delle quali basate sull’arte del riciclo... oltre alla competenza tecnica il messaggio che volevamo dare al ragazzo è la possibilità della second chance, cosi come un pezzo di legno rovinato e vecchio può avere una nuova vita, cosi come ogni ragazzo che si considera un o viene considerato un “rifiuto della società” può avere una seconda chance essere rigenerato ed avere una nuova vita, da qui era nato un pensiero “talenti d’oro”, partendo dal desiderio di “dare una nuova vita” e rigenerare ogni ragazzo attraverso la “rigenerazione di un pallet, abbiamo pensato che era importante “rigenerare” anche il luogo di vita, ovvero l’ambiente in cui il giovane detenuto vive.. cercando di rendere i ragazzi stessi responsabili della cura dell’ambiente dove vivono. Abbiamo iniziato con rendere bello il giardino antistante il campo sportivo. giardino inaugurato il 12 febbraio in occasione della giornata solidale promossa dalla Fondazione Giulini. Poi - aggiunge sempre Suor Silvia Carboni - abbiamo allestito e abbellito la biblioteca dei ragazzi.. e ora abbiamo puntato ad allestire e rendere accogliente lo spazio di accoglienza dei familiari dei ragazzi.. la sala d’attesa.. io ho sempre lavorato dietro le quinte... la realizzazione e la creatività è tutta di Valerio e Rita, persone diverse, con stili diversi con competenze diverse che però sono riusciti ad integrare bene le loro diversità.. e il risultato è sotto gli occhi di tutti... anche il gioco delle relazioni gli operatori e l’integrazione delle diversità è stato educativo e terapeutico per i ragazzi. Siamo convinti che il messaggio educativo passi anche attraverso la cura dell’estetica degli ambienti di vita che accolgono giovani che provengono da situazioni abbruttite e abbrutenti. Infine - conclude la missionaria - da cosa nasce cosa, per alcuni di loro, cioè per coloro che hanno colto il messaggio della possibilità della rinascita, offriamo la possibilità di continuare il loro percorso di cambiamento presso la bottega del falegname all’interno del Borgotremani, un altro passaggio verso l’inclusione sociale”. Torino. Festival “LiberAzioni”, al via tre concorsi per opere di cinema, scrittura e musica diocesi.torino.it, 18 settembre 2019 Al via il concorso nazionale di cinema Le Ali della Creatività, il concorso nazionale di scrittura Io sono tante/i e il Contest musicale nel quartiere delle Vallette a Torino. “LiberAzioni” è il primo festival nazionale che si svolge dentro e fuori dal carcere. La seconda edizione, che segue quella del settembre 2017, è in programma dal 18 al 20 ottobre 2019 a Torino. Non si tratta però di un appuntamento isolato, quanto del culmine di un lungo percorso che coinvolge, attraverso concorsi e laboratori, persone libere e detenute. Lungo l’arco di un intero anno LiberAzioni promuove infatti laboratori di progettazione culturale, scrittura creativa e autobiografica, arte, musica, fotografia e video partecipativo, a beneficio del quartiere Vallette di Torino, che ospita il carcere della città. L’obiettivo è creare una collaborazione attiva tra i giovani del territorio, chiamati a essere parte attiva del festival realizzando allestimenti, convegni, reading, proiezioni, spettacoli teatrali, concorsi nazionali in ambito artistico. A partire dal 21 marzo sono inoltre aperte le partecipazioni ai tre concorsi collegati a LiberAzioni. - Il concorso nazionale cinematografico “Le Ali della Creatività”, è aperto a tutti i film-maker italiani o residenti sul territorio italiano, senza limiti di età. Prevede tre premi da 1.000 euro, assegnati da giurie di professionisti, giovani autori, critici e detenuti. - “Io sono tante/i” è il bando nazionale di scrittura creativa rivolto esclusivamente ai detenuti. E prevede tre premi da 1.000 euro. - Il contest di musica, infine, punta a scoprire un talento nel quartiere delle Vallette di Torino. In palio un premio da 300 euro per la miglior traccia originale, di qualsiasi genere musicale, che diventerà la colonna sonora del video promo del festival 2019. Le giurie dei concorsi sono formate da professionisti del settore cinematografico, artistico e letterario e dai detenuti del carcere di Torino (Casa Circondariale Lorusso e Cutugno alle Vallette). Il Festival LiberAzioni 2019 si aprirà il 18 ottobre 2019 presso il Teatro Don Orione di Torino, nel quartiere delle Vallette, con un testimonial d’eccellenza: Paolo Rossi, artista da sempre impegnato su diritti umani e tematiche sociali. Per l’occasione Paolo Rossi interpreterà un’opera originale, in doppia replica per i detenuti e per il pubblico. Protagonisti del festival tanti nomi del panorama artistico internazionale tra cui l’artista Jhafis Quintero, coinvolto in un laboratorio artistico nella sezione dell’Alta sicurezza di Torino, il romanziere Alessio Romano, docente di scrittura creativa nella sezione “protetti” del carcere di Torino, il musicista Omar Pedrini e il regista Daniele Gaglianone, presidente della giuria cinematografica del concorso. Fin dalla sua prima edizione, LiberAzioni si basa su un’organizzazione partecipata attraverso l’offerta gratuita a giovani, detenuti e non, di laboratori e concorsi artistici. Al centro vi è sempre il rapporto tra il carcere e la società, che tende a viverlo come un tabù. In particolare per il quartiere delle Vallette, da sempre etichettato come quartiere difficile, la convivenza con la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno è talvolta problematica: molti dei residenti non vorrebbero infatti che il quartiere fosse identificato esclusivamente con la struttura carceraria. Questa seconda edizione del festival punta dunque a dare sostegno e continuità alle alle reti territoriali, istituzionali, artistiche consolidatesi nella prima edizione anche grazie al bando AxTO - azioni per le periferie torinesi del Comune di Torino. Il progetto LiberAzioni ha per capofila l’Associazione Museo Nazionale del Cinema in partenariato con Antigone Piemonte, Cooperativa Eta Beta, Lacumbia film, SaperePlurale, SocietàINformazione, Quinto Polo e con la collaborazione per i laboratori di formazione dentro e fuori dal carcere di Agave. Agency of video empowerment. Contatti coordinamento progetto LiberAzioni: liberazioni.torino@gmail.com +39 3395675026. Milano. Venerdì la performace teatrale delle detenute del carcere di San Vittore sestodailynews.net, 18 settembre 2019 Prenderà avvio nei prossimi giorni presso la Fabbrica del Vapore-Village Off (via Procaccini 4) la terza edizione del MilanOff Fringe Festival, che ospiterà due importanti iniziative promosse dal Comitato MI’mpegno e dall’Associazione Greco in Movimento in collaborazione con Milano Vapore. Alle ore 18 si terrà lo spettacolo teatrale “Coralmente” organizzato dall’Associazione culturale Greco in Movimento e “Le Ragazze di San Vittore”. Sarà un importante momento di riflessione sul carcere e sul percorso rieducativo che i detenuti possono compiere già dentro le “mura”. L’arte e il teatro diventano una forma di riscatto e di crescita personale. “Solo nel buio più profondo è possibile trovare il coraggio di voler uscire, consumare, vivere. Solo nel buio più profondo riusciamo a conoscere noi stessi, a capire che in noi vive una forza indescrivibile, un’energia assoluta, rara. In noi vive la luce. Una luce abbagliante, che ci rende pregiati, unici”. Al termine dello spettacolo, alle ore 19, si terrà un dibattito per parlare di “Dipendenze affettive e recupero sociale” con Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giacinto Siciliano, Direttore del Carcere di San Vittore, Paola Boccardi, Vice Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Carmelo Ferraro, Portavoce del Comitato MI’mpegno. È previsto il saluto di Giampaolo Berni Ferretti, Presidente dell’Associazione Milano Vapore. “Capite che esiste uno spazio piccolissimo di vuoto, una distanza di soli pochi centimetri, quella che passa dalla testa al cuore, ma che racchiude un’infinità di tesori e segreti preziosi da tempo nascosti all’interno di ognuno di noi, ma che può diventare una voragine se voi non lavorate insieme, perché rare sono le persone che usano la mente, poche coloro che usano il cuore e uniche coloro che usano entrambi”. L’ingresso è gratuito fino alle ore 19.30. Per maggiori informazioni https://milanooff.com/it. Busto Arsizio. Il Gagarin porta il teatro in carcere e lancia la nuova stagione di Francesco Tomassini malpensa24.it, 18 settembre 2019 Ad aprire la stagione del Gagarin è stato l’hardcore al fulmicotone degli Young Blood che sabato 14 settembre, insieme agli Scheletri, hanno calcato il palco del circolo Arci di Busto Arsizio. Tra gli artisti che si esibiranno prossimamente ci sono Ronin e White Hills ma, come ha raccontato Francesco Tosi, colonna portante del locale, oltre alla musica dal vivo c’è un calendario ricco di iniziative. “La stagione sarà in continuità con gli anni scorsi. Ora si apre la campagna associativa Arci che per noi è importante, ci sostiene”, ha spiegato Tosi. Quanto ai concerti, “è prevista la solita commistione: tante band straniere ma anche italiane e locali. Tra gli appuntamenti più significativi spicca sicuramente il concerto di venerdì 15 novembre dei White Hills, formazione tra indie e new wave. Aprirà per loro Martin Bisi, famoso fonico che ha prodotto Sonic Youth e Swans: sarà una serata dedicata al rock newyorchese. Dall’Italia indie arriveranno, venerdì 27 settembre, le rivisitazioni di famosi brani trap a opera dei The André e, il giorno dopo, il post-rock dei Ronin, che proprio al Gagarin terranno il primo concerto del nuovo tour di “Bruto Minore”. Poi suoneranno i Pedigree, gruppo metal estone, e gli Shivas di Portland, che fanno rock’n’roll”. Tra le altre proposte “torneranno il pugilato e lo yoga. Sono inoltre previsti un corso di editoria con alcune professioniste del settore, tra cui Violetta Bellocchio, e uno di teatro gestito dall’associazione Oblò: chi lo frequenta avrà la possibilità, una volta al mese, di entrare nel carcere di Busto. La compagnia svolge infatti al suo interno alcune attività: l’obiettivo è proprio aiutare a creare dei legami sociali tra chi è in carcere, chi ci è stato e non ci sta più, e chi non ci è mai stato. Abbiamo risistemato l’angolo libreria e verranno aumentate le iniziative letterarie; domenica 20 ottobre è previsto un appuntamento con Roberto Morandi, giornalista di Varese News, in cui verranno proiettate alcune puntate di un documentario sul rastrellamento nazifascista della Val Grande”. Come ha concluso Tosi, “oggi è molto importante fare attività aggregativa in provincia: magari viene vista un po’ come il luogo dove ci sono gli affetti, ma soprattutto come un luogo da abbandonare. Noi vogliamo diventare un punto di attrazione offrendo una programmazione di qualità”. Napoli. Notte Galeotta, evasioni di gusto al carcere femminile di Pozzuoli aisnapoli.it, 18 settembre 2019 Chef stellati e Maestri pizzaioli per la cena delle detenute. È uno degli appuntamenti più attesi della XIV edizione di Malazè, l’evento archeo-eno-gastronomico dei Campi Flegrei in programma fino al 24 settembre. Mercoledì 18 settembre c’è la “Notte Galeotta. Evasioni di Gusto”. Dopo le esperienze del 2010 e del 2011, la kermesse flegrea torna tra le mura della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli per un’altra serata di solidarietà. Stavolta a cucinare per una rosa di detenute saranno chef stellati del territorio e maestri pizzaioli. Alla serata parteciperanno la cantante Monica Sarnelli e il gruppo musicale Zio Natal, di cui alcuni dei componenti appartenenti all’Amministrazione penitenziaria, hanno sentito forte il desiderio di dare il loro sostegno. Spiega Rosario Mattera, ideatore ed organizzatore di Malazè: “La serata si svolgerà all’interno del cortile seicentesco della struttura che sarà trasformato in un vero proprio ristorante all’aperto. Le ospiti dell’istituto in questa particolare occasione, tutta dedicata a loro, saranno invitate a prendere posto e gustare una cena davvero speciale. E non solo… alcune di loro, che nel corso della detenzione hanno mostrato particolari competenze manuali e olfattive, saranno premiate con una Borsa di Formazione”. L’idea che abbiamo voluto proporre ha subito trovato l’interesse e la collaborazione della direzione del carcere, in particolare della direttrice Carlotta Giaquinto, che ringraziamo per aver sostenuto questa iniziativa”. Proporranno i loro piatti la chef Marianna Vitale, stella Michelin di “Sud Ristorante” di Quarto, Angelo Carannante, stella Michelin di “Caracol” di Bacoli, Franco Pepe, di “Pepe in Grani”, Diego Vitagliano di “10 Diego Vitagliano pizzeria”, Francesco D’Alena di “Officina Bufala” Officine Nautilus. Saranno inoltre presenti: La cooperativa Lazzarelle, Donne del Vino Campania, AIS Delegazione di Napoli, l’Apericar de “La Bottega dei Semplici Pensieri”, Perrella Distribuzione e gli studenti dell’I.s.i.s. Vittorio Veneto di Scampia. L’evento non è aperto al pubblico. Per maggiori informazioni e aggiornamenti: www.malaze.it. Nb: la cena è riservata esclusivamente alle detenute. I giornalisti che vorranno accedere alla struttura di detenzione dovranno esibire tesserino dell’Ordine dei Giornalisti. Nato da un’idea di Rosario Mattera per promuovere le bellezze e le molte proposte turistico-culturali di un’area del napoletano poco nota, Malazè è l’evento Archeo-Eno-Gastronomico dei Campi Flegrei. La manifestazione si svolge tutti gli anni nelle prime settimane di settembre e si sviluppa nei comuni di Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Quarto, Isola di Procida e una parte della città di Napoli, per mettere in mostra il meglio dei prodotti tipici di una zona poco conosciuta ma dal grande patrimonio artistico, archeologico e ambientale. Malazè negli anni è diventato un laboratorio diffuso di innovazione territoriale dove si sperimentano e si attivano nuovi percorsi di sviluppo a base creativa e culturale che combinano la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico con il food, il sociale, le nuove tecnologie digitali, il design e il fare impresa. Una dimensione in cui si coniugano sviluppo, identità e sostenibilità. Facebook, libertà di parola e contenuti da cancellare di Alessio Sgherza La Repubblica, 18 settembre 2019 Il social pubblica la Carta dell’Oversight Board: come sarà formata, quale sarà il rapporto con l’azienda di Zuckerberg e come prenderà le sue decisioni. Potrebbe diventare un organismo centrale nel stabilire a livello transnazionale i limiti del free speech, dell’odio online e ogni forma di pubblicazione dentro il social. I membri saranno nominati entro quest’anno Ora c’è una data, c’è una Costituzione, c’è un meccanismo di funzionamento: nasce l’Oversight Board di Facebook, la Corte di Appello contro le decisioni del social network sulla cancellazione dei contenuti. Di fatto nasce un organismo transnazionale che si troverà a decidere e (di fatto) stabilire uno standard su quali sono i limiti della libertà di parola. E avrà impatto mondiale. “Siamo responsabili - scrive Mark Zuckerberg in una lettera aperta - dell’applicazione delle nostre politiche ogni giorno e prendiamo milioni di decisioni sui contenuti ogni settimana. Ma non credo che aziende private come la nostra debbano prendere decisioni così importanti da sole. Ecco perché ho chiesto ai governi un intervento per chiarire nuovi standard sui contenuti dannosi. È anche il motivo per cui abbiamo deciso di offrire alle persone un modo per fare appello contro le nostre decisioni, istituendo il consiglio di sorveglianza indipendente”. L’idea di un’Oversight Board era stato annunciato per la prima volta lo scorso autunno dallo stesso Zuckerberg. Dopo mesi di dibattito, interventi via podcast, pareri di esperti legali, Facebook ha svelato la Carta di questo nuovo organismo. La chart del Consiglio di Supervisione (come si può tradurre Oversight Board) si apre così: “La libertà di espressione è un diritto fondamentale. Facebook cerca di dare alle persone una voce così da connettersi, condividere idee ed esperienze e comprendersi l’un con l’altro. La libertà di espressione è sovrana, ma ci sono momenti in cui i contenuti possono essere in contrasto con autenticità, sicurezza, privacy e dignità. Alcune forme di libera parola possono mettere a rischio l’abilitù di altre persone di esprimersi liberamente. Quindi bisogna trovare un bilanciamento”. Cos’è odio online. Cos’è libertà di parola. Cos’è disinformazione e cos’è falso. Cos’è satira. Non è un errore dire che l’Oversight Board avrà un impatto enorme sulla vita e sulla politica mondiale, in un contesto in cui le elezioni si vincono anche attraverso i social, in cui i contenuti disinformativi o falsi plasmano le opinioni, in cui vita sociale e digitale tende sempre più a combaciare. Solo per fare un esempio recente e italiano: la disattivazione degli account di Casapound decisa dal social e contro la quale il movimento ha fatto causa (in un tribunale italiano); dal 2020 Casapound potrà appellarsi all’Oversight Board che potrà ribaltare la decisione di Facebook. La chart continua: “Lo scopo di questa Carta è quello di stabilire il quadro per la creazione di un’istituzione: il Consiglio di Sorveglianza. Lo scopo del Consiglio è quello di proteggere la libertà di espressione prendendo decisioni di principio e indipendenti sul contenuto ed emettendo pareri consultivi sulle politiche relative ai contenuti di Facebook. Il consiglio opererà in modo trasparente e le sue motivazioni saranno spiegate chiaramente al pubblico, nel rispetto della privacy e della riservatezza delle persone che utilizzano i servizi di Facebook, Inc., incluso Instagram (collettivamente denominati “Facebook”)”. Già dalla prima riga, è chiaro che il Consiglio sarà in relazione con Facebook e questo non si potrà cancellare, non nel prossimo futuro. Cinque i poteri del Consiglio come riportati nella sezione 4 della Carta. 1 - Il Consiglio potrà richiedere che Facebook fornisca informazioni richiesta ragionevolmente dal board in tempi rapidi e trasparenti. 2 - Il Consiglio dovrà interpretare gli Standard della Comunità di Facebook e altri politiche interne rilevanti alla luce dei valori complessi che Facebook difende. 3 - Indicare a Facebook di consentire o rimuovere contenuti 4 - Indicare a Facebook di difendere o ribaltare una decisione presa sui contenuti 5 - Emettere tempestive spiegazioni scritte delle decisioni del Consiglio I numeri e i componenti dell’Oversight Board - Si partirà da 11 membri, il numero minimo, ma la chart già prevede che “probabilmente” il numero crescerà fino a 40 e che potrà crescere o diminuire in futuro in base alle necessità di funzionamento. Sarà composta da membri esperti che avranno “uno spettro ampio” di conoscenze, competenze, diversità e specializzazioni. Scontato dire che “non ci saranno conflitti d’interessi, reali o perpecipiti”. I membri saranno nominati per tre anni e per un massimo di due rinnovi (quindi un totale di 9 anni). La nomina non avverrà tutta allo stesso tempo, ma scaglionata, in modo da garantire una continuità della composizione e non un rinnovamento totale del Consiglio. All’inizio, specifica Facebook, solo il social potrà sottoporre casi al Consiglio, ma i singoli utenti potranno appellarsi già “dalla prima metà del 2020”. Il rapporto tra Facebook, il Consiglio di Supervisione e Il trust - Per stabilire i rapporti con il social, la Chart prevede esplicitamente anche la nascita di un trust indipendente da Facebook, una fondazione che avrà il compito di nominare i membri del Consiglio e fornire i fondi per il funzionamento del Consiglio (i membri saranno quindi pagati dal trust e non da Facebook). Certo, sarà Facebook a nominare i membri del Trust indipendente e i fondi al Trust li fornirà sempre l’azienda fondata da Facebook. Come riportato nella Carta (articolo 5 sezione 1), Facebook userà il Consiglio come se fosse un appalto esterno di consulenza sui temi trattati e si impegna a mettere in atto le decisioni del Consiglio. Migranti. Protezione internazionale, richieste in crescita di Adriana Pollice Il Manifesto, 18 settembre 2019 A luglio sono state presentate circa 62.900 richieste di protezione internazionale nei 28 stati membri dell’Unione europea più Norvegia e Svizzera, con un aumento del 26% rispetto a giugno. L’Easo (l’ufficio europeo di assistenza all’asilo) ieri ha illustrato i dati: le domande quest’anno sono leggermente cresciute rispetto a luglio 2018 (59.375), quasi pari allo stesso mese del 2017 (62.040). Dall’inizio dell’anno, sono state presentate 400.500 domande di protezione internazionale nell’Ue (più Norvegia e Svizzera) con un aumento del 11% rispetto allo stesso periodo del 2018. Livelli “drasticamente più bassi” di quelli registrati durante la crisi migratoria del 2015-2016, ha spiegato Easo. A luglio 2016, infatti, le domande erano state 122mila. Da Siria, Afghanistan e Venezuela sono arrivate circa un quarto di tutte le domande di protezione internazionale. In particolare, siriani e afgani hanno fatto registrare un aumento del 34% ciascuno rispetto allo scorso giugno. Gli altri principali paesi di origine sono Iraq, Pakistan, Turchia, Colombia, Iran, Nigeria e Albania. Molte richieste di cittadinanze sono associate a rilevamenti di attraversamento illegale delle frontiere: rispetto a giugno, le domande di asilo sono cresciute più rapidamente tra i cittadini dei paesi che necessitano di un visto per entrare in Ue, Norvegia e Svizzera rispetto ai cittadini che non hanno bisogno del visto. In particolare, i siriani hanno presentato 6.543 domande di asilo a luglio. Nei primi sette mesi dell’anno il totale è stato di circa 38.800 domande, nello stesso periodo del 2018 erano state circa 44mila. Nonostante il calo, una domanda su dieci nei 30 paesi viene presentata da un cittadino siriano. Gli afgani a luglio hanno depositato 5.040 domande di protezione internazionale, anche per loro si è registrato un più 34% rispetto a giugno. Dall’inizio dell’anno, sono state 28.600 le domande, in aumento del 20% rispetto allo scorso anno. Ancora in comune con i siriani, la maggior parte delle domande si sono concentrate in cinque paesi. I venezuelani, invece, hanno fatto segnare a luglio quasi 3.800 domande, con un aumento del 18% rispetto a giugno. Le richieste nei primi sette mesi del 2019 (25.500) sono state più numerose di quelle registrate nell’intero 2018 (22.200). Per quanto riguarda le domande in attesa di una decisione in primo grado, alla fine dello scorso luglio erano circa 456.300, oltre 15mila casi in più rispetto a giugno dovuti soprattutto a revisioni tecniche relative ai venezuelani. Inoltre, a fine aprile si sono registrate il doppio delle domande in attesa di una decisione in appello o di revisione. In parallelo alle richieste presentate, c’è stato un aumento delle decisioni di prima istanza che hanno toccato quota 51mila, uno dei livelli più alti raggiunto nei 30 paesi, e in aumento del 22% rispetto a giugno. Oltre un terzo (35%) di tutte le decisioni di luglio ha garantito lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Nell’intero 2018 la media è stata del 39%. Droghe. +30% di consumatori nel mondo di Domenico Affinito Corriere della Sera, 18 settembre 2019 La droga non conosce crisi. L’ultimo rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite è allarmante: 271 milioni di persone hanno fatto uso di droghe nel 2017, l’ultimo anno analizzato. È coinvolto il 5,5% della popolazione tra i 15 e i 64 anni. Il dato è simile alle stime del 2016, ma rispetto al 2009 l’aumento è del 30% a fronte di una crescita della popolazione mondiale nello stesso periodo del 9,77%. Con l’aumento del consumo di droghe, è di conseguenza cresciuto il numero delle persone che soffrono di gravi disturbi di salute: in dieci anni si è passati da 30,5 milioni a 35 milioni. Purtroppo è un quadro parziale, perché ancora oggi la metà dei Paesi al mondo non monitora la diffusione delle droghe sul proprio territorio. I dati dell’Agenzia per la lotta alla droga mostrano un crescente uso di oppioidi in Africa, Asia, Europa e Nord America; il boom della cocaina, la tenuta costante della cannabis, che rimane la droga più usata, ai quali si aggiunge la continua invenzione di devastanti nuove droghe sintetiche. Si muore anche di più. I decessi totali per droga nel mondo nel 2017 sono stati 585mila: più 30% rispetto ai 450mila del 2015. Gli oppiodi uccidono di più - Gli oppiodi sono i responsabili dei due terzi dei decessi totali del 2017. Sono usati da 53,4 milioni di persone (+56% rispetto al 2016), 11 milioni delle quali se li iniettano. Tra queste ultime 1,4 milioni vivono con l’HIV e 5,6 milioni con l’epatite C. I rischi di contagio sono particolarmente alti nelle carceri dei Paesi sottosviluppati, spesso altamente permeabili all’ingresso di stupefacenti, e dove continua lo scambio di siringhe. Negli Usa l’overdose da oppiodi ha ucciso oltre 47.000 persone (più 13% rispetto al 2016), e 4.000 in Canada (più 33%). Aumenti causati soprattutto dall’uso di farmaci come il fentanyl, un antidolorifico oppiaceo 50 volte più potente dell’eroina e facilmente reperibile su prescrizione medica. In Africa, invece, si è diffuso l’uso del tramadolo (un altro potentissimo antidolorifico procurabile con ricetta semplice). È la droga che assumevano i combattenti dell’Isis prima delle battaglie. In nove anni i sequestri di tramadolo sono passati da 10 chili nel 2010 a 125 tonnellate nel 2017. Viene fabbricato illegalmente in Asia meridionale e arriva in Africa attraverso il Medio Oriente. L’Afghanistan resta il primo produttore al mondo di oppio e derivati con 263.000 ettari, anche se si registra un calo del 17% dei terreni coltivati a papavero. Nonostante questo, e nonostante la grave siccità, nel 2018 il Paese asiatico ha prodotto 6.400 tonnellate di oppio. L’82% del totale mondiale. Il 2017 è stato un anno di record per quanto riguarda i sequestri: oppio (+5% rispetto al 2016), eroina +13%, morfina +33%. È allarme cocaina nel mondo - La produzione di polvere bianca, che si concentra nella regione andino-amazzonica, ha battuto nel 2017 tutti i record con una stima di 1.976 tonnellate, più 25% rispetto al 2016. Ed è cresciuta del 50% negli ultimi dieci anni. Un boom dovuto soprattutto all’aumento della domanda in Nord America ed Europa, sostenuta da un surplus di produzione in Colombia (che da sola fa il 70% del totale). Grazie all’accordo di pace concluso nel 2016 tra governo e le Farc, infatti, i campi di coca hanno si sono estesi ai territori precedentemente controllati dai guerriglieri (+17%). Il rapporto Unodc stima che nel 2017 circa 18,1 milioni di persone, tra i 15 e i 64 anni, hanno fatto uso di cocaina. Sono però aumentati anche i sequestri. Dal 2014 al 2017: +95,7%. Cannabis, la droga più diffusa - La droga più diffusa, comunque, rimane la cannabis, che viene prodotta in 159 paesi, ma soprattutto in Maghreb, Medioriente e Balcani meridionali. È usata da 188 milioni di persone. Il mercato più grande al mondo sono gli Stati Uniti, dove si sta cercando di combatterne il traffico anche attraverso la legalizzazione. I produttori illegali hanno cercato a loro volta di contrastare la legalizzazione aumentando il principio attivo fino a cinque volte. Sta di fatto che Il numero di consumatori negli Stati Uniti è aumentato del 60% dal 2007 al 2017, anno in cui i sequestri di cannabis sul suolo statunitense hanno rappresentato il 21% del totale. Quasi mille tipi di droghe sintetiche - Sul fronte delle droghe sintetiche, continuano a essere individuate nuove sostanze psicoattive per un totale di 892 a fine dicembre 2018. In dieci anni il quantitativo sequestrato nel mondo di metanfetamina, una delle sostanze sintetiche più diffuse, è aumentato dell’800% nella zona del sudest asiatico. Grandi consumatori di metanfetamine sono i nordamericani: ne fa uso il 2,1% della popolazione compresa tra 15 e 64 anni. Un dato preoccupante è l’aumento costante della potenza delle droghe: cannabis con più Thc, ma soprattutto cocaina ed eroina con maggiori gradi di purezza. Lo dimostrano le analisi sui sequestri, che sono in aumento anno per anno. In dieci anni in Europa è stato sequestrato il 2% in più di eroina e oppioidi, il 137% in più di cocaina e il 15% in meno di cannabis. Nel Nordamerica l’eroina e gli oppioidi sequestrati sono stati il 359% in più, la cocaina il 66%, la cannabis il 40% in meno. Secondo Unodc le polizie hanno posto meno attenzione al traffico di cannabis, concentrando gli sforzi sulle droghe più pesanti. Rispetto al resto d’Europa e Usa in Italia i dati sono ribaltati. In dieci anni nel nostro Paese si è sequestrato il 53% in meno di eroina l’1,33% in meno di cocaina e il 194% in più di cannabis. Ma nel 2018 si sono registrati alcuni cambi di tendenza: più 59,52% di eroina sequestrata, più 37,31% di droghe sintetiche, il 93,93% di piante di cannabis e il 318,5% di hashish. Continuano invece a calare i volumi della cocaina (-11,70%), mai così in basso dal 2004, e di marijuana (-58,01%). Le regioni nelle quali avvengono i maggiori numeri di sequestri sono Sicilia seguita da Puglia, Campania, Lazio, Lombardia, Calabria, Toscana e Liguria. I cali più vistosi in percentuale, invece, in Molise, Emilia Romagna, Abruzzo, Marche e in Trentino Alto Adige. Nel 2017 il 22% degli italiani tra i 15 e i 64 anni hanno fatto uso di droghe almeno una volta. Siamo i terzi più consumatori d’Europa, a pari merito con l’Olanda, dopo Repubblica Ceca e Francia. Al 31 dicembre 2018 le strutture sanitarie avevano in cura 15.754 persone, mentre quelle segnalate per detenzione a uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope sono state 39.278, l’11% dei quali minorenni. Dati sostanzialmente stabili rispetto al 2017 (la crescita si aggira sull’1%). L’età media dei segnalati è di 24 anni, le classi di età con maggiore incidenza sono quelle tra i 18 anni e i 20 anni e quella oltre i 30 anni. Crescono per il secondo anno consecutivo le morti per overdose che, nel 2018, sono state 334, 38 in più rispetto al 2017 (+12,84%). Metà di loro hanno perso la vita a causa degli oppiacei, eroina in primis. Dal 1973, anno in cui hanno avuto inizio le rilevazioni in Italia, ad oggi hanno perso la vita 25.405 persone. In Italia la droga sequestrata da forze dell’ordine viene tenuta in deposito, sorvegliato dalla polizia giudiziaria, per una decina di giorni, cioè il tempo necessario alle perizie e al prelievo di piccoli campioni per uso processuale. Quindi il giudice ne ordina la distruzione, che avviene in inceneritori appositamente predisposti, alla presenza del giudice, degli avvocati, della polizia giudiziaria e, in caso ne facciano richiesta, anche degli imputati, dei loro familiari e dei giornalisti. Tutte le confezioni di droga che vanno nell’inceneritore sono controllate per verificare che il contenuto non sia stato sostituito. Se uno degli addetti all’operazione sottraesse una parte della droga sequestrata e venisse scoperto, verrebbe processato per peculato e non per spaccio. Una procedura “blindata”, ma in tanti Paesi le forze di polizia sono corrotte e conniventi e molta della droga sequestrata torna in circolo. Le transazioni di droga avvengono anche in rete. Nell’open web, attraverso siti appositi (molti dei quali ubicati in server situati in Olanda, Nord Europa o Europa dell’Est), ma soprattutto nel dark web, la parte “oscura” della rete alla quale si accede con sistemi di connessione anonima e criptata. I pagamenti avvengono con carta di credito o attraverso cripto-monete. Un e-commerce illegale che permette la crescita di una nuova imprenditorialità criminale “fai da te” nell’ambito del traffico di droga. Una modalità di diffusione particolarmente difficile da contrastare e da punire, poiché vendita e acquisto avvengono senza contatti diretti: posta aerea ed elevato grado di riservatezza sul contenuto. Francia. “Via i migranti economici”, Macron restringe le regole e cerca l’intesa con Conte di Leonardo Martinelli La Stampa, 18 settembre 2019 Il presidente francese a Roma: sintonia col governo sulla ridistribuzione. La Guardia costiera salva 90 persone, accolti da Malta dopo un negoziato. Ricominciamo da capo. È con questo spirito che Emmanuel Macron sbarca oggi a Roma, primo dirigente straniero in visita dopo il debutto del nuovo governo. Obiettivo: far dimenticare i difficili trascorsi con la precedente maggioranza gialloverde (compreso il richiamo dell’ambasciatore in Italia da parte della Francia lo scorso febbraio). Macron vuole parlare soprattutto di politica migratoria. E davvero con un nuovo spirito, perché anche a casa sua sta spingendo verso una stretta, con la volontà di ridurre i richiedenti asilo, il ricongiungimento familiare, l’assistenza sanitaria ai clandestini. Intanto, le trattative continuano fra i ministeri degli Interni dei due Paesi, oltre che di Malta e della Germania, in vista dell’incontro dei quattro ministri alla Valletta il 23 settembre, dove si punta a fissare un meccanismo automatico di redistribuzione dei migranti salvati nel Mediterraneo. Il tema sarà affrontato anche oggi da Macron e Giuseppe Conte, che si vedranno a cena a Palazzo Chigi (in precedenza il presidente francese vedrà Sergio Mattarella, che l’Eliseo definisce “la garanzia di una continuità nei nostri rapporti, al di là delle peripezie politiche”). Proprio ieri una nuova crisi si è aperta sui migranti tra Italia e Malta. Dopo che lunedì notte la nostra Guardia costiera aveva soccorso un barchino con 90 persone su esplicita richiesta dell’autorità Sar maltese, è ricominciato l’abituale scaricabarile sulle competenze, con le unità navali italiane dirette verso La Valletta, che però si rifiutava di concedere il trasbordo. Solo in serata i soccorsi sono stati trasferiti su un pattugliatore maltese, forse grazie all’intervento del presidente di Malta George William Velia, che era ricevuto da Mattarella. In serata quindi Malta ha dato via libera allo sbarco. Per evitare situazioni del genere, secondo l’Eliseo bisogna definire regole precise: “Il porto più vicino e più rapidamente raggiungibile deve accogliere i migranti salvati. Poi dovrà scattare un meccanismo stabile e automatico di ripartizione di quelle persone fra i Paesi europei, che non dovranno essere solo Francia, Germania e pochi altri”. A Roma si segnala pure la presenza del primo ministro libico Fayez al Sarraj, che dopo quasi due giorni di attesa vedrà il premier italiano oggi a mezzogiorno. Come suggeriscono diversi media arabi, al Sarraj avrebbe sperato in un incontro estemporaneo anche con Macron (ma l’Eliseo esclude che ci siano il tempo e l’intenzione di un vertice a tre). Il leader libico sta cercando di rafforzare il suo ruolo, magari riguadagnando terreno diplomatico sul rivale Haftar, che è di casa a Parigi. Ritornando alla politica migratoria, ieri all’Eliseo insistevano sul fatto che, al di là del meccanismo di redistribuzione delle persone salvate in mare, Macron vuole discutere con l’interlocutore italiano “della riforma dello spazio Schengen e dell’accordo di Dublino”. Quanto agli immigrati economici “dobbiamo accelerarne l’identificazione e il loro ritorno nei Paesi di origine”. Lunedì scorso Macron ha incontrato i deputati del suo partito, la République en Marche: un incontro ufficioso, ma i messaggi lanciati dal presidente sono già trapelati nei media francesi. In salsa Nicolas Sarkozy, Macron ha chiesto una stretta sugli immigrati. Vuole eliminare “le distorsioni del diritto d’asilo”, per cui in Francia, dopo gli afghani, sono i georgiani e gli albanesi i richiedenti più numerosi (provenienti da due Paesi che non hanno diritto allo status di rifugiati). E le richieste in generale aumentano (130 mila previste a fine anno) mentre calano nel resto dell’Europa. Inoltre, Macron pretende dai suoi parlamentari nuove norme che limitino il ricongiungimento familiare e anche il finanziamento (un miliardo di euro) consacrato ogni anno alle cure mediche dei clandestini. Una possibilità è escludere il trattamento di cancro ed epatite C. Le prossime presidenziali, nel 2022, alla fine sono dietro l’angolo. Marine Le Pen appare come l’inevitabile rivale, ancora una volta. E sui migranti bisogna essere all’altezza. Stati Uniti. Guantánamo è la prigione che costa di più al mondo wired.it, 18 settembre 2019 Il New York Times ha scoperto che si spendono circa 13 milioni di dollari per ogni detenuto: da quando è stata aperta, nel 2002, la struttura a Cuba è costata all’America 7 miliardi di dollari Il dibattito sul futuro di Guantánamo, il carcere di massima sicurezza statunitense aperta nel 2002 all’indomani degli attacchi alle Torri gemelle per volere dall’amministrazione Bush ed entrato nell’immaginario collettivo come un luogo nel quale i detenuti sono sottoposti ad abusi e torture, si arricchisce di un nuovo elemento. Un’inchiesta coordinata del New York Times e del Pulitzer Centre on Crisis Reporting - un’organizzazione no-profit che offre supporto economico ed editoriale ai giornalisti che vogliono far luce su storie poco conosciute - ha scoperto che soltanto da settembre 2017 a settembre 2018 sono stati spesi 540 milioni di dollari (circa 490 milioni di euro) per far funzionare la struttura. È una media di 13 milioni di dollari per ogni detenuto. Il costo è superiore a quello del Supermax, il famigerato carcere di massima sicurezza in Colorado, dove la spesa per ogni detenuto si aggira intorno ai 78mila dollari, è aumentato rispetto al passato - nel 2013 superava di poco i 454 milioni di dollari - e non ha eguali nel mondo. I giornalisti hanno stimato che, da quando è stato aperto nel 2002, gli Stati Uniti hanno dovuto spendere circa 7 miliardi di dollari, 2 dei quali dal 2014 in poi. Un’inchiesta di Npr, il network radiofonico statunitense, parla di un numero leggermente più basso: 6 miliardi. Ci sono diverse ragioni che spiegano un costo così elevato. Innanzitutto, Guantanamo è una struttura molto grande: ci sono tre edifici carcerari, due sedi centrali, almeno tre cliniche, due compound dedicati agli incontri tra detenuti e carcerati, una sala per le udienze e un tribunale dove si svolgono i processi. Ci lavorano più di duemila persone tra agenti penitenziari, membri della Guardia costiera che pattugliano il mare - Guantánamo si trova sull’insenatura omonima, nella punta sud-est dell’isola di Cuba - oltre a dottori, psicologi, ingegneri e analisti d’intelligence. Visto che la maggior parte di loro è costretta a vivere sull’isola, il dipartimento della Difesa copre anche i costi di vitto e alloggio - che sono esclusi dal bilancio di qualsiasi altra prigione federale dove gli impiegati sono pendolari che vanno al lavoro ogni giorno. Inoltre, ogni volta che c’è un’udienza bisogna organizzare il trasferimento di avvocati, giudici e materiale. Un solo viaggio con un charter del Pentagono costa circa 80mila dollari: nel 2008 ne sono stati effettuati circa 52. A tutte queste voci si somma anche un altro costo: quello per trasferire sull’isola l’attrezzatura per fare esami più approfonditi e il personale specializzato per la chirurgia vertebrale che manca a Guantánamo. Il costo economico, oltre che umano, di Guantánamo è uno dei motivi per cui persone - come il democratico eletto al Congresso americano Adam Smith - vogliono chiudere la prigione. Sembra però che la prigione resterà aperta ancora a lungo. L’opinione pubblica è infatti contraria al ricollocamento dei detenuti in altre strutture all’interno degli Stati Uniti e Donald Trump ha detto che spera di mandarci ancora più “brutti ceffi”. Al momento a Guantánamo ci sono circa 40 detenuti tra i quali Khalid Sheikh Mohammad che è considerato la mente degli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre. In tutto, si stima che siano stati incarcerati 770 uomini di nazionalità straniera e che il periodo di maggior affollamento sia stato nel 2013, quando nel carcere si trovavano 677 persone. Durante gli anni alla Casa Bianca, George W. Bush ne ha scarcerati 540, che sono stati spesso rimpatriati nei loro paesi d’origine; Barack Obama altri 200. Eritrea. 28 politici e giornalisti in carcere dal 2001 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 settembre 2019 Aster Fissehatsion, protagonista della lotta per l’indipendenza e importante esponente del Fronte eritreo di liberazione popolare; suo marito, l’ex vicepresidente e ministro degli Esteri Mahmoud Ahmed Sheriffo; gli ex ministri degli Esteri Haile Woldetensae e Petros Solomon; Dawit Isaak e Seyoum Tsehaye, giornalisti del quotidiano indipendente Setit. Sono alcuni dei 28 prigionieri di coscienza - 11 esponenti politici e 17 giornalisti - in carcere dal 2001 di cui ieri Amnesty International è tornata a chiedere il rilascio. Gli oppositori politici vennero arrestati per aver scritto una lettera aperta al presidente Isaias Afewerki chiedendogli di rispettare la costituzione convocando elezioni e mantenendo lo stato di diritto; i 17 giornalisti furono ritenuti colpevoli di averla pubblicata. Da allora, nessuno dei prigionieri in ha dato mai notizia di sé o è stato formalmente incriminato di qualche reato. In carcere si trova anche la moglie di Petros Solomon, Aster Yohannes, arrestata nel dicembre 2003 all’aeroporto dell’Asmara, appena atterrata dagli Usa dopo aver appreso dell’arresto del marito. Amnesty International ha deciso di lanciare la campagna nel primo anniversario dell’arresto dell’ex ministro delle Finanze Behrane Abrehe. Arrestato per aver scritto un libro in cui invitava i cittadini a mobilitarsi pacificamente per la democrazia, dal 17 settembre 2018 non si hanno informazioni sul luogo di detenzione e sulle sue condizioni di salute. Il particolare beffardo, che getta un’ombra pesante sulla credibilità dei meccanismi internazionali per la difesa dei diritti umani, è che questa atroce ingiustizia si protrae da quasi due decenni proprio mentre l’Eritrea siede nel Consiglio Onu dei diritti umani.