Il carcere è una priorità. Solo per Papa Francesco, non per il Governo di Franco Corleone L’Espresso, 16 settembre 2019 L’11 settembre avevo scritto un pezzo su “Il Manifesto” auspicando che il nuovo governo abbandonasse le vecchie ricette sul carcere e segnasse una discontinuità nei programmi e nelle azioni. Il silenzio nel programma è assordante e l’appello del prof. Fiandaca per garantire nel governo la presenza di una personalità che per storia, cultura e esperienza desse il segno di una svolta, cioè del ritorno alla Costituzione è rimasto inascoltato. Una volta scrissi che lo spirito di Cesare Beccaria risuonava nelle parole del cardinale Martini, oggi posso dire che la voce di Aldo Moro contro l’ergastolo rivive nell’appello del Pontefice che rivolgendosi soprattutto alla Polizia Penitenziaria ha ribadito che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi: Lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Papa Francesco ha chiesto di non soffocare mai la fiammella della speranza; i garanti dei detenuti ripetono spesso di essere prigionieri del vizio della speranza. Marco Pannella insisteva sul motto spes contra spem. Il monito di Bergoglio perché le condizioni di vita nelle carceri rispettino la dignità delle persone in modo che quei luoghi non diventino polveriere di rabbia, anziché di recupero, va preso sul serio. Per quanto mi riguarda non intendo essere complice del sovraffollamento che non è frutto del caso ma di leggi criminogene come quella antidroga e del disastro fatto di violenza che sta prendendo il sopravvento. Mercoledì 18 a Ortona dove fui eletto deputato venticinque anni fa presenterò il libro Via Spalato, che raccoglie gli scritti di Maurizio Battistutta, garante dei detenuti di Udine, scomparso troppo presto. Sarà una occasione per lanciare una campagna per una svolta per realizzare il carcere dei diritti e della responsabilità, in nome delle ragioni dell’umanità. La vendetta è anti-giustizia. Per questo Papa Francesco chiede di abolire l’ergastolo di Mauro Leonardi* farodiroma.it, 16 settembre 2019 Nella settimana in cui l’intero Paese esulta per l’ergastolo comminato a Vincenzo Paduano, Papa Francesco, nell’incontro del 14 settembre in Piazza San Pietro con tutti coloro che operano all’interno delle carceri ripete: “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi - ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare.” Avevo queste parole nel cuore quando, nel pomeriggio di ieri, ho incontrato Paduano nella Messa che stavo per celebrare nel braccio di Rebibbia dove è rinchiuso. C’è stato solo un abbraccio. Le parole, quelle necessarie, gli erano già state dette il giorno prima da suor Lucia delle Figlie della Santa Croce, una consorella di suor Maria Laura Mainetti, la suora che nel giugno del 2000 venne uccisa a coltellate in Valchiavenna da dei satanisti, e della quale si è aperto il processo di beatificazione nel 2008. “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla disperazione” aveva detto rivolgendosi alle persone detenute, e questo invito è coerente alla richiesta di togliere l’ergastolo dalle nostre galere, perché, come puoi coltivare la speranza se sai che non uscirai di cella solo in una bara? Chi applaude superficialmente il Papa, chi superficialmente si interroga sui motivi per cui alcuni non lo comprendano, si interroghino sul profonda differenza di sentire che alberga nel cuore di Bergoglio, e quello che c’è nel nostro. La differenza sta tutta nel capire la differenza tra giustizia e vendetta. La vendetta non è una “giustizia eccessiva”: la vendetta è l’anti-giustizia, la vendetta è il combustibile che fa diventare il carcere una polveriera. “È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. Nel mio anno a Rebibbia come prete volontario ex art. 17 ho visto, tra tutti coloro che operano all’interno delle carceri, tante brave persone. Sarà stato fortunato ma ho avuto solo incontri con persone che, come dice il Papa, vivono il loro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma anche come un sostegno a chi è debole. E la forza dell’abbraccio che ho dato nasce dalle parole del Papa. Che non dice di parlare ma fa riferimento solo a dei gesti. “Non dimenticatevi, per favore, del bene che potete fare ogni giorno. Il vostro comportamento, i vostri atteggiamenti, i vostri sguardi sono preziosi. Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità”. *Sacerdote e volontario in carcere Studiare in carcere sarà più facile di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 settembre 2019 Coinvolti Conferenza nazionale universitaria e Mingiustizia (Dap). Un protocollo unico per regolare i rapporti tra carcere e università. Interazione dunque sempre più efficace tra mondo universitario e mondo penitenziario: vi è dedicato il protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso 11 settembre dal capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap - del ministero della giustizia Francesco Basentini e dal presidente della Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari (Cnupp) Franco Prina. Attualmente si garantisce il diritto agli studi di detenuti e persone in condizioni di limitazione della propria libertà personale in 75 istituti penitenziari italiani dove i detenuti possono studiare da universitari. Nell’ultimo anno accademico l’hanno fatto in 800 iscritti alle 27 università sedi di Polo universitario penitenziario, di cui 743 detenuti, inclusi 223 in 42 bis e 53 in esecuzione penale esterna. Di durata triennale e tacitamente rinnovato in assenza di recesso di una delle parti da stipulare un mese prima della scadenza, l’accordo non comporta oneri economici né per il ministero né per l’università. L’obiettivo è quello di avviare un confronto permanente per garantire a detenuti e persone in condizione di limitazione della libertà personale un accesso uniforme agli studi universitari. Firmato dal Dap e dall’istituita Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari emanazione della Conferenza dei rettori delle università italiane, l’accordo richiama in premessa sia l’articolo 27 della Costituzione sia gli articoli 17 e 19 dell’ordinamento penitenziario. L’uno in riferimento alla “partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa” e l’altro alla “agevolazione del compimento degli studi dei corsi universitari”. L’accordo regolerà in maniera più omogenea i rapporti fra provveditorati dell’amministrazione penitenziaria e istituti da un lato e i singoli atenei dall’altro. Saranno elaborate linee guida e schemi di convenzioni per disciplinare uniformemente i rapporti fra i due enti convocando riunioni su specifiche tematiche per migliorare l’esercizio del diritto al proseguimento degli studi universitari. L’intesa prevede anche 1’ organizzazione comune di dibattiti e confronti pubblici per diffondere l’impegno delle due parti a garantire il diritto allo studio universitario e alla promozione di una cultura della pena ispirata ai principi costituzionali e rispettosa dei diritti di ognuno. Il personale dell’amministrazione penitenziaria potrà essere formato nell’ambito di iniziative e programmi di collaborazione tra la Cnupp e il Dap che prevedano anche l’iscrizione ai corsi universitari. Spazio anche a progetti di ricerca su tematiche di comune interesse e all’agevolazione di richieste di ricerca da parte delle università nel rispetto del particolare contesto detentivo oggetto di attenzione. Alla firma del protocollo, insieme al presidente Prina dell’Università di Torino, erano presenti altri quattro componenti della Conferenza universitaria poli penitenziari: Marella Santangelo, professore associato in Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di architettura dell’Università degli studi di Napoli Federico II, Francesca Vianello, ricercatrice di Sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale dell’Università di Padova; Andrea Borghini, professore associato di Sociologia generale dell’Università di Pisa e il delegato rettorale per il Polo universitario penitenziario dell’Ateneo di Sassari, Emmanuele Farris. Perché sulla giustizia Salvini si gioca il futuro (e il Pd l’osso del collo) di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 settembre 2019 Le scelte del governo su prescrizione e intercettazioni potrebbero consentire al leader della Lega di abbandonare il giustizialismo e costruire un salvinismo meno urlato. Tra le molte idee confuse messe insieme ieri a Pontida da un sempre più frastornato Matteo Salvini, quella meno confusa, e forse persino più convincente, riguarda un argomento sul quale (assieme alla truffaldina ma astuta mossa maggioritaria sul referendum) il leader della Lega potrebbe provare a costruire un’opposizione responsabile al governo rossogiallo. L’argomento in questione riguarda i temi della giustizia. E per quanto Matteo Salvini possa essere poco credibile come capo di un partito attento ai temi del garantismo - è stata la Lega ad aver trasformato ogni migrante in un potenziale criminale, è stata la Lega ad aver trasformato ogni ong in un potenziale veicolo di malaffare - gli equilibri che si sono andati a formare all’interno del nuovo esecutivo in materia di giustizia lasciano all’ex ministro dell’Interno una prateria politica che potrebbe essere percorsa con grande facilità. Per Salvini, la giustizia potrebbe essere una croce, e chissà che fine potrebbe fare il leader della Lega se le indagini su Savoini dovessero ingrossarsi, se i casi Diciotti dovessero essere riportati in Parlamento e se dalla procura di Roma dovesse emergere una qualche novità sul modo in cui la Lega ha gestito i soldi in questi anni. Ma potrebbe essere anche una delizia se il Partito democratico accetterà, come purtroppo sembra, di trasformare in un valore negoziabile la cultura garantista e il rispetto dello stato di diritto. Nel suo discorso alle Camere, il presidente del Consiglio ha promesso che il governo lavorerà presto a una riforma che permetterà di accelerare i tempi dei processi, e ne siamo ovviamente contenti, ma come lo stesso presidente del Consiglio dovrebbe riconoscere non c’è possibilità di creare una nuova fiducia nel paese se il governo non si rimangerà al più presto possibile una delle riforme più pericolose approvate dal vecchio governo: l’abolizione della prescrizione. Negli scorsi mesi, oltre 150 accademici di tutte le università italiane hanno sottoscritto insieme con le Camere Penali un appello al presidente della Repubblica per denunciare i gravi profili di incostituzionalità presenti nella legge e con una buona dose di coraggio qualche giorno fa un deputato del Pd, Alfredo Bazoli, ha suggerito al governo, dalle pagine del nostro giornale, di compiere subito un atto coraggioso: rinviare l’entrata in vigore della riforma della prescrizione per non lavorare con una spada di Damocle sulla testa (la legge che blocca la prescrizione entrerà in vigore il primo gennaio del 2020) e mettere mano in maniera organica alla riforma del processo penale. La scelta compiuta dal Pd di accettare continuità nel ministero dove il grillismo ha fatto più danni (la giustizia, con il ministro Alfonso Bonafede) segnala un rischio che il partito guidato da Nicola Zingaretti farebbe bene a evitare (fondare la cultura democratica con quella grillina) e non aver posto alcun paletto ferreo sul tema della giustizia giusta è una scelta che potrebbe permettere clamorosamente a Salvini di togliersi di dosso le scorie del giustizialismo leghista (l’abolizione della prescrizione è stata votata anche dalla Lega) e di scommettere così anche sui temi della giustizia per tentare di intestarsi la guida di un centrodestra meno estremista e più moderato. Specie se poi il governo, sempre sui temi della giustizia, dovesse compiere un altro atto scellerato: non solo non sospendere la prescrizione (basta un decreto) ma sospendere un’altra legge (giusta) sulle intercettazioni (costruita per mettere un freno alla fogna del circo mediatico-giudiziario) che entrerà in vigore sempre il primo gennaio del 2020 e che coincide con la riforma sulle intercettazioni varata nel 2017 dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando. Sulla giustizia, il Pd si gioca l’osso del collo. Sulla giustizia, Salvini, se non verrà condannato dal suo passato, si gioca il suo futuro e si gioca la possibilità di costruire un salvinismo meno urlato e meno isterico rispetto a quello visto fino a oggi. Riforma della prescrizione: 30mila processi all’anno senza scadenza di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019 Sono 30mila all’anno i processi penali che, con l’entrata in vigore il 1° gennaio 2020 della riforma della prescrizione, non avranno più scadenza. È l’effetto della legge “spazza-corrotti” - varata a inizio 2019 dal Governo gialloverde, ma con efficacia differita di un anno - che prevede lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia di assoluzione che di condanna. Si tratta di una disposizione criticata da più parti perché potrebbe portare a processi infiniti. Figlio di un compromesso tra Lega e M5S (si veda l’articolo qui sotto), il blocco della prescrizione è destinato a cancellare la riforma varata due anni fa dall’allora ministro Pd della Giustizia, Andrea Orlando. Ma ora a valutare se e come modificarlo, accanto al grillino Alfonso Bonafede, confermato Guardasigilli anche nel Governo Conte bis, sarà lo stesso Orlando: il confronto tra i due è stato avviato la settimana scorsa e l’obiettivo è di esaminare entro fine mese i provvedimenti per ridurre i tempi dei processi. I numeri - Nel 2018, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d’appello e Cassazione (per cui opererebbe il blocco) sono stati 29.862. Nel complesso le prescrizioni sono in calo: dal 2016 al 2018 sono scese da 136.888 a 117.367 (-14%). Ma non in Corte d’appello dove, invece, sono aumentate del 12% e mandano in fumo un procedimento su quattro, il 25% dei definiti. A determinare la diminuzione totale è la flessione dei procedimenti azzerati durante le indagini preliminari (passati da 72.840 a 48.735), che rimane comunque la fase in cui si concentra il maggior numero di prescrizioni (circa il 41% ). In totale, il 75% dei procedimenti si prescrive nel primo grado di giudizio: non verrà quindi toccato dalla riforma. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado non avrà conseguenze omogenee sul territorio nazionale perché la percentuale di archiviazioni per prescrizione cambia fortemente da una Corte d’appello all’altra. A Venezia e Torino l’estinzione del processo riguarda infatti più del 40% dei procedimenti definiti. In difficoltà anche Catania, con il 37,8%, Perugia e Roma con il 36 per cento. All’opposto le Corti d’appello di Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento, dove il numero di prescrizioni non arriva al 10 per cento. Gli effetti - Lo stop della prescrizione dopo il primo grado potrebbe mettere a rischio l’efficienza degli uffici giudiziari perché li graverà di circa 30mila procedimenti in più ogni anno, con esiti più pesanti sulle Corti dove la percentuale di prescrizioni è maggiore. È concreta la possibilità che si allunghino i tempi dei processi, che in appello in media già durano due anni e tre mesi. “Il blocco della prescrizione - dice Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm e segretario di Area - permette di salvare il lavoro fatto in primo grado. Ma senza misure per accelerare la giustizia, si rischia di arrivare a processi di appello molto lunghi. La riforma Bonafede non basta. Occorre aumentare le risorse, depenalizzare i reati che possono essere perseguiti altrimenti e rafforzare i riti alternativi”. Gli avvocati penalisti da sempre contrari alla riforma continueranno a dar battaglia: “Ci faremo sentire con tutte le forze di cui siamo capaci - dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali -. Già oggi, con la riforma Orlando che avevamo avversato, ci sono reati che si prescrivono in oltre vent’anni e la patologia sono i vent’anni e non la prescrizione”. Per lo Stato evadere 1 miliardo di euro non è un reato grave di Milena Gabanelli e Rita Querzè Corriere della Sera, 16 settembre 2019 Per far quadrare i conti dello Stato senza tagliare i servizi, dalla sanità alla scuola, c’è un solo modo: ridurre l’evasione. Il Mef stima 107 miliardi l’anno di tasse non pagate, che diventano 191 se includiamo anche l’economia sommersa, secondo lo studio del parlamento europeo. Fatturazione e scontrini elettronici stringono le maglie ai piccoli contribuenti, ma bisogna investire sugli analisti per il controllo dei dati. La lotta all’evasione di grandi imprese e multinazionali richiede invece monitoraggi mirati, e qui l’investimento nel personale è ad altissimo rendimento. I “grandi contribuenti”, quelli sopra i 100 milioni di euro di fatturato, in Italia sono solo 3.320 (quelli noti): lo 0,06% dei 6 milioni di partite Iva. Ma nell’ultimo anno hanno garantito il 35% dell’evasione recuperata dal fisco. Entrate da controlli sostanziali: meno 23,8% - Nonostante ciò, la Corte dei Conti nell’ultimo rendiconto generale dello Stato dice che le entrate da accertamenti sostanziali sono in flessione di 5,6 miliardi: meno 23,8% rispetto al 2017, meno 9% rispetto al 2016. I soggetti in campo per il recupero del dovuto sono Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, Procure, Dogane. Tutti con un problema comune: il personale. Ovvero la materia prima necessaria a una seria attività di contrasto. Agenzia delle entrate: mancano 4000 dipendenti - L’Agenzia delle entrate ha 36.069 dipendenti. Dal 2000 a oggi ne ha persi circa 10 mila. Con quota 100 altri 1.146 sono pronti a uscire. In più 800 dirigenti, nel 2015, sono stati retrocessi a impiegati perché erano stati promossi internamente senza vincere un concorso. Una via “forzata” anche dal blocco delle assunzioni. Sta di fatto che il loro stipendio è sceso da 3.500 euro a 1.700, e così quelli che avevano prodotto i risultati migliori sono andati ad alimentare i grandi studi di consulenza fiscale che assistono la “concorrenza”, e cioè le grandi imprese. E non lo avrebbero mai fatto se la risposta dello Stato non fosse: “ponti d’oro a chi se ne va”. Risultato: tagliati i controlli, poiché i servizi allo sportello non possono essere certo sacrificati. Tanti concorsi, tutti bloccati - Per far ripartire la macchina servono 4000 assunzioni e almeno 350 nuovi dirigenti. Il passaggio obbligato è quello dei concorsi. Nel 2010 è stato dato il via libera a una selezione per 175 dirigenti. Peccato che sia stata bloccata tre volte da altrettanti ricorsi. Ora il Consiglio di Stato ha dato ragione all’Agenzia, ma per completare l’iter i dirigenti selezionati diventeranno operativi fra due anni. Bloccato anche il concorso per mille funzionari ad alta responsabilità tecnica, e ora si va davanti al Tar. Un altro bando per 160 dirigenti è uscito a inizio 2019. Bloccato pure questo, e si aspetta la pronuncia della Corte costituzionale. Infine il concorso per 510 funzionari, rimandato per difficoltà a trovare i locali. La prima prova finalmente si terrà il 18 settembre. Solo in Lombardia, per 115 posti, le domande sono 23 mila. Chi scova i grandi contribuenti - Gli specializzati dell’Agenzia sui controlli alle banche sono, in tutto il Paese, soltanto otto. Un settore che dovrebbe essere sempre “blindato”, sia di mezzi sia di personale, è quello che si occupa dei 3.200 grandi contribuenti presenti in Italia, proprio perché spesso l’evasione è di grandi dimensioni. Le Regioni che hanno un dipartimento dedicato sono nove: Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Sicilia, Puglia e Piemonte. Per controllarli tutti possono contare su circa 500 persone. La metà di questi “grandi contribuenti”, cioè 1676, si trovano in Lombardia. Per monitorarli il dipartimento dell’Agenzia delle Entrate lombardo ha soltanto 179 persone, di cui 67 dedicati ai controlli sostanziali. Il modello Milano - In questo quadro emerge il modello Milano. Anche qui le risorse sono scarse, ma una pervicace attività di coordinamento fra Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza e Procura, dal 2015 a oggi, ha portato all’erario 5 miliardi e 633 milioni di euro grazie a patteggiamenti e accordi firmati da 115 soggetti, e il 90% erano proprio “i grandi”. La lista è nota: Apple nel 2015 ha dovuto pagare al fisco 318 milioni di euro; Google 306 milioni nel 2017. Nel 2018 Amazon ha dovuto versarne 100, altrettanti Facebook e 79 il gruppo Mediolanum. Quest’anno è toccato a Kering (gruppo Gucci), 1,2 miliardi, mentre Ubs ha “scucito” 102 milioni di euro. Anche grazie a questo risultato siamo riusciti a calmare le acque di Bruxelles sui nostri conti pubblici. Se lo Stato fosse un’azienda privata, chiederebbe a queste tre galline dalle uova d’oro: “visto che a Milano sono concentrati il 32% dei grandi contribuenti, di cosa avete bisogno per marciare a pieno regime?”. Ecco cosa manca. Un turbo senza carburante - Il settore dedicato dell’Agenzia delle entrate della Lombardia negli ultimi 3 anni ha perso il 13,5% dei dipendenti. Mancano 30 funzionari e i dirigenti dall’anno prossimo, per tutta la Lombardia, saranno solo 3. Guardia di Finanza Milano, un’eccellenza, ma a occuparsene ci sono 200 persone. Ne servirebbero altre 100 e un investimento in strutture informatiche. Le grandi aziende hanno un business sempre più frammentato fra vari Stati, ed è molto difficile scovare dove stanno producendo profitti. Recuperare il dovuto richiede grandi competenze e un’adeguata formazione: per preparare un investigatore servono 7-8 anni di esperienza e continui aggiornamenti. Alla Procura di Milano, fino a qualche anno fa, i magistrati dedicati ai reati societari, economici, fiscali, corruzione, erano 15. Oggi sono in 10. Vista la potenzialità del territorio, la complessità delle indagini, e la necessità di non sottrarre magistrati ad altri dipartimenti, ne servirebbero altri dieci, supportati da altrettanti amministrativi e polizia giudiziaria. Il paradosso - Se queste tre istituzioni fossero dotate del personale necessario, quanto denaro in più entrerebbe nelle casse dello Stato? E perché il modello Milano, che è osservato dagli inquirenti spagnoli e francesi, non viene replicato nel resto del Paese? Questo tipo di collaborazione non c’è in Emilia (anche se qualche tentativo si sta facendo), manca nel ricco Veneto, non c’è a Napoli. C’è poi un fattore indiretto a costringere la piazza di Milano a essere sempre sotto organico, e riguarda sia l’Agenzia delle Entrate, che la Gdf e la Procura: il costo della vita nel capoluogo lombardo è alto, e molti vincitori dei concorsi arrivano dal Sud, ma appena possono chiedono il trasferimento a casa, dove con uno stipendio da 1500 euro si campa meglio. Cooperative compliance - C’è poi la questione che riguarda la collaborazione tra il Fisco e i big dell’impresa con ricavi superiori ai 10 miliardi. Oggi le società che aprono i libri contabili al Fisco prima ancora di fare la dichiarazione dei redditi, sono in tutto una ventina, quasi tutte a partecipazione pubblica o fornitori pubblici (Enel, Ferrovie, Leonardo, Atlantia). Dal primo gennaio 2020 la “cooperative compliance” sarà allargata a tutte le aziende sopra i 100 milioni di fatturato. Ma il personale che se ne occupa non c’è. Il milione di italiani con 85 miliardi su conti esteri - Gli italiani che hanno depositato 85 miliardi su conti esteri superano il milione. Sono i numeri prodotti dallo scambio automatico di informazioni fra 103 Stati (CRS). Per verificare se questi soldi sono stati o meno dichiarati, e di conseguenza recuperare il dovuto, servono persone e mezzi performanti. Carenti. Le banche dati che non si parlano - C’è il problema delle banche dati che non si parlano fra loro: quella dell’Agenzia delle Entrate non è a disposizione della Guardia di finanza. All’Agenzia non sono disponibili le segnalazioni operazioni sospette, che invece ha la Gdf. Perciò se l’Agenzia sta facendo un accertamento su tizio, potrebbe non sapere che quella stessa persona è stata segnalata per riciclaggio. Le Dogane invece non condividono la loro (Aida) con nessuno. Evadere non è un reato grave - Infine una domanda: lo Stato considera l’evasione un reato grave? La risposta è no. Sul piano normativo l’evasione è al pari di un reato bagatellare: se rubi un portafogli con dentro 50 euro o evadi 100 milioni la procedura è la stessa. Finisci davanti ad un giudice monocratico e l’accusa è sostenuta da un viceprocuratore onorario, mentre la difesa si porta i più grandi studi professionali. Davanti al giudice monocratico finiscono i reati meno gravi, quelli considerati “gravi” finiscono davanti ad un collegio composto da tre giudici. Lo Stato quindi considera poco grave evadere 100 milioni o un miliardo, anche quando l’evasione è fraudolenta (frutto di false fatturazioni). Una partita difficile da vincere se non cambia l’approccio dello Stato. Imprese tolte alla mafia: solo una su 10 resiste di Pietro Mecarozzi Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2019 Solo il 10% delle aziende sequestrate alle Cosche resta in piedi. I motivi: burocrazia, pressioni dei boss e banche che chiudono i rubinetti. “Con la mafia si lavora, senza no”. È il grido di dolore di chi, della confisca dei beni mafiosi per mano dello Stato, ha tratto il lato peggiore: quello dell’abbandono. Questo accade in particolare per aziende e imprese, dove i boicottaggi dei boss uscenti, le lungaggini della giustizia, le banche refrattarie e un mercato stanco danno vita a un buco nero economico- sociale: i dati incrociati del progetto Confiscati Bene 2.0 dell’associazione Libera, dell’Eurispes-l’Istituto di ricerca degli italiani e dell’Anbsc (Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati), a più di vent’anni dalla legge pilota, parlano di circa 14mila aziende passate nelle mani dello Stato, di cui solo uno scarso 20% è stato in grado di resistere nel mercato regolare. Bilancio che con il tempo è andato peggiorando, portando circa il 90% delle aziende a una cessazione o liquidazione. Per capirci: dalla legge 109 del 1996 che prevede l’uso sociale dei beni (arrivata a rafforzo della Rognoni-La torre), le aziende confiscate e poi, non totalmente ma quasi, lasciate marcire sono quasi 600 all’anno, per un valore in termini di produzione cumulata, nonostante sia la Corte dei Conti sia l’Anbsc dichiarano di non avere tutt’ora un censimento preciso della portata commerciale, di 10 miliardi di euro. “C’è un problema di conservazione del valore patrimoniale delle aziende, dovuta anche dalla rimozione dell’ombrello protettivo delle mafie”, notifica Bruno Frattasi, direttore dell’Anbsc. “Innanzitutto, però, bisogna capire la storia delle aziende: ovvero quante di esse sono state coinvolte nei traffici mafiosi. Il grado di infiltrazione, una volta tornata alla legalità, influisce non poco nello stabilire un piano industriale”. L’obiettivo dell’intervento statale, detto ciò, sarebbe quello di portare alla luce le attività mafiose con il ruolo di scatole vuote, usate dal boss per il riciclo di denaro, per poi reimmetterle nei flussi legali. Superato lo scoglio della confisca, però, il processo spesso si interrompe, e non solo nel caso delle aziende di comodo: come sottolineano gli studi dell’Università di Trento e Milano, il virus colpisce anche e soprattutto realtà strutturate, nel 50% dei casi aziende con un capitale medio tra 10 e 20 mila euro, con a disposizione mezzi e infrastrutture di livello. “Il problema è di sistema. Vale a dire che occorrono più cure: dal potenziamento dell’Anbsc, allo snellimento delle procedure”, spiega Gian Carlo C aselli, ex magistrato, oggi direttore dell’Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare. “C’è bisogno di finanziamenti cospicui per impedire che i beni si coprano di muffa o ruggine, offrendo ai mafiosi un argomento per sostenere che “loro” restano i più forti”. Ma come può salvarsi un’azienda da questo oblio? Nella condizione attuale, molto spesso, non può. L’architettura del fenomeno si avviluppa su vari piani, e le ex aziende mafiose non riescono a essere competitive sul mercato legale perché schiacciate dalla pressione fiscale che le precedenti gestioni evitavano in toto. La messa in regola dei lavoratori in nero, le utenze passate e attuali, la mancanza di fondi per rimettere mano alle strutture che, durante gli anni del processo, cadono in rovina o peggio ancora vengono depredate dalle mafie stesse. Una sopravvivenza messa a dura prova dall’aggravante delle banche: gli istituti fiutando l’arrivo dello Stato, ai primi segnali di un coinvolgimento in indagini antimafia dei clienti chiudono i rubinetti e la possibilità di un qualsiasi finanziamento. Anche dopo che l’azienda è stata tolta ai boss e affidata a un curatore. Il nodo scorsoio si chiude, quindi, alla gola di quelle cooperative composte molte volte dagli stessi ex dipendenti. Il “Progetto sos legalità imprese e beni confiscati alla mafia” redatto da Unioncamere e finanziato dalla Commissione Europea, per esempio, proponeva una strategia bilaterale per pompare un mercato in calo e arginare la concorrenza illegale. Tante idee, molti soggetti coinvolti, dopodiché silenzio assoluto. Un assist per le famiglie, come quella di Vincenzo Virga e Francesco Pace. E il messaggio che ne deriva è quello di una mafia capace di organizzare il lavoro e di uno Stato che sì interviene, ma lo fa in maniera superficiale, creando così scie di disoccupazione. Nel caso della “Siciliana inerti e bituminosi” di Tommaso “Masino” Coppola, latifondista a libro paga di Matteo Messina Denaro, l’impresa edile alle prime avvisaglie giudiziarie ha interrotto i pagamenti dei dipendenti - così come le banche, i boss mafiosi intuiscono prima la mala parata e le intenzioni delle autorità - i quali nel giro di pochi mesi si sono ritrovati senza un lavoro, con stipendi arretrati e nessun aiuto dalla politica. “Nel caso dei Coppola, i beni comprendevano anche un residence e alcune villette”, spiega Enzo Palmieri, segretario della Fillea-Cgil di Trapani, territorio dove l’edilizia mafiosa ha radici profonde. “Dopo più di dieci anni, la situazione è di totale abbandono: il dialogo con l’Anbsc ha avuto vita breve, nonostante il seguito delle nostre proposte volte a rivendere i mezzi e a reimpiegare i lavoratori nella manutenzione dei suddetti beni. Solo nel trapanese i dipendenti che sono andati a ingrossare le file di disoccupati sono diverse centinaia”. Il rimpianto delle vecchie gestioni da parte dei lavoratori, l’assenza di tutele e i labirinti giuridici in cui si perdono i beni, sono la cartina tornasole di un mezzo complesso, per efficacia nato pompiere e finito incendiario. “Chi si occupa dei beni confiscati, ovvero gli amministratori giudiziari, sono in genere avvocati, non esperti di imprese edili o agricole”, spiega Salvatore Inguì, coordinatore responsabile di Libera, che parla della questione dei terreni rurali. “Dalla confisca alla riassegnazione passano circa 10 anni: in quel frangente la proprietà è priva di custodia e vittima di punizioni criminali, al tal punto che le cooperative che riescono a subentrare si trovano di fronte a distese desertiche”. Calabria e Sicilia, seguite da Lazio e Liguria sono le prime regioni colpite, e per tutte la storia non cambia: Libera stima che 9 aziende su 10 chiudono i battenti dopo il sequestro, per un costo della legalità che va oltre le cifre catastali. Tocca la vita delle persone, fuori dalle mafie ma allo stesso tempo dipendenti da esse. Di Matteo: “In magistratura vince il metodo mafioso” di Liana Milella La Repubblica, 16 settembre 2019 “Le correnti della magistratura come la mafia”. L’affermazione è forte. E a farla è un magistrato come Nino Di Matteo che non ha mai avuto paura di dire quello che pensa, a costo di pagare prezzi pesanti. La frase è esplicita: “L’appartenenza a correnti o a cordate è diventata l’unica possibilità di sviluppo di carriera, e questo è un criterio molto vicino alla mentalità e al metodo mafioso”. Di Matteo parla in Cassazione davanti ai 15 pm che come lui corrono per conquistare due posti da consiglieri del Csm. Elezioni del 6 e 7 ottobre, conseguenza della decimazione del Consiglio a seguito del caso Palamara (ex pm a Roma, ex consigliere del Csm per Unicost, sotto indagine a Perugia per corruzione). Ben 5 su 16 togati coinvolti, oltre al procuratore generale della Cassazione, 4 già dimessi (uno, Paolo Criscuoli di Magistratura indipendente, ancora resiste), due sostituiti, ma due pm sono senza primi dei non eletti e quindi si vota. Eccoci ieri all’Anm che organizza la diretta streaming per consentire ai candidati di presentarsi. “Ennesima concessione al populismo”, la boccia, chissà perché, il vice segretario del Pd Andrea Orlando. Le toghe invece apprezzano l’iniziativa inedita. Di Matteo, per la storia da pm antimafia e pubblica accusa nel processo Trattativa Stato-mafia, oggi alla procura nazionale antimafia, è il volto più noto. Lui se ne rammarica al punto da dire che non farà interviste fino al voto per non avvantaggiarsi rispetto ai colleghi. Ma ieri doveva parlare, come ha fatto nelle città dove l’Anm organizza assemblee per sottrarre il voto ad accordi segreti. Peccato che la partecipazione sia molto scarsa (“A Milano eravamo più candidati che pubblico”, ammette Di Matteo). Lui dice di “non aver mai, dico mai, pensato a correre per il Csm”. Poi chiarisce: “Non sono mai stato iscritto a una corrente e non sono intenzionato a farlo in futuro”. Ma aggiunge che è stato Sebastiano Ardita del gruppo di Piercamillo Davigo a proporgli di correre. L’affondo contro le correnti è durissimo: “La magistratura è pervasa da un cancro che ne sta invadendo il corpo, i cui sintomi sono la burocratizzazione, la gerarchizzazione degli uffici, il collateralismo politico, la degenerazione clamorosa del correntismo”. Per questo lui si mette in gioco “in un momento così buio, a disposizione di chi vuole dare una spallata a un sistema che ci sta portando verso il baratro”. Definito da molti un grillino, boccia senza sconti la riforma del Csm del Guardasigilli Alfonso Bonafede: “Il sorteggio dei candidati sarebbe devastante”. “Il letto è uno spazio vivibile”. Il detenuto non viene risarcito di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 16 settembre 2019 “Sopra si può stare seduti”. La Cassazione rigetta il ricorso di un detenuto al Due Palazzi che aveva lamentato di vivere nella condizioni di sovraffollamento in cella. Lui si era appellato al fatto che la Sorveglianza aveva considerato “vivibile” lo spazio dove invece c’era il suo letto singolo. La Cassazione ha stabilito che lo spazio del letto va considerato superficie vivibile, libera “in quanto è utilizzabile per stare seduti, per leggere, oltre che per dormire”, il trattamento è inumano sotto ai 3 metri per ciascun detenuto. Il detenuto è Marcello Albini, friulano di Udine, 44 anni finito nei guai per vari reati. Il detenuto ricorre contro l’ordinanza del 20 febbraio scorso del Tribunale di Sorveglianza di Venezia che gli ha parzialmente negato il risarcimento con riferimento alla detenzione patita alla Casa di reclusione di Padova. Nell’unico motivo citato il ricorrente denuncia una violazione di legge e vizio di motivazione, sostenendo che il giudice nel valutare le condizioni di sovraffollamento della camera di pernottamento, abbia tenuto conto, nella misurazione dello spazio utile di vita, della superficie del letto singolo a lui assegnato. “Questa Corte ha già spiegato che, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati - da assicurare a ogni detenuto, affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti” recita la Cassazione “dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse; tra queste devono essere inclusi il letto, ove questo assuma forma e struttura “a castello”, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano, e vanno pertanto espunti, gli altri arredi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini. Non va, quindi, detratto lo spazio occupato dal letto singolo, sulla scorta del fatto che esso è utilizzabile anche per restare seduti e per leggere, oltre che per riposare. Tra luglio e settembre del 2014 al tribunale di Sorveglianza padovano si verificò il picco di questa tipologia di casi: 500 ricorsi finiti sul tavolo dei tre giudici di Sorveglianza padovani per la detenzione sotto i requisiti minimi vitali, presentati da altrettanti detenuti ospiti nella casa di reclusione padovana e nell’istituto di pena di Rovigo. Reclami, in quasi tutti i casi, scritti di pugno dagli “ospiti” (l’assistenza di un legale è chiesta solo per l’udienza davanti al giudice). Il tutto dopo il risarcimento ad un detenuto albanese, quarantenne, costretto a stare dietro le sbarre in uno spazio inferiore al minimo vitale (sotto i tre metri quadrati a persona). Gli è stato riconosciuto per il “trattamento disumano e degradante” a causa del sovraffollamento con un ristoro di 4.808 euro, oltre al beneficio di uno sconto di 10 giorni rispetto alla pena definitiva. Pochi vinsero. Anche i detenuti del 41 bis potranno uscire dal carcere se affetti da grave infermità psichica quotidianosanita.it, 16 settembre 2019 La Cassazione richiama la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito la possibilità di curarsi al di fuori del carcere per i detenuti con grave infermità psichica sopravvenuta, anche se la pena supera i 4 anni. Cozza: “Per attuazione auspicabile condivisione delle scelte tra magistrati e Dipartimenti di salute mentale”. Anche al detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41bis dell’Ordinamento Penitenziario, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, deve poter essere applicato l’istituto della detenzione domiciliare umanitaria o in deroga. È quanto previsto dalla sentenza del 5 luglio 2019 n. 29488 della Corte Suprema di Cassazione sezione prima penale, per una persona ristretta dal 2008 con fine pena nel 2033. La Cassazione, in particolare, richiama a sostegno della sua decisione, la recente sentenza della Corte Costituzionale 99/2019 che ha stabilito la possibilità di curarsi al di fuori del carcere per i detenuti con grave infermità psichica sopravvenuta, anche se la pena supera i 4 anni. Il Giudice dovrà valutare caso per caso le modalità più adeguate della detenzione, che non è da individuarsi necessariamente nell’abitazione, ma anche, ad esempio, in un luogo pubblico di assistenza o accoglienza. Dovrà comunque prendere in considerazione sia la tutela della salute sia le esigenze di sicurezza collettiva. “Si tratta di una decisione” - sottolinea a QS Massimo Cozza, psichiatra, direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2 - “conseguente all’attuazione del giusto principio del diritto alla salute non solo fisica ma anche psichica delle persone ristrette negli Istituti penitenziari”. “I percorsi attuativi” - ha aggiunto - “dovrebbero essere condivisi dalla Magistratura con i Dipartimenti di Salute Mentale, tenendo sempre presente che la responsabilità della psichiatria è di attuare i possibili trattamenti terapeutici riabilitativi a fronte di diagnosi appropriate. La stessa sentenza della Corte Costituzionale richiamata dalla Cassazione ha infatti sancito in virtù delle riforme legislative, “un cambiamento di paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale, che può riassumersi nel passaggio dalla mera custodia alla terapia”. Non c’è messa alla prova senza ristoro adeguato per la persona offesa di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019 La messa alla prova per gli imputati maggiorenni guadagna spazi applicativi sempre più rilevanti, ma la Cassazione interviene a garantire che ciò non pregiudichi le ragioni delle persone offese dal reato. Con la sentenza 34878 del 30 luglio scorso, la Suprema corte ha infatti stabilito che il giudice non può ammetterla se l’offerta risarcitoria dell’imputato non appare proporzionata rispetto al pregiudizio patrimoniale subito dalla persona offesa. Lalegge 67 del 2014 ha introdotto la facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del giudizio con messa alla prova per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni o per i reati per i quali si procede a citazione diretta in base all’articolo 550 del Codice di procedura penale(violenza o minaccia a pubblico ufficiale, resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a magistrato in udienza, violazione di sigilli aggravata, rissa aggravata, furto aggravato e ricettazione). La messa alla prova - In base all’articolo 168-bis del Codice penale, la messa alla prova comporta lo svolgimento di condotte volte a eliminare le conseguenze del reato e, ove possibile, il risarcimento del danno, oltre che l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare attività di volontariato o l’osservanza di prescrizioni. L’esito positivo della prova estingue il reato. Per questo la sentenza del 30 luglio ricorda che la messa alla prova non è un diritto dell’imputato e non può avere la conseguenza di marginalizzare le pretese dei danneggiati. In base all’articolo 464-bis del Codice di procedura penale, l’imputato può chiederla fino a che non siano formulate le conclusioni in udienza preliminare o fino all’apertura del dibattimento di processi per direttissima o a citazione diretta. Si può fare richiesta anche durante le indagini preliminari; in questo caso, il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero, il quale, se presta il consenso, deve formulare l’imputazione (articolo 464-ter del Codice di procedura penale). Secondo la Cassazione (sentenza 29093 del 22 giugno 2018), questo atto costituisce esercizio dell’azione penale; quindi se l’ordinanza di sospensione con messa alla prova viene revocata, il procedimento non riparte dalle indagini preliminari ma dall’udienza preliminare o dal dibattimento. La procedura - L’imputato avanza la richiesta personalmente o a mezzo di procuratore speciale e deve allegare un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna. Se non è stato possibile elaborarlo entro i termini fissati, allega la richiesta di programma. Per decidere se ammettere l’imputato alla messa alla prova, il giudice può acquisire informazioni sulle sue condizioni personali, economiche e sociali. Dispone la sospensione se reputa idoneo il programma di trattamento e se ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere altri reati. Non può invece negarla solo per la mancata elaborazione del programma, purché sia stato richiesto al competente ufficio (Cassazione 12721 del 22 marzo 2019). La persona offesa deve essere sentita al pari del pubblico ministero e dell’imputato e delle sue esigenze di tutela il giudice deve tenere conto. Al pari delle altre parti può impugnare l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova. La Corte costituzionale (sentenza 131 del 29 maggio 2019) ha affermato che l’articolo 464-bis del Codice di procedura penale va interpretato ritenendo che al giudice sia consentito di riqualificare il reato contestato dal pubblico ministero, che non rientri tra quelli per i quali l’imputato può richiedere la messa alla prova, per ricondurlo a fattispecie compatibile con il beneficio. Ciò però deve avvenire entro i termini previsti dalla norma e ovviamente deve esserci una richiesta dell’imputato. Già la Cassazione aveva chiarito che il giudice deve verificare la correttezza della qualificazione giuridica, quando gli viene chiesta la sospensione, aggiungendo però che, se la riqualificazione che avrebbe consentito la sospensione, preclusa dall’originaria imputazione, avviene nel giudizio di appello l’imputato non può essere rimesso in termini (sentenza 36752 del 31 luglio 2018). Incerta è invece la Cassazione circa la possibilità di dedurre in appello l’illegittimità del rifiuto, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova, quando poi l’imputato ha avuto accesso al rito abbreviato. Infatti, una sentenza dell’8 ottobre 2018 la ammette, un’altra del 27 settembre 2018 la nega sostenendo che si tratta di due giudizi alternativi non convertibili l’uno nell’altro. Alcoltest: nullità per mancata assistenza legale anche con opposizione a decreto di condanna di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 25 luglio 2019 n. 33795. La nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’articolo 114 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, può essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado (cfr. sezioni Unite, 29 gennaio 2015, Proc. gen. App. Venezia in proc. Bianchi). Questo principio viene ampliato ora dalla Cassazione con la sentenza 33795/2019 anche al giudizio ordinario dibattimentale insorto a seguito di opposizione a decreto penale, onde la nullità di che trattasi può (e deve) essere eccepita (non entro la presentazione dell’atto di opposizione ma) entro la deliberazione della sentenza di primo grado. Nella specie, la Corte ha ritenuto che l’eccezione di nullità proposta dall’imputato fosse stata sicuramente tempestiva, risultando dalla sentenza di primo grado che tale eccezione era stata avanzata dalla difesa del ricorrente negli atti preliminari al dibattimento e al momento della discussione, quindi sicuramente prima della deliberazione della sentenza di primo grado. La sentenza è di particolare interesse per gli effetti che ne discendono, nel giudizio di opposizione a decreto penale di condanna, ai fini della tempestiva deducibilità della nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. La Corte ritiene di dovere fornire una lettura più aderente ai principi stabiliti dalle sezioni Unite, che, come è noto, hanno affermato, in termini generali, che la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia può essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado (sezioni Unite, 29 gennaio 2015, Proc. gen. App. Venezia in proc. Bianchi). Questa stessa conclusione, secondo la sentenza in esame, deve valere anche per il giudizio dibattimentale sorto a seguito di opposizione a decreto penale di condanna e, per l’effetto, è stato disatteso l’orientamento, formatosi dopo la sentenza delle sezioni Unite, che riteneva di fare discendere invece da tale decisione la conseguenza che, in caso di opposizione, il termine ultimo per dedurre la nullità fosse proprio quello dell’atto di opposizione (cfr. tra le altre sezione IV, 16 gennaio 2018, Favaro; sezione IV, 4 aprile 2017, Orlandini; nonché, sezione IV, 12 dicembre 2018, Perin, secondo le quali, in definitiva, qualora l’ eccezione di nullità non fosse stata dedotta nell’atto di opposizione a decreto penale, non poteva essere più dedotta successivamente, neanche in sede di questioni preliminari al dibattimento ex articolo 491 del codice di procedura penale). Sequestro probatorio: anche in presenza di oggetti del reato va sempre motivato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 24 gennaio 2019 n. 3604. Il decreto di sequestro probatorio, anche ove abbia a oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione sulla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 3604/2019. In particolare, l’obbligo di motivazione deve riguardare: 1) il reato di cui l’accusa assume l’esistenza del fumus (non basta in proposito l’indicazione degli articoli di legge violati, anche se accompagnati dall’enunciazione del tempo e del luogo di commissione dei fatti; è necessaria, invece, la descrizione di questi ultimi, ossia una contestazione provvisoria, caratterizzata dall’indicazione della fattispecie concreta, nei suoi estremi essenziali di luogo, tempo e azione, con l’indicazione della norma che si intende violata); 2) le ragioni per le quali la cosa sequestrata sia configurabile come corpo di reato (o cosa pertinente al reato); 3) la concreta finalità probatoria perseguita con l’apposizione del vincolo reale. Nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva annullato il decreto di convalida di perquisizione e sequestro di una somma di denaro che sia assumeva provento dell’attività di spaccio di droga; la Corte ha ritenuto ineccepibile la decisione del tribunale: perché nel decreto del pubblico ministero mancava una indicazione precisa dei fatti in contestazione, riportandosi solo l’indicazione della norma violata, del tempo e del luogo della commissione dei fatti, senza la descrizione di questi ultimi; e perché, inoltre, mancava alcuna motivazione sul collegamento tra i fatti contestati e il rinvenimento della somma di denaro, tra l’altro avvenuta due anni dopo i fatti in contestazione. La decisione è ineccepibile e in linea con i più recenti arresti con cui le sezioni Unite hanno a chiare lettere ribadito che il decreto di sequestro (così come il decreto di convalida di sequestro) probatorio, anche ove abbia a oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione sulla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti, dovendosi escludere la sussistenza di una sorta di “obbligatorietà” del sequestro del corpo di reato tale da esonerare dall’obbligo di motivazione (sezioni Unite, 19 aprile 2018, Proc. Rep. Trib. Nuoro in proc. Botticelli ed altri; in precedenza, sezioni Unite, 28 gennaio 2004, Bevilacqua). Al riguardo, le sezioni Unite hanno supportato l’affermazione dell’obbligo di motivazione anche nel caso di sequestro probatorio del corpo di reato principalmente dalla portata precettiva degli articoli 42 della Costituzione e 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione Edu, laddove trova fondamento il diritto alla “protezione della proprietà”, giacché la motivazione sulle ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando si identifichi nel corpo del reato, garantisce che la misura sia soggetta al permanente controllo di legalità e di concreta idoneità in ordine all’an e alla sua durata, in particolare per l’aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ossia lo spossessamento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l’accertamento del fatto di reato. A ciò, si è aggiunta la considerazione che anche per le misure cautelari reali (quindi, anche per il sequestro probatorio, quale mezzo di ricerca della prova) devono valere i principi di proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza e residualità della misura, dettati dall’articolo 275 del codice di procedura penaleper le misure cautelari personali, i quali devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. A conforto ulteriore della necessità della motivazione, le sezioni Unite hanno valorizzato, dal punto di vista sistematico, le indicazioni ricavabili dagli articoli 262, comma 1, e 354, comma 2, del codice di procedura penale: in particolare, la valenza generale della prima disposizione, secondo cui “quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto prima della sentenza”, la rende applicabile anche al corpo di reato e conferma l’inaccettabilità dell’assunto secondo cui il fine probatorio sarebbe automaticamente e connaturalmente insito al corpo di reato; mentre, la seconda norma, che, facendo riferimento al momento genetico del sequestro, attribuisce alla polizia giudiziaria il potere di procedere “se del caso”, al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, proprio per l’utilizzo di detta locuzione è ulteriormente confermativo del fatto che anche per il corpo del reato non vi è alcun automatismo acquisitivo. In definitiva, per le sezioni Unite, la sola connotazione del bene oggetto del sequestro come “corpo di reato”, neppure se “auto-evidente”, è sufficiente per renderne obbligatorio il sequestro e per esentare il provvedimento da un onere di puntuale motivazione. Richiesta di consegna in esecuzione di un mandato d’arresto europeo “processuale” Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Cd. processuale - Casistica. In tema di mandato di arresto europeo, è consentito dare esecuzione ad una richiesta di consegna nei confronti di persona imputata di un reato, per procedere ad un atto istruttorio individuato specificatamente. Il Mae cd. processuale può essere consentito in relazione ad un ordine di accompagnamento coattivo teso a consentire la presenza dell’imputato in udienza oppure a fini investigativi per l’espletamento dell’interrogatorio e della ricognizione formale o di un confronto; ma è previsto anche in relazione ad un provvedimento cautelare diretto ad evitare la celebrazione del processo penale in assenza dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 2 settembre 2019 n. 36844. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Mandato emesso al fine di ottenere la consegna di un imputato per l’espletamento del suo interrogatorio - Ammissibilità - Ragioni. In tema di mandato di arresto europeo, può essere data esecuzione ad una richiesta di consegna nei confronti di persona imputata di un reato per procedere al suo interrogatorio, atteso che l’art. 6, comma primo, lett. c), della legge n. 69 del 2005 consente il ricorso alla procedura in esame con riferimento ad ogni provvedimento di natura coercitiva emesso dall’Autorità giudiziaria dello Stato di emissione, qualunque ne siano i motivi, purché inerenti al processo. • Corte di cassazione, sezione 6, sentenza 13 ottobre 2016 n. 43386. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Mandato emesso al fine di ottenere la consegna di un imputato per il compimento di uno specifico atto istruttorio - Ammissibilità - Ragioni. In tema di mandato di arresto europeo, può essere data esecuzione ad una richiesta di consegna nei confronti di persona imputata di un reato per procedere al compimento di un atto istruttorio specificamente individuato (nella specie, un confronto), atteso che l’art. 6, comma primo, lett. c), della legge n. 69 del 2005 consente il ricorso alla procedura in esame con riferimento ad ogni provvedimento di natura coercitiva emesso dall’Autorità giudiziaria dello Stato di emissione, qualunque ne siano i motivi, purché inerenti al processo. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 19 dicembre 2013 n. 51511. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Emissione - Provvedimenti di coercizione personale - Esigenze processuali - Ammissibilità. Qualsiasi provvedimento di coercizione personale, sia pure finalizzato ad esigenze processuali, è titolo idoneo a fondare l’emissione di un mandato di arresto europeo, dato che la Legge 22 aprile 2005, n. 69, articolo 6, comma 1, lettera c), si riferisce a ogni “provvedimento cautelare” emesso dall’a.g. dello Stato di emissione, qualunque ne siano i motivi, purché inerenti al processo. Va aggiunto che l’articolo 1, comma 2, della medesima definisce il MAE come “una decisione giudiziaria emessa ... in vista dell’arresto e della consegna ... di una persona, al fine dell’esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura sicurezza privative della libertà personale”. Quindi, anche “azioni giudiziarie” possono essere poste a fondamento di una misura “privativa della libertà personale”. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 maggio 2013 n. 20282. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Provvedimento cautelare “interno” dello stato membro di emissione - Esigenze cautelari - Verifica da parte dell’autorità giudiziaria italiana - Necessità - Esclusione. In tema di mandato d’arresto europeo cd. “processuale”, non compete all’autorità giudiziaria italiana verificare la sussistenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod. proc. pen.per l’adozione del provvedimento cautelare “interno” da parte dell’autorità giudiziaria estera, rilevando unicamente il fatto che il mandato d’arresto europeo sia una decisione giudiziaria emessa al fine dell’esercizio di azioni giudiziarie in materia penale. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 27 dicembre 2010 n. 45525. Piemonte. Carceri a rischio sovraffollamento. Lega: “Teaser agli agenti penitenziari” newsbiella.it, 16 settembre 2019 Nella Regione i detenuti sono 4.700, a cui si aggiungono 8.850 persone che scontano pene all’esterno per reati meno gravi. “In Piemonte abbiamo oltre 4.700 detenuti: siamo nuovamente alla soglia d’allarme per il sovraffollamento. Negli ultimi dieci anni abbiamo raggiunto la punta massima nel 2010, quando erano circa 5 mila”. È questa la preoccupazione espressa dal Garante dei detenuti Bruno Mellano, che questa mattina in Consiglio Regionale ha presentato la relazione annuale sullo stato delle 13 carceri piemontesi. Una cifra a cui si aggiungono 8.850 persone che, per reati meno gravi, scontano la loro pena all’esterno delle strutture tramite gli arresti domiciliari, la messa alla prova, ecc. Mellano ha poi ricordato la difficile situazione del Cpr di corso Brunelleschi a Torino, dove negli scorsi giorni si sono registrati attimi di tensione con rivolte di stranieri. In questa struttura si ha una media più alta di rimpatri: nel 2018 632 detenuti (il 52%) su 1.147 sono stati riaccompagnati negli stati di origine, contro il 43% del livello nazionali. Numeri che hanno dato il via ad un acceso dibattito. Ad intervenire il capogruppo regionale della Lega Alberto Preioni, che ha detto: “spero che il Garante possa occuparsi delle guardie carcerarie, alle quali siamo vicini come partito”, proponendo poi di “pensare all’introduzione in via sperimentale dei teaser anche per loro”. Per Preioni infatti le “carceri devono essere vivibili per i detenuti, ma anche per chi ci lavora”. Parole che hanno provocato la reazione preoccupata della capogruppo regionale del M5S Francesca Frediani. “Pensare come prima risposta ad uno strumento repressivo come il teaser, lascia presagire un atteggiamento che non vorrei vedere dalla mia Regione”, ha concluso l’esponente grillina. Alba (Cn). Dal carcere al vigneto della scuola enologica per aiutare gli studenti a vendemmiare targatocn.it, 16 settembre 2019 I detenuti alle ore 9, scortati da alcuni membri del corpo di polizia penitenziaria, sono giunti presso la cantina sperimentale della scuola dove accolti dal prof. Bruno Morcaldi e dagli allievi delle classi quinte, si sono recati al vitigno Arneis per iniziare le operazioni di raccolta. Giovedì 12 settembre, per la prima volta nella giustizia italiana, dei detenuti sono stati ospiti presso la scuola enologica di Alba. Da anni esiste una convenzione tra la casa di reclusione di Alba e la scuola enologica per la produzione del vino denominato “Vale la pena”. Ogni anno gli allievi si recano nel carcere per gestire il vigneto, mentre quest’anno sono stati i detenuti a venire nelle vigne della scuola per aiutare gli studenti a vendemmiare. Dopo un iter burocratico abbastanza complesso che ha mobilitato tutto il personale della casa di reclusione di Alba dal mese di luglio, la Dott.ssa Giuseppina Piscioneri (direttrice del carcere) e la prof.ssa Antonella Germini (Dirigente dell’IIS “Umberto I” di Alba), sono riuscite a realizzare un progetto che vedeva impegnati in vendemmia presso le vigne della scuola enologica un gruppo di detenuti e gli allievi delle classi 5 A-B-C-D. I detenuti alle ore 9, scortati da alcuni membri del corpo di polizia penitenziaria, sono giunti presso la cantina sperimentale della scuola dove accolti dal prof. Bruno Morcaldi e dagli allievi delle classi quinte, si sono recati al vitigno Arneis per iniziare le operazioni di raccolta. Dopo un’ora di lavoro, svolto sotto l’occhio vigile ma discreto del personale di polizia penitenziaria, tutti insieme si sono diretti presso la cantina sperimentale dove hanno pigiato le uve appena raccolte. Successivamente si è tenuto un dibattito, molto partecipato, nell’aula magna dell’Istituto. Qui gli allievi hanno potuto rivolgere delle domande ai detenuti chiarendo in tal modo tanti dubbi sulla loro condizione di vita da reclusi. Per la scuola, come affermato dal prof. Bruno Morcaldi, quest’attività ha avuto una duplice valenza: da un lato sensibilizzare gli allievi sulle tematiche della legalità e della giustiziata e dall’altro promuovere un percorso di reinserimento sociale dei detenuti attraverso un contatto diretto con le Istituzioni esterne al carcere. Il Dirigente Scolastico si auspica vivamente che questo rapporto di collaborazione fra le due Istituzioni albesi possa continuare ed essere proficuo per la crescita dei valori e arricchimento personale di tutti noi. Volterra (Pi). “Il Teatro stabile in carcere sarà realizzato entro fine 2020” di Samuele Bartolini Il Tirreno, 16 settembre 2019 Corleone: “Autorizzazioni nel primo semestre, poi i lavori saranno veloci” Ma servono conferme su saggi e stanziamento ministeriale di un milione. “Natale 2020. Sì, penso che ce la faremo a costruire il teatro per quella data. Metti che le autorizzazioni ce le danno tutte entro la metà del 2020, poi il più è fatto. La costruzione del teatro nella zona d’ora d’aria sarà veloce. La struttura sarà leggera”. Raggiunto al telefono dal Tirreno, il garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, ragiona a voce alta e fa le previsioni sui tempi di realizzazione del teatro stabile al carcere di Volterra. Certo. L’estate che sta per finire è stata dura. Tutti mesi passati a fare pressione per una risposta sul via libera al teatro. La Sovrintendenza di Pisa pareva nicchiare, taceva. Ora però, dopo il sopralluogo “collettivo” del 2 agosto, paiono essersi sciolti tutti i dubbi. Dopo la prova del budino, la strada sembra tutta in discesa. In realtà ce n’è ancora tanta da fare. Il sogno di Armando Punzo, il trentennale direttore della Compagnia della Fortezza, non è proprio dietro l’angolo. Allora meglio andare per gradi. Prima cosa. “Lunedì (domani, ndr) chiederò al provveditore alle opere pubbliche di Toscana Marche e Umbria, Marco Guardabassi, se ha dato il via libera per i saggi sulle superfetazioni che hanno deturpato la struttura secolare del carcere”, dice Corleone. “Poi voglio un’ulteriore conferma sullo slittamento dei tempi per l’utilizzo del milione di euro. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, mi garantisce che l’impegno dei fondi viene spostato sul 2020”, continua il garante. Così ci sarebbe un anno in più per fare la gara di appalto. Insomma, tanta aria in più nei polmoni per dare vita al progetto definitivo e costruire il teatro. “Ma Fullone è stato spostato all’amministrazione penitenziaria della Campania e non si sa se rimarrà ad interim, per qualche mese, sulla Toscana. Per me è importante saperlo perché con lui abbiamo lavorato bene”, spiega Corleone. Altro problema. In questo caso tutto politico. La partita dei nuovi sottosegretari alla Giustizia - quelli del neonato governo giallorosa - è finita due giorni fa. Ci hanno messo Vittorio Ferraresi (M5S) e Andrea Giorgis (Pd). Corleone dovrà ricominciare a tessere le fila e prendere i contatti con i due sottosegretari, freschi di nomina. Motivo: il milione di euro lo stanzia il Ministero della Giustizia. Intanto il Consiglio regionale ha approvato all’unanimità due mozioni per promuovere iniziative di carattere sociale e culturale all’interno del carcere di Volterra, volte a migliorare le condizioni di vita in carcere e a offrire opportunità occupazionali ai detenuti. La prima, presentata dalla consigliera Irene Galletti (M5S) impegna la giunta “a destinare risorse regionali, in collaborazione con il carcere di Volterra, al laboratorio che produca cibo gluten free per celiaci e per istituire corsi di formazione destinati ai carcerati e nei quali coinvolgere gli operatori del settore alimentare”. La seconda mozione, presentata dal gruppo Pd, prima firmataria Alessandra Nardini, sollecita la realizzazione del teatro all’interno del carcere. Nardini ha ricordato che a Volterra “l’esperienza del teatro ha modificato geneticamente un carcere ritenuto in passato fra i più duri del nostro Paese” e “ottenuto successi e riconoscimenti anche fuori dall’Italia”. Il capogruppo di Sì Toscana a Sinistra, Tommaso Fattori, ha definito “opportune e condivisibili” le due mozioni. Venezia. Pacciani, l’alt dell’ospedale alla mostra per beneficenza di Raffaella Ianuale Il Gazzettino, 16 settembre 2019 Il gallerista desidera devolvere il ricavato della vendita delle opere di Pietro Pacciani all’ospedale per bambini Meyer di Firenze. Il Meyer che dice di non saperne nulla e che queste donazioni vanno preventivamente concordate. Vittorio Sgarbi che parla di “mostra del contrappasso”, ricordando che Pacciani fu accusato di essere un assassino sulla base di un disegno sadomaso che poi è risultato non suo. Pietro Pacciani, che ha vissuto gli ultimi anni con addosso l’etichetta di mostro di Firenze, fa discutere anche a più di vent’anni dalla sua morte avvenuta nel 1998. È bastato che la galleria veneziana Venice Faktory annunciasse la mostra di sue opere One Solo Show attraverso le pagine del Gazzettino perché si creasse lo scompiglio. Tutto nasce da un desiderio espresso, poco prima di morire, da Pacciani stesso. “Vorrei che i miei dipinti venissero venduti e il ricavato devoluto a un’associazione cattolica che aiuta i bambini orfani” aveva detto nel regalare i suoi disegni realizzati in carcere a Davide Cannella, il detective consulente della difesa da sempre sostenitore della sua innocenza. Ricordiamo che al presunto mostro erano stati addebitati sette degli otto duplici omicidi avvenuti tra il 1968 e il 1985 e che è morto prima di vedersi riconoscere un’assoluzione definitiva. “L’associazione indicata da Pacciani non c’è più - spiega Cannella - e così avevo pensato di devolvere il ricavato all’ospedale per bambini Meyer di Firenze”. Ma dall’ospedale di Firenze è stata diffusa ieri una breve nota: “Il Meyer non è a conoscenza di questa iniziativa e tutte le iniziative di raccolta fondi ad esso dedicate devono essere preventivamente concordate”. Cannella e con lui la giovane artista Federica Palmarin, titolare della galleria a Santa Croce 901/A, che ospiterà dal 20 settembre, per un mese, 150 stampe a tiratura limitata firmate da Pietro Pacciani, fanno un passo indietro. “Quello che ricaveremo dalla vendita delle stampe andrà in beneficenza - spiega Palmarin - ora avanzeremo questo desiderio al Meyer, ma se non è interessato troveremo qualche altro istituto”. E il loro pensiero va all’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. A ricordare un fatto passato quasi in secondo piano nella vicenda del mostro di Firenze associato a Pietro Pacciani è il critico d’arte. Sgarbi ricorda benissimo quella vicenda perché la prova regina che avrebbe dovuto dimostrare la colpevolezza del Pacciani era proprio un’opera d’arte. “In tutta questa vicenda c’è una singolare coincidenza - premette - il pubblico ministero Paolo Canessa fece una lunga requisitoria contro Pacciani per un disegno sadomaso trovato all’interno della sua abitazione e che avrebbe dimostrato, secondo lui, che ci si trovava di fronte al mostro di Firenze. Peccato che quel disegno è del pittore francese Maurice Henry”. A rimettere ordine a questo errore è stato poi Pietro Toni, “un magistrato che stimo tantissimo - dice Sgarbi - che in appello prosciolse Pacciani. Quindi Pacciani è morto con un’ultima sentenza, anche se non definita, di assoluzione. Questo non toglie che venga ancora considerato il mostro di Firenze”. Per questo Sgarbi riconosce il pieno diritto di fare una mostra sui lavori di quest’uomo. “È stato condannato per un quadro non suo - dice - quindi ora ha il diritto di fare una mostra con i suoi veri quadri. Se qualcuno può impressionarsi di fronte a questa mostra, ricordo che Pacciani è vissuto da presunto colpevole ed è morto da presunto innocente. Quindi dal mio punto di vista è una vittima”. E anche se ammette di non essere attratto dalle opere dei dilettanti, ha già detto che se si troverà a Venezia non disdegnerà di andare a vedere la mostra. “Quindi ben venga la beneficenza al Meyer con il ricavato della vendita - conclude - un disegno ha creato il mostro e questi disegni per contrappasso hanno la dignità di essere esposti”. Civitavecchia (Rm). Arriva lo spettacolo teatrale dei detenuti ilfaroonline.it, 16 settembre 2019 Il 10 ottobre nel teatro della Casa di Reclusione di Civitavecchia si concluderà il “Progetto Fortezza” con la presentazione dello spettacolo “Il campo”. Nato dalla stretta collaborazione tra area sanitaria, area educativa e la compagnia teatrale Addentro dell’Associazione Sangue Giusto che da oltre 10 anni è attiva negli istituti penitenziari di Civitavecchia, il “Progetto Fortezza”, sostenuto dalla Asl Roma 4, si rivolge alla popolazione detenuta con l’intento di utilizzare il potenziale terapeutico dell’arte teatrale come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio mentale attraverso la promozione del benessere psico-fisico dei ristretti. Una prima fase, che si è conclusa lo scorso aprile, ha coinvolto per sei mesi i detenuti della sezione infermeria della Casa Circondariale. Il lavoro di espressione musicale e recitativa si è unito alla riflessione intorno alla figura di Don Chisciotte con l’obiettivo di canalizzare e trasformare in energia positiva il forte disagio di chi vive la detenzione con l’aggravante di una condizione alterata di salute. I risultati sono stati sorprendenti in termini di riduzione dell’aggressività e dei comportamenti patologici e di sviluppo di spazi riflessivi e modulati in termini emotivi. È invece ispirato ad un classico della letteratura per ragazzi lo spettacolo “Il campo” che sarà presentato il 10 ottobre dopo un lavoro di nove mesi con i detenuti della Casa di Reclusione. L’adattamento teatrale de “I ragazzi della via Pal” di Ferenc Molnar ha permesso, attraverso il gioco, di portare i partecipanti a sperimentare una condizione infantile dimenticata. Molti detenuti hanno vissuto in maniera inquieta e sofferta questa condizione, molti dichiarano di non ricordarsene nemmeno, di non avere mai giocato. È invece attraverso il gioco che l’individuo impara a conoscere il mondo, a sperimentare il valore delle regole e il rispetto di ciascun membro della comunità giocante, a controllare le proprie emozioni, a gestire le situazioni di conflitto, ad allenarsi alla disciplina, a scoprire nuovi percorsi di autonomia. Il gioco è esercizio e preparazione alla vita adulta, alle dinamiche della vita collettiva. Giocando insieme al pubblico, gli attori/detenuti conducono lo spettatore nel loro campo, il carcere. Unicef: diritti dei bambini e adolescenti ancora a rischio di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 settembre 2019 “Siamo a poche settimane dalla celebrazione dei 30 anni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ci attendono mesi di iniziative, attività, incontri a tutti i livelli. La Convenzione, pur essendo il trattato sui diritti umani maggiormente ratificato al mondo, non è ancora pienamente attuata, conosciuta e capita. A livello globale in questi 30 anni molti obiettivi sono stati raggiunti, tuttavia, troppo spesso i diritti di ancora troppi bambini e adolescenti sono a rischio”. Il presidente dell’Unicef Italia, Francesco Samengo, è intervenuto a Oristano al Seminario regionale di formazione dell’agenzia Sardegna “Territori in campo per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, rivolto a oltre cento volontari provenienti da tutto il territorio regionale. “In Italia - ha proseguito il presidente Samengo - vivono circa 10 milioni di bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età. Oltre 1,2 milioni di bambini e bambine vivono in povertà assoluta; il 25,7% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 24 non studia, non lavora né è inserito in programmi di formazione; inoltre la disparità del livello dei servizi tra le varie zone del Paese è allarmante”. In Sardegna, ha proseguito, “i minori di 18 anni sono 230.488, rappresentano il 14% rispetto alla popolazione totale, mentre i minori stranieri, rispetto al totale dei minorenni, è il 3,3%. Due sono i temi fondamentali su cui dobbiamo concentrarci. Il primo è l’abbandono scolastico: 18,1 è infatti la percentuale di persone di 18-24 anni che hanno conseguito solo la licenza media e non sono inseriti in un programma di formazione rispetto alla percentuale nazionale del 13,8%”. Il secondo, sottolinea Samengo, “riguarda le persone minorenni in condizione di povertà relativa, che sono il 33,3% contro un 21,5% a livello nazionale, mentre le persone di minore età a rischio di povertà ed esclusione sociale sono il 41,3% contro il 32,1% nazionale. Percentuali importanti, numeri dietro cui si nascondono storie di emarginazione, indifferenza, disperazione sociale su cui occorre riflettere anche qui in Sardegna per poter immaginare il tipo di impegno che dobbiamo assumere in futuro. Per questo riteniamo fondamentale chiamare a raccolta, proprio come oggi, tutte le realtà coinvolte e costruire alleanze per migliorare la vita dei bambini e degli adolescenti”. L’immigrazione non è un’emergenza ma un fenomeno perfettamente gestibile di Luca Jahier* e Pietro Bartolo** La Stampa, 16 settembre 2019 Ogni giorno ci svegliamo con l’ennesimo naufragio nelle acque del Mediterraneo. Ogni giorno dobbiamo fare i conti con le decine di migranti e rifugiati che perdono la vita cercando di raggiungere l’Europa. Ogni giorno siamo confrontati a retoriche opportunistiche di coloro che sembrano avere dimenticato la loro umanità. Eppure quei morti si possono evitare, perché dobbiamo smettere di pensare all’immigrazione come una emergenza. Bisogna smettere di trasformare in tragedia, un fenomeno perfettamente gestibile alzando muri e fili spinati, chiudendo i porti o scaricando la responsabilità sui paesi di arrivo. Sembra impensabile che un progetto politico visionario quale l’Unione europea che, lasciandosi alle spalle la tragedia di due conflitti mondiali e la guerra fredda, sapendo garantire per oltre sessant’anni la pace nel continente, si areni davanti a un fenomeno perfettamente gestibile. Sembra inaudibile che in un paese come l’Italia, che per secoli ha visto i suoi cittadini emigrare in America e Australia e che ancora soffre di una grande emigrazione di giovani all’estero, si trovi oggi a stigmatizzare l’immigrazione seminando odio e paura in casa, fomentando tensioni e divisioni in Europa. A pochi giorni dall’inizio di un nuovo esecutivo europeo con a capo la tedesca Ursula von der Leyen, ci sembra opportuno puntare i riflettori sul fatto che bisogna smettere di puntarci il dito addosso e metterci intorno a un tavolo per trovare una soluzione. La prossima presidente della Commissione europea dovrà accelerare il dialogo tra gli stati per eliminarne le contrapposizioni, e trovare una sintesi per forgiare un consenso politico sulle misure necessarie ad affrontare il fenomeno migratorio, in primo luogo la riforma del Sistema europeo comune di asilo. Nel 2016, anno in cui sono stato presentato il maggior numero di richieste d’asilo nell’UE, tali domande sono state 1,3 milioni vale a dire circa lo 0,26% della popolazione europea. Non si tratta certo di un’invasione. Non si tratta di un problema di numeri o di mancanza di risorse, ma di assenza di coraggio e volontà politica. Trovare soluzioni durature è una sfida, ma è anche un dovere morale che deve essere affrontato non da un solo paese, ma da tutti i paesi. Per vincere è necessario porre in essere un partenariato globale e inclusivo in cui solidarietà e responsabilità siano condivise da tutta la comunità internazionale, e non solo da alcuni paesi e donatori ospitanti. Il Patto Globale sulla Migrazione ci fornisce una possibilità in tal senso. Il dibattito europeo, alimentato da dati falsi e stereotipi, è frutto di un’impostazione distorta della realtà, che non amplifica e condivide i numerosi vantaggi dell’immigrazione sia in termini di sviluppo economico che sociale. Per contrastare tale narrativa negativa, spesso intollerante e xenofoba, è necessario dissipare pregiudizi e false paure, abbandonando la cultura dello “scarto e del rifiuto”, come Papa Francesco ha ripetutamente richiesto. Le persone che sbarcano sulle nostre coste animate dalla ricerca di un futuro migliore non rappresentano una minaccia, ma un’opportunità per il modello economico e sociale europeo. A tal fine, dovrebbero essere attuate politiche d’integrazione sostenibili di lungo periodo, che prevedano il vaglio e il riconoscimento delle competenze, istruzione e formazione, allo scopo di stimolare l’economia. Una società fiorente senza una politica migratoria sicura e ordinata, sostenuta da tutti gli Stati Membri, è impensabile. L’unanimità tuttavia non può continuare ad essere l’alibi per l’immobilismo, come è stato sottolineato da Enrico Letta nei giorni scorsi. Ecco perché non bisogna più rimandare la ricerca di soluzioni. Abbiamo bisogno di canali di ingresso legali, corridoi umanitari e una gestione ordinata e condivisa, nonché il consolidamento delle frontiere comuni. Occorrono vere politiche di investimento nei paesi terzi, non solo in quelli alle frontiere dell’Europa, per affrontare le situazioni di conflitto, di cambiamento climatico e povertà. Il cambiamento strutturale nella natura delle relazioni UE-Africa è già in atto, da una relazione donatore-destinatario a un dialogo tra pari basato sulla complementarità di reciproci interessi. Questo processo sarà sicuramente facilitato dalla creazione dell’area di libero scambio continentale (Afcfta), che sarà la più grande del mondo. Questo deve essere il momento del coraggio, il momento in cui si decide del futuro del progetto europeo, è il momento di dimostrare se siamo all’altezza della nostra storia e delle responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni. Dobbiamo fermare questa logica irrazionale, abbracciare un pragmatismo ambizioso, identificando le soluzioni che sono già a portata di mano. Basta slogan e tweet, è ora di agire insieme. *Luca Jahier, Presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo **Pietro Bartolo, Parlamentare europeo Migranti. Sei “volenterosi” per la ridistribuzione nella Ue in vista degli sbarchi di Fiorenza Sarzanini e Federico Fubini Corriere della Sera, 16 settembre 2019 Salgono a sei i Paesi “volenterosi” disponibili a firmare l’accordo sui migranti. Il patto prevede che la distribuzione degli stranieri scatti prima dell’ingresso in porto delle navi e l’Italia ha già chiesto che il trasferimento sia immediato, ma la discussione si concentra adesso sui requisiti dei migranti. E anche sull’impegno della Commissione europea a gestire direttamente gli accordi per i rimpatri con gli Stati di origine. In vista del vertice di Malta del 23 settembre il premier Giuseppe Conte e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese stanno trattando direttamente con i partner - Francia e Germania prima di tutto - in modo da arrivare alla riunione con un testo condiviso. E senza escludere di inserire nella trattativa anche l’eventualità - in caso di emergenze dovute a sbarchi imponenti - di una rotazione dei porti disponibili anche in Francia e Spagna. Scontata appare invece la volontà di prorogare ulteriormente la missione Sophia per condividere il controllo del mare e l’impiego dei mezzi per i pattugliamenti. Esclusa la possibilità di coinvolgere tutti i 28 Stati membri nella lista di chi accetterà il meccanismo di redistribuzione, si sta cercando comunque di ampliare la “rosa”. Anche per fronteggiare il blocco di Visegrad determinato a dare battaglia per scongiurare qualsiasi tipo di intesa. Per adesso fra i cosiddetti “volenterosi” ne figurano con certezza solo sei: Germania, Francia, Italia, Spagna, Grecia e Malta. L’intesa prevede che gli stranieri vengano registrati dove sbarcano e poi trasferiti negli altri Stati in attesa di sapere se abbiano diritto all’asilo. La bozza preparata nei mesi scorsi dal ministro degli Esteri del governo gialloverde Enzo Moavero Milanesi prevedeva di scardinare l’obbligo del Paese di sbarco di gestire tutte le richieste di asilo. Di qui l’idea di suddividere chi arriva fra i vari Paesi disponibili, ma soprattutto di farlo prima ancora che i rifugiati presentino la richiesta di asilo. Finché la Lega è rimasta al governo, la proposta di Roma non poteva decollare per un motivo politico: vista dalla Francia di Emmanuel Macron, un’intesa di questo genere con l’Italia appariva un aiuto al leader leghista Matteo Salvini e, di conseguenza, a Marine Le Pen. Il cambio di governo in Italia ha offerto al premier Giuseppe Conte uno spiraglio per far circolare lo stesso progetto in condizioni diverse e con alcune modifiche ritenute necessarie visto che il trattato di Dublino non è stato ancora modificato e dunque sussiste ancora l’obbligo di farsi carico dei richiedenti asilo fino alla decisione finale. Il primo nodo da sciogliere riguarda le categorie di migranti sui quali si deve applicare la redistribuzione europea. Bisogna infatti trovare una mediazione tra chi vuole accettare solo coloro che sembrano avere fondati motivi di chiedere asilo o protezione internazionale e chi pretende - Italia e Malta - che ci sia invece un criterio più ampio per evitare che tutti gli irregolari rimangano lì dove sono sbarcati fino all’espulsione. Per questo Conte chiede che la divisione per quote scatti ben prima dell’approdo delle navi, impedendo così che si possa scegliere se accogliere o no chi arriva. E soprattutto che si eviti di far rimanere in mare le imbarcazioni in attesa dell’esito dei negoziati. Anche perché dalla distribuzione sono esclusi coloro che arrivano con barchini e gommoni grazie ai cosiddetti “sbarchi fantasma”. Durante il colloquio della scorsa settimana con la presidente Ursula von der Leyen, il premier Conte ha insistito sulla necessità di far gestire proprio alla Ue gli accordi per i rimpatri, perché ha un peso diplomatico maggiore e può gestire in maniera diretta i progetti di sviluppo e gli aiuti economici da mettere sul tavolo dei negoziati. All’Italia e agli altri Paesi europei resterebbe la possibilità di siglare le intese di polizia - come quelle che il Viminale ha rinnovato con la Tunisia - e la responsabilità di superare i ricorsi dei richiedenti asilo e attuare concretamente i rimpatri. Servirebbero adesso più governi aderenti al meccanismo dei “volenterosi”, in modo da diluire per ciascuno l’impatto delle ripartizioni. Nasce di qui l’idea di Moavero e poi di Conte di condizionare la concessione dei fondi europei alla disponibilità a cooperare sui migranti. La minaccia ai Paesi d’europea centro-orientale è evidente. Ma la partita diplomatica rimane aperta più che mai. Migranti. Torture e violenze sessuali sui profughi in Libia, tre fermi a Messina La Repubblica, 16 settembre 2019 A riconoscere e denunciare i carcerieri sono state alcune delle vittime. I tre gestivano per conto di una organizzazione criminale un campo di prigionia a Zawyia. La Dda di Palermo ha disposto il fermo a Messina di tre persone accusate di sequestro di persona, tratta di esseri umani e tortura. Avrebbero trattenuto in un campo di prigionia libico decine di profughi pronti a partire per l’Italia. I migranti hanno raccontato di essere stati torturati, picchiati e di aver visto morire compagni di prigionia. I tre gestivano per conto di una organizzazione criminale un campo di prigionia a Zawyia, in Libia, dove i profughi pronti a partire per l’Italia venivano tenuti sotto sequestro e rilasciati solo dopo il pagamento di un riscatto. I fermati sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all’omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione. L’indagine è stata condotta dalla squadra mobile di Agrigento diretta da Giovanni Minardi. I tre fermati si trovavano nell’hot-spot di Messina. Si tratta di Mohammed Condè, detto Suarez, originario della Guinea, 27 anni, Hameda Ahmed, egiziano, 26 anni e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni. Le vittime, arrivate a Lampedusa il 7 luglio scorso dopo essere state soccorse dalla nave Mediterranea, hanno riconosciuto i tre carcerieri dalle foto segnaletiche mostrate loro dalla polizia, che, dopo ogni sbarco, fa visionare ai profughi le immagini di migranti giunti in Italia in viaggi precedenti proprio alla ricerca di carcerieri o scafisti. I fermati erano arrivati in Italia qualche mese prima delle vittime. Condè aveva il compito di catturare, tenere prigionieri i profughi e chiedere ai familiari il riscatto. Solo dopo il pagamento le vittime potevano proseguire il loro viaggio. Era Condè a dare ai profughi il cellulare per chiamare a casa e chiedere il denaro. Ahmed e Ashuia sarebbero gli altri due carcerieri: le vittime hanno raccontato anche di essere state torturate e malmenate da entrambi. L’indagine è stata coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Marzia Sabella e dal pm Gery Ferrara. Il fermo è stato eseguito dalla Squadra mobile di Messina. Il capo dell’organizzazione si chiama Ossama, sarebbe lui a gestire il campo di prigionia di Zawyia in Libia. È l’ultimo capitolo del dramma dell’immigrazione “raccontato” dall’indagine della Dda di Palermo. Il fermo dei tre indagati è stato eseguito nell’hot-spot di Messina, dove i tre erano stati trasferiti dopo lo sbarco a Lampedusa. A riconoscere e denunciare i carcerieri sono state alcune delle vittime. I migranti hanno raccontato le violenze subite consentendo l’identificazione dei tre che lavoravano per Ossama. Il capo della banda vive ancora in Libia. I profughi, con inganno o violenza o dopo essere stati venduti da una banda all’altra o da parte della stessa polizia libica, venivano rinchiusi in una ex base militare capace di contenere migliaia di persone. Le vittime hanno raccontato di essere state sottoposte ad atroci violenze fisiche o sessuali e di aver assistito all’omicidio di decine di migranti. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un “telefono di servizio”, tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia. “C’erano anche donne e bambini. Sostanzialmente era una prigione della polizia libica. Presso questa ultima struttura, malgrado - racconta uno dei migranti ai poliziotti - c’erano funzionari dell’Oim, la stragrande maggioranza di noi migranti pativa la fame e la sete. Nessuno veniva curato e quindi lasciato morire in assenza di cure mediche. Personalmente ho assistito alla morte di tanti migranti non curati. Molti di noi aveva malattie alla pelle”. “Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiate all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni”. È il racconto di una delle vittime dei carcerieri del campo di prigionia di Zawyia, in Libia, fermati dalla Dda di Palermo a Messina. “Le condizioni di vita, all’interno di quella struttura, erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare - racconta - e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare denaro in cambio della nostra liberazione. Ci davano un telefono col quale dovevamo contattarli per dettare loro le modalità di pagamento”. “Durante la mia prigionia - continua - ho avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare”. “Tutti noi migranti eravamo divisi in gruppi per nazionalità e per sesso. - racconta un’altra vittima - Le donne erano messe tutte insieme, mentre noi uomini eravamo divisi per la nazione di appartenenza. Io, ovviamente ero con i camerunensi. Le condizioni di vita del carcere erano dure. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno e ciò non bastava per placare la nostra fame, mentre l’acqua era razionata e non potabile, poiché bevevamo l’acqua del rubinetto del bagno. Tutti i giorni venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri”. “I carcerieri erano spietati - spiega - il capo del campo si chiama Ossama ed è un libico. Vestiva in abiti civili ed aveva delle pistole sempre con sé”. “Ho visto morire tanta gente - racconta - in particolare due fratelli della Guinea che sono deceduti a causa delle ferite subite nel campo. Con me all’interno di quel carcere c’era mia sorella Nadege che purtroppo è morta lì per una malattia non curata. Mia sorella aveva al seguito le due figlie di 7 e 10 anni che sono ancora detenute in Libia. Ho visto che molte donne venire violentate da Ossama e dai suoi seguaci”.