Anche il carcere merita una discontinuità al Governo di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 15 settembre 2019 Completata la squadra, il secondo Governo Conte prende il largo. Di molte cose si è discusso nei giorni scorsi, riguardo alla “compatibilità” programmatica tra Pd e 5 stelle, lambendo i temi di politica della giustizia più presenti nel dibattito pubblico, come la riforma del processo penale e quella del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. Non altrettanta attenzione, come sempre, è stata invece prestata al mondo del carcere e dell’esecuzione penale, oggetto di specifici interventi solo grazie alla penna e all’intelligenza di Franco Corleone e Giovanni Fiandaca. La preoccupazione diffusa è che l’assenza di impegni in materia celi una sostanziale continuità con i quattordici mesi passati. Quattordici mesi in cui la popolazione detenuta è cresciuta insieme con i suicidi e gli atti di autolesionismo. Quattordici mesi in cui il clima di paura e di tensione alimentato all’esterno si è specchiato in una chiusura del sistema penitenziario e in una conflittualità sempre maggiore all’interno delle carceri. Insomma, gli infausti propositi di chi intendeva “buttare la chiave” per far “marcire in galera” i detenuti hanno segnato l’ambiente penitenziario, non solo accompagnando la crescita della popolazione detenuta, ma anche generando una particolare conflittualità tra detenuti e polizia penitenziaria. Discontinuità, in carcere, significa riprendere la strada segnata dalla Costituzione, non solo nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone detenute, ma anche nella offerta di opportunità di reinserimento sociale dei condannati. Discontinuità significa riprendere il modello costituzionale della inclusione sociale e abbandonare quello della esclusione, fondato - appunto - sulla criminalizzazione della marginalità sociale, sull’uso populista del diritto e della giustizia penale, sulla centralità e la chiusura del carcere alle prospettive del reinserimento sociale dei condannati. Non sappiamo se la nuova maggioranza sarà capace di produrre questa necessaria discontinuità, e immaginiamo quanto può essere gravoso farlo per chi anche ieri ha avuto la responsabilità dell’indirizzo politico di governo in materia. Ma le alternative restano queste: inclusione o esclusione sociale? centralità del carcere o sua extrema ratio? Su questo aspettiamo alla prova dei fatti la nuova maggioranza e, in particolare, il Movimento 5 stelle, da cui ci si attende l’abbandono degli slogan (la certezza della pena, il principio di legalità, come se l’esecuzione penale esterna non sia anch’essa una forma di pena sancita dalla legge), e la fatale scoperta che la giustizia penale non produce giustizia sociale, ma - se va bene - il corrispettivo di specifiche prevaricazioni e violenze e magari un po’ di prevenzione. La giustizia sociale marcia per altre strade, e merita di essere offerta anche agli autori di reato, che spesso lo sono perché anch’esse vittime, appunto, dell’ingiustizia sociale. Dei contenuti della discontinuità necessaria alle politiche penali e penitenziarie discuteremo i prossimi 4 e 5 ottobre a Milano, nell’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, aperta alla partecipazione e al contributo di operatori e volontari interessati a un nuovo percorso di riforma del sistema penale e penitenziario. Speriamo che già da questa prossima occasione possa avviarsi un confronto nuovo con il nuovo Governo e con la nuova maggioranza. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Giustizia e speranza, la vera via del carcere di Antonio Maria Mira Avvenire, 15 settembre 2019 C’è una parola per molti lontanissima dalla parola carcere. Ed è la parola speranza. Eppure Papa Francesco la pronuncia, la spiega, la indica con convinzione e forza. Assieme ad altre parole non meno apparentemente lontane, come dignità, compassione, perdono, recupero, ascolto, coraggio, pace, fiducia, futuro, riconciliazione, reinserimento. Lo fa incontrando il mondo carcerario, chi “custodisce” (“vi ringrazio di non essere solo vigilanti, ma soprattutto custodi di persone”, dice agli agenti penitenziari), chi ascolta e si sporca le mani come i cappellani, e chi vive in cella (“siete nel cuore di Dio, siete preziosi ai suoi occhi”). Ancora una volta dimostra grande attenzione per questo mondo ai margini. Un’attenzione concreta. Potremmo dire, con termini giornalistici, che il Papa “sta sul pezzo”. Così, ha parole molto chiare nel denunciare il “problema grave” del sovraffollamento delle carceri e nel chiedere “condizioni di vita decorose”, altrimenti, avverte senza tanti giri di parole, “diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. Parole che si basano sui fatti. Dopo anni di calo, i detenuti in carcere sono tornati a crescere, e molto. Erano quasi 68mila nel 2011, sono scesi fino a poco più di 52mila nel 2016 per poi aumentare rapidamente fino ai 60.741 del 31 agosto scorso. Mentre la capienza è rimasta sostanzialmente la stessa, cioè circa 50mila posti. Dunque 10mila detenuti in più, il sovraffollamento denunciato da Francesco che, dice, “accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento”. Anche perché nel frattempo, come ha recentemente denunciato “Avvenire”, per la prima volta cala il lavoro in carcere. È l’esaurirsi degli effetti di provvedimenti che, con alternative al carcere, avevano abbassato l’affollamento e allentato le tensioni. Ora tornano a crescere l’affollamento e con esso la rabbia, come sottolinea il Papa, e la disperazione. Lo confermano l’incremento dei suicidi in carcere e gli episodi di protesta violenta, piccoli ma ripetuti, più volte denunciati dai sindacati degli agenti che così non sono certo aiutati e spinti, come invita papa Bergoglio, “a essere ponti tra carcere e società civile”. L’attuazione della riforma carceraria, con le pene alternative e il rilancio del lavoro, elaborata dal governo Gentiloni e dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, è stata bloccata dal governo giallo-verde. Poco apprezzata da un esecutivo che ha dimostrato di preferire il “tintinnar di manette” e frasi a effetto come “va sbattuto in cella, gettando via la chiave”: costruire nuovi penitenziari e non renderli più umani, prevedere nuovi reati e aumentare le pene e non creare alternative per migliorare recupero e reinserimento evitando le recidive. Non farebbe mai male ricordare a certi nostri politici, soprattutto a chi ha avuto importanti incarichi di governo, che la nostra bella Costituzione, voluta da partiti anche lontani tra loro, all’articolo 27 prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Proprio le parole di Papa Francesco, che da parte sua cita alcuni passi del Vangelo per sottolineare il “diritto alla speranza, diritto di ricominciare”. Per questo, il Pontefice afferma con forza che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema di risolvere”. Non è la durezza della giustizia a garantire sicurezza, ma la certezza della giustizia. Tempi adeguati, corretto rapporto accusa-difesa, maggiore attenzione alle vittime. E poi recupero e reinserimento. Non “fine pena mai”. Soprattutto quando è “fine pene mai”. Giustizia, non vendetta. È quello che dicono persino i familiari delle vittime delle mafie. Anche faccia a faccia coi detenuti. Anche pregando assieme - chi scrive ne è stato testimone - nella Via Crucis al carcere di Poggioreale, proprio là dove il sovraffollamento è del 140%. “Lo faccio perché sono cristiano. Questo è il nostro posto, come cristiani e come familiari”, disse allora Bruno Vallefuoco, papà di Alberto, ucciso ad appena 24 anni da un commando camorrista, assieme agli amici Salvatore e Rosario, scambiati per appartenenti a un clan rivale. Per poi rivolgersi ai detenuti. “C’è sempre una vita nuova. Per tutti. Anche per voi”. Proprio così. “C’è sempre un futuro di speranza”, dice papa Francesco. Parole non solo da ascoltare ma da concretizzare. Facendo riprendere il cammino alla riforma carceraria, promuovendo nuovo lavoro per i detenuti, sostenendo l’impegno difficile e prezioso degli agenti, rilanciando le pene alternative e il ruolo degli affidamenti esterni, investendo soprattutto sui minori per evitare che il carcere sia una scuola negativa. Un progetto che unisca sicurezza e umanità, giustizia e speranza. Il Papa: “L’ergastolo non è la soluzione, ma un problema da risolvere” di Mimmo Muolo Avvenire, 15 settembre 2019 Il “grazie” di Francesco alla Polizia penitenziaria. Ai detenuti: “Abbiate coraggio, siete preziosi agli occhi di Dio”. Il problema del sovraffollamento e il no all’ergastolo. “So che non è facile ma quando, oltre a essere custodi della sicurezza siete presenza vicina per chi è caduto nelle reti del male, diventate costruttori di futuro”. Così papa Francesco nell’udienza in piazza San Pietro ai cappellani delle carceri italiane, alla Polizia e al personale dell’Amministrazione penitenziaria. In piazza erano presenti in 11mila, in rappresentanza delle 190case di reclusione, guidati dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. Alla polizia: “Grazie di essere tessitori di speranza” - “Anzitutto alla Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo vorrei dire grazie - ha esordito il Papa. Grazie perché il vostro lavoro è nascosto, spesso difficile e poco appagante, ma essenziale. Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma come un sostegno a chi è debole - ha aggiunto il Pontefice - voi ponete le basi per una convivenza più rispettosa e dunque per una società più sicura. Grazie perché, così facendo, diventate giorno dopo giorno tessitori di giustizia e di speranza”. “Non dimenticatevi, per favore - aggiunge - del bene che potete fare ogni giorno. Il vostro comportamento, i vostri atteggiamenti, i vostri sguardi sono preziosi. Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità. Vi ringrazio dunque di non essere solo vigilanti, ma soprattutto custodi di persone che a voi sono affidate perché, nel prendere coscienza del male compiuto, accolgano prospettive di rinascita per il bene di tutti. Siete così chiamati a essere ponti tra il carcere e la società civile: col vostro servizio, esercitando una retta compassione, potete scavalcare le paure reciproche e il dramma dell’indifferenza”. “Le carceri non diventino polveriere di rabbia” - Francesco ha affrontato anche il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari. “Un bel problema - ha detto - che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. Ai detenuti: “Coraggio, siete preziosi agli occhi di Dio” - “Una terza parola, che vorrei indirizzare ai detenuti - ha proseguito il Papa. È la parola coraggio. Gesù stesso la dice a voi. “Coraggio” deriva da cuore. Coraggio, perché siete nel cuore di Dio, siete preziosi ai suoi occhi e, anche se vi sentite smarriti e indegni, non perdetevi d’animo. Siete importanti per Dio, che vuole compiere meraviglie in voi”. “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi - ha aggiunto il Pontefice - Mettetevi davanti al Crocifisso, allo sguardo di Gesù: davanti a Lui, con semplicità, con sincerità. Da lì, dal coraggio umile di chi non mente a sé stesso, rinasce la pace, fiorisce di nuovo la fiducia di essere amati e la forza per andare avanti. Immagino di guardarvi e di vedere nei vostri occhi delusioni e frustrazione, mentre nel cuore batte ancora la speranza, spesso legata al ricordo dei vostri cari. Coraggio, non soffocate mai la fiammella della speranza”. “L’ergastolo non è la soluzione, ma un problema” - “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere” ha indicato il Papa. “Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società - aggiunge il Pontefice - Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare. Vi rinnovo il mio grazie”. E conclude: “Avanti, coraggio, con la benedizione di Dio, custodendo coloro che vi sono affidati. Prego per voi e chiedo anche a voi di pregare per me”. Il Papa boccia l’ergastolo: “Non è la soluzione, tutti hanno il diritto di ricominciare” di Giovanni Panettiere quotidiano.net, 15 settembre 2019 Udienza di Francesco alla Polizia penitenziaria, ai cappellani e ai volontari dei carceri. Da Bergoglio anche l’appello contro le case circondariali sovraffollate: “Sono polveriere di rabbia”. Dietro le sbarre in Italia capienza sforata del 129%. Nessun detenuto deve essere privato del “diritto di ricominciare”. L’ergastolo “non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Dopo aver aggiornato lo scorso anno il Catechismo della Chiesa cattolica, bandendo come “inammissibile” la pena di morte (era ancora ammessa in casi estremi e sempre più rari), oggi papa Francesco, nell’udienza in piazza San Pietro ai cappellani delle case circondariali, alla polizia e al personale dell’Amministrazione penitenziaria, ha messo fuori gioco anche il carcere a vita. Spetta “ad ogni società”, è stato il monito di Bergoglio davanti agli 11mila rappresentanti dei 191 carceri italiani, “fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e reinserimento”. Il riferimento è alla rieducazione del condannato a cui dovrebbe tendere la pena, in ossequio all’art. 27, comma 3. della Costituzione. Il condizionale è d’obbligo, visto che, nonostante i numerosi sforzi di tantissimi operatori del settore, non mancano gli ostacoli per una piena esecuzione del dettato costituzionale. Primo fra tutti il dramma del sovraffollamento delle celle. L’ultima relazione annuale del Garante dei detenuti evidenzia cifre preoccupanti: su 46.904 posti regolamentari disponibili negli istituti di pena, sono presenti circa 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza prevista, per un sovraffollamento pari al 129 per cento. Che cosa questo rappresenti nel cammino rieducativo di un condannato è presto detto. Quello delle carceri fuori norma “è un problema grave”, ne è convinto il Papa, fiacca gli spiriti e, “quando le forze diminuiscono, la sfiducia aumenta”. Ne consegue come sia “essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. All’udienza erano presenti anche alcuni detenuti in permesso speciale. Altri hanno manifestato la loro vicinanza al Pontefice inviandogli lettere e doni realizzati nei laboratori che, da Bolzano a Ragusa, raccontano di un carcere che non dimentica la persona reclusa, ma prova a valorizzarne i talenti. In vista del suo ritorno in società, da uomo libero per il bene comune. “Rendere le carceri luoghi di recupero, non polveriere di rabbia” di Benedetta Capelli vaticannews.va, 15 settembre 2019 Nell’udienza ai Cappellani delle carceri italiane, alla Polizia e al personale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Papa chiede di diventare “costruttori di futuro”, di non spegnere la speranza dei detenuti, di essere “ponti” tra il carcere e la società civile. Francesco pronuncia una parola difficile a chi ogni giorno nelle carceri italiane è chiamato ad ascoltare il grido della disperazione, l’urlo della rassegnazione, a sventare gesti estremi. Chiede nell’udienza in Piazza San Pietro agli uomini e alle donne della Polizia Penitenziaria, ai cappellani e ai volontari che lavorano nelle prigioni, di non soffocare mai la “fiammella della speranza”, esorta poi a garantire “prospettive di riconciliazione e reinserimento” mentre chi è detenuto paga il debito con la società e fa i conti con gli sbagli del passato. Ma Francesco insiste molto sul rispetto della dignità di chi è in prigione e sull’ergastolo come soluzione per chiudere “in cella la speranza”. Costruttori di futuro - Tre le parole chiave che il Papa offre come incoraggiamento e spunto per riflettere. La prima, rivolta alla Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo, è “grazie” per il lavoro nascosto, “spesso difficile e poco appagante, ma essenziale”, che li rende non solo vigilanti ma “custodi di persone”, “ponti tra il carcere e la società civile”, capaci di “retta compassione” per contrastare la paura e l’indifferenza. So che non è facile ma quando, oltre a essere custodi della sicurezza siete presenza vicina per chi è caduto nelle reti del male, diventate costruttori di futuro: ponete le basi per una convivenza più rispettosa e dunque per una società più sicura. Grazie perché, così facendo, diventate giorno dopo giorno tessitori di giustizia e di speranza. Di fronte a persone con dignità - L’accento di Francesco viene posto poi sul rispetto delle persone che si hanno davanti mentre si garantisce la sicurezza. Non dimenticatevi, per favore, del bene che potete fare ogni giorno. Il vostro comportamento, i vostri atteggiamenti, i vostri sguardi sono preziosi. Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità. Il sovraffollamento delle carceri, polveriere di rabbia - L’invito del Papa è di non scoraggiarsi ma di trarre linfa dalle famiglie e dai colleghi per fare fronte non solo alle difficoltà ma anche alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, è un problema grande che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero. Avanti! - La seconda parola di Francesco è per i cappellani, le religiose, i religiosi e i volontari, “portatori del Vangelo”. Il Pontefice ringrazia per “la forza del sorriso”, per il “cuore che ascolta” i pesi altrui, portandoli nella preghiera, offrendo consolazione sentendosi prima di tutto “perdonati”. Avanti quando, a contatto con le povertà che incontrate, vedete le vostre stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto bisognosi di perdono. Allora le proprie miserie diventano ricettacoli della misericordia di Dio; allora, da perdonati, si diventa testimoni credibili del perdono di Dio. Coraggio perché si è nel cuore di Dio - “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi”: così Francesco esorta i detenuti ad avere coraggio perché si è nel cuore di Dio anche se ci si sente smarriti e indegni. Mettetevi davanti al Crocifisso, allo sguardo di Gesù: davanti a Lui, con semplicità, con sincerità. Da lì, dal coraggio umile di chi non mente a sé stesso, rinasce la pace, fiorisce di nuovo la fiducia di essere amati e la forza per andare avanti. Immagino di guardarvi e di vedere nei vostri occhi delusioni e frustrazione, mentre nel cuore batte ancora la speranza, spesso legata al ricordo dei vostri cari. Coraggio, non soffocate mai la fiammella della speranza. L’ergastolo chiude in cella la speranza - Infine l’esortazione alla società perché non “comprometta il diritto alla speranza”, perché siano garantite “prospettive di riconciliazione e di reinserimento”. L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare. Le testimonianze - Nell’indirizzo di saluto, il capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha ricordato che un cambiamento della società è possibile se si considera il carcere come parte integrante e i detenuti come cittadini. “Il mondo dell’esecuzione penale - ha spiegato - è paragonabile a un’orchestra nella quale ogni componente ha un ruolo per un’esecuzione senza stonature”. Tra le tante testimonianze che hanno preceduto l’incontro con il Papa c’è quella del vice-ispettore Roberto Martinelli, in servizio a Genova, che ha ricordato come il carcere oggi si configuri come “una discarica sociale”, in mezzo ai tossicodipendenti, malati di Aids e mafiosi ci sono però gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che operano per garantire la speranza. Nelle parole di Francesco Moggi, volontario a Rebibbia, c’è l’idea che l’accoglienza sia ascolto, aiuto e condivisione. Nel suo racconto, si ravvisa l’orgoglio per aver ricevuto da un detenuto un regalo: la presenza alle sue nozze, frutto di un permesso premio. “Non si chiude in cella la speranza” L’Osservatore Romano, 15 settembre 2019 Messaggio di Papa Francesco all’Amministrazione penitenziaria italiana. “Se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”: lo ha sottolineato il Papa nell’udienza ai membri dell’Amministrazione penitenziaria italiana, incontrati a mezzogiorno di sabato 14 settembre in piazza San Pietro. Tra i temi affrontati dal Pontefice nel discorso, quello dell’ergastolo che, ha ripetuto per due volte, “non è la soluzione dei problemi”, bensì al contrario “un problema da risolvere”. Ecco allora l’esortazione a “mai privare del diritto di ricominciare”. Perché, ha chiarito, “sta ad ogni società” alimentare la speranza; “fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento”. ----------------- Discorso del Santo Padre Francesco alla Polizia penitenziaria, al personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità ---------------- Piazza San Pietro. Sabato, 14 settembre 2019 - Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Vi do il benvenuto e ringrazio il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per le sue parole. Vorrei rivolgervi a mia volta tre semplici parole. Anzitutto alla Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo vorrei dire grazie. Grazie perché il vostro lavoro è nascosto, spesso difficile e poco appagante, ma essenziale. Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma come un sostegno a chi è debole. So che non è facile ma quando, oltre a essere custodi della sicurezza siete presenza vicina per chi è caduto nelle reti del male, diventate costruttori di futuro: ponete le basi per una convivenza più rispettosa e dunque per una società più sicura. Grazie perché, così facendo, diventate giorno dopo giorno tessitori di giustizia e di speranza. Grazie a voi! C’è un passo del Nuovo Testamento, rivolto a tutti i cristiani, che credo vi si addica in modo particolare. Così dice la Lettera agli Ebrei: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13,3). Voi vi trovate in questa situazione, mentre varcate ogni giorno le soglie di tanti luoghi di dolore, mentre trascorrete tanto tempo tra i reparti, mentre siete impegnati nel garantire la sicurezza senza mai mancare di rispetto per l’essere umano. Non dimenticatevi, per favore, del bene che potete fare ogni giorno. Il vostro comportamento, i vostri atteggiamenti, i vostri sguardi sono preziosi. Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata, ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità. Vi ringrazio dunque di non essere solo vigilanti, ma soprattutto custodi di persone che a voi sono affidate perché, nel prendere coscienza del male compiuto, accolgano prospettive di rinascita per il bene di tutti. Siete così chiamati a essere ponti tra il carcere e la società civile: col vostro servizio, esercitando una retta compassione, potete scavalcare le paure reciproche e il dramma dell’indifferenza. Grazie. Vorrei dirvi anche di non demotivarvi, pur fra le tensioni che possono crearsi negli istituti di detenzione. Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari - è un problema grave -, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero. Una seconda parola è per i Cappellani, le religiose, i religiosi e i volontari: siete i portatori del Vangelo tra le mura delle carceri. Vorrei dirvi: avanti. Avanti, quando vi addentrate nelle situazioni più difficili con la sola forza del sorriso e di un cuore che ascolta: la saggezza di ascoltare, avanti, con il cuore che ascolta. Avanti quando vi caricate dei pesi altrui e li portate nella preghiera. Avanti quando, a contatto con le povertà che incontrate, vedete le vostre stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto bisognosi di perdono. Allora le proprie miserie diventano ricettacoli della misericordia di Dio; allora, da perdonati, si diventa testimoni credibili del perdono di Dio. Altrimenti si rischia di portare sé stessi e le proprie presunte autosufficienze. State attenti su questo! Avanti, perché con la vostra missione offrite consolazione. Ed è tanto importante non lasciare solo chi si sente solo. Vorrei dedicare anche a voi una frase della Scrittura, che la gente mormorò contro Gesù vedendolo andare da Zaccheo, un pubblicano accusato di ingiustizie e ruberie. Il Vangelo di Luca dice così: “È entrato in casa di un peccatore!” (Lc 19,7). Il Signore è andato, non si è fermato davanti ai pregiudizi di chi crede che il Vangelo sia destinato alla “gente per bene”. Al contrario, il Vangelo chiede di sporcarsi le mani. Grazie, perché vi sporcate le mani! E avanti! Avanti allora, con Gesù e nel segno di Gesù, che vi chiama a essere seminatori pazienti della sua parola (cfr Mt 13,18-23), cercatori instancabili di ciò che è perduto, annunciatori della certezza che ciascuno è prezioso per Dio, pastori che si caricano le pecore più deboli sulle proprie spalle fragili (cfr Lc 15,4-10). Avanti con generosità e gioia: col vostro ministero consolate il cuore di Dio. Infine una terza parola, che vorrei indirizzare ai detenuti. È la parola coraggio. Gesù stesso la dice a voi: “Coraggio”. Questa parola deriva da cuore. Coraggio, perché siete nel cuore di Dio, siete preziosi ai suoi occhi e, anche se vi sentite smarriti e indegni, non perdetevi d’animo. Voi che siete detenuti siete importanti per Dio, che vuole compiere meraviglie in voi. Anche per voi una frase della Bibbia. La Prima Lettera di Giovanni dice: “Dio è più grande del nostro cuore” (1 Gv 3,20). Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi. Mettetevi davanti al Crocifisso, allo sguardo di Gesù: davanti a Lui, con semplicità, con sincerità. Da lì, dal coraggio umile di chi non mente a sé stesso, rinasce la pace, fiorisce di nuovo la fiducia di essere amati e la forza per andare avanti. Immagino di guardarvi e di vedere nei vostri occhi delusioni e frustrazione, mentre nel cuore batte ancora la speranza, spesso legata al ricordo dei vostri cari. Coraggio, non soffocate mai la fiammella della speranza. Sempre guardando l’orizzonte del futuro: sempre c’è un futuro di speranza, sempre. Cari fratelli e sorelle, ravvivare questa fiammella è dovere di tutti. Sta ad ogni società alimentarla, fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro. L’ergastolo non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare. Vi rinnovo il mio grazie. Avanti, coraggio, con la benedizione di Dio, custodendo coloro che vi sono affidati. Prego per voi e chiedo anche a voi di pregare per me. Grazie. “Scavalcate col vostro servizio paure reciproche e indifferenza” di Gianluca Rubino gnewsonline.it, 15 settembre 2019 L’arrivo in “papamobile” con il conseguente boato dei fedeli accorsi in piazza San Pietro: è iniziata così l’Udienza di Papa Francesco alla Polizia Penitenziaria, al Personale dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità. Circa 11mila persone in rappresentanza delle 190 case di reclusione, guidati dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. Un momento di coinvolgimento e di preghiera che ha toccato le corde dell’anima dei presenti, attenti ad ascoltare il messaggio del Santo Padre che ha sempre manifestato interesse e sentita partecipazione nei confronti della realtà del carcere vissuta dagli operatori penitenziari e dalle persone detenute che, seppur da prospettive diverse, condividono una mondo complesso. Prima dell’omelia, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha rivolto un saluto al Pontefice: “La comunità che opera nelle carceri del nostro Paese presente in questa piazza simbolo della Cristianità - ha affermato - è testimone di un impegno che sfida i luoghi comuni, un esercito di pace e di speranza. Gli operatori del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, l’Ispettorato generale dei Cappellani, religiose, religiosi e volontari, hanno accolto numerosi l’invito a essere qui presenti per ascoltare le Sue parole che uniscono, rafforzano noi tutti nel nostro agire quotidiano, ci confortano nella difficile missione di restituire speranza e promuovere il cambiamento nelle persone detenute e in esecuzione penale esterna”. “Santità - ha aggiunto Basentini - abbiamo bisogno del Suo conforto e delle Sue esortazioni a essere migliori, a guardare all’altro come nostro fratello e a sforzarci perché ogni giorno sia un giorno nuovo per il cambiamento, per rendere questo mondo in cui viviamo, lacerato da conflitti e ingiustizie, un posto dove ci sia spazio per tutti, nel solco del riconoscimento della dignità e del rispetto dei diritti umani”. I detenuti, anche se hanno sbagliato, non possono essere mortificati: un concetto di cui Papa Francesco si fa interprete, esprimendo allo stesso tempo profonda gratitudine nei confronti degli agenti di Polizia Penitenziaria per il lavoro svolto con professionalità e attenzione: “Siete persone che, poste di fronte a un’umanità ferita e spesso devastata - ha detto il Santo Padre - ne riconoscono, a nome dello Stato e della società, l’insopprimibile dignità. Vi ringrazio, dunque, di non essere solo vigilanti ma soprattutto custodi di persone che a voi sono affidate perché, nel prendere coscienza del male compiuto, accolgano prospettive di rinascita per il bene di tutti. Siete così chiamati a essere ponti tra il carcere e la società civile: col vostro servizio, esercitando una retta compassione, potete scavalcare le paure reciproche e il dramma dell’indifferenza”. Rivolgendosi ai cappellani e ai religiosi che operano negli istituti di detenzione, il Pontefice ha chiesto di andare “avanti con Gesù e nel segno di Gesù, che vi chiama a essere seminatori pazienti della Sua parola, cercatori instancabili di ciò che è perduto, annunciatori della certezza che ciascuno è prezioso per Dio, pastori che si caricano le pecore più deboli sulle proprie spalle fragili”. “Avanti con generosità e gioia: col vostro ministero - ha concluso il Papa - consolate il cuore di Dio”. Al termine dell’Udienza, Francesco ha benedetto la ‘croce della misericordia’, realizzata dai detenuti di Paliano, e su cui sono dipinte scene bibliche di liberazione, di riscatto e di redenzione, ma anche le immagini di mamme in carcere con i loro bambini. Adesso sarà portata in tutti i penitenziari italiani. Chi educa dietro le sbarre: “Rinascere è possibile” di Marina Lomunno Avvenire, 15 settembre 2019 Cappellani, religiose, insegnanti, agenti penitenziari con le famiglie, volontari, educatori: venivano da tutta Italia i 12 mila pellegrini che ieri mattina dalle 8 affollavano piazza San Pietro per la prima udienza nazionale riservata al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile. “Un numero inatteso - spiega don Raffaele Grimaldi, ispettore generale delle carceri italiane - tanto che l’udienza, fissata in un primo momento nella Sala Paolo VI che ha circa 6500 posti, è stata trasferita in piazza San Pietro. È un momento importante per tutti coloro che condividono un pezzo di strada con i reclusi, contribuendo al loro riscatto perché non siano discriminati per il reato commesso. Il Papa oggi ci incoraggia e ci sprona a continuare a dare speranza nonostante le criticità: ne abbiamo bisogno. È molto bello poi che oggi in piazza ci siano i familiari degli agenti, che sostengono moralmente chi ogni giorno varca i cancelli dei penitenziari affrontando situazioni spesso laceranti. Sarebbe stato bello ci fosse anche una delegazione di detenuti, ma mi rendo conto delle difficoltà organizzative”. “Sono qui anche per restituire a nome dei miei ragazzi l’attenzione che papa Francesco ebbe per loro durante la sua visita a Torino nel 2015, quando volle con lui a pranzo in arcivescovado un gruppo di minori reclusi - ricorda don Domenico Ricca, salesiano, cappellano del carcere minorile torinese “Aporti”. La nostra realtà rischia di essere “figlia di un dio Minore” perché i detenuti minorenni, circa 380 in Italia, sono un numero esiguo rispetto agli adulti. Eppure il Papa invita a ricordare che la giustizia rivolta a persone in formazione dev’essere più “dolce”, meno rigida e più educativa”. Anche Nadia Ferri, responsabile della sede di Genova del Centro giustizia minorile per Piemonte, Valle D’Aosta e Liguria, è venuta a ringraziare Francesco per la sua sensibilità nei confronti dei giovani detenuti: “Non potrò mai dimenticare che la prima visita dopo la sua elezione è stata proprio all’Istituto per minorenni Casal del Marmo di Roma e da allora non c’è viaggio in cui non dedichi uno spazio ai detenuti e a noi operatori. Per noi è di grande conforto sapere che il Papa sostiene e prega per chi vive a stretto contatto con i reclusi e cerca ogni giorno di aiutarli a reinserirsi nella società”. Da Torino viene pure Rosa Cuscito, viceispettore della Polizia penitenziaria del “Ferrante Aporti” : “Francesco è un Papa “umano”, che conosce a fondo l’uomo e le sue fatiche. La sua vicinanza spirituale ai detenuti è preziosa, ma anche per noi sapere che ci è accanto nel nostro lavoro di recupero soprattutto con i più giovani è consolante e ci dà forza”. Bianca Manna insegna da 9 anni ai geometri presso la Casa circondariale di Ariano Irpino (Avellino), dove sono reclusi 700 detenuti: “Sono qui perché credo che la scuola in carcere sia fondamentale per restituire vita ai reclusi e il Papa sostiene spesso il valore dell’educazione e della cultura per chi è nato in contesti difficili. Io insegno anche ai figli dei boss di camorra, mi dicono che non hanno mai frequentato un’aula scolastica e che andare a scuola è la cosa migliore è capitata loro finora”. L’ultima voce è di Nunzio Brugugnone, responsabile dell’area educativa del carcere dell’Ucciardone di Palermo. È qui con la sua famiglia: “È un giorno memorabile che ci dà forza per continuare il nostro impegno per la rieducazione e il superamento della pena, cosa che ogni giorno facciamo accanto ai volontari. Grazie al Papa che dando voce alla nostra presenza avvicina così il mondo carcerario alla società”. Carcere, nella storia i vinti sono più importanti dei vincitori di don Marco Pozza* ilsussidiario.net, 15 settembre 2019 Il carcere è il parcheggio imbruttito e trascurato della città: erbacce, asfalto dismesso, segnaletica insufficiente. Non esiste parcheggio, a rigor di logica, che faccia funzione di officina: abbandonando una macchina rotta in un parcheggio, non la si ritroverà aggiustata. Al carcere, invece, sovente si chiede l’assurdo: “Ti parcheggio certi uomini. Aggiustali, poi tieniteli”. Anche qualora, nel parcheggio, si trovasse un meccanico di buona volontà che ripari l’autovettura, per qualcuno non c’è gioia più grande di sapere che certe storie andranno scordate, sottratte, allontanate dalla città degli uomini. Non hanno più diritto alla cittadinanza. Eppure, a scuola, tutti abbiamo avuto l’occasione di leggere l’Odissea e chi non l’ha letta non può vantare giustificazioni alla sua ignoranza. In quella storia, ch’è la mamma di tutte le storie, si racconta della guerra di Troia: dieci anni a far la guerra in nome della bellezza di Elena. Finì nel nome di Ulisse, l’avventuriero, l’emblema della furbizia: ben nascosto nel suo cavallo, espugnò Troia con tutto il suo ambaradan. Il vincitore però, di ritorno a Itaca, incappò in mille disgrazie. I troiani sconfitti, invece, misteriosamente trovarono gloria: secondo la leggenda Roma fu fondata per mano di Enea; la Francia per mano di Francio, un figlio di Priamo; l’Inghilterra da Bruto, il nipote di Enea. Incuriosisce l’illogico di questa vicenda: che tre potenze mondiali siano andate a cercare i loro antenati tra la stirpe che più di tutte personifica la sconfitta. “Ricordatevi sempre della guerra di Troia - fu l’invito del mio prof più geniale: la vittoria rende arroganti, la sconfitta induce alla meditazione”. Per me Troia è città gemellata con tutti i fallimenti della storia, più che città simbolo dell’astuzia che conduce alla vittoria. Ieri, in piazza San Pietro, Papa Francesco ha dato appuntamento a tutti coloro che operano all’interno delle carceri: non alle persone detenute - “Il Papa ha sempre in mente i carcerati!” dicono in tanti - ma a coloro che, nei parcheggi statali, s’inventano riparatori di storie, rifacitori di senso, esperti di umanità. Per dire loro: “Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma anche come un sostegno a chi è debole (…) Non dimenticatevi del bene che potete fare ogni giorno”. E nel suo discorrere, sotto-sotto, mostrava di custodire un segreto: che lavorare lì dentro sia un’occasione gigante per ripassare la lezione di Troia. A breve sono i vincitori a scrivere la storia, alla lunga la storia si arricchisce maggiormente con l’esperienza dei vinti: “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla disperazione” ha aggiunto rivolgendosi alle persone detenute. Che sono gli sconfitti, i “mostri”, quelle storie abbandonate in quei parcheggi di cemento che sono le patrie galere. Storie che diventano terre di nessuno. Dopo una vittoria chi vince riposa, festeggia. Dopo una sconfitta, chi perde sovente si rimette subito in moto: più feroce, più vitale, più agguerrito. Il Papa lo sa che questo è Vangelo e che gli errori, i peccati, sono storie che partoriscono altre storie: “Avanti! - dice rivolto ai cappellani ai religiosi, ai volontari - quando a contatto con le povertà che incontrate vedete le vostre stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto bisognosi di perdono”. Il Papa non ha paura: è troppo convinto che, alla fine, Dio non permetterà che la storia vada a finire in maniera diversa da come l’ha sognata Lui. Francesco è mal sopportato dai vincitori, è acclamato dai vinti: i cristiani vincenti, con i loro rappresentanti in doppio petto e berretto, gli vanno contro. I cristiani peccatori lo cercano per chiedergli un passaggio verso il Cielo: “Mai privare del diritto di ricominciare. Mentre si rimedia agli sbagli del passato - chiude - non si può cancellare la speranza”. Parlando degli sconfitti, furbo e santo com’è, rilancia il sospetto che sia troppo facile professarsi casti senza mai essere stati tentati. *Cappellano nella Casa di Reclusione di Padova Il Papa benedice la Croce della misericordia. Ora in pellegrinaggio nelle carceri Avvenire, 15 settembre 2019 Il dono dei detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano (Fr). Sul legno scene bibliche di liberazione e riscatto. Ma anche le mamme in cella con i loro bambini. Papa Francesco nell’incontro di oggi con la polizia penitenziaria, ha benedetto la “Croce della misericordia”, realizzata dai detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano (Frosinone) con la volontaria Luigia Aragozzini, maestra di iconografia, che ora sarà portata in pellegrinaggio in tutti i penitenziari italiani. Sul legno sono state dipinte scene bibliche di liberazione, di riscatto e di redenzione, ma anche le immagini di mamme in carcere con i loro bambini. A Paliano il Papa era andato in visita il 13 aprile di due anni fa. La Croce è frutto di un laboratorio promosso nel carcere dalla Comunità di Sant’Egidio. “È una Croce messaggio”, spiega l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, “dove le immagini dipinte richiamano la nostra attenzione su alcuni episodi biblici, la Liberazione di Pietro e di Paolo dalle prigioni, il buon ladrone, e i Protettori, San Basilide (Patrono della Polizia Penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (Patrono dei Cappellani delle carceri). Sul fondo della Croce immagini di bambini con le loro madri in carcere. Questa raffigurazione vuole rappresentare il desiderio, affinché le tante madri con i loro piccoli possano scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena, in modo che, ai loro piccoli, loro malgrado, non venga tolta la speranza”. Tra i tanti doni che sono stati offerti al Papa, c’è anche una casula e una stola realizzata dai detenuti del carcere di Larino, in Molise, che sono impegnati in un percorso sartoriale e seguiti dall’area trattamentale dell’istituto e dalle sarte volontarie. Sulla casula i detenuti hanno voluto rappresentare visivamente la sofferenza della condizione detentiva, accompagnando le immagini delle mani protese con un messaggio di speranza e di fiducia per il futuro. Assemblea Anm. I magistrati critici sul Csm “a sorteggio” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2019 Se qualcuno si aspettava l’arrivo in massa in Cassazione dei magistrati indignati per il più grosso scandalo della storia recente della toghe è rimasto deluso. L’aula magna dove si è svolta l’assemblea generale promossa dall’Anm aveva tante poltrone libere. Ci sarebbe stata molta più partecipazione se si fosse tenuta, ci confida qualcuno dell’Anm, “a botta calda”, poco dopo che sono emerse le registrazioni sul tentativo di pilotare prima di tutto la nomina del procuratore di Roma. Diversi, comunque, gli interventi, non solo dei vertici Anm, molto severi su quanto accaduto. “Fermezza” e “svolta” le parole d’ordine più invocate, oltre al richiamo sulla necessità di regole decisamente più stringenti per evitare le porte girevoli all’interno della magistratura (Anm, Csm, fuori ruolo) nonché in merito al rientro dei magistrati in politica, come proposto dal “parlamentino” dell’Anm. Dall’Assemblea di ieri è arrivata l’ulteriore conferma che si prospetta un confronto-scontro Anm-Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla riforma che ha punti che non piacciono al sindacato delle toghe, a partire dal sistema elettorale dei consiglieri del Csm. Il ministro dalla prima ora aveva detto di essere favorevole a un sorteggio indiretto per frenare la correntocrazia mentre il presidente dell’Anm Luca Poniz, ieri, ha ribadito la posizione contraria dell’associazione: “È una riforma che contrasta con la Costituzione, perché elezioni e sorteggio non sono mai equiparabili”. Bisogna trovare, però, “forme più democratiche di partecipazione”. Posizione ribadita dal segretario Giuliano Caputo: il sorteggio “non scalfisce le distorsioni torrentizie”. I dubbi su come i magistrati possano ritrovare la retta via, se si parla di nomine e di lottizzazioni delle correnti, rimangono fra le stesse toghe, molte rimaste a casa. Querele bavaglio e carcere per i giornalisti, Businarolo (M5S) riunisce le proposte di legge articolo21.org, 15 settembre 2019 Già nei mesi scorsi la Presidente della Commissione Giustizia della Camera aveva garantito il suo impegno per eliminare la pena del carcere per i giornalisti nonché per una modifica realmente migliorativa della legge in materia di diffamazione a mezzo stampa e in particolare contro l’uso strumentale delle querele contro i giornalisti. Ora Francesca Businarolo, parlamentare del Movimento Cinque Stelle, nella sua qualità, appunto, di Presidente della Commissione ha annunciato di voler procedere all’unificazione delle proposte di legge presentate dai parlamentari Mirella Liuzzi, per i Cinque Stelle,e Walter Verini, del Partito Democratico, inerenti proprio il contrasto alle querele bavaglio e alle molestie contro giornalisti e il diritto di cronaca. “Ci auguriamo che, almeno in questa occasione, si possa arrivare ad una rapida e larga approvazione di un testo che affronti anche le questioni relative al carcere per i cronisti e all’assurdità del sequestro dei beni dei cronisti di testate fallite - commenta il Presidente della Federazione della Stampa, Giuseppe Giulietti. Siamo ovviamente disponibili ad un confronto e a fornire tutto il nostro contributo alla definizione di una iniziativa più volte sollecitata dalla federazione della stampa e da tutte le associazioni ne hanno a cuore l’articolo 21 della Costituzione”. Punizioni al testimone chiave del caso Cucchi. L’Anac accusa sei alti ufficiali dei carabinieri di Nicola Pinna La Stampa, 15 settembre 2019 Dossier dell’Autorità anticorruzione: “Ingiustificati i trasferimenti dell’appuntato che accusò i colleghi”. La legge sul whistle-blowing è in vigore anche in Italia dal 2017 e questo è il primo procedimento fatto scattare dall’Autorità anticorruzione per difendere un militare. Uno che ha fatto una denuncia rischiosa e che ha consentito di riaprire un’inchiesta scottante come quella sulla morte di Stefano Cucchi. Quel carabiniere, un appuntato con molti anni di esperienza e spesso in prima linea nella lotta agli stupefacenti, si chiama Riccardo Casamassima. È lui che nel 2009 ha raccolto la confidenza di un collega e che solo nel 2015 ha trovato il coraggio di raccontare quella frase bisbigliata all’orecchio da un maresciallo: “È successo un casino, hanno massacrato di botte un arrestato”. Quel racconto, a Riccardo Casamassima, è costato molto caro e per questo da due anni denuncia di essere finito nel mirino dei superiori. Da un giorno all’altro, l’appuntato si è ritrovato ad aprire e chiudere il cancello di una scuola militare. E dopo qualche mese è stato spostato in un ufficio senza competenze, costretto a passare le ore davanti a una scrivania vuota. La nuova inchiesta - Il caso è finito ora nelle mani dell’Anac e nei giorni scorsi è stato aperto un “procedimento sanzionatorio” nei confronti di 6 alti ufficiali dell’Arma. Cinque generali e un colonnello, che ora dovranno rispondere di una serie di provvedimenti ordinati, e adottati direttamente, nei confronti del militare che ha fatto emergere la seconda verità sul caso Cucchi, una storia di depistaggi, di innocenti finiti sotto processo e di responsabilità scottanti venute a galla solo con molti anni di ritardo. L’inchiesta dell’Anac sui vertici dell’Arma non è ancora conclusa. E nessuno è stato condannato. Se questo fosse un processo penale, giusto per spiegare meglio la procedura, si potrebbe dire che per i 6 alti ufficiali è stato richiesto il rinvio a giudizio. I generali e il colonnello, dunque, hanno ancora il tempo di difendersi. Ma intanto il Comando generale sceglie di non commentare: “Aspetteremo l’esito degli accertamenti dell’Autorità anticorruzione”. Le accuse - Un primo pronunciamento, comunque, è già stato messo nero su bianco, nelle 6 pagine recapitate alle persone indiziate. Ciò che emerge dalla vicenda, dice l’Anac, sembra essere abbastanza chiaro: non basta la spiegazione dell’ incompatibilità tra l’appuntato che aveva fatto la denuncia e il collega - poi finito sotto processo per quella verità scomoda - a giustificare i trasferimenti. Eppure, a rileggere i provvedimenti firmati pochi giorni dopo la testimonianza di Riccardo Casamassima, l’unica motivazione era proprio l’incompatibilità tra militari. Ad aggravare il quadro, secondo il dossier consegnato all’Anac da alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle e del Gruppo misto, ci sarebbero le punizioni che l’appuntato ha dovuto subire per aver denunciato sui social quella che lui - e gli avvocati Serena Gasperini e Giulio Murano che lo difendono - considerano un accanimento. Casamassima: “Dire la verità era solo il mio dovere. Ma la mia vita è diventata impossibile” di Nicola Pinna La Stampa, 15 settembre 2019 Il carabiniere: “Spero che il nuovo governo si occupi presto di difendermi”. Riccardo Casamassima sa che questa intervista gli costerà un’altra punizione. Il sesto procedimento disciplinare, quello che rischia di costargli anche la perdita del grado, cioè il licenziamento. In realtà aveva provato a evitarla l’ennesima punizione e aveva chiesto il permesso di raccontare questa vicenda. Ma poche ore prima dell’incontro un maresciallo gli ha notificato il divieto scritto. Perché ha deciso di rischiare ancora? “Voglio solo chiedere aiuto: vorrei attirare l’attenzione del governo, magari del premier e del nuovo ministro della Difesa. Vorrei raccontar loro quello che sto passando. Ho solo la colpa di aver riferito quello che sapevo sul caso Cucchi: sarebbe il dovere di ogni cittadino, specie di un carabiniere”. Qualcuno le ha mai detto che non avrebbe dovuto riferire quella confidenza? “Nessuno è stato così esplicito ma da quando ho testimoniato sono stato insultato, soprattutto sui social. Da quel momento la vita è diventata impossibile”. Come mai ha raccontato quella confidenza solo nel 2015? “Non avevo seguito il caso e poi temevo di essere preso di mira. Come infatti è successo dopo”. Perché considera punitivo il trasferimento dall’8° Reggimento alla Scuola allievi? “Dopo aver fatto centinaia di arresti e dopo aver ottenuto numerosi encomi per l’attività operativa, mi sono ritrovato ad aprire e chiudere un cancello. Non è solo una questione di demansionamento, ma anche un danno economico: tra straordinari vietati e altre indennità perse mi sono ritrovato uno stipendio ridotto di 300 euro”. Dopo il cancello cosa è successo? A cosa sono servite le sue proteste? “Mi sono ritrovato in un ufficio senza competenze. Da solo, a guardare il muro e a occuparmi di nulla”. Tutti i militari cambiano incarico e spesso svolgono mansioni poco gratificanti. Perché considera i trasferimenti una punizione? “Per il danno economico e per la coincidenza con la testimonianza. Dopo la denuncia ho lavorato col collega finito sotto inchiesta per 3 anni e non è successo niente. Quando ho parlato in tribunale è iniziato l’incubo”. Lei ha deciso di denunciare questa situazione: cosa è successo dopo? “Ho subito 4 azioni disciplinari: 3 “procedimenti di corpo” si sono conclusi con 16 giorni di consegna, il quarto deve ancora svolgersi”. Ma adesso è partito un altro procedimento? “Sì, più grave, “di stato”, per le ultime denunce sui social. In caso di condanna rischio di perdere il lavoro”. Nel frattempo è finito anche sotto inchiesta penale. È accusato di spaccio. Come mai? “Indagine aperta dopo la mia denuncia, basata su un’intercettazione del 2014, quando una pregiudicata - alla quale avevo dato dei soldi per aiutare i suoi bimbi piccoli - racconta che io spacciavo droga. Diceva anche che avrebbe fatto del male ai miei figli, ma visto che nessuno la considerava credibile non ci fu alcun intervento, neanche per difendere i miei bambini. Dopo alcuni anni, guarda caso, quella telefonata è diventata importante per un’inchiesta nei miei confronti. Comunque aspettiamo il processo e vedremo come andrà a finire. Io gli spacciatori li ho sempre combattuti”. Adesso cosa chiede? “Di tornare a fare il lavoro di prima o di lavorare in una caserma più vicina a quella in cui sta mia moglie, anche lei carabiniere. Sarebbe il ricongiungimento familiare che solo a me viene negato”. Padova. Di Giacomo (Spp): “Il carcere è affollato e teatro di violenze” di Massimo Zilio Il Gazzettino, 15 settembre 2019 Sovraffollamento di detenuti e carenza nell’organico degli agenti, ma non solo. Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, ha fatto tappa anche a Padova. “A Padova mancano oltre cento agenti - spiega Di Giacomo - il sovraffollamento è del settanta per cento, ma non sono gli unici problemi. La gestione della popolazione carceraria è sempre più difficile è ce lo confermano i dati che vedono una grande aumento di eventi critici come risse, violenze, suicidi e tentativi di suicidio, ma anche i sequestri di droga e di telefoni, un migliaio all’anno in tutta Italia”. Di Giacomo, a Padova con i colleghi Antonio Codirenzi e Leonardo Corrado, segretario e vice segretario regionale del sindacato, ha sottolineato come la composizione della popolazione carceraria sia un elemento che in alcuni casi ne rende più complessa la gestione: “La presenza della malavita nigeriana all’interno delle strutture di detenzione - continua Di Giacomo - è in aumento: negli ultimi anni è quasi triplicata, e si porta dietro un sistema di violenza molto diffuso. Torture e aggressioni sono metodi usati fuori come dentro il carcere, sia all’interno dell’organizzazione sia per imporre il proprio controllo”. Di Giacomo e il suo sindacato chiedono per questo di adattare i metodi e gli strumenti: “Secondo noi il sistema di vigilanza dinamica, con l’apertura diurna delle celle, introdotto per andare incontro alle direttive europee contro il sovraffollamento, crea ulteriori difficoltà e contribuisce ad aumentare gli episodi di violenza: ogni giorno 28 agenti in tutta Italia devono andare in ospedale per violenze subìte sul lavoro, otto ogni mese nelle due carceri, casa di reclusione e circondariale, di Padova. Per questo pensiamo che in certi casi agli esponenti della mafia nigeriana debba essere riservato un trattamento diverso, come succede già per gli esponenti di altri tipo di malavita organizzata”. Lo stesso sindacato è molto duro con gli agenti che si rendono responsabili di comportamenti gravi: “Chi viola le regole mette in difficoltà tutti i colleghi e lede la stessa dignità del nostro lavoro: per questo le punizioni dovrebbero essere esemplari”. Brescia. Canton Mombello scoppia: “Celle aperte e più regole” di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 15 settembre 2019 La denuncia del Sindacato Spp che chiede il 41bis per la mafia nigeriana. Il punto di partenza è sempre lo stesso, carceri sovraffollate e scarsità di personale di custodia, ma l’SPP - una delle numerose sigle del sindacalismo autonomo di polizia penitenziaria - chiede soprattutto una modifica delle norme attuali che “hanno di fatto consegnato le carceri nelle mani dei detenuti”. A sostenerlo è stato ieri il segretario nazionale Spp Aldo Di Giacomo in tour da settimane per denunciare la situazione e ieri a Brescia. L’esponente sindacale ha dato i numeri della situazione bresciana: a Canton Mombello, su 189 posti, i detenuti sono 389, di cui 176 stranieri; a Verziano, se 72 posti, i detenuti sono 132, di cui 39 stranieri. le carenze di personale, a Brescia come altrove, sono stimate intorno al 27 per cento. “Più dei numeri, è il sistema che non funziona - ha detto ieri Di Giacomo davanti al carcere di via Spalto San Marco. Il cosiddetto sistema delle celle aperte operativo da oramai due anni e mezzo ha creato una situazione di continua sopraffazione da parte dei detenuti più forti contro i più deboli e tante aggressioni contro i colleghi”. Il sistema della vigilanza dinamica in carcere parte dalla necessità di introdurre una diversa gestione degli spazi interni agli istituti, di modo che il soggetto detenuto passi in cella il minor tempo possibile e possa invece avere accesso ad altri spazi. Una esecuzione della pena meno passiva, meno legata alle ore in cella e via dicendo. Tutto positivo sulla carta, ma foriero di tante controindicazioni che non vanno. Di Giacomo chiede misure concrete. “Non siamo contro le celle aperte ma è evidente che qualcosa deve cambiare”. In particolare l’Spp chiede di trasformare in reato penale l’introduzione di cellulari all’interno del carcere (“oggi è solo un illecito amministrativo”) e di stabilire che chi picchia altri detenuti venga escluso da benefici carcerari di qualsiasi genere. “Due norme che avevamo chiesto di introdurre nel decreto sicurezza, ma ci sono state bocciate”, dice Di Giacomo. Da parte sua anche un inciso sulla mafia nigeriana e alla recente indagine condotta dalla squadra mobile di Brescia: “Non basta arrestarli perché in carcere sono comunque pericolosi - incalza l’esponente sindacale. A questi nigeriani violenti va applicato lo stesso regime del 41bis per i mafiosi italiani”. L’ultimo richiamo è sulla necessità di avere nuovi carceri: “Non è possibile che progetti e risorse siano fermi da anni”. Il riferimento al nuovo carcere bresciano non è ovviamente casuale. Foggia. Sovraffollamento e carenza di personale, l’allarme di Giandiego Gatta foggiatoday.it, 15 settembre 2019 L’allarme del vicepresidente del Consiglio Regionale Gatta, che martedì prossimo parlerà con il Garante: “Se la pena deve avere funzione rieducativa devono esserci le condizioni strutturali perché ciò avvenga”- “Ho visitato il carcere di Foggia e devo ammettere di aver vissuto un’esperienza toccante, per l’ennesima volta, perché se la pena deve avere una funzione rieducativa, devono esserci anche le condizioni strutturali perché ciò avvenga”, è quanto dichiara in una nota il vicepresidente del Consiglio regionale Giandiego Gatta. “Il carcere foggiano ospitava, qualche giorno fa, in occasione della mia visita, ben 637 detenuti a fronte di 362 che andrebbero ospitati secondo la normativa. Ho potuto verificare le condizioni di vita all’interno della struttura, constatando, purtroppo, l’assenza di luoghi adeguati alla funzione riabilitativa e risocializzatrice della pena ed altre, gravi, criticità. Per questo, ho scritto al Garante dei Detenuti, ritenendo improcrastinabile un’azione condivisa per migliorare le condizioni di vita di chi sta scontando la sua pena. Inoltre, c’è un’altra emergenza: la carenza di personale penitenziario. Basti pensare che, in base alla popolazione carceraria, a Foggia occorrerebbero almeno 50 unità in più, senza considerare che, entro il 2020, circa ventotto agenti andranno in pensione. Si tratta di personale costretto a turni di lavoro massacranti pur di garantire la sicurezza all’interno del carcere. Non solo: a Trani, per esempio, dove i detenuti sono circa la metà, c’è un numero di educatori pari ad oltre il doppio rispetto a Foggia, in cui ce ne sono soltanto 4, dei quali due a tempo pieno e gli altri part-time. A Verona, la Casa circondariale che ha circa cinquecento detenuti (quindi in numero sensibilmente inferiore a Foggia) ha però un organico delle forze di Polizia penitenziaria pari quasi al doppio dell’istituto foggiano. Tanto basta a disegnare un quadro preoccupante, che abbraccia più aspetti. Di tanto parlerò con il Garante, che ringrazio per la disponibilità, in occasione dell’incontro già fissato per martedì 17 settembre”. Salerno. Le carenze del carcere senza padroni di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 15 settembre 2019 La struttura di Fuorni sovraffollata e con pochi agenti. Le mani della criminalità su traffici illeciti e ingressi di cellulari. Il tentativo non riuscito di una donna originaria di Pagani di far entrare all’interno della Casa circondariale di Fuorni ben mezzo chilo di sostanza stupefacente (400 grammi di hashish e 104 grammi di cocaina) è solo la punta dell’iceberg di una situazione esplosiva nel carcere di Salerno. Droga, telefonini, risse, lotta per la leadership e minacce agli operatori “zelanti” sono, infatti, la regola e non l’eccezione nel penitenziario cittadino. Un traffico illecito che è nelle mani della criminalità organizzata, che fa continuamente adepti e che cerca d’imporre - anche in carcere - la legge del più forte, con lo spaccio di droga e degli smart-phone. Colpa, sostengono i sindacati, del nuovo regime “aperto” e del numero esiguo degli agenti in servizio, che costringe il personale a turni stressanti, senza neppure avere il supporto tecnologico necessario. Fatto sta che gli episodi di violenza, i frequenti ritrovamenti di droga e micro-telefoni sono, negli ultimi tempi, all’ordine del giorno. I detenuti, infatti, non comunicano più con l’esterno coi “pizzini” ma col cellulare. E i micro-telefoni, il più delle volte, vengono scoperti grazie alle segnalazioni della Procura che intercetta le utenze tenute sotto controllo. Gli ultimi due anni dal punto di vista della sicurezza si sono rivelati da dimenticare per la casa circondariale di Salerno e quanto accaduto nelle ultime ore è soltanto l’ultimo di una lunga serie di episodi registrati all’interno dell’istituto di via del Tonnazzo. Nella relazione annuale del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, è emerso come nel carcere di Fuorni a fronte di una capienza regolare di 366 detenuti, ne siano ospitati 507. Nel 2018 sono stati registrati 13 tentativi di suicidio e ben 122 forme di autolesionismo. Situazioni di pericolo sventate dalla polizia penitenziaria, che è perennemente sottorganico (218 su un fabbisogno di 243), e dagli stessi detenuti, intervenuti in extremis per evitare gesti estremi dei compagni di cella. Anche questa è una conseguenza dello stato di degrado della struttura carceraria. Dunque problemi su problemi che non hanno fatto altro che aggravare la situazione, già di per sé imbarazzante. E proprio per questo motivo il Sappe, il sindacato nazionale polizia penitenziaria, ha invitato “la direzione della Casa circondariale di Salerno ad una concreta verifica dell’organizzazione del lavoro che continua ad essere lacunosa in alcuni settori nevralgici dell’Istituto”. Torino. Sciopero della fame per l’oppositore di Erdogan rinchiuso nel Centro per il rimpatrio La Repubblica, 15 settembre 2019 Giornalista e attivista politico, è fuggito dalla Turchia ma è stato arrestato in Italia. È in sciopero della fame da una decina di giorni Deniz Pinaroglu, turco 36enne da inizio settembre al Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di corso Brunelleschi a Torino. L’uomo, incensurato, racconta di essere arrivato in Italia per fuggire dal regime di Erdogan, che aveva contestato in qualità di giornalista e attivista politico di sinistra. Fermato a Piacenza senza documenti, è stato portato a Torino come straniero irregolare. Una decina di giorni fa ha fatto richiesta di asilo politico. “È finito in un ingranaggio giuridico da cui non si esce facilmente - spiega il suo avvocato Federico Milano - Lui aveva già fatto richiesta di asilo politico in Grecia e ora la sua pratica è stata inviata a Roma per capire di chi è la competenza. In attesa di una risposta, è costretto al Cpr”. Pinaroglu è in sciopero perché “non ritiene giusta la sua detenzione - spiega Monica Gallo, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino - lui non ha fatto nulla. È semplicemente un oppositore politico”. Alda Re, dell’associazione ‘Lasciateci entrarè, aggiunge: “vuole essere trattato come rifugiato politico. Invece si ritrova in un inferno in terra”. Il medico degli ultimi fra gli abissi delle necessità di Laura Montanari La Repubblica, 15 settembre 2019 “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi”, di Francesco Ceraudo, Edizioni Ets. Una mattina d’estate, un grosso portone di legno che si apre e si chiude alle spalle in pochi istanti. Fuori l’aria aperta. E il profumo di libertà. Dentro uomini e donne, vecchi e giovani. Italiani e stranieri. Piccoli delinquenti, terroristi, mafiosi. Tutti detenuti, ognuno con la sua storia. Diverse l’una dall’altra. Eppure, in fondo, così simili. Perché accomunate da un labirinto che cancella e annienta ogni individualità: il carcere. Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria italiana e direttore per quasi 40 anni del Centro Clinico del Don Bosco di Pisa, ricorda ogni singolo dettaglio di quel primo giorno da “medico degli ultimi”. Quando, fresco di laurea, gli fu proposto di assumere il ruolo di medico incaricato provvisorio del penitenziario pisano. Un posto lasciato da un collega, accusato di aver sottovalutato i malori e i pestaggi subiti da un giovane anarchico, Franco Serantini, morto in cella nel giro di due giorni nel maggio del 1972. Pisa in quegli anni è ancora avvolta dagli strascichi del 1968. Il clima politico è incandescente. Ma è in quel momento, fissato per sempre nei ricordi, che comincia un lungo cammino personale e professionale che Ceraudo ripercorre in “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi”. Il libro, pubblicato da Edizioni Ets, non è solo un racconto in prima persona degli anni trascorsi ad assistere i detenuti ma un manifesto di denuncia, forte e appassionato, contro il sistema penitenziario italiano, che lontano dall’essere un’occasione di rieducazione per chi si è macchiato di crimini e orrori, così come sancito dalla nostra Costituzione, finisce per ridursi solo a luogo di esclusione, di distruzione dell’identità. Dove l’umanità e il rispetto della dignità della persona sono valori accessori. “Entrai nell’infermeria. Tutto intorno l’atmosfera era di un mondo surreale, primitivo e punitivo, senza speranze. Non vidi mai nessuno sorridere - ricorda Ceraudo. Veniva accompagnato un detenuto per volta alla presenza di un infermiere militare. Una storia dietro l’altra. Un abisso di necessità”. In oltre 300 pagine di memorie, Ceraudo non fa sconti. Né ai detenuti, né alle istituzioni che dovrebbero garantirne e agevolarne il reinserimento nella società, una volta scontata la pena. E lo fa mettendo in fila storie ed episodi che ha vissuto tra quelle quattro mura. Celle troppo piccole, condizioni igieniche precarie, inattività sono solo la punta dell’iceberg di una condizione, come quella della reclusione, che non è in grado di garantire il rispetto di principi come la salute, l’affettività e la sessualità. Così il carcere finisce quasi sempre per diventare un luogo inutile, una tortura ambientale. Uno spazio “geometrico, che non ubbidisce alle leggi della vita, ma a un codice indecifrabile”. E in cui la società relega, allontanando, problemi come la povertà, la tossicodipendenza, la malattia mentale. Quasi come se l’essere o l’essere stati detenuti fosse un marchio indelebile, che nemmeno l’aver pagato il proprio personale conto con la giustizia potrà mai cancellare agli occhi del mondo dei “buoni”. I progetti del nuovo governo: l’euforia (costosa) del potere di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 15 settembre 2019 L’ebbrezza del potere, anche se condiviso con gli odiati nemici del giorno prima, gioca brutti scherzi. Sia alla parte gialla che rivendica la continuità, sia alla parte rossa orgogliosa di una svolta tutta da dimostrare. Le due anime restano separate. Da sole sembrano voler cambiare il mondo. Con le migliori intenzioni. Insieme mostrano ancora - speriamo per poco - la tristezza e il disagio delle compagnie sgradite, la sofferenza di un governo preterintenzionale, non voluto. In troppi si affrettano poi, in questi primi giorni, ad annunciare misure delle quali trascurano sia la complessità sia, ed è peggio, il costo. Dimenticando quello che è accaduto in passato. E gli insuccessi della loro stessa parte politica. Solo alcuni esempi per non parlare sempre di clausole di salvaguardia o di cuneo fiscale. Temi però non minori, anzi. Il neoministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, pd, ha perfettamente ragione nel denunciare la “povertà educativa minorile”. È una vera emergenza. Anzi, una vergogna nazionale. E sarebbe bellissimo se le scuole fossero “aperte tutto il giorno anche ai genitori” come ha dichiarato a Repubblica. E così gli asili nido per tutti e gratuiti per i redditi medio-bassi. Del resto è la priorità del programma di governo anche nelle parole del premier Conte 2. E non è la prima volta. “Mille asili nido in mille giorni” aveva detto Renzi nel 2014. Subito mille nidi, si era sbilanciato Salvini con la Lega al governo. Ci eravamo impegnati con l’Unione europea ad assicurare un nido ad almeno un terzo dei bambini entro il 2010. Ancora oggi, secondo uno studio della Funzione pubblica della Cgil, di cui è segretaria generale Serena Sorrentino, tre su quattro ne sono esclusi. La spesa dei Comuni è calata, cresce quella privata, le rette sono molto aumentate. Mancano ventimila tra educatori e maestre. Enormi le disparità. La Calabria spende 88 euro per ogni bambino; il Trentino Alto Adige 2 mila 209. Forse un po’ di prudenza e realismo non guasterebbero. Da parte di tutti. Provenzano però la soluzione sembra averla in tasca per investire nella scuola e nell’educazione al Sud. “Metto a disposizione 15 miliardi dei fondi di coesione europei. Inviate i progetti”. Semplice, ma allora perché prima, nei tanti governi anche a guida Pd, non si è mai fatto nulla del genere? “Loro erano il governo della flat tax e dei mini Bot, noi degli asili nido” ha detto il neoministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, persona preparata, competente. Auguri sia a Provenzano sia a Gualtieri. Lorenzo Fioramonti, Cinque Stelle, neoministro dell’Istruzione, parlando sul Corrierecon Gianna Fregonara, ha minacciato di dimettersi entro Natale se a scuola, università e ricerca non andranno subito tre miliardi. Bisogna dare atto a Fioramonti che è l’unico - tra i tanti che hanno vagheggiato nuove spese - a indicare anche dove trovare le risorse. Tassando le “esternalità negative”, cioè le abitudini poco salutari o dannose per l’ambiente. Giusto. Ma iniziando dalle merendine e dalle bibite gassate, ovvero dai consumi decisamente popolari? Fioramonti ha ragione: bisogna investire di più. Ma anche preoccuparsi della qualità e dell’efficacia della spesa. Se avesse detto: voglio vedere come spendiamo i soldi dei contribuenti e soprattutto se promuoviamo il merito e l’eccellenza, probabilmente non se lo sarebbe filato nessuno. Succede in Italia. Roberto Speranza, Leu, la terza forza del governo giallorosso, vuole abolire il superticket della Sanità, introdotto per la prima volta dal governo Prodi nel 2007. Il costo è stimato tra i 600 e gli 800 milioni. Dove trovarli? E siamo sicuri che in un Paese che invecchia con una Sanità sempre più costosa questo sia un segnale corretto? Speranza, intervistato da Monica Guerzoni sul Corriere, non dice come recuperare le risorse per abolire il super-ticket. Anzi, ne vuole di più. Basta tagli. E spiega che le risorse messe nella Sanità “sono un investimento sulla vita delle persone e non possono essere banalmente considerate spesa pubblica”. Fosse vero vivremmo nel migliore dei mondi possibili. La spending review sarebbe inutile. Basta introdurre una nuova voce nel bilancio dello Stato: investimenti sulla vita delle persone. Semplice. Potremmo intrattenerci su altre dichiarazioni azzardate, per la verità dei desiderata personali. Affermazioni dirette più a difendere l’identità politica di ministri, viceministri e sottosegretari, che a tracciare le linee portanti dell’attività di governo. Spetterà a Conte fare una sintesi e ricondurre i sogni nello stretto alveo della realtà della finanza pubblica. Però non può non essere menzionata una frase di Francesco Boccia, neoministro agli Affari regionali. Boccia afferma sul Messaggero: “È giusto che Roma abbia poteri da capitale e risorse adeguate. Per non parlare poi dell’assetto istituzionale, il modello adottato da Berlino può essere una soluzione”. Addirittura. Ci saremmo accontentati del solo impegno a non scaricare su tutti i contribuenti italiani, specie quelli che vivono in città più virtuose e amministrate meglio - come è avvenuto anche con il governo gialloverde - parte dei debiti della capitale. Ovvero, l’esatto opposto del principio del regionalismo differenziato. La mappa italiana dell’odio online di Federico Fubini Corriere della Sera, 15 settembre 2019 Uno studio evidenzia tre fattori - avversione ai vaccini, forti diseguaglianze e percezione di precarietà - che in Italia sono chiaramente correlati all’odio digitale. Anche l’odio ha una sua geografia e forse non è mai stato necessario come oggi tentarne una mappa. In un campione di 14 importanti Paesi europei il numero di reati di razzismo e xenofobia registrato dalle polizie è raddoppiato, dal 2013 al 2016, a oltre ottantamila casi. In Italia sono più che triplicati, fino a mezzo migliaio di episodi l’anno. Ma Alessandra Faggian e Daria Denti, due economiste del Gran Sasso Science Institute, mettono in guardia dalle semplificazioni: le manifestazioni di odio nel mondo reale e quelle in rete - le aggressioni sui social network - geograficamente non combaciano e sarebbe un errore pensare che le seconde inneschino le prime. Faggian e Denti si concentrano soprattutto sulla rete e, lavorando su una banca dati di 75 mila tweet di odio con geolocalizzazione (“The Italian Hate Map”, composta dalla Statale di Milano, la Sapienza e l’Università di Bari) studiano una serie di correlazioni. Perché l’odio digitale in Italia ha una sua geografia economica, culturale e psicologica, se lo si studia su ogni “mercato locale del lavoro” (cioè per gruppi di comuni adiacenti). Prima conclusione: le aggressioni via Twitter arrivano con più frequenza da zone No vax; per la precisione, da dove è più bassa la copertura vaccinale al morbillo e alla difterite. Ma è la seconda conclusione che dà più da pensare: l’odio su Twitter tende a essere più intenso in aree d’Italia con maggiori diseguaglianze di reddito e con livelli più elevati di insicurezza occupazionale (definita come quota di persone che temono di perdere il posto entro sei mesi). Questi tre fattori - avversione ai vaccini, forti diseguaglianze e percezione di precarietà - in Italia sono i soli chiaramente correlati all’odio digitale. Nessun altro sembra esserlo. Se ne parlerà al Gran Sasso Institute all’Aquila da domani a mercoledì in un convegno sui territori “lasciati indietro” e sulle loro reazioni politiche. Ian Buruma: “Attenti, il populismo non è morto. E vi spiego perché” di Alberto Flores D’Arcais L’Espresso, 15 settembre 2019 Johnson, Salvini, Trump hanno conosciuto la sconfitta. Ma le ragioni che hanno portato all’ondata sovranista sono ancora forti. In esclusiva per L’Espresso le ragioni dell’intellettuale. Il populismo perde colpi? Se guardiamo a quanto accaduto con il governo in Italia, alla gestione più che azzardata della Brexit da parte di Boris Johnson, alle difficoltà che sta incontrando Trump, potrebbe sembrare di sì. Qualcosa forse sta cambiando, ma farei molta attenzione prima di dare in ritirata quello che oggi viene definito populismo o sovranismo. Perché le cause che li hanno fatti prosperare, quelle che li hanno portati al successo in diverse democrazie occidentali che se ne credevano immuni, non sono state risolte”. Ian Buruma, uno degli intellettuali più lucidi del nostro tempo, scuote la testa. E in questa intervista esclusiva per L’Espresso analizza lo stato del populismo oggi, tre anni dopo la Brexit e la vittoria elettorale di The Donald. In questi tre anni il populismo è cresciuto? “Difficile da dire, io credo che più o meno sia lo stesso di tre anni fa, almeno negli Stati Uniti. Ancora più complesso è capire a che punto sia il fenomeno in Europa, dove ogni anno si susseguono elezioni che vedono crescere i consensi per le forze sovraniste senza però che queste arrivino direttamente al potere. Con l’eccezione dell’Italia, che adesso però ha cambiato governo, della Gran Bretagna - il cui prossimo futuro è tutto da scoprire - e di alcuni paesi dell’Est europeo dove si è rafforzato, come l’Ungheria”. Il populismo è una conseguenza del globalismo economico, della tecnologia e delle istituzioni? “Per spiegare il successo del populismo oggi dobbiamo tornare indietro ai primi anni Novanta, ancor meglio al 1989, quando inizia la fine dell’impero sovietico. Durante la guerra fredda tutte le democrazie occidentali, compresi gli Stati Uniti, hanno dovuto conciliare il capitalismo con qualche forma di egualitarismo, di redistribuzione della ricchezza, perché dovevano offrire un’alternativa al comunismo. Nel 1989 inizia in Occidente un trionfalismo eccessivo e si è pensato che non era più necessario difendere le socialdemocrazie”. Colpa di Reagan e della Thatcher? “No, la responsabilità non è solo loro. È anche di Bill Clinton, di Tony Blair, di quei leader della cosiddetta “terza via” che sulla politica economica non erano poi troppo differenti da Reagan e Thatcher. Quello che non hanno capito era che mettendo il mercato al centro della società e della vita quotidiana, molta gente si sarebbe sentita abbandonata, lasciata indietro”. Negli anni di Blair e Clinton la ricchezza complessiva è aumentata. “Vero, ma la maggioranza della gente, quello che viene definito “popolo”, non vuole solo diventare più ricco o avere più potere. Hanno bisogno di sentirsi parte della comunità, di sapere che c’è qualcuno che si prende cura di te. Io credo che in Occidente questo si sia perduto di vista. Il neo-liberalismo è diventato terreno comune sia per i partiti conservatori che per quelli socialdemocratici - negli Stati Uniti sia tra i repubblicani che tra i democratici - ha contribuito non solo al crollo del 2008 ma soprattutto all’idea che la politica non si occupasse più dei bisogni della gente comune, ma solo di banche, banchieri e interessi più o meno privati. Negli Usa Trump lo ha capito molto bene e ne ha raccolto i frutti”. E Boris Johnson? “L’ho definito un tribuno della plebe, nel senso romano del termine. L’idea che il premier britannico, che ha studiato a Eton e Oxford e ha fatto parte della élite tutta la vita, sia un uomo del popolo è stravagante. Quello che sta facendo non è illecito, ma è fuori dalla tradizione dei conservatori”. Anche Trump è difficile considerarlo uomo del popolo. “Vero, ma Trump, che è un ricco miliardario non fa parte di quel tipo di élite, non ha il livello di istruzione di Johnson. Tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che a volte vengono accomunate impropriamente, c’è poi una differenza sostanziale. La Gran Bretagna è una democrazia parlamentare e in una democrazia parlamentare il “popolo” non esiste e tantomeno esistono una volontà o una voce popolare. I politici sono scelti per rappresentare interessi differenti, nella speranza che trovino una soluzione grazie a compromessi. E in una democrazia liberale anche l’opinione pubblica è più una forma di rappresentanza che un’espressione diretta. E poi c’è una certa differenza tra populismo europeo e populismo americano”. Quale? “Tradizionalmente negli Stati Uniti il populismo è stato più di sinistra che di destra, basti pensare al Governatore della Louisiana Huey Long, che alla fine degli anni Venti diventò un leader populista per le sue battaglie contro le banche e i banchieri. In Europa è stato soprattutto di destra, con il fascismo che negli anni Venti-Trenta ha preso forme diverse in diversi paesi. Le tradizioni e la cultura dei diversi paesi contano, in Francia il Front National ha come riferimento storico Vichy, la chiesa cattolica tradizionalista, negli Stati Uniti il populismo, quello di destra, ha a che fare soprattutto con la razza, peculiarità della storia americana. Un aspetto del successo di Trump è il rifiuto verso la presidenza Obama, che per molti è il simbolo del fatto che i bianchi hanno perso i propri privilegi: se un nero può avere tutti i vantaggi di un’ alta istruzione e può diventare presidente degli Stati Uniti significa che i bianchi poveri, o quelli che si sentono, anche a torto, poveri, sono stati lasciati indietro. E rivendicano il loro orgoglio di bianchi votando Trump. Ovviamente ci sono poi cause comuni a Europa e Stati Uniti: la reazione alla crisi del 2008, la sfiducia nelle élite politiche”. Anche crisi e mutazioni della middle class? “L’uso della parola “middle class” in America è diverso da quello usato in Europa. In Europa è stata identificata con la borghesia, quella media, quella piccola, negli Stati Uniti è qualcosa di molto diverso da una classe benestante, è più una “blue collar class”, una classe operaia, anche in questo caso diversa dalla tradizionale classe operaia europea. Come un po’ ovunque è più debole perché l’industria assume meno persone, perché politicamente è più emarginata, perché la sinistra è meno forte di quarant’anni fa. Il successo del populismo non si può ridurre a questo, ma va detto che chi vota per Trump, per la Brexit, per la Lega, per populisti e demagoghi è accomunata da un sentimento: quello di avere perso la propria presa sul mondo, che il mondo va verso soluzioni in cui saranno lasciati indietro o abbandonati. E tutto questo può avvenire per ragioni economiche, razziali o perché sentono che il proprio paese non ha più il ruolo o il potere di una volta. La Gran Bretagna ad esempio vede una Germania da tempo economicamente più forte e politicamente più importante, gli Usa soffrono la nuova potenza cinese, l’Europa nel suo complesso si sente più debole. Negli Stati Uniti, ed anche in Europa, non possiamo però ridurre il populismo a una questione di classe, perché è interclassista, c’è anche una questione di territorio, una grande tensione tra città e aree rurali”. Il vero nemico dei populisti sono le “liberal élites”? “Che per i populisti non sono i ricchi ma chi ha un alto livello di istruzione, chi studia e lavora nelle università, sono le grandi aziende hi-tech, il “mainstream media”. Fino a pochi anni avevano potere perché erano seguiti dall’opinione pubblica, sia in Europa che negli Usa erano - e sono - a favore dell’immigrazione, contro il razzismo, per le istituzioni internazionali e un globalismo economico. Oggi quelli che si sentono “lasciati indietro” ritengono queste élite responsabili di tutto: del fallimento sugli immigranti, dello strapotere delle banche, della burocrazia delle istituzioni internazionali, di una crisi economica anche quando non c’è. Per gli europei la sfiducia nella Ue è una conseguenza della sfiducia nelle élite: che per anni hanno spiegato che l’Unione Europea è una buona cosa, che le istituzioni internazionali fermano ogni possibilità di guerra nel Vecchio Continente e chi non era d’accordo veniva un po’ troppo facilmente bollato come razzista. Negli Stati Uniti chi simpatizza per immigranti, per le minoranza non bianche viene bollato come “traditore” nei confronti di quella che viene considerata la “real America” ovvero l’America bianca e provinciale”. In Europa il populismo può essere anticamera di un nuovo fascismo? “Storicamente si può dire che il fascismo è una forma di populismo. L’idea di Mussolini sulla democrazia diretta, la “voce del popolo” che deve essere ascoltato con un plebiscito e che viene identificata con la voce del Duce è un’idea populista. Ma questo non significa affatto che tutti i populisti siano fascisti, visto che esistono anche populismi di sinistra. Oggi è anche difficile definire il fascismo: se vuol dire uno Stato militarizzato, uno Stato corporativo, uomini in uniforme che picchiano gli oppositori nelle strade, milizie armate, questa non è certo la situazione nell’Europa di oggi e nell’America di Trump. Se invece diciamo che il populismo possa portare a qualche forma di nuovo fascismo, sì, questo è sempre possibile. La mia più grande preoccupazione oggi sono gli Stati Uniti, perché è veramente molto pericoloso quando hai un presidente che di fatto incoraggia l’uso della violenza in una pese con così tante armi. Non è del tutto inimmaginabile che se Trump dovesse perdere le elezioni possa gridare - e con lui i suoi milioni di fans - ai brogli elettorali e che qualcuno possa decidere di imbracciare le armi, creando milizie private. Che verrebbero ovviamente stroncate ma che provocherebbero violenze e un danno certo alla democrazia”. Migranti. Accordo con Germania, Francia e Malta: sanzioni a chi rifiuta quote di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 settembre 2019 Il testo del patto a 4 arriverà al vertice dei ministri dell’Interno Ue il prossimo 23 settembre a Malta. Contrari i Paesi del Gruppo di Visegrad; la ritrosia di Vienna e nel Nord Europa. Dieci giorni di tempo per un’intesa che renda automatica la distribuzione dei migranti. Su questo lavora l’Italia in vista della riunione con i ministri dell’Interno dell’Unione europea che si svolgerà a La Valletta il 23 settembre. Sarà la prima uscita ad un vertice internazionale della titolare del Viminale Luciana Lamorgese, ma sarà soprattutto il banco di prova per quell’accordo sul quale si stanno già impegnando anche i governi di Germania, Francia e Malta. L’obiettivo è dichiarato: fissare quote di accoglienza per ogni Stato, chi non accetta otterrà meno soldi. Una linea rilanciata ieri dal presidente del Parlamento europeo David Sassoli che ha parlato esplicitamente di “risorse condizionate alla solidarietà”. Con una clausola ulteriore: i trasferimenti dovranno essere effettivi e soprattutto immediati. Dunque subito dopo l’identificazione effettuata nel porto di sbarco, gli stranieri saranno portati nei luoghi di destinazione. La Libia e le partenze - Secondo le ultime analisi dell’intelligence gli stranieri che in Libia attendono di imbarcarsi potrebbero essere tra i 5.000 e gli 8.000. Gli accordi di cooperazione con le autorità locali rimangono fragili e comunque subordinati all’entità degli aiuti che il nostro Paese è disponibile a concedere. Ma in ogni caso nulla potrà convincere i migranti a non tentare di percorrere la strada verso l’Europa e proprio questa consapevolezza rende urgente interventi in modo da gestire il fenomeno senza affidarsi esclusivamente alle Ong e così limitando il rischio di naufragi. Durante l’incontro della scorsa settimana con la presidente Ursula von der Leyen, il premier Giuseppe Conte ha chiesto che sia la Commissione a trattare con i Paesi di provenienza dei migranti sia per la regolazione dei flussi in arrivo, sia per i rimpatri assistiti. Il 25 per cento - La percentuale non è ancora fissata e dipenderà dal numero di Stati che - su base volontaria - accetteranno di partecipare in maniera sistematica alla distribuzione dei profughi. Vuol dire che quando una nave chiede il permesso di sbarco in un porto europeo, quindi Italia o Malta, non dovrà esserci una trattativa per cercare Paesi disponibili all’accoglienza, ma il trasferimento diventerà automatico sulla base delle quote fissate nell’ambito dell’accordo. Per la Ocean Viking Berlino e Parigi si sono detti disponibili a prendere fino al 25 per cento di stranieri - 20 persone ciascuno contando chi rimane e l’impegno dell’Irlanda - ma è evidente come questa cifra potrà scendere se sarà più ampia la platea di Stati che accetteranno di entrare nel “sistema”. E proprio di questo si dovrà discutere a La Valletta dove però - è la strategia già condivisa con alcuni governi - si arriverà con un testo predisposto dai cosiddetti “volenterosi”. Una “base comune” che Conte esaminerà mercoledì con Emmanuel Macron, quando il presidente francese arriverà a Roma per una visita ufficiale che prevede anche un colloquio con il capo dello Stato Sergio Mattarella, e Lamorgese affronterà con il collega tedesco Horst Seehofer. Premi e sanzioni - Nessuno si illude riguardo a una condivisione al patto dei 28 Stati membri, soprattutto tenendo conto dell’ostilità del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria), ma anche della ritrosia di altri governi del nord così come dell’Austria. Ecco perché l’accordo prevedrà agevolazioni per chi entra e sanzioni per chi invece decide di rimanere fuori. Tutti i tentativi fatti in passato di imporre l’accoglienza dei profughi - anche quando c’è stata l’emergenza determinata da migliaia di arrivi e naufragi con centinaia di morti - sono falliti. Adesso si procederà su base volontaria, ma chi non partecipa pagherà le conseguenze in termini economici perché, come ha evidenziato Sassoli ieri, “è bello farsi autostrade e metropolitane con i soldi europei, ma non lo è invece non dare questi soldi. Perciò inseriamo dei meccanismi, rendiamo il bilancio più forte ma con delle condizioni sulla solidarietà”. Prime prove di accordo nella Ue: a Lampedusa i migranti della Viking di Carlo Lania Il Manifesto, 15 settembre 2019 Lo sbarco in serata, ma il sindaco Martello protesta: “Accoglienti si, cretini no”. Le ong: “Sollievo per la soluzione, ma servono canali legali”. Alla fine il segnale è arrivato. Sono da poco passate le otto del mattino quando al ponte di comando della Ocean Viking ricevono la comunicazione da parte del Centro di coordinamento dei soccorsi di Roma (Mrcc) di dirigere verso Lampedusa. Per Sos Mediterranée e Medici senza frontiere, le due ong che hanno in gestione la nave, è l’indicazione attesa da sei giorni di un porto sicuro dove poter sbarcare gli 82 migranti che si trovano a bordo, ma soprattutto l’inizio della fine di un copione tragico che da più di un anno tiene tutti, migranti ed equipaggi delle navi che li soccorrono, prigionieri in alto mare. “Piccoli segnali di discontinuità” è non a caso il commento di un’altra ong impegnata nei soccorsi, la spagnola Open Arms. A bordo della Ocean Viking l’annuncio dell’imminente sbarco viene accolto dai migranti con applausi e grida di gioia. “Siamo sollevati”, commenta il direttore generale di Msf Gabriele Eminente. “L’assegnazione di un porto sicuro da parte del governo italiano è una chiara affermazione dei diritti e dei valori umanitari e una risposta più umana al dramma che continua a consumarsi nel Mediterraneo centrale”. Sono passati undici mesi dall’ultima volta che Mrcc Roma aveva indicato un porto sicuro alla nave di una ong. Era l’8 giugno dello scorso anno, e quanto accaduto dopo è stato l’applicazione pratica della politica dei porti chiusi di Matteo Salvini. Il via libera di ieri alla Viking è stato reso possibile dalla disponibilità ad accogliere i migranti offerta da un gruppo di Stati europei guidati da Francia e Germania, che ne prenderanno il 25% ciascuno, ma anche dall’Italia dove ne rimarranno circa 8, il 10%. I rimanenti verranno distribuiti tra gli altri Paesi che hanno aderito all’accordo. Lo sbarco potrebbe essere anche la prova generale del meccanismo di ricollocamento dei migranti in Europa al quale si sta lavorando da settimane e che prevede per l’appunto la creazione di una cabina di regia europea che distribuisca uomini, donne e bambini tra un gruppo di Paesi che accettano volontariamente di accoglierli. Meccanismo ancora tutto da limare, sia perché non è previsto alcun obbligo per l’accettazione dei migranti, sia perché non è ancora chiaro se la disponibilità offerta da alcune capitali, prime fra tutte proprio Parigi e Berlino, riguarda tutti i migranti oppure solo quanti hanno la probabilità di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, lasciando tutti gli altri ai Paesi di primo approdo (Italia, Malta, Grecia e Spagna). Per questo a Palazzo Chigi si pensa di procedere per tappe. Le prime due sono previste per mercoledì prossimo, 18 settembre, quando a Roma arriverà il presidente francese Emmanuel Macron. Lo stesso giorno il ministro dell’Interno Lamorgese sarà a Berlino dove affronterà la questione con il collega Horst Seehofer. Il ministro tedesco nei giorni scorsi si è speso molto a favore di una soluzione che venisse incontro alle esigenze italiane. Tutti incontri fondamentali in vista del mini vertice del 23 settembre, quando alla Valletta si vedranno i ministri dell’Interno di Italia, Francia, Germania, Finlandia, in quanto presidente di turno dell’Ue, e della Commissione Ue. Quel giorno si capirà se l’accordo esiste davvero e in che termini, oltre ai Paesi che vi avranno aderito (si parla anche di Spagna, Portogallo e Lussemburgo) e le quote di migranti destinate a ciascuno. Si dovrebbero affrontare anche le sanzioni, chieste dal premier Giuseppe Conte, per i Paesi che invece si saranno tirati indietro. Se infine tutto sarò filato liscio, l’ultima tappa è il vertice degli Affari interni del 7 e 8 ottobre. Solo allora si capirà se la politica dei porti chiusi potrà dirsi finalmente archiviata. Intanto il sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello, ha contestato la decisione di far arrivare sull’isola i migranti della Viking: “La nostra isola non può essere la soluzione a tutti i problemi - ha detto -. La Sicilia era più vicina e il Viminale deve rispettare le regole. Accoglienti sì, cretini no”. Gran Bretagna. Caso Assange, rigettata la richiesta di accesso ai documenti di Stefania Maurizi La Repubblica, 15 settembre 2019 Dopo 4 anni di battaglia legale, il giudice dell’Upper Tribunal di Londra boccia l’appello per ottenere tutta la documentazione del caso. La stampa non ha il diritto di accedere a tutti i documenti del caso Julian Assange. Così ha deciso il giudice inglese Edward Mitchell chiamato a pronunciarsi su un appello all’Upper Tribunal di Londra promosso da Repubblica, dopo che da quattro anni, invano, il nostro giornale cerca di accedere a tutta la documentazione per indagare e ricostruire il caso Assange in modo fattuale. In una sentenza estremamente tecnica e che il giudice stesso ha ammesso essere “insolitamente lunga”, Mitchell ha rigettato le nostre argomentazioni legali e ha affermato che se anche le autorità inglesi del Crown Prosecution Service, che ci negano i documenti fin dal 2015, decidessero di confermare che, effettivamente, hanno comunicato con le autorità americane del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Giustiza sul caso Assange, questo non accrescerebbe la conoscenza del caso da parte dell’opinione pubblica. Una conclusione questa che ha dell’incredibile se si considera che l’intero affaire Julian Assange ruota proprio sul ruolo degli Stati Uniti nel voler mettere le mani sul fondatore di WikiLeaks per estradarlo negli Usa e chiuderlo in prigione a vita, e quindi sapere se le autorità inglesi e americane hanno parlato di questa possibilità fin dall’inizio e ottenere la loro corrispondenza è cruciale. Julian Assange è in prigione a Londra, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in condizioni fisiche molto precarie, tanto da essere ricoverato da mesi nell’infermeria del carcere e l’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, ha dichiarato di essere “gravemente preoccupato” per la sua situazione. È in attesa del processo di estradizione negli Usa, dopo che le autorità americane lo hanno incriminato ai sensi dell’Espionage Act per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. La battaglia legale per l’estradizione entrerà nel vivo nel febbraio del 2020 e se il fondatore di WikiLeaks verrà estradato, rischia una pena di 175 anni di prigione: sarebbe la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un giornalista finisce in carcere per il suo lavoro. Sebbene il caso Assange vada avanti da ben nove anni, nessun media e nessun giornalista, ad eccezione del nostro giornale, ha mai provato ad accedere a tutta la documentazione del caso. Nel 2015, abbiamo presentato una richiesta di accesso agli atti ai sensi del Freedom of Information Act su ben quattro giurisdizioni: l’Australia, il paese in cui è nato; l’Inghilterra dove si trova fin dal 2010 dopo aver pubblicato documenti segreti esplosivi sul governo americano; gli Stati Uniti, dove è incriminato per le pubblicazioni di WikiLeaks; la Svezia, dove è finito al centro di un’inchiesta per stupro aperta il 20 agosto 2010, richiusa il 25 agosto 2010, riaperta il 1° settembre 2010 e richiusa il 19 maggio 2017 e infine riaperta il 13 maggio 2019 e ancora oggi in corso e alla fase preliminare dopo nove anni. Il nostro tentativo di accedere ai documenti del caso è stato ostacolato ed enormemente ritardato in ogni giurisdizione. Eppure i pochissimi documenti che finora abbiamo ottenuto hanno permesso di rivelare informazioni cruciali. I documenti forniscono la prova indiscutibile che sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service ad aver contribuito a creare il pantano giudiziario e diplomatico che ha tenuto intrappolato Assange a Londra per nove anni in condizioni di detenzione arbitraria, come ha stabilito il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite (Unwgad). Sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a sconsigliare ai procuratori svedesi l’unica strategia giudiziaria che avrebbe potuto portare a una rapida soluzione dell’inchiesta svedese: interrogare Assange a Londra, invece che cercare di estradarlo a Stoccolma solo per interrogarlo. Sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a non condividere la possibilità di chiudere l’inchiesta per stupro già nel 2013, come i procuratori svedesi avevano valutato di fare. Infine, sono stati loro a scrivere agli svedesi: “non crediate che questo caso sia gestito come un’estradizione come tutte le altre” e ad ammettere di aver distrutto documenti cruciali, sebbene l’inchiesta sia ancora in corso e sia estremamente controversa. Quando abbiamo cercato di fare luce su questi fatti e di capire perché le autorità inglesi abbiano agito in questo modo e cosa abbia di speciale il caso di Assange, abbiamo incontrato un vero e proprio muro di gomma, tanto che abbiamo dovuto citare in giudizio il Crown Prosecution Service. In primo grado, il Tribunale di Londra ha stabilito che non avevamo diritto ad accedere ai documenti, perché l’esigenza di proteggere la confidenzialità dei procedimenti di estradizione prevale sull’interesse della pubblica opinione di conoscere la verità. Con la sentenza di appello di oggi, il giudice Edward Mitchell conferma che la stampa non ha il diritto di accedervi. E a questo punto non è chiaro chi potrà svolgere un ruolo di controllo nel caso, considerando che viene impedito alla stampa di farlo. A rappresentarci in Tribunale a Londra sono stati tre avvocati londinesi di alto profilo: Philip Coppel - un’autorità in materia di accesso agli atti ai sensi del Freedom of Information Act in Inghilterra - ed Estelle Dehon dello studio Cornerstone Barristers e Jennifer Robison dello studio Doughty Street Chambers. “La sentenza è deludente per come affronta l’interesse pubblico di chi cerca di accedere ai documenti, in modo particolare per i giornalisti. Stiamo valutando se è possibile appellarla”, dichiara Estelle Dehon a Repubblica. La Tunisia al voto cerca il suo leader: e l’ex favorito corre dal carcere di Francesco Battistini Corriere della Sera, 15 settembre 2019 Magnate delle tv, socio di Berlusconi, era in testa ai sondaggi, poi la condanna. Vede la famiglia una volta la settimana, separato da un vetro. Divide cinque metri quadri di cella con due criminali comuni. Può guardare la tv, ma non partecipare ai talk. Ha il diritto di leggere libri e giornali, ma non d’usare telefono, tablet, carta e penna. Oggi, non potrà nemmeno votare per se stesso. “Ammanettato come il conte di Montecristo”, “oppresso come Mandela”, “perseguitato come Berlusconi” - i suoi fan non risparmiano iperboli -, questa sera un detenuto del carcere della Mornaguia, il milionario Nabil Karoui, potrebbe essere uno dei due candidati ammessi al ballottaggio per la presidenza della Tunisia. Tutti i sondaggi lo davano favorito già prima che la polizia l’arrestasse il 23 agosto, per una vecchia accusa d’evasione fiscale e riciclaggio. Ancor di più adesso che si dichiara “il primo prigioniero politico dalla caduta di Ben Ali”, manda in giro la moglie Salwa a comiziare, tappezza Tunisi con lo slogan “il carcere non mi fermerà, ci vediamo alle urne!”, racconta d’essere stato malmenato dai poliziotti che l’hanno bloccato a un casello dell’autostrada: quanto basta all’Ue e al Carter Center per dire che in queste elezioni non sono state garantite condizioni di parità. C’era una volta la Primavera dei Gelsomini? L’unica rivoluzione araba scampata a guerre&galere? Otto anni dopo, il caso Karoui turba la Tunisia. Oscura gli altri 23 candidati alla presidenza. E cancella i temi della campagna elettorale: la crisi economica, la Libia, i diritti delle donne, la corruzione, il rimpatrio dei foreign fighter e del moribondo Ben Ali… “Siamo all’impasse - ammette il giudice amministrativo Ibrahim Bouslah -. Se Karoui va al ballottaggio, dev’essere scarcerato? E se viene eletto, vale l’immunità da capo dello Stato?”. I suoi avversari hanno provato a fermarlo in tutti i modi. Prima tentando di cambiare la legge elettorale, in vista delle politiche di ottobre. Ora, mandandolo al gabbio nella speranza che i tunisini non lo spediscano invece a Palazzo Cartagine. Forse, non si poteva fargli regalo migliore: “Il popolo è con me - dice il recluso - e Dio è sempre col popolo!”. Affari in Francia e nel Golfo, già amico di Ben Ali e di Gheddafi, padrone della pubblicità nel Maghreb e proprietario della tv Nessma (“dolce brezza”) che contribuì alla fine sia del benalismo che del gheddafismo, socio della Mediaset berlusconiana e fin dagli anni craxiani del produttore Tarak Ben Ammar, viene da lontano la brezzolina che a 56 anni ancora spinge Karoui verso il potere. Quando gli è morto un figlio in un incidente stradale, nel 2016, e soprattutto con la scomparsa in luglio del suo protettore politico, il presidente tunisino Essebsi, il Berlusconi magrebino ha accelerato il progetto politico. Il suo nuovo partito Al Cuore della Tunisia è un couscous di populismo e d’assistenzialismo che gli è valso lo sprezzante nomignolo di makrouna, il pastaio: una specie di welfare che imita la rete dei Fratelli musulmani, elargendo soldi e lavoro in un Paese dove il debito estero si mangia il 70% del pil e un ventenne su tre è disoccupato. Con la sua tv, che i rivali han più volte cercato d’imbavagliare, Karoui ha gioco facile a manganellare anche dal carcere i principali candidati di questo voto: il premier Youssef Chahed, l’uomo che si vanta d’avere “evitato un disastro stile Grecia”, agli occhi di Karoui colpevole d’aver tradito Essebsi e rotto col partito che avevano fondato insieme, Nidaa Tounes; l’ex ministro Abdelkrim Zbidi, altro superfavorito, che rivendica l’eredità di Essebsi ed è sostenuto proprio da Nidaa e dal potente sindacato che vinse il Nobel 2015 per la pace; infine la fratellanza islamista di Ennahda, prima formazione politica del Paese, che a Karoui non ha mai perdonato d’avere trasmesso in tv il blasfemo cartoon Persepolis di Marjane Satrapi. “Me li mangio tutti”, promette dalla sua cella il Karoui unchained. Aspettando stasera, ha iniziato lo sciopero della fame.