Papa Francesco: il populismo penale è una malattia di Patrizio Gonnella L’Espresso, 17 settembre 2019 Non tutti sono prigionieri del consenso. Non tutti alimentano paura e odio. Non tutti credono che un detenuto debba marcire in galera. Non tutti affidano al diritto penale e alle prigioni la nostra tranquillità sociale e il nostro benessere. C’è chi non ha perso una vocazione pedagogica alta e non si preoccupa di moderare o modificare le proprie parole a seconda di chi lo sta ad ascoltare, non essendo vittima del circolo vizioso mediatico-politico-elettorale. Papa Francesco ha ribadito a una platea di poliziotti penitenziari, cappellani e dirigenti dell’amministrazione carceraria che la pena non deve mai abbruttire le persone detenute, che il sovraffollamento penitenziario è indice di un sistema sociale e pubblico malato che poco ha a che fare con l’edilizia e che produce dolore agli esseri umani reclusi, che la libertà e sacra e, infine, che l’ergastolo va superato essendo una pena in contraddizione logica con l’obiettivo irrinunciabile della reintegrazione sociale. Sarà ascoltato da chi ha il potere di decidere? Affinché ciò avvenga va recuperato il primato della dignità umana, la quale viene prima di tutto e di tutti. Siamo nella fase di nascita di un nuovo governo. Il tema carcere va sottratto alle pulsioni emotive e va affidato alla saggezza razionale di chi non ha urgenze elettorali. Affrontato in modo saggio, affidandosi alla cultura garantista democratica costituzionale, esso produce più sicurezza che non attraverso le istanze truci di alcuni santoni della contemporaneità. Vanno ridotti i reati, ridotte le pene, diversificato il sistema sanzionatorio rinunciando alla esclusività e primarietà della pena carceraria, vanno umanizzate le condizioni di detenzione. Dunque qui di seguito ripubblico il discorso che Papa Francesco aveva rivolto all’associazione internazionale dei penalisti e che avevo già commentato insieme al prof. Marco Ruotolo (Jacabook, 2016). È un manifesto politico e sociologico. Sarebbe straordinario se fosse utilizzato, almeno in parte, per il prossimo programma di governo. “Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili - in parte! - toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico. Introduzione - Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale. a) Incitazione alla vendetta Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. b) Populismo penale In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste. I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi Il principio guida della cautela in poenam - Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni. II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine a) Circa la pena di morte - È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta. b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. Queste non sono favole: voi lo sapete bene. La carcerazione preventiva - quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso - costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà. c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. - L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione - pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale - ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa. d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili - Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età. III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità. a) Sul delitto della tratta delle persone - La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. È un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, Unifem). b) Circa il delitto di corruzione - La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. È un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime - in particolare i più vulnerabili - quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale - come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione - come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi. Conclusione La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie”. Papa Francesco contrario all’ergastolo: mai privare del diritto di ricominciare di Gelsomino Del Guercio aleteia.org, 17 settembre 2019 “Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Detenuti, pena, carceri: Papa Francesco fa rumore su tre temi molto sensibili. Il Papa ha ricevuto sabato 14 settembre in Udienza la Polizia Penitenziaria, il Personale dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità. In Piazza San Pietro, Francesco si è rivolto con toni molto chiari e decisi nei loro confronti. In particolare ha ringraziato per il lavoro svolto quotidianamente gli operatori delle carceri e i cappellani. Poi, ha lanciato un messaggio di speranza ai detenuti. “È la parola coraggio - afferma il pontefice - Gesù stesso la dice a voi: “Coraggio”. Questa parola deriva da cuore. Coraggio, perché siete nel cuore di Dio, siete preziosi ai suoi occhi e, anche se vi sentite smarriti e indegni, non perdetevi d’animo. Voi che siete detenuti siete importanti per Dio, che vuole compiere meraviglie in voi. Anche per voi una frase della Bibbia. La Prima Lettera di Giovanni dice: “Dio è più grande del nostro cuore” (1 Gv 3,20). Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi. Mettetevi davanti al Crocifisso, allo sguardo di Gesù: davanti a Lui, con semplicità, con sincerità”. Da lì, ha proseguito il Papa, “dal coraggio umile di chi non mente a sé stesso, rinasce la pace, fiorisce di nuovo la fiducia di essere amati e la forza per andare avanti. Immagino di guardarvi e di vedere nei vostri occhi delusioni e frustrazione, mentre nel cuore batte ancora la speranza, spesso legata al ricordo dei vostri cari. Coraggio, non soffocate mai la fiammella della speranza. Sempre guardando l’orizzonte del futuro: sempre c’è un futuro di speranza, sempre”. Ravvivare questa fiammella è “dovere di tutti. Sta ad ogni società alimentarla, fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. L’ergastolo, ha sentenziato Francesco, “non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi - ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare. Vi rinnovo il mio grazie. Avanti, coraggio - ha chiosato il Papa - con la benedizione di Dio, custodendo coloro che vi sono affidati”. In carcere ma innocenti di Gianfranco Di Rago Italia Oggi, 17 settembre 2019 Errori giudiziari al top a Catanzaro, Napoli e Roma. Ogni otto ore una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Dal 1991 a oggi lo stato ha speso circa 800 milioni di euro, 56 euro al minuto, come liquidazione dell’indennizzo ai malcapitati. Ogni otto ore una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Dal 1991 a oggi lo Stato ha speso circa 800 milioni di euro, 56 euro al minuto, come liquidazione dell’indennizzo ai malcapitati. Catanzaro, Napoli e Roma guidano la classifica delle Corti di appello nelle quali si è verificato il maggior numero di casi nel 2018. Questo il bilancio reso noto nel corso del convegno “Errori giudiziari e ingiusta detenzione: perché non possiamo non parlarne”, svoltosi ieri a Milano e organizzato dall’Ordine degli avvocati, registrando una vasta partecipazione da parte del pubblico. Nel corso dell’incontro è stato proiettato il docu-film “Non voltarti indietro”, realizzato da ErroriGiudiziari.com, archivio online che raccoglie circa 800 casi di errori giudiziari. Dai dati diffusi dal ministero della giustizia, nel solo 2018 sono state presentate circa mille istanze di riparazione per ingiusta detenzione, delle quali 630 sono state accolte, conducendo alla liquidazione di un indennizzo medio di 37 mila euro a persona e con una spesa complessiva di 23 milioni di euro. Tuttavia, come evidenziato da Enrico Costa, ex ministro e parlamentare membro della Commissione giustizia della Camera, autore di una proposta di legge in materia, solo l’80% dei tribunali ha fornito al ministero i dati relativi all’anno appena trascorso e, infatti, dalle informazioni raccolte dal Mef, nel 2018 risultano invece ben 913 i casi di istanze liquidate. Secondo Costa, su una media 50 mila misure di custodia cautelare all’anno, almeno il 20% di esse non avrebbero dovuto essere state adottate. Inoltre è stato segnalato come il fatto che l’indagato si avvalga della facoltà di non rispondere si trasformi il più delle volte in un boomerang ai fini della liquidazione dell’indennizzo. Ma, allora, come contrastare un fenomeno che, visti i numeri allarmanti, non può più essere definito come semplicemente fisiologico? In primo luogo occorre sensibilizzare l’opinione pubblica. L’Unione delle camere penali ha infatti istituito un osservatorio sull’errore giudiziario, che ha in progetto di procedere alla creazione di una vera e propria banca dati, attingendo informazioni sul territorio, anche mediante l’organizzazione di una serie di convegni itineranti. Se l’avviso di garanzia è diventato uno sputtanamento dell’indagato di Mauro Mellini Italia Oggi, 17 settembre 2019 In mano a procuratori, giornalisti, predicatori dell’antipolitica. Ma non sempre è così. Se c’è un istituto, una norma, un provvedimento del nostro Codice di procedura penale e delle sue inestricabili filiazioni che sembra essere stato escogitato per il motivo opposto a quello proclamato all’atto della sua istituzione ed addirittura per realizzare l’opposto della sua denominazione, questo è il variamente denominato avviso di “garanzia”. Garanzia essa è infatti solo di sputtanamento dell’indagato. Nato per evitare che si potessero imbastire processi alle spalle e all’oscuro dell’imputato, con l’assunzione di elementi di prova distorti, magari, proprio per la mancanza della possibilità del prevenuto di far sentire la sua voce e di dare la sua spiegazione dei fatti, esso è divenuto, non solo nella distorta opinione di qualche cittadino arcigno e forcaiolo, e diffamatore la lapidaria apertura della tortura della persona da essa “raggiunta” (la parola, “raggiunta” è significativa) che per ciò solo comincia ad essere oggetto dello “jus sputtanandi” che procuratori della repubblica, giornalisti, uomini politici e predicatori dell’antipolitica esercitano liberamente e irreparabilmente sul soggetto “indagato” e “iscritto nel libro nero delle vittime delle indagini”. Questo nella normalità dei casi. Ma ci sono degli esempi del contrario. È difficile oramai a credersi, ma qualcuno benché “indagato” e fatto oggetto del relativo avviso, continua a godere il suo diritto alla “privacy”, a farne godere i suoi famigliari e magari il partito di papà. Incredibile ma vero. È quello che è accaduto e, possiamo dire, sta accadendo a Ciro Grillo, figlio del comico comproprietario del Partito 5 Stelle. Cosa ancor più incredibile è che il medesimo rampollo non è indagato per un incidente stradale o per una questione relativa alle trattative per un contratto. È indagato per un reato particolarmente pruriginoso: violenza carnale, aggravata per essere stata consumata da un gruppo. Bene. Vedete che con i 5 Stelle qualcosa comincia a funzionare. Il fatto e la querela pare risalgano a giugno. Ma a giugno non si sapeva se si sarebbe votato e quando. La situazione più adatta alla “utilizzazione” della imputazione sputtanante del figlio di Papà Buffone ha tardato alquanto. Ed ha tardato, al punto da essere rimasta solo una pruriginosa “cosa riservata” fuori della rissa politica, fino a che la voce isolata di Vittorio Sgarbi non ne ha contestato l’esistenza. Si potrebbe dire, anzi, che Sgarbi abbia contestato proprio la mancata propalazione del fatto. Caso importante, perché il Papà Buffone del presunto violentatore ha con un suo intervento, guarda caso, chiuso le polemiche interne dei 5 Stelle per la formazione del governo. Così il presunto figliuolo discolo potrà affrontare il suo processo col privilegio della privacy ma anche con quella di figlio di un comproprietario di mezzo governo (compreso il ministro della Giustizia). Buon per lui, perché, cosa forse sfuggita anche a Sgarbi, quel processo si terrà avanti alla Procura ed al Tribunale di Olbia, che di recente è stato scosso da una parte dei noti scandali in cui sono stati coinvolti alcuni dei suoi magistrati. Cosa che ne rende imprevedibili le reazioni. È abituale l’obbligo oggi tra i benpensanti predicare che i 5 Stelle possano man mano che faranno la loro esperienza, perdere quella rozzezza e quella presunzione di maestri dell’antipolitica che li ha lanciati ma anche resi indigeribili. Forse impareranno anche molte cose dei processi, dei pregiudizi, dei privilegi, dei rischi e dei modi di cavarsela. Anche quelli speciali dei figli di Papà. Magari di un Papà comico, ma comproprietario di un “coso” e dei relativi “mandati imperativi” a Parlamentari, Ministri e, perché no ai componenti del Csm. L’auto-riforma dell’Anm: no al sorteggio, più rigore di Errico Novi Il Dubbio, 17 settembre 2019 Molte idee del “sindacato” sono nel Ddl Bonafede. Ma non tutte. Sono tentativi di uscire dall’angolo. Di limitare i danni, ridurli il più possibile e riprendere la navigazione dopo la tempesta Palamara. Dal parlamentino dell’Anm, riunitosi sabato scorso, arriva di fatto un tentativo di mediazione sulla riforma Bonafede. In particolare sulle parti che riguardano il Csm e l’ordinamento giudiziario. Con due direttrici: niente sorteggio per la scelta dei togati, sì a interventi incisivi per favorire “maggiore partecipazione democratica” tra i colleghi nell’elezione dei consiglieri superiori. E poi: nomine di direttivi e semi-direttivi basate sulla “esperienza giudiziaria”, conferimento degli incarichi scandito “secondo rigorosi criteri cronologici legati all’effettiva vacanza del posto da coprire”. E altro ancora. Il dato singolare è che le proposte sono quasi integralmente sovrapponibili alle norme presentate a fine luglio dal guardasigilli, poi finite in freezer per via del no leghista. Adesso che lo stesso Bonafede e il vicesegretario pd Andrea Orlando paiono ben avviati verso l’intesa (almeno sulle materie ordinamentali), l’Anm prova a evitare il danno maggiore. Individuato appunto nel sorteggio per l’elezione dei togati al Csm. “Contrasta con la Costituzione”, hanno detto Luca Poniz e Giuliano Caputo, presidente e segretario del “sindacato”, al comitato direttivo centrale. Ora, il fatto un po’ spiazzante è che l’assoluta contrarietà al sorteggio è il solo punto di convergenza fra i gruppi associativi tradizionali e il protagonista indiscusso del fine settimana, Nino Di Matteo. Il quale l’ha toccata piano, come si dice in gergo tecnico: “L’appartenenza a correnti o a cordate è diventata l’unica possibilità di sviluppo di carriera, e questo è un criterio molto vicino alla mentalità e al metodo mafiosi”. La segretaria di Md, Mariarosaria Guglielmi, tra le figure più apprezzate dell’associazionismo giudiziario, ha rispedito la bordata al mittente: si tratta di “affermazioni”, ha detto ieri, “che colpiscono l’immagine di tutta la magistratura”. Secondo la leader del gruppo più spiccatamente progressista, Di Matteo rischia di “proporre all’opinione pubblica una inaccettabile equiparazione fra la scelta di appartenenza dei singoli magistrati ai gruppi associativi dell’Anm e l’affiliazione a organizzazioni criminali mafiose”. Difficile darle torto. Così come non sorprende che proprio da un ex componente laico del Csm, Pierantonio Zanettin, ora deputato di Fi, sia arrivata subito un’interrogazione a Bonafede affinché verifichi “la sussistenza dei presupposti per l’azione disciplinare nei confronti di Di Matteo”. Il pm antimafia ha parlato col fervore e lo sconcerto di chi, al di là di tutto, ha a cuore le sorti della toga che indossa. Ma ha chiaramente esagerato. E soprattutto: come può mai uscire rafforzata una magistratura che ondeggia fra i tentativi di mediazione proposti dall’Anm e le invettive a uso interno lanciate dal sostituto della Dna? Con Di Matteo, altri quindici pm sono candidati alle suppletive del 6 e 7 ottobre per individuare i due che dovranno sostituire gli ormai ex togati Antonio Lepre e Luigi Spina, che si sono dimessi dopo essere stati coinvolti nel caso Palamara. Un altro consigliere, Paolo Criscuoli, intende revocare la propria auto-sospensione ma è di fatto bandito dai colleghi di “Area”, “Unicost” e “Autonomia e indipendenza”, sia al Csm sia all’Anm, dove gli chiedono letteralmente di farsi da parte. La situazione insomma è pesantissima. E lo stridore fra gli opposti - l’autoriforma di Poniz e le accuse di Nino Di Matteo - sembra peggiorare il tutto. Non bastano le incompatibilità introdotte dalla stessa Anm per i suoi componenti, che non potranno più candidarsi al Csm, o per i togati uscenti e i fuori ruolo, che non potranno assumere, secondo la proposta dell’Associazione, incarichi di vertice nei 2 anni successivi. Non bastano intanto perché Bonafede propone un periodo- naftalina doppio, di 4 anni, che corrisponde alla durata di un’intera consiliatura, e impedisce qualsiasi scambio di cortesie fra nuovi e vecchi consiglieri. Ma in generale il colpo di reni delle toghe pare esibito con tutte e due i piedi ancora nelle sabbie mobili. E non è chiaro cosa possa aiutare a uscirne davvero. La tracciabilità non evita il reato di autoriciclaggio di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2019 La Cassazione definisce i contorni del reato di autoriciclaggio con particolare riferimenti all’ostacolo concreto ovvero al concreto nascondimento richiesto dalla norma per integrare la condotta del reato. Integra il reato di autoriciclaggio la vendita di diamanti a prezzi maggiorati ove il profitto venga reinvestito nell’acquisto di nuove pietre, senza che la tracciabilità dei passaggi possa escludere la sussistenza del reato. Si può così compendiare il principio di diritto contenuto nella sentenza 37606/2019, con la quale la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso avverso una ordinanza del Tribunale di Milano, adottata in sede di riesame di misure cautelari reali, a conferma del decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del medesimo Tribunale, avente ad oggetto il profitto del reato di autoriciclaggio e il prezzo del reato all’articolo 2635 del Codice civile (corruzione tra privati). Ad innescare la vicenda giudiziaria era stata una truffa perpetrata attraverso la vendita di diamanti a prezzi maggiorati rispetto al loro valore di mercato. Peculato al dirigente di società in house se paga per le contravvenzioni dei dipendenti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 16 settembre 2019 n. 38260. Gli amministratori di società in house sono imputabili per peculato se utilizzano di propria iniziativa le risorse economiche societarie per pagare sanzioni pecuniarie finalizzate a evitare le conseguenze penali per violazioni in materia di lavoro, sicurezza e tutela ambientale commesse da dipendenti. E non può il dirigente, che ha provveduto al pagamento - in assenza di qualsiasi delibera formale - difendersi dall’accusa sostenendo di aver agito a tutela di interessi superiori dell’ente rispetto alle posizioni personali oggetto delle sanzioni pecuniarie. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 38260/2019 depositata ieri, ha di fatto chiarito che l’amministratore non può difendersi sostenendo che il fine degli esborsi era quello di evitare il coinvolgimento dell’ente e perseguire la via più veloce al fine di evitare ulteriori danni e maggiori esborsi. L’interesse dell’ente - Le violazioni in materia di lavoro e sicurezza o di tutela ambientale per cui la legge commina sanzioni pecuniarie non di origine amministrativa, ma di natura penale. Nel caso in esame si trattava, infatti, di contravvenzioni per le quali è prevista la possibilità di evitare il processo penale attraverso il pagamento di sanzioni pecuniarie. Scansare tali conseguenze processuali e il coinvolgimento dell’ente per responsabilità dei dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, anche solo in termini di immagine, sarebbe il fine dichiarato con cui il dirigente dell’area bilancio e finanze della società in house ha cercato di difendere il proprio operato dall’accusa di peculato. Inoltre, sosteneva il ricorrente che non aveva appreso denaro dalla casse, cioè risorse pubbliche, per fini personali, ma a vantaggio di altri manager o capisquadra incappati nei reati contravvenzionali previsti dai testi unici in materia di lavoro e ambiente. Cioè non vi era appropriazione, ma distrazione di denaro pubblico. E la Cassazione coglie l’occasione per ribadire che la distrazione ben può integrare il reato di peculato in quanto consiste in una condotta proprietaria illegittimamente assunta dall’agente che toglie dal fine pubblico le risorse. La mancata previsione dell’esborso - Il ricorrente contestava la misura cautelare del sequestro affermando che fosse interesse dell’ente evitare le conseguenze degli illeciti connessi nell’ambito dell’attività di servizio pubblico svolto in house e sosteneva di esservi specificatamente autorizzato in base a una delibera di cui è stata accertata l’inesistenza. Tale inesistenza ha comportato l’ulteriore imputazione per il reato di falso di chi era di fatto un pubblico ufficiale. La Cassazione spiega, infatti, che la possibilità di effettuare tali forme di pagamenti non è esclusa a priori, ma può essere pienamente legittimata dalla deliberazione dell’ente che la ritiene utile a tutela della compagine societaria. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Detenuto 20enne muore suicida nell’ex Opg ilsicilia.it, 17 settembre 2019 Un ventenne ieri si é tolto la vita nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. È il sesto suicidio dal gennaio 2015 ad oggi. Tutti giovani, il più piccolo 20 anni il più grande 42 anni. “La situazione é davvero esplosiva. Con la chiusura dell’Opg e il passaggio delle competenze sanitarie dallo Stato alla Regione ci si aspettava molto di più, bisognava creare strutture alternative in grado di rispondere al crescente numero di detenuti con disturbi psichiatrici sopravvenuti anche durante la detenzione”, lo afferma Pino Apprendi di Antigone Sicilia. “Il numero dei suicidi é abnorme rispetto al numero dei detenuti nell’Istituto, 200 e rispetto al numero totale dei suicidi in Sicilia, 22 nelle 23 carceri e alla popolazione carceraria complessiva di circa 6.400 detenuti. L’ottavo reparto, salute mentale, di Barcellona Pozzo di Gotto su 200 ospita oltre 50 ristretti disturbati”, aggiunge Apprendi. “La salute mentale dell’Asp di Messina non ha mai preso del tutto in carico questo reparto che manca del sostegno necessario. Assenza di attività trattamentale e prestazioni specialistiche. Il personale della Polizia Penitenziaria é sottodimensionato e insufficiente per una struttura che presenta questi problemi. A giugno, un incendio causato da alcuni detenuti aveva costretto alcuni agenti a ricorrere alle cure ospedaliere per avere cercato di spegnere l’incendio. Lunedì 23 visiterò il carcere con una delegazione di Antigone”, conclude Pino Apprendi. Napoli. Il killer del vigilante, i permessi e la pietà di Giovanni Verde e Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 17 settembre 2019 Non viviamo da soli in un’isola felice, ma dobbiamo convivere con altri. È necessario che l’esercizio della libertà di ciascuno non impedisca e comprometta l’esercizio della libertà degli altri e viceversa. Il diritto penale nasce dall’esigenza che si fronteggi qualsiasi episodio di devianza. Cinque permessi in sei mesi: non solo per festeggiare i 18 anni, dunque, ma anche per sostenere un provino con una società calcistica sannita, per pranzare al ristorante con i genitori, per partecipare a riunioni di famiglia. Il caso di Ciro Urzillo, uno dei tra giovani condannati lo scorso gennaio a 16 anni e mezzo per il brutale omicidio della guardia giurata Francesco Della Corte, continua a suscitare polemiche. La famiglia del vigilante, morto dopo diversi giorni di agonia e senza riprendere conoscenza per le violente bastonate al capo ricevute mentre era in servizio a Piscinola, non si dà pace: “Si sostengono sempre di più i diritti dei detenuti, ma dove sono finiti - si chiede la figlia Marta - i diritti delle vittime e delle famiglie di chi è stato ucciso, di coloro a cui è stato negato il diritto alla vita? Ormai la linea che separa la riabilitazione da comportamenti ridicoli è diventata veramente sottile: un assassino esce dal carcere e va a fare il calciatore? Questa è follia, non posso sopportare che chi ha ucciso mio padre possa anche andare a fare un provino per giocare al calcio. Per me lui deve scontare 16 anni e mezzo dentro il carcere”. Diverso, ovviamente, il parere dell’avvocato Nicola Pomponio, che assiste Urzillo: “Comprendo l’enorme dolore della famiglia Della Corte, ma non bisogna dimenticare che il carcere, soprattutto per chi ha commesso reati da minorenne, è finalizzato alla riabilitazione. Se la sentenza di primo grado venisse confermata, Ciro con ogni probabilità tornerà libero prima dei trent’anni: dovrà pure avere un posto nella società, come è giusto e come la legge prevede. Non dimentichiamo, inoltre, che in quei permessi il ragazzo si è attenuto rigorosamente alle prescrizioni della Corte d’Appello”. Sono stati i giudici della Corte d’Appello minorile, davanti alla quale pende il giudizio, ad accordare a Ciro Urzillo i permessi chiesti da lui stesso per il tramite di un’educatrice dell’istituto di Airola, dove è detenuto. Proprio per dopodomani è fissata la prima udienza del processo di secondo grado: il collegio dovrà decidere, dopo avere ascoltato la relazione del sostituto procuratore generale e la discussione degli avvocati della difesa, se confermare o meno la severa condanna di primo grado. Si è arrivati a 16 anni e mezzo, infatti, perché i giudici di primo grado hanno ritenuto che sussistesse l’aggravante della crudeltà: “Tale pena - si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado - appare congrua alla luce della estrema gravità dei reati anche desunta dalle specifiche modalità dell’azione. Si tratta di un’azione di elevatissimo allarme sociale, che ha prodotto nella collettività massima riprovazione e sdegno. Gli imputati hanno deciso e agito in gruppo, spingendosi ad aggredire vigliaccamente e con gratuita violenza una guardia giurata al fine sinistro e inquietante di sottrarle l’arma”. Ma la pena, si legge ancora, è congrua anche “alla luce di una valutazione della capacità di delinquere degli imputati, in virtù dei motivi sottesi alla condotta criminosa, della loro spiccata capacità criminale, delle modalità esecutive efferate”. “In diversi casi - spiega Ciro Auricchio, segretario campano dell’Uspp, Unione sindacati di polizia penitenziaria - abbiamo ricevuto segnalazioni di permessi con scorta che ad avviso di chi deve eseguirle sfiorano lo spregio della certezza della pena e mettono in difficoltà il personale di polizia penitenziaria che si trova di fronte ad ordinanze cui adempiere è davvero difficile senza restarne stupiti”. Catanzaro. Presentato il Progetto “InsideOut” all’interno della Casa circondariale calabriamagnifica.it, 17 settembre 2019 È partito il Progetto dedicato all’inclusione socio-lavorativa di soggetti detenuti reclusi. Ieri, alle ore 11.30, presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, è stato presentato il nuovo Progetto “InsideOut”, finanziato da Caritas Italiana e realizzato dal Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro. Le Autorità pubbliche e le diverse figure che sono intervenute questa mattina alla Conferenza Stampa di presentazione, sono state: Mons. Vincenzo Bertolone, Vescovo di Squillace/Catanzaro; la dott.ssa Angela Paravati, Direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro; il Magistrato di Sorveglianza Angela Cerra; Antonio De Marco, Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro; Don Roberto Celia, Direttore Caritas di Catanzaro/Squillace; Silvia Saladino, Referente Progetto InsideOut, Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro; Antonella Prestia, Referente Progetto Caritas di Catanzaro. Il Progetto, gestito dal Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro (Ccs) e dalla Caritas Diocesana di Catanzaro-Squillace, sarà dedicato al reinserimento socio-lavorativo ed all’accoglienza abitativa dei detenuti. Nella conferenza di oggi sono stati evidenziati gli obiettivi del progetto, nonché i principi importanti come quelli del concetto di Giustizia Riparativa e di Pubblica Utilità, nonché il principio importante della funzione riabilitativa della pena, che si basa sull’obiettivo di promuovere un reinserimento socio-lavorativo del detenuto, attraverso misure alternative alla detenzione. In particolare ha sottolineato la Direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, la Dott.ssa Angela Paravati che - “ il progetto è fondamentale perché c’è la garanzia dei suoi promotori, che sono la Caritas e il Centro Calabrese di Solidarietà con cui - spiega la Dott.ssa - abbiamo rapporti ormai importanti e solidali”. Inoltre, continua a spiegare la Direttrice del Carcere che - “il progetto in una delle sezioni prevede delle borse lavoro per i detenuti che effettueranno lavori all’esterno e quindi potranno avere una retribuzione che sicuramente va ad aiutare quel percorso di crescita e di reinserimento all’interno della società”. E poi c’è un aspetto importante, continua ancora la Paravati, - “l’aspetto sulla Pubblica Utilità, i detenuti andranno ad effettuare gratuitamente dei lavori nelle parrocchie del comprensorio e dei lavori anche manutentivi, anche del verde, per cui è un modo per loro di ripagare la società per gli errori che hanno fatto” -. Ad evidenziare gli obiettivi proprio del progetto è stato durante la Conferenza, Antonio De Marco - Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro - il quale ha dichiarato: - “presentato insieme con la direzione delle carceri e con il Magistrato di Sorveglianza, questo progetto - InsideOut - è un progetto finanziato dalla Caritas italiana e realizzato dal Centro Calabrese di Solidarietà, che ha l’obiettivo di promuovere un’esperienza di apertura delle carceri sul territorio e di inserimento sociale e lavorativo dei detenuti sul territorio stesso, attraverso forme alternative alla detenzione domiciliare e attraverso borse di studio e di lavoro, per consentire la realizzazione degli obiettivi di reinserimento sociale-lavorativo e di riabilitazione che sono la base dell’esperienza detentiva”. Don Roberto Celia, Direttore Caritas di Catanzaro/Squillace, ha invece evidenziato come è fondamentale lo spazio della parrocchia all’interno di questo progetto – “È un progetto con cui stiamo cercando di includere le parrocchie, tre parrocchie hanno aderito a questo progetto, per fare in modo tale che le persone possano inserirsi man mano nella società, a partire dalla parrocchia che è sempre un luogo e un ambiente di accoglienza”. Continua ancora Don Roberto Celia, affermando “la difficoltà maggiore per una persona è dimostrare agli altri che è cambiato. Non tutti trovano, come si legge nella parabola, - un padre che accoglie e che fa festa - c’è bisogno molte volte di superare un pregiudizio e il pregiudizio sappiamo bene che è un po’ difficile da scardinare”. Silvia Saladino, Referente Progetto InsideOut, Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro, ha sottolineato invece l’importanza delle attività di sensibilizzazione all’interno del territorio, che spesso è - “ proprio il terreno di coltura su cui si forma il fenomeno della devianza e in cui si amplifica il fenomeno della devianza. Quindi il progetto insisterà sulla sensibilizzazione della comunità con attività seminariali, con un percorso che coinvolgerà le scuole di Catanzaro, con la realizzazione addirittura di un corso cinematografico che faremo all’interno delle mura del carcere di Catanzaro”. Antonella Prestia, Referente Progetto Caritas di Catanzaro, ha infine sottolineato come - “questo progetto - InsideOut - è stato sostenuto e finanziato da Caritas Italiana che nell’ambito di un progetto carcere più nazionale vuole promuovere una idea di giustizia che non reprime l’essere umano, ma che lo rende sempre più responsabile e consapevole di una responsabilità nei confronti della comunità, nei confronti della quale ha commesso questa violazione” -. Continua ancora la Referente del Progetto Caritas di Cantanzaro - “è un progetto che tende a promuovere una cultura della mediazione e quindi vuole, non solo favorire l’inserimento e la riabilitazione, quanto anche permettere la riparazione di quella relazione che si è rotta tra il reo e la vittima, tra il reo e la società, tra il reo e la comunità, perché si ritiene che la relazione che si ripara è lo snodo attraverso il quale passa il riscatto sia del reo che della vittima. Stiamo tendendo verso una giustizia riparativa, è quello che dovrebbe permettere a questa società veramente di evolvere, di dimostrare come si garantisce anche il principio del giusto processo”. Varese. In Regione approvato stanziamento per realizzare l’orto dei detenuti varesenews.it, 17 settembre 2019 Nella giornata celebrativa del 202° anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, il consigliere regionale Samuele Astuti (Pd), presente questa mattina alla cerimonia al salone Estense del Comune di Varese, sottolinea l’importanza di porre attenzione alle condizioni di lavoro e di vita all’interno degli istituti penitenziari. “Troppo spesso le carceri rimangono in un cono d’ombra, dimenticate dalla società. Vale per chi è detenuto ma anche per chi presta servizio, spesso in condizioni difficili. È sbagliato e poco lungimirante, è importante che le istituzioni e la politica prestino la giusta attenzione. Sono stato a luglio in visita ai Miogni e ho toccato con mano la professionalità di chi ci lavora. Allora presi l’impegno di sostenere in Regione la realizzazione di un progetto, per il recupero dei detenuti e, di conseguenza, anche per migliorare le condizioni dell’istituto”. “Si tratta, semplicemente, di un orto la cui cura è demandata ai detenuti. Ho trovato sensibilità nei colleghi consiglieri, soprattutto dal presidente del Consiglio regionale Alessandro Fermi, e la proposta di stanziamento è stata accolta con il voto favorevole ad un mio emendamento all’assestamento al bilancio. Un fatto positivo che spero possa dare frutti in tempi brevi”, conclude il consigliere regionale. Salerno. Rissa tra detenuti, individuati i responsabili, 13 in custodia cautelare ansa.it, 17 settembre 2019 Sono stati individuati gli autori di una rissa nello scorso mese di aprile tra detenuti nel carcere di Salerno e che provocò anche a lesioni ad alcuni agenti della Polizia penitenziaria ed alla stessa direttrice. Si tratta del risultato di una vasta operazione di polizia giudiziaria congiunta della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno. Questa mattina, ufficiali della polizia giudiziaria in servizio al Nucleo Investigativo Centrale - Articolazione Regionale della Polizia Penitenziaria di Napoli, in collaborazione con la Squadra Mobile di Salerno hanno dato esecuzione ad un’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di 13 persone, all’epoca detenute nel carcere di Fuorni, accusate tra le altre cose di rapina e plurimi episodi di resistenza e violenza a pubblico ufficiale. La vicenda nasce da una vera e propria “guerriglia” tra bande contrapposte di carcerati. Un detenuto napoletano venne aggredito da altri detenuti in gran parte salernitani. In seguito a questo episodio, il gruppo dei “napoletani”, il giorno successivo, il 5 aprile scorso, aggredì un altro detenuto salernitano per vendicare l’accaduto. Questo episodio scatenò una violenta reazione da parte dei salernitani che, per vendicare il compagno di sezione, intrapresero una vera e propria rivolta interna, aggredendo gli agenti penitenziari, sottraendo loro, con violenza e per ben tre volte, le chiavi di accesso. Una prima volta per far uscire i compagni di sezione, successivamente per far accesso alla sezione contrapposta e infine per fare ingresso nella sezione A dei “napoletani” e per ingaggiare con loro una rissa. La sezione interessata venne devastata dagli indagati che distrussero tutto ciò che trovarono, azionando anche un estintore per evitare di essere identificati. Fu possibile riportare l’ordine solo grazie all’intervento del personale in servizio e della stessa direttrice del carcere salernitano. Roma. Una “farmacia di strada” per i senzatetto della capitale di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 17 settembre 2019 La farmacia solidale aperta dai volontari di Regina Coeli in via della Lungara. L’ultima storia di Roma città solidale arriva dalla nuova farmacia di strada, aperta in via della Lungara dall’associazione dei volontari di Regina Coeli con l’aiuto del cappellano del carcere padre Vittorio Trani e i medici di Medicina Solidale. La farmacia è rivolta a chi ha bisogno di medicinali e cure mediche, ma non ha soldi: senzatetto, tossicodipendenti, ex detenuti, ma anche tante famiglie che faticano ad arrivare a fine mese, italiane o straniere. La farmacia è un presidio medico all’interno del centro di accoglienza dei volontari di Regina Coeli guidati da Angela Iannace con padre Vittorio Trani: pasti caldi, assistenza e sostegno per riscattarsi o semplicemente per non sentirsi soli. “Abbiamo iniziato sette anni fa seguendo i detenuti - spiega padre Vittorio Trani - poi chi aveva bisogno. Ad esempio un ragazzo diabetico che viene per l’iniezione. Se non gliela facessimo rischierebbe la morte”. La farmacia servirà a tutto il centro della capitale. Come Thomasz, senzatetto polacco di 50 anni: è caduto giorni fa da un muro riportando una frattura alla colonna vertebrale, ma non aveva i soldi per i farmaci. Ora potrà andare in via Lungara. “Vengono qui - spiega Stefano Giorgi, volontario - perché hanno timore di andare ai pronto soccorso, non hanno il tesserino sanitario”. Si chiama povertà sanitaria: “Il numero di chi non può comprare medicine aumenta”, spiega Lucia Ercoli della Onlus Medicina Solidale, che cura gli indigenti con l’aiuto dell’Elemosiniere del Papa, cardinale Konrad Krajewski. Giovedì sarà inaugurato a Cinecittà un progetto pilota per dare l’accesso gratis alle docce ai bambini che vivono in strada: a ospitarli un istituto salesiano. L’iniziativa coinvolge Medicina solidale, Elemosineria, l’associazione “Dorean dote” e gli scout di Roma est: è un faro su un’emergenza su cui non si possono chiudere gli occhi. La marcia degli ignoti: in cammino per ricominciare di Andrea Colombo Il Manifesto, 17 settembre 2019 Televisione. “Boez”, dieci puntate per Raitre ora su Raiplay: il racconto di sei giovani detenuti sulla via Francigena. Il format rovescia il cliché pettegolo e banale del reality trasformandolo in un bagno nella realtà. Zaino in spalla, poco meno di 800 km da farsi scarpinando per campi e boschi, da Roma fino alla punta d’Italia, sino a Santa Maria di Leuca. Quattro ragazzi più o meno della stessa età, poco più che ventenni, uno con dieci e passa anni di più sulle spalle, una sola ragazza, di origine Rom. Due guide a indicare il percorso, l’educatrice di comunità Ilaria D’Appollonio e l’escursionista Marco Saverio Loperfido, a dirigere, consigliare e mediare gli inevitabili momenti tensioni. Una troupe a riprendere il viaggio. È materiale da reality, con solo il movimento, il percorso con i suoi incontri e gli imprevedibili incidenti, a renderlo diverso dalle case chiuse spiate dal Fratello o dall’Isola che ospita che cerca di recuperare una fama perduta o appannata: la marcia degli ignoti. Ma se i non-famosi in questione vengono tutti dall’universo carcerario, dal carcere dalla comunità o dai domiciliari, se il più maturo è stato scelto proprio perché dietro le sbarre ha passato l’intera giovinezza, essendo entrato in carcere quando aveva l’età dei compagni di viaggio e anche di meno, proprio l’apparente banalità del format moltiplica l’effetto spiazzante, rovescia il cliché pettegolo e guardone come un guanto, trasforma l’accomodante reality in un inquietante bagno nella realtà. Boez, il programma in dieci puntate che Raitre ha appena finito di trasmettere (ma è disponibile sulla piattaforma di Raiplay), di Roberta Cortella e Paola Pannicelli, con la stessa Cortella anche in veste di regista e guida insieme a Marco Leopardi, ha dimostrato nei fatti come una formula abusata possa con pochi e magistrali tocchi essere non solo rivitalizzata ma anche affrancata dalla sua futilità congenita e trasformata in oro. Boez è la cronaca registrata di un evento felice. Racconta un viaggio fatto di sorrisi, di ricordi amari e attese dolci, di disperazione controbilanciata e superata dalla voglia di lasciarsela alla spalle, da una boccata di fede regalata proprio da questo improbabile viaggio a piedi. Proprio la felicità che accompagna Maria, Omar, Francesco, Alessandro, Matteo e Kekko anche nei momenti difficili, che spunta anche quando conquistano la fiducia reciproca, e ci vuole un po’, necessaria per raccontarsi storie tragiche, rende l’esperienza dello spettatore drammatica, in equilibrio precario tra speranza e tristezza profondissima. I famosi, quando tornano stanchi dall’Isola, trovano ad aspettarli casa, comodità e riposo. Per questi escursionisti la fine della lunga camminata implica la chiusura di una parentesi di libertà. Li aspetta la galera, con o senza sbarre e secondini. Li aspetta, anche nella migliore e più rosea delle ipotesi, un futuro incerto ma in ogni caso difficile. Cortella e Pannicelli hanno lavorato rovesciando in tutto la logica del format che hanno scelto di adottare per raccontare cos’è davvero quella galera che a troppi sembra un auspicabile rimedio, l’esercito cieco che si balocca esaltando la “certezza della pena”. Il reality, per definizione, crea artificiosamente una sospensione della normalità che mira a far impennare la tensione puntando sulla costrizione della spazio chiuso e sulla competitività tra chi in quello spazio è costretto. Qui la costrizione è la norma, la libertà, esaltata dai panorami quasi sempre a cielo aperto, è l’artificio. La solitudine e la diffidenza sono il pane quotidiano, l’amicizia e il cameratismo che nascono tra i giovani detenuti lungo il cammino sono l’eccezione. Boez ha detto più cose sul carcere e contro il carcere di un centinaio di convegni. Ma ha anche detto molto, indicando una via opposta, sulla banalità dell’uso che della Tv si fa in Italia. Il giorno che incontrai Pietrostefani di Mario Calabresi La Repubblica, 17 settembre 2019 Libri. Anticipiamo un capitolo del nuovo libro di Mario Calabresi (“La mattina dopo”, Mondadori, pagg. 144, euro 17), in uscita il 17 settembre. L’ex direttore di “Repubblica” racconta di quando a Parigi guarda negli occhi l’uomo condannato per la morte del padre. Rimaneva una cosa da fare, per mettere ordine e fare i conti con il passato. Il giorno dopo finisce quando i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi immaginato. Dovevo fare un incontro che avevo evitato diciassette anni prima. Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre. Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio. A un certo punto dei processi andò a vivere in Francia. Dopo la sentenza di Cassazione che confermò la condanna definitiva tornò in Italia e passò due anni nel carcere di Pisa. Poi venne accordata una revisione del processo, che si tenne a Mestre. Prima della sentenza della Corte d’appello di Venezia, la quindicesima di un percorso durato dodici anni, che rigettava la richiesta di revisione e confermava le condanne, fuggì a Parigi. Non è mai più tornato. E nessuno lo ha mai chiesto indietro con convinzione. Così ha vissuto libero in Francia per più di vent’anni. Nell’estate del 2002, nei giorni in cui si giocavano i mondiali di calcio di Giappone e Corea del Sud, ero a Parigi per seguire le elezioni politiche. Una sera un collega mi invitò a casa sua per vedere la partita dell’Italia, ma prima di accettare venni a sapere che in quel salotto, nella poltrona di fronte alla televisione, ci sarebbe stato Giorgio Pietrostefani. L’idea di trovarmelo davanti, in un contesto di svago, non era sopportabile, cosi non andai. Pensai che era curioso che tanti lo conoscessero e lo frequentassero ma per lo Stato italiano fosse un latitante. Anni dopo avremmo saputo anche che riceve regolarmente una pensione grazie ai contributi versati quando lavorava in Italia. Ogni volta che sono stato in Francia in questi anni ho immaginato di andare a cercarlo, c’erano molte cose che avrei voluto chiedergli e volevo guardarlo negli occhi, oltre quegli occhiali. Poi c’era sempre qualcosa da fare capace di esentarmi da quella fatica. Finché l’arresto e l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac fuggito prima in Francia e poi in Brasile, hanno riportato il tema dei latitanti della stagione del terrorismo nel dibattito politico e sulle prime pagine dei giornali. Nei miei ultimi giorni di lavoro a Repubblica ho saputo che il suo nome era in cima alla lista della dozzina di ex terroristi di cui il ministero della Giustizia chiede finisca la latitanza parigina. Era stato anche lui protetto in nome della “dottrina Mitterrand”. Ma l’accoglienza garantita da quel presidente francese, che regnò per tutti gli anni Ottanta e per ben metà del decennio successivo, si sarebbe dovuta applicare solo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Ho trovato il tempo per andare a cercare i documenti e le interviste di François Mitterrand e non ci sono molte cose da interpretare. Ho cercato allora di capire che fine avesse fatto Pietrostefani, ormai aveva passato la metà dei settanta, e dove vivesse. Ho scoperto che aveva avuto un trapianto di fegato e che viveva quasi più negli ospedali che a casa. Allora ho sentito che era tempo di farlo. Non c’erano più impegni urgenti e pressanti. E avevo chiara la sensazione che se l’avessi evitato di nuovo e l’incontro non ci fosse stato, un giorno avrei considerato tutto questo un’occasione perduta. Ho cercato un contatto che non desse spettacolo, che fosse riservato. L’ho trovato e ci ho messo due mesi per arrivare in fondo. Ho avvisato mia madre, che mi ha chiesto cosa mi aspettassi e mi ha aiutato a trovare lo spirito giusto. Lei ci aveva pensato molto e alla fine mi ha ripetuto tre volte la stessa frase: “Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita”. Quella mattina esco all’alba, cammino per più di due ore per Parigi, facendo il giro di tutti i posti che hanno qualcosa da dirmi. Il ristorante dove Tonino ci ha fatto provare per la prima volta le ostriche, nell’unico viaggio che abbiamo fatto tutti insieme fuori dall’Italia. Resta una foto bellissima con tutti e quattro i figli appoggiati al muretto di un ponte sulla Senna. Vado in Rue Mouffetard dove il mio amico Corso mi portava a prendere delle gigantesche crêpe salate e scendo a Notre-Dame. Non ci sono ancora turisti ma è tutto transennato, la cattedrale ferita si può guardare solo da lontano. È ancora in piedi e le due torri della facciata danno un senso di forza e di appartenenza che va oltre la cronaca e appartiene alla Storia. Poi arriva il primo pullman di turisti, scarica un fiume di asiatici che cominciano a farsi selfie con uno degli sfondi più famosi del mondo. È tempo di andare. Si alza un vento fortissimo, annuncia tempesta. Ho imparato la puntualità, arrivare in anticipo mi sembra una delle più belle conquiste di questo tempo nuovo. L’uomo che mi trovo di fronte ha la barba bianca, è talmente magro da sembrare la metà di quello di un tempo. Ha quasi 76 anni, ne aveva 28 quel 17 maggio 1972 quando spararono a mio padre. Io avevo due anni e mezzo. Infagottato in un giubbotto verde, con gli occhiali da sole quadrati che aveva anche ai tempi del processo. Lo vedo che cammina avanti e indietro di fronte all’albergo, guarda continuamente l’ora, è anche lui in anticipo. Allora esco e gli vado incontro, anche se non sono sicuro che sia lui perché è irriconoscibile. Solo gli occhi, noto dopo, ricordano chi era. È teso. Deve aver dormito peggio di me. Incontrare uno che somiglia cosi tanto a quel poliziotto contro cui scatenarono una delle più violente campagne di odio della storia del nostro paese, fino al suo omicidio, non deve essere facile. Fare i conti con la Storia nemmeno. Parliamo per mezz’ora, seduti nella hall di un anonimo albergo popolato solo di turisti americani. C’è stato un momento, molti anni fa, in cui mia madre decise che pubblico e privato si sarebbero separati per sempre. Che non avremmo più parlato di processi. Chiedevamo giustizia e, seppur dopo tanti anni, l’abbiamo ottenuta, tutto il resto - dall’esecuzione delle pene, ai permessi, all’estradizione fino alle grazie - non spettava a noi ma allo Stato. Ricordo l’esatto momento in cui mia madre mi disse che era giusto fare cosi. Eravamo seduti in macchina sotto casa della nonna, chissà perché. Forse perché lei era l’unica ad avere il computer e la stampante, nonostante i suoi ottant’anni. Dovevamo compilare un modulo per dare il nostro parere sulla richiesta di grazia per Ovidio Bompressi, condannato per aver sparato a mio padre, il presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi. Il modulo prevedeva che noi potessimo dire sì o no. Mia madre si rifiutò e ragionò: non siamo nel Medioevo che una famiglia decide se una persona deve stare o meno in carcere, la giustizia non può essere un fatto privato, tanto che viene amministrata in nome del popolo italiano. Lo Stato deve avere il coraggio delle sue decisioni, assumendosene la responsabilità. Non può nascondersi dietro una famiglia. Noi ci rimettiamo all’interesse generale, non ci metteremo di traverso e non commenteremo in alcun modo, faccia il presidente della Repubblica quello che ritiene giusto per l’Italia. Da quel momento mia madre non ha più detto una parola sulle vicende e ha intrapreso con convinzione un processo di pacificazione interiore. Un percorso privato, con cui ha sempre cercato di contaminare me e i miei fratelli. Questi percorsi sono fatti di passi avanti e marce indietro, ma sono fondamentali per trovare una pace interiore. Cosi sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi vent’anni. Dovevo farlo. Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero. Lo studio legale più grande d’Italia? Difende i senza difese di Paolo Beltramin Corriere della Sera, 17 settembre 2019 L’associazione “Avvocato di strada” ha 54 sedi da Bolzano a Catania. Ogni giorno più di cento indigenti ricevono assistenza gratuita. Ecco come funziona. È lo studio legale più grande d’Italia, ma anche quello che fattura meno. Ha 54 sedi sparse in venti regioni, da Bolzano a Catania, e 1.051 collaboratori tra avvocati, praticanti, studenti universitari e pensionati. Tutti insieme potrebbero abbracciare il Colosseo, per farli sedere a riposare in un parco non basterebbero 350 panchine. Avete presente gli squali da processo dei romanzi di John Grisham, o magari gli elegantissimi avvocati d’affari di Suits, la serie tv che ha reso celebre la futura duchessa di Sussex? Ecco, questa è tutta un’altra storia. Lo studio si chiama “Avvocato di strada”, è stato fondato a Bologna nel 2000, in una stanzetta presa in prestito con dentro solo un computer di seconda mano e un telefono fisso. Da allora si è ingrandito parecchio, fino a meritarsi il premio all’impegno civile del Parlamento europeo. Tutti gli avvocati associati, anche se sembra un ossimoro, continuano a lavorare gratis. I loro clienti d’altronde non hanno un soldo in tasca, “portano le scarpe da tennis e parlano da soli”; però, come cantava Enzo Jannacci, in fondo hanno gli occhi buoni. L’anno scorso i volontari della Onlus “Avvocato di strada” hanno seguito 3.945 pratiche. Offrono assistenza legale in tutte le sfere del diritto: civile, penale, amministrativo. Ogni giorno, più di cento persone in stato di indigenza si rivolgono agli sportelli dell’associazione per chiedere aiuto. Antonio, cittadino italiano senza dimora, si è presentato alla sede di Treviso con le idee chiare: aveva sentito tanto parlare del reddito di cittadinanza e si era messo in testa di averne diritto anche lui, ultimo tra gli ultimi, lui che il lavoro l’ha perso da anni, è stato sfrattato dal suo appartamento, e un po’ alla volta è rimasto senza più niente. In pratica, all’Inps Antonio ha scoperto di essere troppo povero per ricevere il sussidio di povertà: chi non ha la residenza, oltre a perdere automaticamente il diritto di votare alle elezioni, non può presentare domanda per ricevere il contributo pubblico. “Per prima cosa abbiamo contattato il Comune chiedendo la sua reiscrizione all’anagrafe, in una via fittizia - racconta la responsabile dello sportello, Isabella Arena, 38 anni, penalista - ma non è bastato: c’è pure il requisito della residenza stabile e continuativa. Però non ci siamo arresi e abbiamo portato il caso fino al ministero del Lavoro, speriamo davvero che possa essere trovata una soluzione. Il mio assistito non chiede solo un aiuto economico, ma di avere un’opportunità per tornare a lavorare”. Giorgio Fantacchiotti è partner di Linklaters, tra le più prestigiose law firm internazionali. Ed è responsabile di uno dei tre sportelli di Avvocato di strada a Milano, in piazza San Fedele. “Avere un supporto legale pro bono può essere utile non solo a tante persone senza dimora, ma anche a chi rischia di diventarlo. Noi stiamo assistendo molte famiglie straniere composte da genitori che lavorano e figli piccoli, che hanno acquistato immobili indebitandosi; sono badanti, operai, muratori, che appena vedono contrarsi lo stipendio di poche centinaia di euro, non riescono più a pagare il mutuo. Nel giro di periodi brevi, da 12 a 24 mesi, passano da condizioni di vita dignitose al rischio concreto di non avere più un posto per dormire. Per molte di queste famiglie siamo riusciti a trovare una mediazione, collaborando con il Comune, per ottenere il tempo necessario a trovare loro una sistemazione in comunità, prima che perdessero la casa”. Spesso le difficoltà cominciano dopo una causa di divorzio. Mario, in Puglia, ogni mese doveva versare l’assegno di mantenimento per la sua bambina, ha perso il lavoro da un giorno all’altro, le raccomandate delle bollette non pagate sono rimaste chiuse una sopra l’altra. Quando si è messo in fila nell’ufficio all’Avvocato di strada di Bari, già da tre anni dormiva sotto una capanna fatta di cartoni, che spostava ogni notte tra le vie del centro storico. “Anche se è finito per strada - spiega il suo legale Nicola Antuofermo - Mario è ancora proprietario di un immobile, un appartamento dignitoso in provincia. Quando non è stato più in grado di mantenerlo, ha deciso di metterlo in affitto, così da avere i 350 euro al mese per poter sopravvivere”. Dopo qualche tempo, però, l’inquilino ha smesso di pagare. “Così gli ho inviato la lettera di messa in mora, perché la proprietà è un diritto garantito dalla Costituzione. Anche per chi non ha i mezzi per difendersi. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di servizio, è che può capitare a chiunque di perdere tutto. Anche a un laureato del ceto medio, anche a un professionista. Sì, potrebbe capitare anche a me”. Ma come ha deciso Antuofermo, 37 anni, di diventare un avvocato di strada? “Volevo dedicare un po’ del mio tempo libero alle mie due passioni: il volontariato e la giurisprudenza. Così, ormai dieci anni fa, io e un paio di colleghi abbiamo cercato su Google...”. E si sono messi in contatto con Antonio Mumolo, vulcanico giuslavorista del foro di Bologna, oggi consigliere regionale dem in Emilia-Romagna, anche se il suo accento porta dritto a Brindisi, dove è cresciuto. L’idea gli è venuta quando era ancora uno studente universitario, durante le notti passate ad assistere i clochard con l’associazione Piazza Grande. “Portavamo loro coperte, vestiti e pasti caldi. Ma spesso la cosa più preziosa, per loro, era avere qualcuno con cui fare due chiacchiere. Così, sotto i portici si sparse la voce che ero avvocato, e uno alla volta in molti si presentarono per sottopormi i loro casi. Sembra assurdo, ma in Italia spesso per uscire dalla strada bisogna avere un buon avvocato”. Già, perché chi perde la residenza si trova senza molti diritti basilari: non può più ottenere cure specialistiche in ospedale, non può aprire una partita Iva, non può firmare un contratto di lavoro, non può ritirare la pensione. “Tornare a una vita dignitosa è un percorso a ostacoli, anche per colpa della burocrazia”, spiega Mumolo. La giurisprudenza, però, può essere un alleato prezioso: “Anche se in Italia a volte è diventata lo strumento dei più furbi, non dobbiamo dimenticare che la legge è nata per tutelare i più deboli: è questo lo spirito delle tavole di Hammurabi, e anche della Magna Charta. Gramsci diceva che i libri sono come armi. Ecco, per me i codici sono le armi più potenti contro le ingiustizie”. In questi 19 anni, l’Avvocato di strada ha convinto - con le buone o con le cattive (“cioè facendo causa”) - centinaia di Comuni a stabilire delle vie fittizie per consentire la registrazione all’anagrafe di chi dorme per strada. “Certo, questo è solo un punto di partenza, non la soluzione del problema”, ammette Mumolo. A proposito, ma non si sente mai come chi vuole raccogliere l’acqua del mare con un cucchiaino? “Potrebbe anche essere così... Ma non far niente è peggio. E chi non fa niente perde il diritto di lamentarsi per le cose che non vanno”. E poi a volte capitano vittorie che non hanno prezzo. Allo sportello di Palermo, l’estate scorsa è arrivata la segnalazione di una signora di una quarantina d’anni, che vagava per le strade del centro in stato confusionale. Non aveva documenti, non parlava italiano né inglese, non riusciva a dire nemmeno come si chiamava. “L’abbiamo portata subito in un dormitorio - racconta Francesco Campagna, 48 anni, primo Avvocato di strada in Sicilia - ed è stata presa in carico dal reparto di psichiatria dell’ospedale. Pian piano, ci sono volute settimane, abbiamo ricostruito la sua storia: si chiamava Paulina, era un’immigrata ghanese, residente regolarmente a Dortmund da anni, con la sua famiglia. Un giorno aveva deciso di prendere un volo low cost per Palermo, dove c’è una grande comunità ghanese, sperando di incontrare alcuni amici. Appena uscita dall’aeroporto, però, le avevano rubato tutto”. Attraverso l’ambasciata del Ghana, di cui è diventato anche console onorario, Campagna ha contattato i parenti della donna in Germania e le ha fatto ottenere un nuovo passaporto. “Ricordo che teneva sempre una bambola di pezza stretta tra le braccia: forse il ricordo di una sua figlia perduta, ma questo non lo saprò mai”. Qualche tempo fa, Campagna ha ricevuto una telefonata. Era Paulina, aveva appena rimesso piede a casa sua. Voleva soltanto dirgli grazie. Migranti. L’auspicabile agenda del ministro Lamorgese di Stefano Allievi La Stampa, 17 settembre 2019 Il cambiamento avvenuto al ministero dell’Interno non potrebbe essere più drastico. Non tanto e non solo per il diverso orientamento dei ministri Salvini e Lamorgese - sarebbe banale. Ma per la radicale diversità di metodo e di stile. Si è passati da un ideologo a un tecnico, da un capo partito in perenne campagna elettorale (alle cui esigenze ha distorto la sua carica istituzionale) a un prefetto che nemmeno possiede un account per comunicare sui social, e soprattutto da una persona che aveva interesse a creare problemi e contrapposizioni, perché da essi lucrava il proprio crescente consenso, a una persona abituata a risolverli, i problemi, e sopirle, le contrapposizioni. Per mestiere, prima che per opzione politica. Ma questo cambiamento dovrà sostanziarsi in politiche: che, per prima cosa, dovranno distinguere la questione dei richiedenti asilo da quella dell’immigrazione, di cui la prima è una parte minore. Gli “sbarcati” costituiscono infatti solo una percentuale a una cifra del totale degli immigrati, il grosso degli irregolari non è affatto sbarcato (sono overstayers diventati irregolari a causa della legge Bossi-Fini, che vincola il permesso di soggiorno al possesso di un lavoro), e le persone ospitate nei centri di accoglienza non hanno mai superato le trecentomila, e sono in calo. Per questo è bene non lasciare il focus dell’attenzione sulle Ong: questione di bandiera, non di sostanza. Sono molti di più gli immigrati arrivati attraverso gli “sbarchi fantasma” o via terra che quelli salvati dalle Ong. E nella assurda lotteria su ogni singola barca, per decidere quanti ne avrebbe presi ogni singolo paese, gli stessi a cui si concedeva di fare bella figura a poco prezzo, accogliendone dieci o venti, ne restituivano all’Italia - nell’interessato silenzio del ministero - anche cento volte tanto con i charter dei “dublinanti” rimandati nel paese di primo approdo. Il problema dei salvataggi nel Mediterraneo non si risolve in mare, ma nelle capitali africane e a Bruxelles - è lì che va concentrata l’azione politica e diplomatica. Attraverso accordi con i paesi di partenza dei migranti (responsabilizzandoli - in cambio di migrazione regolare e regolata - nel controllo dell’immigrazione irregolare), e andando verso una Agenzia europea per l’immigrazione, che gestisca l’intera filiera (salvataggi, redistribuzione, rimpatri - rivedendo gli accordi di Dublino). Sapendo che la prima azione veramente utile per diminuire gli arrivi irregolari è riaprire i canali di arrivo regolare (i primi sono aumentati esponenzialmente quando si sono chiusi i secondi). Per cogenti ragioni demografiche e di mercato del lavoro Europa e Italia avranno bisogno di una quota non modesta di immigrazione: ma questa deve essere organizzata, gestita, selezionata in base alle esigenze, e soprattutto spiegata ai cittadini. Passando da una politica basata sulla paura (indirizzata verso un facile capro espiatorio) a un approccio fatto di ragionamenti, di interessi reciproci, di informazioni oneste, di dati. Poi, finalmente, occorre investire in integrazione: la vera posta in gioco sta lì. E conviene. Migranti. L’Ungheria contro l’Italia: “Pericoloso aprire i porti” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 settembre 2019 “Facile fare i sovranisti con le frontiere degli altri”. Il neoministro degli Esteri Luigi Di Maio non lascia scivolare come niente fosse l’ingerenza del collega ungherese Peter Szijjarto che ha definito “deplorevole e pericolosa” la decisione del governo italiano di concedere il porto alla Ocean Viking. “L’Ungheria non accetterà alcun tipo di quota e difenderà le sue frontiere con tutti i mezzi”, l’annuncio secco di Szijjarto. Parole davanti alle quali Di Maio ribadisce la posizione dell’Italia nel negoziato europeo sulla ripartizione dei migranti: “L’Italia da anni vive un’emergenza causata anche e soprattutto dall’indifferenza di alcuni partner europei come l’Ungheria. Chi non accetta le quote deve essere sanzionato duramente”. Il braccio di ferro è solo all’inizio anche perché sul tavolo si impone spinosa la questione degli accordi con la Libia. A conferma dello sconcertante rapporto dell’Onu che solo qualche giorno fa a Vienna ha denunciato il criminale ruolo della polizia libica nel riconsegnare e vendere i migranti ai trafficanti, è arrivata l’inchiesta della squadra mobile e della Procura di Agrigento, poi diventata di competenza della Dda di Palermo per la gravità dei reati, a cominciare da quello di tortura per la prima volta contestato in Italia. Un’inchiesta che, per la prima volta, ha acceso i riflettori su un centro di detenzione ufficiale dove per altro ha accesso anche l’Oim e dove la polizia libica porta i migranti consegnandoli nelle mani dei trafficanti aguzzini alimentando il business criminale a suon di torture, stupri, violenze, ricatti, estorsioni. Imbarazzante è dir poco visto il sostegno finanziario e di formazione che l’Italia e l’Europa continuano ad assicurare alla Libia. Il centro di detenzione-lager è quello nell’ex base militare di Zawija, una fortezza recintata da alte mura a poche decine di metri dalla spiaggia. È il “porto sicuro” che la Libia aveva offerto pochi giorni fa alla Ocean Viking per sbarcare gli 84 migranti soccorsi nel Mediterraneo. In quell’inferno per mesi hanno svolto con estrema crudeltà il loro lavoro di torturatori i due egiziani e il guineano fermati ieri nell’hot-spot di Messina dove erano arrivati alcuni mesi fa come migranti. A riconoscerli sono stati quattro delle loro vittime approdati poi in Italia a luglio con il veliero Alex di Mediterranea. “Due poliziotti in uniforme ci hanno venduto a Ossama (il capo dei trafficanti). Ci hanno portato in quella ex base militare, eravamo circa 900 persone, anche bambini. Ci davano da mangiare solo pane e da bere acqua di mare. Un migrante accanto a me è morto di fame, le donne venivano portate via dai carcerieri per essere violentate. Da questa prigione si esce solo pagando”, la testimonianza di Yussif Muftaa, rinchiuso lì con la moglie. E poi omicidi a sangue freddo, frustate, torture con scariche elettriche, mazze e bastoni. È la realtà che aspetta anche i migranti che vengono soccorsi dalla Guardia costiera libica e riportati indietro. Dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio: “Sono crimini contro l’umanità, è necessario agire a livello internazionale”. Migranti. La sostituzione etnica? Sorpresa a Genova: colpa di “sciacalli” italiani di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 17 settembre 2019 L’assessore-sceriffo ha scoperto dieci case dormitorio piene di immigrati clandestini. Ma i proprietari, che non pagano neppure le tasse, non sono stranieri. Prima gli italiani? Sì: ad approfittarsi dei più deboli. Viene da Genova una notizia che dovrebbe far riflettere le prefiche della xenofobia, sempre pronte a intonare il lamento della “sostituzione etnica”. Se sostituzione c’è (e in alcuni carruggi genovesi c’è, eccome: gli antichi residenti essendo spariti quasi del tutto) i primi agenti di questo fenomeno sono nostri connazionali senza scrupoli. Lo certifica il leghista Stefano Garassino (detto “lo Sceriffo”), assessore alla Sicurezza della giunta guidata da Marco Bucci. Seguendo un’intuizione che covava da tempo, lo Sceriffo è andato coi suoi vigili a ficcare il naso in uno di questi vicoli, salita San Paolo, accanto alla famigerata via Pré, dopo un lavoro incrociato con l’Agenzia del territorio, quella delle Entrate e l’Amiu (la municipalizzata della nettezza urbana). Ha scoperto dieci case dormitorio piene di immigrati clandestini accatastati in letti a castello (per 2-300 euro mensili a posto letto), senza nemmeno l’acqua corrente: veri invisibili. Dai prestanome è arrivato ai proprietari, quasi tutti italiani che non pagavano nemmeno le tasse (“sciacalli che approfittano della situazione per arricchirsi”, li bolla pragmatico l’assessore). Era storia nota ma mai messa così in chiaro. Vecchi residenti rovinati dalla crisi lasciano le case in centro, speculatori italiani le comprano a due soldi: subaffittando a posto letto ricavano seimila euro al mese laddove ne prenderebbero 600 con affitti regolari. E chi occuperà quei posti letto? I migranti senza permesso di soggiorno, l’ultimo anello debole. Garassino ha seguito la pista della “rumenta” (l’immondizia): se un quartiere ne produce per 28 mila e i residenti sono ventimila, lì ci sono 8 mila invisibili. Ora dice che sciacalli senza coscienza “mettono in pericolo la sicurezza nazionale”. E promette repliche. Con uno slogan stavolta assai condivisibile: prima la legalità. Libia. Torture e stupri nel centro per i migranti di Alfredo Marsala Il Manifesto, 17 settembre 2019 Le testimonianze di alcuni naufraghi consentono l’arresto in Italia di tre persone. Contestato per la prima volta il reato di tortura. Da bere acqua di mare, pane duro per cibo. Rinchiusi in celle anguste tra immondizia e insetti per mesi. Nel campo, torture di ogni tipo: scariche elettriche, bastonate, colpi con il calcio dei fucili e con tubi di gomma, frustate. Le donne violentate ripetutamente. Minacce di morte continue per i migranti prigionieri e per i familiari costretti a pagare il riscatto e a guardare le foto dei propri cari mentre vengono torturati. Senza soldi niente partenza con i barconi. Molti non ce la fanno a resistere. Come due fratelli della Guinea, deceduti per le gravi ferite provocate dai torturatori, i loro corpi abbandonati chissà dove. Siamo a Zawyia, città della Libia. A raccontare le barbarie nella prigione degli orrori sono stati alcuni migranti ascoltati dalla squadra mobile di Agrigento, dopo essere stati soccorsi in mare dalla nave Alex della ong Mediterranea. Le loro testimonianze sono finite nel rapporto che gli investigatori hanno consegnato alla Procura della città dei templi, che ha poi girato il fascicolo per competenza alla Dda di Palermo. Per la prima volta gli inquirenti contestano il reato di tortura, introdotto nel luglio del 2017, oltre all’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, la tratta, l’estorsione, la violenza sessuale e gli omicidi. Tre le persone fermate, riconosciute dai testimoni come i carnefici di Zawyia: Mohamed Condè detto Suarez, 22 anni della Guinea; Hameda Ahmed di 26 anni e Mahmoud Ashuia, 24 anni, entrambi egiziani. I tre si trovavano nell’hotspot di Messina quando sono stati presi in carico dagli investigatori. Molti dei migranti che li hanno riconosciuti, attraverso le foto-segnaletiche, sono stati sentiti nei centri d’accoglienza di Castelvetrano (Tp) e Marsala (Tp) o in alcuni comuni della Calabria, dove nel frattempo erano stati trasferiti dopo l’approdo a Lampedusa. Hanno raccontato che il capo dell’organizzazione si chiama Ossama, è lui a gestire il campo di Zawyia. Secondo gli inquirenti i profughi, con inganno o violenza o dopo essere stati venduti da una banda all’altra o da parte della stessa polizia libica, vengono rinchiusi nell’ex base militare capace di contenere migliaia di persone. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri la banda usa un telefono di servizio”, tramite il quale i migranti sono costretti a contattare i propri congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Chi non paga viene ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi paga viene rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia. Strazianti le testimonianze. “Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiate all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni”, racconta una delle vittime della prigione di Zawyia. “Le condizioni di vita sono inaudite - dice il profugo - Durante la mia prigionia ho visto che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare”. E ancora: “Eravamo divisi in gruppi per nazionalità e per sesso - riferisce un’altra vittima - Le donne erano messe tutte insieme, mentre noi uomini eravamo divisi per la nazione di appartenenza. Io ero con i camerunensi. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno. Tutti i giorni invece venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri. Erano spietati, il capo si chiama Ossama ed è un libico in abiti civili, con sé aveva delle pistole”. L’uomo ha perso la sorella in quel campo, dove sono rinchiusi i suoi nipoti. ““Ho visto morire tanta gente - aggiunge - Con me all’interno di quel carcere c’era mia sorella Nadege, che purtroppo è morta lì per una malattia non curata. Mia sorella aveva con sé le due figlie di 7 e 10 anni, sono ancora detenute in Libia”. Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ribadisce l’esigenza di un intervento della comunità internazionale. “L’indagine ha dato la conferma delle inumane condizioni di vita all’interno dei capannoni di detenzione libici - commenta - e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l’umanità”. Siria. Amnistia concessa dal presidente Bashar Al-Assad afp.com, 17 settembre 2019 Il presidente siriano Bashar al-Assad il 15 settembre 2019 ha emanato un decreto per rilasciare o ridurre la pena di vari prigionieri, inclusi alcuni detenuti ai sensi della “legge sul terrorismo” del Paese. La cosiddetta “amnistia generale” è l’ultimo di una serie di decreti, tra cui uno nel 2014 che ha visto il rilascio di migliaia di detenuti. Quest’ultimo decreto prevede la liberazione di alcuni prigionieri detenuti ai sensi di una “legge sul terrorismo” del 2012, usando un termine generico per attivisti antigovernativi, ribelli e jihadisti. Le persone incarcerate ai sensi della legge del 2012 per “cospirazione” o che non hanno informato le autorità di un atto di “terrorismo” devono essere rilasciate, secondo il decreto. L’amnistia non si estende però a chi è stato condannato per aver ucciso qualcuno o per averlo reso paralitico. Eccezioni a parte, i prigionieri condannati a morte dovranno invece scontare l’ergastolo con lavori forzati. Quelli che sono stati condannati all’ergastolo con lavori forzati dovranno invece lavorare per 20 anni, e quelli che hanno ricevuto una condanna all’ergastolo dovranno passare in carcere 20 anni. Anche i prigionieri con malattie incurabili di età superiore ai 75 anni saranno rilasciati. I disertori che si consegnano entro tre mesi in Siria o entro sei mesi fuori dal Paese sono esentati dalla punizione. Lo stesso vale per i sequestratori che rilasciano i loro ostaggi sani e salvi entro il prossimo mese. Tunisia. Il magnate dei media in carcere e un indipendente al ballottaggio L’Osservatore Romano, 17 settembre 2019 Il magnate dei media, Nabil Karoui, attualmente in carcere, e il costituzionalista Kaïs Saïed sono i due contendenti che si affronteranno al ballottaggio per la carica di presidente della Tunisia. È quanto indicano i primi exit poll di domenica sera che hanno registrato anche un netto calo dell’affluenza (45 per cento) rispetto alle elezioni precedenti. Secondo le previsioni dell’agenzia Sigma Conseil, Saïed sarebbe in testa, sfiorando il 20 percento delle preferenze. Indipendente, conservatore, è un professore di diritto costituzionale che ha messo la lotta alla corruzione al centro della sua campagna elettorale. Avrebbe conquistato il consenso soprattutto giovanile, proponendo misure che, accanto alla conferma del ricorso alla pena di morte, prevedono la condanna della depenalizzazione dell’omosessualità e del progetto di legge sulla parità di genere in tema ereditario. Ma il giurista, che si dichiara “non islamista”, avrebbe inoltre proposto un programma chiaro e rigoroso di risanamento delle istituzioni statali e di ripresa economica. I sondaggi avevano invece previsto risultati migliori per Karoui, che sarebbe rimasto appena sopra il 15 per cento. Il voto è stato comunque accolto come un successo dai simpatizzanti del fondatore di Nessma Tv. In carcere da agosto con le accuse di riciclaggio ed evasione fiscale, Karoui ha fatto leggere un messaggio di ringraziamento in cui ha sottolineato che “questo voto esprime la volontà di cambiamento auspicata dal popolo, di dire no all’ingiustizia, no alla povertà, no alla marginalizzazione e sì a uno Stato equo”. Durante la campagna elettorale, il tycoon avrebbe usato la propria rete televisiva per raccogliere fondi per la sua associazione caritativa Khalil Tounes. Così si sarebbe posizionato come il candidato “per il popolo” e per i poveri. Karoui, che si è definito “prigioniero politico”, non è stato ancora condannato ed è in custodia cautelare preventiva. Sua moglie Salwa Smaoui, festeggiando il risultato in vista del ballottaggio di ottobre, ha annunciato che la difesa presenterà ai giudici una nuova domanda di liberazione al più presto. L’aria di cambiamento cui allude Karoui è visibile anche nell’eterogeneità delle elezioni, dove i candidati erano ben 24, e i vincitori, secondo gli exit poll, per lo più indipendenti. Secondo i dati di Sigma Conseil, a seguire Saïed e Karoui, sarebbero Abdelfattah Mourou, il candidato del partito islamista moderato Ennahdha, l’indipendente ministro della Difesa dimissionario Abdelkrim Zbidi, e più in basso il primo ministro uscente Youssef Chahed. Sembrerebbe così superata l’opposizione binaria di campo islamista e progressista, così come il sistema dei partiti tradizionali, lasciando il posto a un orizzonte nel quale si evidenzia in primo luogo la disoccupazione giovanile ma anche una crescente frammentazione politica. Come accennato, l’affluenza alle elezioni, secondo quanto dichiarato dalla commissione elettorale, è stata del 45 per cento, in calo di 20 punti rispetto all’entusiasmo sollecitato solo 8 anni fa dalle rivolte della cosiddetta “Primavera araba”. Le elezioni hanno seguito un periodo elettorale breve ma acceso, caratterizzato dalle reciproche accuse di corruzione tra candidati. Birmania. L’allarme dell’Onu: “A rischio genocidio 600 mila Rohingya” La Repubblica, 17 settembre 2019 Circa 600 mila membri della minoranza Rohingya vivono in Birmania “sotto grave rischio di genocidio” e i responsabili all’interno dello Stato devono essere portati davanti alla Corte penale internazionale. L’allarme arriva dalla missione di verifica delle Nazioni unite, che ha rilevato “motivi ragionevoli per concludere che gli elementi di prova che consentono di dedurre l’intenzione genocida dello Stato” si “sono rafforzati” dall’anno scorso. Per gli esperti, “esiste un rischio grave che atti di genocidio possano prodursi o riprodursi”. Un anno fa un precedente rapporto aveva constatato “atti di genocidio” nelle “operazioni di pulizia” della Birmania del 2017 che avevano causato la morte di migliaia di persone e provocato la fuga in Bangladesh di oltre 740.000 membri della minoranza musulmana.