Rems, un piccolo passo in avanti che rischia di non essere mai fatto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2019 Per il Garante dei detenuti, il superamento degli Opg non può avvenire senza investire nella formazione continua del personale. Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e il passaggio alle nuove strutture regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive (Rems), pur segnando un significativo passo in avanti nel faticoso processo di abbandono dell’intollerabile logica manicomiale, evidenzia ancora alcuni profili di criticità come il fatto che nelle Rems si sia ancora ben lontani da una vita comunitaria, ma più vicini a logiche di istituzionalizzazione ancora fortemente limitative. Un esempio è la Rems della regione Basilicata, ricavata dalla riconversione dell’istituto penitenziario di Tinchi e quindi risente delle connotazioni dell’edificio penitenziario che, almeno in parte, risultano dissonanti rispetto alla configurazione “a vocazione esclusivamente terapeutica” di cui si è dotata. Parliamo del rapporto reso pubblico da garante nazionale delle persone private della libertà, redatto in seguito delle visite effettuate dalla delegazione presieduta da Emilia Rossi. La Rems, aperta il 30 marzo 2015, è destinata all’accoglienza di uomini e donne residenti nelle regioni Basilicata e Calabria. Ha una capienza di 20 posti e alla data della visita ospitava 10 pazienti psichiatrici di cui 8 uomini e 2 donne, in maggioranza inviati in esecuzione di una misura di sicurezza provvisoria. All’ingresso è situata la sala colloqui per le visite con i familiari che costituisce un altro elemento di richiamo all’originaria natura della struttura. Ancorché luminosa e adeguatamente spaziosa, si presenta spoglia e formale, con le caratteristiche dell’ambiente destinato ai colloqui istituzionali: una scrivania, alcune sedie e un armadietto basso blindato per il deposito degli effetti personali dei visitatori e per riporre l’arma della vigilanza privata. La finestra, ampia, è dotata di grate, pur non schermata. È fornita di un bagno separato. La struttura è dotata di nove stanze: otto stanze singole e una stanza doppia destinata alle persone con disabilità. Le stanze di pernottamento visitate sono state quelle dell’unità per gli uomini: sono dotate di bagno separato, completo di doccia 32, senza bidet. Le stanze sono ampie e ben illuminate sia con luce naturale che artificiale. Sono provviste di televisore realizzato con un proiettore che agisce su uno schermo affisso alla parete, azionabile con un telecomando. Gli arredi, letto, tavolo, comodino, armadio, sono tutti fissati al pavimento. All’interno della camera, vicino al letto, vi è il pulsante di allarme. Alcune stanze hanno elementi personalizzanti. Ma quali sono le criticità, oltre alle connotazioni dell’edificio che sono dissonanti rispetto alla funzione della Rems? La prima riguarda due livelli di inappropriatezza del modello osservato anche durante le visite condotte a diverse strutture Rems, ovvero: il suo potenziale impedimento alla costruzione di una relazione dottore/ paziente che si basi sulla riservatezza e la fiducia e il suo privare il paziente di una salvaguardia fondamentale quale quella del coinvolgimento di un esperto indipendente. Tale aspetto è ancor più importante se si pensa al potere discrezionale del magistrato di sorveglianza nel determinare la pericolosità dell’internato. Il Garante nazionale, a tal proposito raccomanda “che le decisioni che riguardano l’assegnazione di un soggetto destinatario di una misura di sicurezza e il riesame della pericolosità sociale siano assunte sulla base di valutazioni che coinvolgano esperti psichiatri indipendenti che non siano coinvolti nel trattamento terapeutico del paziente”. In merito a questo aspetto di indipendenza degli esperti circa la valutazione della pericolosità sociale del paziente psichiatrico, il Garante nazionale vorrebbe ricevere dalla Direzione della Rems di Tinchi ulteriori informazioni. L’altra criticità è la mancanza del registro degli eventi critici e il registro degli interventi di natura contenitiva, anche se farmacologica, dove dovranno essere riportati l’orario di inizio e fine della misura adottata e/ o dell’evento, le circostanze che hanno determinato l’applicazione di una misura o l’accadere dell’evento, il nome del dottore che ha ordinato o approvato la misura, e un resoconto di eventuali conseguenze riportate dal paziente o dagli operatori, analogamente a quanto è raccomandato a tutte le strutture sanitarie psichiatriche. Ma l’aspetto più problematico riguarda il mancato superamento della filosofia “custodiale” che evoca la logica manicomiale che deve, per legge, essere superata. Nel momento della visita, la delegazione del Garante ha potuto osservare che non viene garantita la riservatezza del paziente e tutto si basa su una prassi di stretta vigilanza che può produrre la diffusione di una “logica della paura” rispetto al paziente psichiatrico e del paziente nei confronti degli operatori. Così come - è stato osservato - che gli operatori devono avere una buona preparazione per rapportarsi con i pazienti. Il Garante nazionale rammenta che il “superamento degli Opg” non può avvenire se non si investe nella formazione e nell’aggiornamento continui del personale sanitario che opera nella Rems. Giustizia, squadra pronta. “Ora lavoriamo insieme” di Errico Novi Il Dubbio, 14 settembre 2019 Confermato Ferraresi, l’altro Sottosegretario è il dem Giorgis. Era scontato che i sottosegretari alla Giustizia fossero equamente ripartiti. Uno del Movimento, l’altro del Partito democratico. Prima casella nel segno della continuità, con il confermato Vittorio Ferraresi, secondo incarico che passa inevitabilmente dal leghista Jacopo Morrone a un esponente del nuovo alleato di governo: il prescelto è Andrea Giorgis, costituzionalista torinese, responsabile Riforme nella segreteria Zingaretti e accompagnato da ottima reputazione di accademico e deputato. Alla Camera è stato impegnato in prima commissione, dove ha seguito il dossier del riassetto istituzionale. Una soluzione già scritta, quella dell’equilibrio negli incarichi. Ma non priva di rilevo. E il guardasigilli Alfonso Bonafede lo dice in modo esplicito: “Ora che la squadra è completa siamo pronti a partire a pieno ritmo, ci sono tutti i presupposti per fare un ottimo lavoro di squadra”. Poi nota come la sua conferma al ministero della Giustizia sia “il riconoscimento del lavoro fatto in 14 mesi” e quella di Ferraresi “un ulteriore segnale in questa direzione”. Fino a una frase dal colore solo in apparenza neutro: “Ho già chiamato anche il neo sottosegretario Giorgis: lo attendiamo per affrontare insieme le ambiziose sfide che ci aspettano”. Frasi di circostanza? Non proprio. Il completamento dell’organico di via Arenula è anche il sigillo su una responsabilità condivisa: il cantiere della giustizia ha sì in Bonafede il “titolare” ma, come riconosce lui stesso, sarà idealmente aperto. Il segnale in realtà era arrivato giovedì, con il primo faccia a faccia tra il guardasigilli e il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, che è anche predecessore di Bonafede. Si è aperto un “tavolo di confronto” per una “analisi sui provvedimenti” da completare “entro settembre”, dopodiché, ha assicurato il ministro, “faremo partire la riforma che dimezza i tempi dei processi”. La novità dunque è che la giustizia non è più semplicemente la bandierina del Movimento. È stato così nel primo governo Conte. Al punto che quando il guardasigilli ha messo sul tavolo dell’alleanza il suo ampio ddl, Matteo Salvini lo ha rigettato come un’istanza inammissibile. È stato il punto di non ritorno di un metodo senza prospettive: ciascuno piantava le proprie insegne distintive, come se alcune materie fossero solo di una parte e non del Paese. La giustizia ai Cinque Stelle, i porti chiusi alla Lega. Con l’inevitabile conseguenza che, arrivati al dunque, il Carroccio ha scelto l’ostruzionismo. Non sarà più così. E si riferisce proprio a questo, il messaggio di Bonafede sulla “squadra completa” che consente di iniziare davvero la partita. Orlando lo sa bene. E non intende sabotare i piani del successore. Nonostante i numerosi punti di distanza: la prescrizione innanzitutto, ma anche il sorteggio per eleggere i togati al Csm e le intercettazioni. Solo che il vicesegretario dem non ricorrerà a forme di guerriglia. Casomai andrà alla ricerca di un equilibrio che, intanto, prevede l’integrazione del ddl Bonafede con alcune norme ritenute utili dal partito di Zingaretti. Si vedrà nel dettaglio se saranno confermate le ipotesi circolate dalle parti del Nazareno, e attribuite in particolare al vicesegretario. Molto probabile che i dem chiedano un riequilibrio tra le prerogative delle Procure e quelle dei Tribunali, con i giudici e i capi degli uffici inquirenti chiamati a controllare in modo più stringente le scelte dei pm, soprattutto in materia di tempestività delle iscrizioni a registro e di effettivo rispetto dei termini delle indagini. Ma la giustizia non sarà tutta concentrata sui dossier del processo penale, per quanto si tratti dei capitoli più spinosi. Intanto saranno formalizzate a breve le deleghe per i sottosegretari. E se il dossier carcere è destinato a restare nelle mani di Ferraresi, è assai probabile che Giorgis erediti da Morrone alcuni fascicoli “eccentrici” rispetto alla materia penalistica. Innanzitutto il tavolo tecnico aperto con le professioni sull’equo compenso. Il predecessore leghista, che lo ha coordinato finché non è arrivata la crisi, ha predisposto uno schema di massima per rafforzare le norme a tutela dei compensi professionali. Un lavoro che ha utilizzato in gran parte la piattaforma di proposte messa a punto dal Cnf. Ma Giorgis potrebbe essere chiamato a dar man forte al ministro anche sul ddl dell’avvocato in Costituzione, incardinato a Palazzo Madama nella stessa commissione che ha visto il sottosegretario finora impegnato a Montecitorio, la Affari costituzionali. Deciderà Bonafede a breve. Di certo i tavoli aperti sono numerosi. Ieri si è riproposto quello con l’Anm che ha riunito il proprio parlamentino e che, per voce del presidente Luca Poniz e del segretario Giuliano Caputo, ha chiesto di “riaprire il confronto sulla riforma del processo e del Csm”. Con il preannuncio di una “ferma opposizione” su almeno due passaggi del ddl Bonafede: il sorteggio per il Csm e le sanzioni disciplinari per i pm tardivi. “Con la nuova alleanza potrebbero esserci maggiori spazi di discussione”, secondo Caputo. Può darsi. Ma sull’addio alla linea remissiva nei confronti delle toghe, Orlando pare pienamente d’accordo con Bonafede. Dal cuore della Sicilia parte la battaglia contro l’ingiusta detenzione di Simona Musco Il Dubbio, 14 settembre 2019 Parte da Caltanissetta la battaglia contro gli errori giudiziari, con l’apertura del primo sportello in Italia per i “perseguitati” dalla giustizia. Uno sportello che è stato presentato ieri, durante il convegno organizzato dalla Camera penale guidata da Sergio Iacona nel corso del convegno dal titolo “Confronto sul Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo” - al quale era presente anche il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza - e che rappresenta la prima prova pratica delle direttive dell’Osservatorio per l’errore giudiziario istituito dall’Unione delle Camere penali. Chiunque si ritenga vittima di errore giudiziario, dunque, potrà rivolgersi alla Camera penale, che effettuerà un’azione di filtro, vagliando le segnalazioni e prendendo in esame quelle fondate, per poi inoltrarle ad un difensore. Ma la parte più importante dell’iniziativa, spiega Iacona al Dubbio, riguarda la trasmissione dei dati all’osservatorio nazionale, che grazie a questa raccolta sul territorio stilerà un dossier sui gradi di giudizio maggiormente interessati dagli errori, le materie e i motivi per cui si verificano. Una raccolta che farà poi da base per la redazione di proposte per prevenire gli errori giudiziari. Durante il convegno si è parlato di giusto processo, un argomento quasi ignorato dall’opinione pubblica, sempre alla ricerca di un colpevole da sottoporre alla gogna. “La necessità di un manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo nasce proprio dal diffondersi del populismo - spiega Iacona Denunciamo una deriva che dura da più di 20 anni e che ha visto progressivamente una serie di provvedimenti che hanno fatto arretrare le garanzie. E ora siamo particolarmente preoccupati, perché sono molto forti nell’opinione pubblica movimenti e partiti che raccolgono le pulsioni giustizialiste e forcaiole della gente”. Si parte, dunque, dall’esperienza quotidiana di una giustizia che ha perso la propria ragione d’essere, un’involuzione, sottolinea il presidente, che si accompagna all’affermarsi di forze politiche “che hanno per noi una concezione della giustizia allarmante”. Il problema nasce dunque dall’antico e tragico conflitto tra politica e giustizia. “Una cattiva giustizia nasce dall’arretramento della politica e dalla funzione di supplenza che la magistratura nel corso degli anni ha svolto. Noi guardiamo con preoccupazione al fatto che la separazione dei poteri è diventata sempre più labile - sottolinea. Non è normale che il ministero sia pieno di magistrati distaccati e che il Csm e l’Anm funzionano di concerto come una terza camera. E le proposte di legge, quando vanno verso un maggiore garantismo, vengono avversate”. Una prima soluzione può essere un ritorno ad una normazione pienamente parlamentare, evitando il ricorso continuo a decreti legge e decreti legislativi, “che di fatto vanificano i dibattiti parlamentari”. E a ciò si dovrebbe aggiungere un maggiore spazio da assegnare, in sede di elaborazione di proposte di legge, “ai pareri dell’avvocatura, che deve avere maggiore spazio in Costituzione”, nonché a quelli del mondo accademico. “Oggi, però - aggiunge Iacona - lo strapotere è della magistratura”. Ma tra i mali che inquinano la giustizia e la sua percezione ci sono anche i social, che fungono da megafono alla tendenza giustizialista. “Il concetto che ogni opinione è equiparabile alle altre è sbagliata - sottolinea il presidente - I social sono moltiplicatori di odio e luoghi dove si fomentano pulsioni giustizialiste. Ho visto con orrore che anche alcuni avvocati si espongono sul web a commentare fatti di cronaca in maniera non consona”. È necessario, dunque, “normare i social” e selezionare la qualità delle notizie, combattendo in maniera istituzionale le fake news. L’altro aspetto della medaglia è l’ingiusta detenzione, da combattere con l’ampliamento delle garanzie della difesa e il potenziamento della cultura della terzietà. “Il giudice deve davvero essere terzo e curare la propria formazione e il proprio aggiornamento. Gli errori non li fanno i pm ma i giudici quando non sono sufficientemente terzi - sottolinea Iacona. Poi bisognerebbe rendere davvero operativo un sistema di riparazione dell’ingiusta detenzione, che in Italia esiste solo a livello ipotetico, perché sono sempre di meno le domande che vengono accolte”. In fase di indagine, invece, serve un rafforzamento delle garanzie. “C’è tutta una fase iniziale dalla quale la difesa è esclusa”, evidenzia l’avvocato. Che punta anche il dito contro il connubio, spesso esplosivo, tra stampa e magistratura. “Negli anni scorsi c’è stato un cortocircuito mediatico-giudiziario, che in parte continua ancora oggi”, sottolinea. Un problema di cultura civica, quindi anche politica, da implementare con iniziative nelle scuole sulla legalità. “Ma devono essere invitati anche gli avvocati - conclude Iacona - perché bisogna spiegare ai ragazzi che, in uno Stato di diritto, la prima esigenza è non condannare un innocente”. Anm: sì a barriere tra Csm e correnti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2019 L’Anm si appresta a modificare il proprio codice etico per rendere incompatibili gli incarichi nei gruppi associativi con la corsa al Csm. Impermeabilità tra guida Anm e Consiglio superiore della magistratura. Ma anche tra fuori ruolo e Csm. Con l’obiettivo di tenere il più possibile fuori dalla porta indebite commistioni tra politica e carriere. È questo l’obiettivo delle modifiche al Codice etico dell’Associazione nazionale magistrati approvate ieri dal Comitato direttivo. Modifiche che si sono rese necessarie per affrontare le conseguenze della bufera che ha investito il Csm dopo l’emergere dell’indagine della Procura di Perugia e la divulgazione delle intercettazioni del pm romano, a lungo leader della stessa Anm, Luca Palamara. Se da subito si è riconosciuta da parte degli stessi vertici Anm (peraltro inediti dopo il cambio in corsa di metà giugno che ha visto l’elezione di Luca Poniz, Md, alla presidenza, e il ritorno della corrente di Piercamillo Davigo, Autonomia e Indipendenza, nell’area di maggioranza) una vera e propria questione morale, ora comincia ad arrivare qualche indicazione concreta. Nel documento trova così posto un nuovo articolo del Codice, nel quale prevedere che il magistrato componente del Comitato direttivo e delle giunte sezionali, ma anche delle presidenze e segreterie nazionali dei gruppi associativi, non si dovrà candidare al Csm prima della scadenza dell’organo di appartenenza. Un divieto che quindi non riguarda solo le cariche associative ma anche quelle ricoperte all’interno delle singole correnti. Inoltre, il divieto si allarga anche a chi è componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Scuola della magistratura. Ancora, al magistrato fuori ruolo è interdettala candidatura prima che siano trascorsi almeno due anni dal suo ricollocamento. Medesimo arco di tempo poi per impedire che il magistrato che ha fatto parte del Csm possa presentare domanda per un ufficio direttivo o semi-direttivo (a meno che lo abbia già ricoperto in precedenza); infine, gli ex consiglieri non potranno accettare incarichi fuori ruolo prima che siano passati almeno due anni dal loro ricollocamento in ruolo. Nel Codice potrebbe poi essere innestato un nuovo articolo, non votato ieri, con il quale prevedere che, nel caso in cui il magistrato è incolpato di un grave illecito disciplinare oppure indagato per la commissione di un illecito penale doloso, il collegio dei probiviri, acquisita in qualunque modo la notizia, può disporre la sospensione cautelare dall’attività associativa. La sospensione dura fino alla conclusione del procedimento penale. La sospensione è poi sempre disposta nel caso di applicazione di misure cautelari personali. L’inizio del procedimento di sospensione cautelare è comunicato al magistrato che ha facoltà di presentare memorie e documenti. I vertici dell’Anm hanno poi ribadito, con una delibera approvata ieri, la richiesta al togato Paolo Criscuoli di dimettersi dal Csm. Criscuoli, di Magistratura indipendente, è l’unico tra i cinque componenti toccati dallo scandalo dell’inchiesta di Perugia che non si è dimesso ma si è autosospeso dal mese di giugno. Ma naturalmente, sullo sfondo, c’è il tema chiave della riforma della giustizia, sul quale oggi potrebbe pronunciarsi l’assemblea Anm convocata a Roma, del pacchetto di norme inserite dal ministro della Giustizia della vecchia e nuova maggioranza per incidere sui tempi dei processi e cambiare il sistema elettorale del Csm. Il disegno di legge, con norme delega e altre subito in vigore, era stato approvato a fine luglio “salvo intese”, con forti tensioni tra Lega e 5 Stelle sulla parte penale. Tra Bonafede il suo predecessore Pd Andrea Orlando è così partito un confronto per arrivare a una soluzione condivisa da trovare entro la fine del mese. Ieri Poniz ha dichiarato di sperare nella riapertura di un dialogo, sottolineando, però, nello stesso tempo la contrarietà al sorteggio per la selezione delle candidature al Csm, architrave invece del progetto grillino. Napoli, se i boss odiano la speranza di Isaia Sales Il Mattino, 14 settembre 2019 Non fa piacere ai clan di camorra (o ai singoli criminali che ne fanno parte o a chi vive di traffici illegali) che in alcuni quartieri di Napoli si tolgano i bambini e i ragazzi dalle strade, li si tuteli per un tratto della giornata dal degrado, li si tenga lontani dallo spettacolo quotidiano della violenza. E li si renda, così, parte consapevole del mondo con lo studio, con il gioco, con lo sport, con la musica e con il teatro. Queste varie attività svolte da diverse associazioni di volontariato, come la Fondazione Figli di Maria del rione Villa di San Giovanni a Teduccio contro la cui sede sono stati sparati alcuni colpi di pistola, sono così normalmente rivoluzionarie, così sobriamente e conseguentemente contro-camorristiche da suscitare non certo la riconoscenza e l’ammirazione dei clan, perché sottrae loro futuri sbandati da reclutare, perché toglie fascinazione ai criminali, perché dimostra che si può fare qualcosa (e più di qualcosa) anche nei quartieri più lontani geograficamente e politicamente dal centro della città. E sono persone generose come Anna Riccardi, l’anima della Fondazione, a dimostrare che non tutto è perduto, e che già non darsi per sconfitti e impotenti è di per sé un’azione eversiva (rispetto ai luoghi) e di forte pedagogia civile. A volte l’ostilità verso queste forze di resistenza sociale si limita a un’invettiva, a una bestemmia, a una minaccia o a una risata di scherno, qualche volta invece si spinge più in là come a voler dimostrare (con la forza) che non sono compatibili sullo stesso territorio coloro che operano per la distruzione permanente della speranza e coloro che provano ad alimentarla anche in condizioni disperate. In particolare rendono credibile un dato che può sembrare banale: nella vita ci si può affermare anche coltivando il talento individuale non violento. Perché dove domina la violenza (quella individuale, quella collettiva, quella sull’ambiente circostante, quella sulle regole di civiltà minima) può prodursi un’inversione spaventosa dei valori: la mitezza può essere scambiata per vigliaccheria, la bontà può essere avvertita come una forma di estraneità, addirittura di inferiorità. I non violenti, i rispettosi delle regole, possono percepirsi loro stessi come diversi, disadattati, come esclusi. Quasi ad introiettare che i bravi ragazzi alla fine arrivano ultimi nella competizione della vita. Essere miti o deboli senza essere vittime (come scriveva Cesare Cases), cercare la felicità e la realizzazione personale senza sopraffare, migliorarsi senza pensare che solo il denaro te lo consente: capovolgere, insomma, la visione valoriale dei camorristi è l’opera culturale più necessaria che ci sia. Non si è qualcuno solo entrando a far parte della banda rionale e poi del clan; non si è qualcuno solo se si è capaci di fare abbassare lo sguardo agli altri che ti incrociano, ma se si studia, se si coltiva l’attitudine allo sport, alla musica, al teatro e a quant’altro sia alternativo al successo con le armi, alla prepotenza e al sopruso. Ed è quanto apprendono i 150 ragazzi che ogni giorno frequentano le numerose attività della Fondazione Figli di Maria. Una specie di controinformazione permanente in uno dei quartieri più difficili della periferia napoletana. Le bande e i clan non possono essere l’unica scuola di vita, non possono essere lasciati da soli a formare l’identità dei giovanissimi dei quartieri, in assenza o nella consunzione di forme diverse di identità, di appartenenza e di controllo sociale, a partire dal proprio nucleo familiare. Nei quartieri della periferia di Napoli, più che all’interno dei rioni dello stesso centro storico, si sono formate due società parallele: una che prova a studiare, cercare lavoro, divertirsi, impegnarsi e congiungersi alle aspirazioni dei coetanei di ogni parte del mondo, l’altra analfabeta o semi analfabeta, senza scuola, senza cultura, violenta, parassitaria, prepotente, arrogante che per sopravvivere ed emergere parassita e prova a sottomettere l’altra società. E la lotta tra questi due mondi è quotidiana e sempre più spesso non si risolve a favore della prima. I colpi di pistola alla sede della Fondazione Figli di Maria possono anche avere il significato di uno specifico avvertimento nei confronti di chi ha avuto il coraggio di chiedere alle istituzioni pubbliche di non abbandonare il quartiere di fronte ad episodi scioccanti, come l’uccisione di un malavitoso davanti ai bambini che entravano a scuola. Era partito proprio dalla sede della Fondazione l’appello al Presidente della Repubblica di non abbandonare il quartiere in balia delle bande di camorra e degli spacciatori di droga. E Sergio Mattarella aveva risposto all’invito andando di persona sul luogo ad incoraggiare l’azione di denuncia e di esempio alternativo svolto. Nel quartiere nei mesi scorsi c’era stato un grande sequestro di cocaina ed è possibile che negli ambienti dello spaccio si sia diffusa la voce che a richiamare l’attenzione delle forze dell’ordine sul quartiere abbia contribuito anche l’attivismo della Fondazione. E se anche tutte queste spiegazioni (troppo razionali) dovessero essere smentite dalle indagini, e se dovesse venire fuori che alla base dell’atto violento c’è qualcosa che razionale non è, tutto quello che abbiamo scritto non perde affatto di senso. Il valore della azioni della Fondazione resta e si espande anche se a sparare è stato un balordo. Antimafia senza mafia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 14 settembre 2019 Trattativa finita, pm in crisi, criminali azzoppati. L’antimafia che resiste è quella editoriale. Ora che i fumi della Trattativa si sono sedimentati in una pesantissima sentenza di condanna per boss e pezzi deviati dello Stato, ora che i magistrati di quel processo hanno avuto il giusto riconoscimento e non c’è più bisogno di tenere alta la tensione sui giornali e nei talk-show, ora che una Corte d’assise ha finalmente disvelato trame oscure e complicità politiche che diedero copertura alle stragi di mafia, ora che la stagione eroica ed esaltante è tramontata che faranno i coraggiosi condottieri dell’antimafia militante, quella che gira per le scuole e mobilita la società civile, quella che invoca giustizia e non si accontenta mai della verità giudiziaria perché c’è sempre una collusione nascosta o una regia occulta da smascherare? Dei terribili e sanguinari boss degli anni funesti e tenebrosi non c’è più traccia. Totò Riina, che fu capo dei corleonesi e regista delle più avventate sfide allo Stato, ha chiuso la sua vita scellerata in un carcere duro: arrestato nel gennaio del 1993, è stato murato vivo per un quarto di secolo in una cella di massima sicurezza e da lì non ha più visto la luce del sole. Solo lampade a neon. Bernardo Provenzano, suo complice e compare, catturato dalla polizia dopo 43 anni di latitanza e dopo avere mangiato per una vita pane e cicoria, è morto pure lui tra i rigori del 41 bis. Della potente cosca che scalava le vette della criminalità a colpi di kalashnikov e di tritolo, resta in vita solo Giovanni Brusca, l’uomo che ebbe il coraggio di sciogliere nell’acido con le proprie mani il figlio tredicenne di un pentito e che poi - in età matura: siamo già nel maggio del 1992 - ebbe pure il fegato, così dicono i mafiosi, di premere il telecomando dell’attentato che a Capaci massacrò il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i ragazzi della scorta. Ma dopo queste scelleratezze, il killer più spietato di Cosa nostra ebbe la furbizia di buttarsi sotto le bandiere dello Stato e di mettersi a disposizione di tutti quei pubblici ministeri desiderosi più che mai di smantellare le ultime resistenze dei boss e di riscrivere all’un tempo la storia d’Italia. Brusca ha confermato tutte le tesi dell’accusa e tutti i teoremi. E quando Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha trasformato Massimo Ciancimino, figlio del vecchio e malvissuto Don Vito, in una “icona dell’antimafia” e in una pedina indispensabile per montare il Grande processo sulla trattativa, Brusca non esitò a cogliere lo spirito del tempo e a confermare - pur sempre con il collaudato metodo del dire e del non dire - anche le patacche che il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo aveva distribuito a piene mani prima nei sottoscala delle procure e poi nelle aule dei tribunali. Un genio del male, questo Brusca. Gli eroi dell’antimafia da salotto non lo ammetteranno mai. Ma il colonnello Sergio Di Caprio, che con il nome in codice di capitano Ultimo partecipò alla cattura di Totò Riina, lo ha scritto addirittura in un libro. Brusca ha portato a termine non una ma due trattative: “Prima con lo Stato quando faceva le stragi, e poi con la procura quando si è lasciato il passato alle spalle e ha intrapreso la seconda trattativa, lavandosi il sangue dalle mani”. Per l’antimafia militante trovare un nemico contro il quale puntare fucili e baionette non è - diciamolo - un’operazione facile. Della vecchia mafia non ci sono che i rimasugli. L’ultimo padrino, ancora latitante, è Matteo Messina Denaro. Procure e forze dell’ordine lo cercano da almeno trent’anni. Hanno messo a ferro e fuoco Castelvetrano, pensando che fosse lì il suo quartiere generale, ma non c’è stato verso di snidarlo. Hanno arrestato parenti, amici e conoscenti; hanno stretto alle corde complici e favoreggiatori; hanno attivato la cultura del sospetto persino sulle confraternite e sulle logge massoniche del circondario ma della Primula rossa non si è percepito nemmeno un lontano odore. Il capo della procura nazionale, Federico Cafiero De Raho, e i più alti ufficiali del Ros affermano periodicamente che “il cerchio si stringe” e che “al massimo fra qualche mese” il boss finirà in manette ma il loro ottimismo non prende più piede. Con la conseguenza che i grandi condottieri dell’antimafia non sanno più a che santo votarsi. E per rendersene conto basta sfogliare i giornali, anche i più coraggiosi. Nel dicembre dell’anno scorso c’era stata persino una vampata di entusiasmo: si era sparsa la voce che i carabinieri avessero stroncato, ovviamente sul nascere, la nuova cupola di Cosa nostra. Ma poi, dopo i brillanti e promettenti titoli di prima pagina, anche i giornali più zelanti e ardimentosi hanno scoperto che il boss dei boss, comunque finito regolarmente in galera, era un vecchietto di 80 anni, Settimo Mineo. E l’entusiasmo finì lì. I giornalisti più tenaci e intraprendenti, in particolare quelli che per cinque anni avevano fiancheggiato, con libri e interviste, Nino Di Matteo, magistrato di punta nel processo della Trattativa, hanno allora cercato nuovi fronti e nuovi scoop. Ma hanno trovato cosuzze prive di qualsiasi spessore: la storia delle tre sorelle di Mezzojuso assediate, manco a dirlo, dalla mafia dei pascoli e una storiaccia raccattata in un quartiere palermitano, Passo di Rigano, dove una poveretta travestita da cantante neomelodica, ha salutato dal palco della festa rionale un boss morto tre anni fa. Apriti cielo. La storia di Mezzojuso è stato un cavallo di battaglia di Massimo Giletti: l’ha usata a piene mani nella sua trasmissione su La7 e dopo averla spremuta fino all’ultima goccia ci ha pure tirato su un libro. La pacchianata di Passo di Rigano è servita a un giornale locale per riempire pagine su pagine e tenere alta la convinzione - l’illusione, si stava per dire - di indirizzare la coscienza civile della gente contro le forze oscure della mafia. Una mafia che però è quella che è - un rimasuglio, appunto - e che per questo viene definita oggi invisibile e domani sommersa. Mai sconfitta: perché non si deve mai sapere che, nella sfida finale, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Diciamolo. L’unica antimafia che resiste, ormai, è quella editoriale. Nino Di Matteo ha preso al balzo la sentenza della Corte d’assise sulla Trattativa e ha pubblicato, con Saverio Lodato, un libro - Il patto sporco - che gli ha consentito per una intera stagione di girare in lungo e largo l’Italia, di predicare il rosario dei mille misteri ancora da svelare e di raccogliere altre venti o trenta cittadinanze onorarie. Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato ventisette anni fa in via D’Amelio, di libri ne ha pubblicati, nel giro di un anno, addirittura due: uno, La Repubblica delle Stragi, per sostenere le tesi, in linea con Di Matteo, dello Stato complice e assassino; l’altro per verdeggiare la memoria di Paolo, il magistrato che con Falcone aveva disegnato la più efficace strategia d’attacco contro gli ossi più duri di Cosa nostra. L’impegno editoriale - che resta sempre un impegno civile, ci mancherebbe altro - pervade ormai l’intero piazzale degli eroi: non c’è timoniere dell’antimafia che non consegni alla storia una propria analisi o le proprie memorie. Le librerie si affollano non solo di magistrati e giornalisti con la schiena dritta, va da sé, ma anche di pentiti, di ex killer il cui ravvedimento riesce a commuovere gli editori più magnanimi e i redattori più solerti nel trasformarsi in amanuensi. Ha scritto un libro Giovanni Brusca, quello del bambino sciolto nell’acido e del telecomando di Capaci; ne ha scritto uno pure Gaspare Mutolo, che si vanta di avere partecipato a settanta delitti e di avere ucciso personalmente almeno venti uomini delle cosche rivali; e ha scritto il suo bel volume - con le prefazioni, manco a dirlo, di due magistrati come Nino Di Matteo e Luca Tescaroli - anche Salvatore Cancemi, ricordato dalle cronache soprattutto per avere giustificato così il fatto di essersi ricordato solo dopo molti anni che dentro le trame oscure c’era pure infilato Silvio Berlusconi: “Presidente, la mia mente è come una vite arrugginita: si svita a poco a poco”. Si dirà, ma è mai possibile che l’antimafia militante oltre ai libri e alle sbandate di due o tre cantanti melodici non riesca a mettere su una campagna seria per la legalità e contro il malaffare? Gli scandali e la corruzione in Sicilia non mancano. Anzi. Basti pensare all’ultimo maleodorante affare: quello dei novanta milioni pagati dalla Regione a un avventuriero di Pinerolo per un censimento che si è potuto vedere solo dopo dieci anni, quando le rilevazioni sono diventate obsolete e dunque inutilizzabili. L’antimafia militante e anche quella più istituzionale - fondazioni, centri studi, gruppi di ricerca - si sono ben guardate da proferire parola. Come se il discorso non li riguardasse. Ma una spiegazione forse c’è. E si annida probabilmente nella sudditanza che le nobili e meritorie associazioni - da quella intestata a Giovanni Falcone a quella che porta il nome di Pio La Torre o di Cesare Terranova, vittime indimenticate della violenza mafiosa - hanno verso i finanziamenti, spesso anche sostanziosi, elargiti dalla Regione. Per carità, i soldi non hanno mai ucciso il coraggio, ma tra le anti-mafie organizzate e il potere politico si è creato una sorta di circolo vizioso: alle associazioni servono i soldi per mantenersi in vita e ai palazzi - da Palazzo d’Orleans a Palazzo dei Normanni - fa comodo alimentare il malinteso secondo il quale basta avere concesso quei contributi per ritenersi al di sopra di ogni sospetto; per credere e far credere che anche loro, partiti e gruppi parlamentari, sono in prima fila nella lotta contro gli sprechi e contro le malversazioni, contro la corruzione e contro ogni affare opaco e malandrino. E le anti-mafie glielo fanno credere. Perché loro, rimaste quasi senza mafia, non conoscono altro impegno se non quello di scrivere libri o di strapparsi le vesti per la sottocultura di una smarrita cantante di Passo di Rigano sorpresa - come i neomelodici che popolano il film di Franco Maresco, premiato a Venezia - a mandare un saluto al boss amico suo morto da tre anni. Riescono a rimanere insensibili davanti a uno scandalo di dimensioni enormi; ma un requiem blasfemo no, non lo sopportano. Frosinone. Morti in carcere, l’accusa: “Uccisi da detenuto serial killer” di Clemente Pistilli La Repubblica, 14 settembre 2019 Il Gup ha rinviato a giudizio Daniele Cestra, 41 anni, accusato di aver ucciso due compagni strangolandoli e poi simulando l’impiccagione. Nel carcere di Frosinone, per mesi, si è aggirato un serial killer. Un detenuto trasformatosi dietro le sbarre in assassino seriale, dopo una vita randagia costellata di qualche piccolo reato, fino a macchiarsi di quello di omicidio durante un furtarello, nel momento in cui si era trovato faccia a faccia con la vittima che aveva iniziato a urlare. La convinzione del sostituto procuratore Vittorio Misiti da oggi è anche quella del giudice per l’udienza preliminare Antonello Bracaglia Morante. Negata sia una perizia medico-legale sulle vittime che una psichiatrica sull’assassino, il giudice ha rinviato a giudizio il 41enne Daniele Cestra, di Sabaudia, accusato di aver ucciso due detenuti e di averne poi simulato il suicidio. La prima udienza davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone è fissata per il prossimo 16 dicembre. Sei anni fa, a Borgo Montenero, frazione nelle campagne di San Felice Circeo, all’ombra del promontorio, Anna Vastola, 81 anni, venne uccisa nella sua abitazione. Era dicembre. L’anziana sentì dei rumori in casa e all’improvviso si trovò davanti Cestra, che stava rovistando tra armadi e cassetti. Vastola iniziò ad urlare e il ladro, forse spaventato o solo per cercare di fuggire, la colpì a morte con una pala, dileguandosi poi con un bottino misero, fatto di poveri oggetti. I carabinieri risalirono in breve tempo al 41enne e lo arrestarono. Per quell’omicidio l’imputato venne infine condannato a 18 anni di reclusione. E una volta in carcere il 41enne pontino si sarebbe trasformato in un vero e proprio serial killer. Nell’agosto 2016, a Frosinone, venne infatti trovato impiccato il compagno di cella del 41enne, l’anziano Giuseppe Mari, di Sgurgola, piccolo centro della Ciociaria, e poco tempo prima era stato trovato nelle stesse condizioni un altro detenuto, il 60enne Pietropaolo Bassi, che ugualmente divideva la cella con il pontino. Troppi due casi per essere frutto solo di casualità. La polizia penitenziaria iniziò a indagare, e il sostituto Misiti aprì un’inchiesta, sospettando che Cestra potesse essere responsabile anche di altri due morti sospette e di un tentativo di avvelenamento sempre in carcere. Venne disposta una consulenza medico-legale e ora, per la morte di Mari e Basso, anche il giudice per l’udienza preliminare non ha dubbi: sono stati uccisi e ad assassinarli è stato Cestra. Li ha strangolati e poi ne ha simulato l’impiccagione. Ipotesi che dovranno ora trovare eventuali conferme davanti alla Corte d’Assise. Il giudice Bracaglia Morante ha negato un processo con rito abbreviato condizionato alle due perizie, chiesto dai difensori del 41enne, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, disponendo il rinvio a giudizio. E i familiari di Bassi, dopo essersi costituiti parte civile, hanno anche chiamato in causa come responsabile civile, per l’eventuale risarcimento, il Ministero della giustizia. Un verdetto che Cestra, presente oggi in udienza, attenderà nel carcere di Terni, dove è detenuto dopo aver cercato anche di evadere dal carcere di Velletri. Venezia. Un dossier sul carcere al ministro di Nicola Munaro Il Gazzettino, 14 settembre 2019 Sovraffollamento, problema cronico: 245 detenuti per una capienza di appena 160 posti. Numeri scarsi, orari di lavoro quasi raddoppiati, cinque mila ore di straordinari non pagati da inizio 2019 a oggi. E ancora divise tecniche per affrontare il servizio in laguna assenti, così come deficitaria è la manutenzione sui mezzi acquatici tanto che cinque imbarcazioni sono da tempo ferme ai box perché mancano i fondi per rimetterle a nuovo. Questa è la fotografia scattata ieri mattina dall’Uspp, l’unione dei sindacati della polizia penitenziaria, che ha visitato la casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Obiettivo: evidenziare le (tante) pagine nere, applaudire le (poche) pagine bianche e immagazzinare tutti i dati da far arrivare poi al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e alla Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria per denunciare la situazione del carcere di Venezia “per cui servirebbe una specificità. A Venezia tutto è più complicato e tutto costa di più, anche in termini di servizi”, chiarisce Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp. I numeri sono quelli che danno lo spaccato migliore di quella che lo stesso Dap considera una “sede disagiata”. A Santa Maria Maggiore ci sono 174 agenti in servizio e ne servirebbero almeno 40 in più. I detenuti sono 245, ma i posti sono 160: il saldo è +75. “Senza contare che questa struttura come carcere di sede di Corte d’Appello vede circa 500 ingressi e uscite all’anno: il volume di passaggio è ben maggiore rispetto alla numero dei detenuti stanziali” fa presente ancora Moretti. Capitolo dolente, le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. “Da contratto sono sei ore che vengono aumentate a otto con uno straordinario organico - denuncia Leo Angiulli, segretario regionale Uspp - ma ci sono stati casi, non poi così isolati, in cui gli agenti hanno lavorato per dodici ore di fila. E per quanto riguarda gli straordinari, non sono pagati. Da inizio anno l’amministrazione è già indietro di 5 mila ore”. Sul banco degli imputati anche le condizioni della caserma di alloggio del personale. Così il segretario provinciale Umberto Carrano: “Si va facilmente in overbooking e ci sono agenti costretti a dormire fuori Venezia. Per loro poi si presenta il problema di dove parcheggiare per arrivare a lavoro. C’è da considerare che gli accasermati servono, sono i primi a entrare in azione nelle emergenze”. Tra i nodi da risolvere al carcere di Venezia, anche la mancanza di di un comandante di reparto che viene coperta da un inviato di Roma “che cambia ogni sei mesi”, segnala ancora Moretti. Oltre alle imbarcazioni ferme perché non ci sono i fondi, altre non vengono manutenute per lo stesso motivo. “Servono investimenti in uomini e mezzi - conclude il presidente Uspp. Lo chiedono anche i nuovi regolamenti a livello europeo che sottolineano come i detenuti debbano essere più liberi dentro al carcere. Per far sì che succeda, ecco la necessità di avere maggiori agenti. Anche per sedare le aggressioni: in quest’anno ce ne sono già state diverse”. Ferrara. Detenuti in crescita e formazione per gli agenti di Giovanna Corrieri La Nuova Ferrara, 14 settembre 2019 Celebrato, ieri nella Casa Circondariale di via Arginone, il 202° anniversario della fondazione del corpo di Polizia Penitenziaria che, sempre più spesso oggi, “si trova a operare in condizioni oggettivamente problematiche”, come ricordato nel messaggio, per l’occasione, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “e a far fronte a sempre più frequenti situazioni di tensione acuite dal problema del sovraffollamento”. La cerimonia è stata l’occasione per fare il punto sulla situazione della Casa circondariale ferrarese. Nella sua relazione tecnica il comandante Annalisa Gadaleta ha sottolineato il numero in costante crescita dei detenuti, 378 attualmente, e le numerose iniziative per la formazione e il benessere del personale di cui si è reso protagonista nel tempo il reparto ferrarese: il 2018 ha visto 403 ingressi totali, 74 detenuti hanno potuto fruire, dato in costante aumento, di permessi o licenze; grande importanza è stata data, poi, ai legami familiari per chi è recluso, con 5779 colloqui in un solo anno, di cui 442 effettuati in area verde; e grande attenzione è stata data al monitoraggio delle condotte di radicalizzazione dei ristretti di fede islamica. Per quanto riguarda la formazione del personale, la relazione ha ricordato quella antincendio, per esempio, che a breve comincerà e coinvolgerà 108 agenti: “il Comune ci sta offrendo anche questa possibilità”, ha sottolineato il neo direttore Maria Nicoletta Toscani, “ci è molto vicino - ha aggiunto - e ci ha già donato per il personale anche condizionatori che posizioneremo nella mensa e masserizie per ristrutturare un carcere che gestisce detenuti di una certa portata, soggetti con reati veramente efferati, e che già da tempo è valorizzato dalle istituzioni della città”. Gadaleta si è detta fiera anche della collocazione in carcere della prima panchina rossa contro la violenza sulle donne, “simbolo sempre vivo di una battaglia che è purtroppo sempre attuale”, e ha ricordato, fra le iniziative per il benessere del personale, i tornei di Beach tennis, e fra quelle di solidarietà, la Befana del Poliziotto, con l’acquisto di doni per i piccoli pazienti dell’ospedale di Cona. Un messaggio è anche arrivato la ministro della Giustizia Bonafede: “il Governo ha previsto per il 2019 investimenti nel personale, con 1.300 unità in più, e una straordinaria e ordinaria manutenzione delle carceri” per far fronte alla difficile situazione che vede “un numero di aggressioni in carcere, nel giugno 2018, pari a 803, con una media di 2 aggressioni al giorno” . Pisa. Allarme sovraffollamento al don Bosco: 280 detenuti per 205 posti disponibili di Sabrina Chiellini Il Tirreno, 14 settembre 2019 Il carcere Don Bosco è sovraffollato. Si parla di carenze croniche, visto che da circa 50 anni non vengono fatti investimenti importanti sulla casa circondariale. Ma i numeri che sono stati resi noti durante la cerimonia per il 202esimo anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria balzano agli occhi. Per “capienza regolamentare”, come la definiscono gli addetti ai lavori, il carcere prevede la gestione di 205 detenuti. Al momento invece la casa circondariale ne accoglie 280. “Tra questi ci sono molti soggetti pericolosi, con problemi di dipendenza da droghe e gravi problemi psichiatrici e con una preponderante presenza di detenuti stranieri, circa 170”, ha spiegato il commissario capo, Vincenzo Pennetti, dopo il saluto del direttore del carcere, Francesco Ruello. Ai 280 detenuti entro la fine dell’anno si aggiungeranno le 30 detenute del reparto femminile che ora è in ristrutturazione ma che presto sarà ultimato. Nel conto dovranno essere inseriti anche altri 15 detenuti di una sezione del reparto penale che attualmente è inagibile. In condizioni ordinarie il Don Bosco si attesterà sulle oltre 300 presenze. Nel ricordare l’attività svolta nell’ultimo anno (da settembre 2018) dalla polizia penitenziaria, Pennetti si è soffermato sulle 72 denunce all’autorità giudiziaria effettuate, sui 10 sequestri di sostanza stupefacente e su una perquisizione straordinaria dell’istituto finalizzata a contrastare l’introduzione di droghe che è stata svolta con il supporto delle unità cinofile della Finanza. Dal carcere sono entrati e usciti per varie ragioni 1.185 detenuti. Le aggressioni sono il problema che più incide sugli operatori del carcere. “Nell’ultimo anno ci sono state 13 aggressioni da parte di detenuti nei confronti di 16 agenti che hanno determinato ben 305 giorni di assenza per infortunio sul lavoro” ha aggiunto Pennetti. Così come mancano ispettori e sovrintendenti rispetto a quanto è previsto dall’attuale pianta organica. A fronte di 22 ispettori previsti ce ne sono 11, i sovrintendenti previsti dovrebbero essere 32 invece ce ne sono 6. “La carenza di sottufficiali dei due ruoli, pari a 37 unità, comporta inevitabili difficoltà per il corretto andamento della gestione dell’istituto”, ha aggiunto il capo della guardie penitenziarie. Una fotografia della situazione che non registra solo ombre. Per il Don Bosco si potrebbero aprire nuove prospettive. Dopo 50 anni di immobilismo, oltre ai lavori della sezione femminile, è stata finanziata la ristrutturazione della sala convegni che ieri il prefetto, Giuseppe Castaldo, ha inaugurato. Un segnale, anche se nel complesso il carcere ha bisogno di importanti interventi di ristrutturazione, a cominciare dal centro clinico che non viene ammodernato da quando è stato aperto. Intanto proprio in questi giorni il Comune sta definendo la data in cui la commissione Politiche sociali andrà a visitare, per rendersi conto direttamente delle carenze, il carcere insieme al garante dei detenuti, avvocato Alberto Marchesi. Messina. I detenuti faranno lavori socialmente utili a Taormina di Emanuele Cammaroto Il Sicilia, 14 settembre 2019 Il Comune di Taormina ha sottoscritto un accordo di convenzione con la Casa Circondariale Gazzi di Messina e con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Messina per il reinserimento dei detenuti nella società mediante attività di pubblica utilità che verranno svolte nel territorio di Taormina. L’iniziativa riguarderà un numero di detenuti che verrà stabilito in via definitiva quanto prima e che potranno essere sino ad un massimo di otto soggetti. L’intesa è stata formalizzata nella mattinata di ieri nel corso di un incontro a Messina tra il vicesindaco di Taormina, Enzo Scibilia, il direttore della Casa Circondariale Gazzi di Messina, Angela Sciavicco, e il direttore dell’Uepe di Messina, Angelina Fusco. “Si tratta di persone che hanno commesso dei reati minori - spiega Scibilia. Il Comune di Taormina le impiegherà per attività socialmente utili e nello specifico alla Villa comunale, nei cimiteri di Taormina e Trappitello e per opere di tinteggiature sul territorio, secondo modalità che verranno stabilite ovviamente di concerto con i responsabili della Casa Circondariale Gazzi e UEPE, che ringraziamo sin d’ora per aver mostrato un forte impegno e un’ammirevole sensibilità in questa importante iniziativa. Le persone che svolgeranno le attività di questo progetto a Taormina saranno soprattutto delle donne”. Si tratta di persone “condannate in esecuzione penale esterna o intramuraria e/o imputati sottoposti all’istituto giuridico della convenzione presso il tribunale ordinario competente per opportunità lavorative ed occupazionali per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità e in tal senso ai detenuti viene data la possibilità di esprimere la volontà di espletare l’attività a titolo gratuito e di volontario”. “Il Comune di Taormina - afferma Sciavicco - è stato il primo a dare adesione a questa iniziativa, che si basa su adesione volontaria e che prevede l’impegno di detenuti che espiano la pena in misura alternativa e per detenuti che saranno coinvolti quindi attivamente in dei progetti utili per la collettività. Si tratta di persone che hanno avviato un percorso e che hanno mostrato di voler dare un apporto alla società, reinserendosi nella stessa e allontanandosi in modo fattivo da qualsiasi logica deviante o anti-sociale”. “L’importanza di questo progetto - spiega Fusco - sta nell’impegno fattivo da parte di tutti affinché questo progetto abbia un contenuto e una valenza inclusiva e una corretta visione trattamentale su una tematica della quale si parla spesso con una lettura pregressa. I detenuti che si impegnano in queste attività vogliono rientrare in un contesto sociale virtuoso e pienamente rispettoso della collettività”. Viterbo. Servizi sociali e carcere, al lavoro per nuovi servizi integrati tusciaweb.eu, 14 settembre 2019 L’assessora Antonella Sberna annuncia la fase operativa della collaborazione dopo aver incontrato il direttore di Mammagialla D’Andria. L’assessore si Servizi sociali Antonella Sberna si è recata presso la casa circondariale di Viterbo, dove ha incontrato il direttore Pierpaolo d’Andria per dare inizio alla fase operativa della collaborazione tra comune e carcere, circa le attività da svolgere all’interno del penitenziario. La sinergia tra i due soggetti si inserisce all’interno del progetto di mediazione a sostegno della comunicazione per i detenuti, per il quale il distretto VT3 ha ottenuto un finanziamento per due esercizi finanziari di 120mila euro. “Si concretizzano le azioni annunciate in occasione del consiglio comunale straordinario dello scorso giugno - commenta l’assessore Sberna. La collaborazione con l’istituto penitenziario di Mammagialla inizia a prendere forma nella creazione di un servizio che mira a favorire un miglioramento delle condizioni generali all’interno del carcere. Con il direttore abbiamo discusso delle varie azioni da mettere in campo e previste dal finanziamento e il comune sta provvedendo alla predisposizione degli atti amministrativi per l’erogazione tempestiva dei fondi”. “E’ importante dare continuità agli impegni presi e con il comune di Viterbo siamo al lavoro. Presto saranno visibili i risultati di questa collaborazione per il bene della popolazione detenuta e di tutti gli operatori che lavorano nella casa circondariale di Viterbo” conclude il direttore D’Andria. Trento. Accordo per progetto di continuità assistenziale nel carcere di Spini di Gardolo di Nicola Paoli quotidianosanita.it, 14 settembre 2019 Presso l’Assessorato alla salute, politiche sociali, disabilità e famiglia della Provincia Autonoma di Trento, ad integrazione dell’Accordo provinciale della medicina generale, nel corso del Comitato provinciale per la medicina generale svoltosi questa mattina in V. Gilli a Trento, è stata firmata da tutte le OOSS della medicina generale, dalla Provincia e dall’Apss la modifica che riguarda la medicina generale nell’assistenza medica carceraria di Spini di Gardolo. Si tratta di un progetto di vasto respiro, a valenza pluriennale e provinciale, costruito con un accordo tra le parti che finalmente hanno dato prova di unione di intenti per una classe di assistiti molto fragile, e che per la prima volta in assoluto, nella nostra provincia, coinvolge i medici di continuità assistenziale. Cinque punti del progetto, a nostro avviso, sono fondamentali: 1) Viene riconosciuto al Sindacato della medicina generale un ruolo determinante e decisivo anche per il futuro dell’accordo. 2) Vengono messe in sicurezza le guardie mediche della sede di Trento Centro, che d’ora in poi saranno utilizzate solo per la popolazione residente e domiciliata nel Comune di Trento. 3) Vengono stanziate risorse importanti ed ulteriori a quelle attualmente a disposizione per la medicina generale, per coloro che volontariamente decideranno di lavorare all’interno della struttura carceraria di Spini di Gardolo. 4) L’attività lavorativa sarà H24, 38 ore settimanali per ogni medico inserito nella struttura. 5) Per la prima volta si attua in Trentino un progetto lavorativo di integrazione ospedale territorio con il riconoscimento della valenza dei medici di medicina generale che faranno parte di un servizio medico multi-professionale integrato tra medicina generale, dirigenti medici ospedalieri, specialisti e personale assistenziale di supporto...cioè quello a cui tendevamo con le Unità di cure complesse primarie e tende ancora la medicina generale al di là e di più delle aggregazioni funzionali territoriali. Cisl medici del Trentino ringrazia l’Assessorato alla salute di Trento, ed in particolare modo il Direttore Generale dott. Ruscitti, nonché l’Apss di Trento, per la disponibilità dimostrata in questa circostanza e si augura che con essa si possa aprire una nuova stagione di concordia, magari con progetti analoghi per le cure intermedie o per i codici bianchi e verdi presso i Pronto soccorso territoriali. *Segretario Generale Cisl medici del Trentino Bergamo. “Nel carcere mancano infermieri, non si possono somministrare medicine” di Aristea Canini araberara.it, 14 settembre 2019 Metà detenuti in carico al Serd con terapia psicofarmacologica. 18 utenti con hiv, 60 utenti con epatite C. 10 utenti con epatite B oltre a molte altre patologie che necessitano di cure mediche quotidiane. Detenuti che non possono essere curati, personale infermieristico che manca, malattie che dilagano. La situazione sanitaria del Carcere di Bergamo è allarmante. A metterlo nero su bianco undici dipendenti dell’ospedale. Poche settimane fa gli infermieri del penitenziario di Bergamo hanno preso carta e penna e scritto alla Direttrice generale Maria Beatrice Stasi, a tutti i responsabili sanitari e per conoscenza alla dottoressa Teresa Mazzotta, direttrice dell’Istituto Penitenziario segnalando alcune problematiche. Dopo aver ricordato che la “gestione della salute negli Istituti di pena e detenzione che prima erano in carico al Ministero della Giustizia” adesso sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale. “La scelta aziendale nel 2010 è stata quella di prendere in carico la Casa Circondariale di Bergamo con personale infermieristico dipendente dall’Azienda”. E proseguono: “Il personale infermieristico - scrivono - lamenta ormai una carenza di organico per trasferimenti, licenziamenti o pensionamenti che purtroppo non è stato sostituito nell’ultimo biennio (per la peculiarità dell’ambiente lavorativo e/o per la legislazione nazionale che non permette nuove assunzioni). Nuoro. Musica e folklore: il carcere di Mamone apre i cancelli alle tradizioni gnewsonline.it, 14 settembre 2019 Due appuntamenti musicali, che si preannunciano di grande impatto emotivo, animeranno due sabati di settembre nella casa di reclusione di Mamone-Onanì (NU). Domani esibizione del gruppo “La Basulata”, complesso che divulga e preserva il folklore, la cultura, l’arte, la musica dell’intera vallata del Medio Volturno e, più in generale, del territorio compreso tra il Monte Maggiore ed il massiccio del Matese in Campania. Il 21 settembre 2019 è la volta del gruppo sardo di musica autoctona “ Mesana e Memmeke”. I due eventi culturali musicali - promossi dalla direttrice dell’Istituto, Caterina Sergio, condivisi dal Comandante di reparto Francesco Dessì in collaborazione con i Funzionari giuridico pedagogici Alessandra Onnis e Anna Di Tommaso, oltre che essere occasione di gioioso intrattenimento culturale saranno un momento di riflessione, capaci di regalare emozioni, perché la musica è libertà e condivisione. Settembre è il mese di saluto dell’estate durante il quale in tante comunità sarde si vivono momenti di festa per celebrare i santi patroni e godere delle ultime miti serate. I due appuntamenti sono occasioni importanti nei quali i detenuti potranno beneficiare di un momento ricreativo ma soprattutto di opportunità di incontri fra la Comunità esterna e la realtà penitenziaria, al fine di creare ponti e non mura proiettandosi verso un futuro di auspicabile cambiamento. La crescita sociale è possibile laddove le due realtà, nel prendersi cura delle reciproche debolezze, trovano il punto di forza che nasce dall’incontro costruttivo e propositivo teso a valorizzare e dare dignità alle persone ai margini della società”. (Articolo a cura degli operatori della Casa di Reclusione di Mamone - Onanì) Civitavecchia (Rm). Il teatro porta i detenuti sul palco centumcellae.it, 14 settembre 2019 Il 10 ottobre nel teatro della Casa di Reclusione di Civitavecchia si concluderà il Progetto Fortezza con la presentazione dello spettacolo “Il Campo”. Nato dalla stretta collaborazione tra area sanitaria, area educativa e la compagnia teatrale Addentro dell’Associazione Sangue Giusto che da oltre 10 anni è attiva negli istituti penitenziari di Civitavecchia, il Progetto Fortezza, sostenuto dalla Asl Rm4, si rivolge alla popolazione detenuta con l’intento di utilizzare il potenziale terapeutico dell’arte teatrale come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio mentale attraverso la promozione del benessere psico-fisico dei ristretti. Una prima fase, che si è conclusa lo scorso aprile, ha coinvolto per sei mesi i detenuti della sezione infermeria della Casa Circondariale. Il lavoro di espressione musicale e recitativa si è unito alla riflessione intorno alla figura di Don Chisciotte con l’obiettivo di canalizzare e trasformare in energia positiva il forte disagio di chi vive la detenzione con l’aggravante di una condizione alterata di salute. I risultati sono stati sorprendenti in termini di riduzione dell’aggressività e dei comportamenti patologici e di sviluppo di spazi riflessivi e modulati in termini emotivi. È invece ispirato ad un classico della letteratura per ragazzi lo spettacolo “Il Campo” che sarà presentato il 10 ottobre dopo un lavoro di nove mesi con i detenuti della Casa di Reclusione. L’adattamento teatrale de “I ragazzi della via Pal” di Ferenc Molnar ha permesso, attraverso il gioco, di portare i partecipanti a sperimentare una condizione infantile dimenticata. Molti detenuti hanno vissuto in maniera inquieta e sofferta questa condizione, molti dichiarano di non ricordarsene nemmeno, di non avere mai giocato. È invece attraverso il gioco che l’individuo impara a conoscere il mondo, a sperimentare il valore delle regole e il rispetto di ciascun membro della comunità giocante, a controllare le proprie emozioni, a gestire le situazioni di conflitto, ad allenarsi alla disciplina, a scoprire nuovi percorsi di autonomia. Il gioco e? esercizio e preparazione alla vita adulta, alle dinamiche della vita collettiva. Giocando insieme al pubblico, gli attori/detenuti conducono lo spettatore nel loro campo, il carcere. “Voi che dovete fare soltanto un passo per essere all’aria aperta sotto la grande e meravigliosa campana di vetro azzurro che chiamiamo cielo! Voi che avete gli occhi abituati alle grandi distanze e agli ampi orizzonti! Voi che non vivete ammassati tra le case alte, non potete nemmeno lontanamente immaginare cosa rappresenti per noi un pezzo di terreno non edificato, che cosa rappresenti per noi…il Campo. Per noi…è la nostra pianura, la nostra prateria, il nostro deserto. Per noi è l’infinito… e la libertà”. La Direttrice degli Istituti Penitenziari, dott.ssa Patrizia Bravetti, e il Direttore Generale della Asl Roma, Giuseppe Quintavalle, 4 hanno creduto in questo progetto insieme a tutti i colleghi dell’area salute mentale e del Serd. Hanno creduto in qualcosa che non è intrattenimento ma è terapia del disagio, stimolo per l’attivazione delle risorse personali di pazienti e operatori, trasformazione di luoghi e persone. Larino (Cb). I detenuti realizzano un dono per Papa Francesco primonumero.it, 14 settembre 2019 Sarà un momento emozionante per tutta la casa circondariale di Larino: domani, 14 settembre, nel corso dell’udienza speciale sarà consegnato a Papa Francesco il dono realizzato dai detenuti. Dal Santo Padre, che ha avuto sempre attenzione per i più umili e per coloro che stanno scontando la loro pena in carcere, ci sarà una delegazione del personale dell’amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità. E in questa speciale occasione il pontefice riceverà la casula e la stola confezionati nel carcere molisano. “I detenuti impegnati in un percorso sartoriale e seguiti dall’area trattamentale dell’Istituto - spiegano dall’Ucsi - così come dalle sarte volontarie, hanno infatti realizzato la casula e la stola che saranno donati al Santo Padre dalla delegazione molisana. In modo particolare, sulla casula, hanno voluto rappresentare visivamente la sofferenza della condizione detentiva, accompagnando le immagini delle mani protese con un messaggio di speranza e di fiducia per il futuro. Proprio quella stessa speranza che nasce dal percorso di crescita e di modificazione del proprio essere. Percorso quest’ultimo, che viene sostenuto dagli operatori che nell’Istituto di pena investono le loro risorse umane e professionali”. Dunque, “la Polizia penitenziaria, ma anche e soprattutto i funzionari trattamentali e i numerosi volontari che, concretamente, si rendono interpreti di una possibilità di riscatto e di recupero di valori sociali e di civile convivenza”. L’udienza di domani, alla quale prenderanno parte circa 12 mila persone, “è un dono grande per tutti noi”, ha commentato don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, che ha ricordato anche come, più volte, Papa Francesco sia entrato nelle carceri e in luoghi di sofferenza, di emarginazione e di povertà, “per parlare della libertà dei figli di Dio. Per incoraggiare al cambiamento e, soprattutto, per lanciare un grido di aiuto, con la speranza di porre l’attenzione nelle istituzioni, nella società civile e verso tutte le comunità cristiane, affinché questi luoghi di dolore siano per tutti una grande sfida di solidarietà e di civiltà”. A conclusione dell’udienza, Papa Francesco benedirà la Croce della Misericordia, realizzata dai detenuti di Paliano, che successivamente, per coloro che ne faranno richiesta, sarà inviata nelle carceri italiane. Una croce messaggio che apre anche una riflessione sulle madri detenute e sui loro bambini e che vuole rappresentare il desiderio di come esse, con i loro piccoli, possano scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena. Paliano (Fr): La croce dipinta dai detenuti in regalo al Papa ansa.it, 14 settembre 2019 Hanno levigato per giorni il legno, lo hanno preparato e sotto la direzione di una maestra di iconografia lo hanno dipinto finemente seguendo tecniche millenarie: è un grande crocifisso realizzato dai detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano (Frosinone). Una icona che gli stessi detenuti hanno voluto chiamare la ‘Croce della Misericordia’ e che, dopo la benedizione del Papa, farà il giro delle carceri italiane in una sorta di pellegrinaggio della speranza. La croce, realizzata nel laboratorio promosso nel carcere dalla Comunità di sant’Egidio, sarà portata domani all’udienza del Papa della Polizia Penitenziaria, nell’Aula Paolo VI. “Sono persone rimaste folgorate dalla visita del Papa nel Giovedì Santo del 2017. Ad alcuni è davvero cambiata la vita e continuano a dire che il Papa ha insegnato loro che cos’è davvero l’amore”, riferisce Stefania Tallei, coordinatrice del servizio ai detenuti della Comunità di Sant’Egidio. Una ventina di detenuti, una volta alla settimana con la maestra e volontaria Luigia Aragozzini, ma anche da soli nel tempo libero, si ritrova per riprodurre immagini di arte sacra. “Alcuni sono talmente bravi che questa attività potrebbe per loro diventare, una volta usciti dal carcere di Paliano, un mestiere”, sottolinea Tallei. Attorno alla figura di Cristo sulla croce ci sono scene della vita in carcere; episodi biblici ma anche la vita quotidiana dietro le sbarre. Le visite dei familiari, le mamme con i bambini, la lettura, la preghiera. “Hanno anche preparato una lettera per Papa Francesco, la consegnerò io a loro nome”, dice ancora la responsabile delle attività nelle carceri di Sant’Egidio. “Tessitori di giustizia e messaggeri di pace”: hanno scelto questo slogan i 250 cappellani delle carceri che incontreranno Papa Francesco domani mattina a Piazza San Pietro. Arriveranno da tutto il Paese, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria e del personale che presta servizio negli Istituti di pena. Saranno circa 11mila in rappresentanza delle 190 case di reclusione, guidati dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. “Così la Costituzione è arrivata in cella”: vicepresidente della Consulta ai Dialoghi di Trani di Cenzio Di Zanni La Repubblica, 14 settembre 2019 L’appuntamento, organizzato con Repubblica Bari, è per venerdì 20 settembre alle 19.15, negli spazi dell’auditorium San Luigi di via Mario Pagano. Prima con la proiezione della pellicola prodotta da Clipper Media e Rai Cinema. Poi con una fra le protagoniste del tour della Corte Costituzionale. Se la pietra miliare dei Dialoghi di Trani 2019 è l’idea di un’etica della responsabilità “che tiene presente la libertà propria e quella degli altri” - come si legge nella presentazione dell’iniziativa - la rassegna non può prescindere dal tema delle carceri. Dalla vita sospesa oltre le sbarre, dalla rieducazione del condannato messa nero su bianco nella Costituzione. Lo sanno bene da queste parti. Tanto da mettere in cartellone la proiezione del docu-film di Fabio Cavalli, Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri. L’appuntamento, organizzato con Repubblica Bari, è per venerdì 20 settembre alle 19.15, negli spazi dell’auditorium San Luigi di via Mario Pagano. Prima con la proiezione della pellicola prodotta da Clipper Media e Rai Cinema. Poi, con una fra le protagoniste del tour della Consulta: Marta Cartabia, 53 anni, vicepresidente della Corte dall’ 8 marzo 2018, giudice costituzionale da settembre 2011 e docente di Diritto costituzionale all’università di Milano Bicocca. La stessa che i bookmakers, secondo le indiscrezioni circolate nei giorni caldi della crisi di governo, davano come favorita per succedere al premier Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Prima dell’intervista con la giornalista di Repubblica Liana Milella, risponde dall’università di Yale, nel Connecticut (Usa), dov’è impegnata nel Global Constitutionalism Seminar, il ciclo di conferenze che dal 1996 chiama a raccolta i giudici delle corti supreme e delle corti costituzionali di tutto il mondo. “Il docu-film è stata un’esperienza molto importante. Per la Corte, da un lato, perché ci ha consentito di conoscere una realtà non molto frequentata e di rendere presente il valore della Costituzione come fondamento della tutela di tutti. E dall’altro per i detenuti - assicura - perché penso che l’incontro con i giudici della Corte sia stata l’occasione per sentirsi parte integrante, anche se in una condizione particolare, della comunità civile a cui si rivolge la Costituzione”. Oltre oceano sono passate da poco le 10 del mattino e la professoressa anticipa il bilancio dell’esperienza dei sette giudici nei sette penitenziari italiani, da San Vittore (Milano) al carcere femminile di Lecce, passando per Rebibbia (Roma). “Come in tutti gli incontri veri, l’effetto è stato positivo per entrambe le parti. Il docu-film è uno strumento che intende condividere questa esperienza con tutti coloro che avranno la curiosità e la pazienza di assistere alla proiezione”. Il film è andato in onda in uno Speciale Tg1 domenica 9 giugno. Il viaggio dei giudici delle leggi nel girone delle carceri è condotto da Sandro Pepe, un gigante buono con la divisa della polizia penitenziaria. Rievoca il Viaggio in Italia di Guido Piovene degli anni Cinquanta. Ma è il viaggio fra due umanità, “entrambe chiuse dietro un muro e apparentemente agli antipodi”. Dicono dalla Consulta: “Da un lato c’è la legalità costituzionale, dall’altro l’illegalità, ma anche la marginalità sociale” . I muri cadono in un’esperienza che è un unicum nella storia della Corte, nata nel 1956. L’anno in cui Piovene chiudeva il suo Viaggio. Non cancelliamo il diritto ai diritti di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 14 settembre 2019 Un’espressione particolarmente densa di significato, usata per la prima volta da Hannah Arendt con riguardo alla condizione in cui si trovò il suo popolo, il popolo ebraico, nell’Europa nazi-fascista e nazionalista, nei venti anni dei decenni 1930-1940, è “diritto di avere diritti” ed è entrata nel nostro lessico politico e giuridico soprattutto a opera di Stefano Rodotà che ne ha fatto il titolo di un suo importante libro del 2013. Questo trapianto da quel tempo al nostro ha comportato un mutamento del significato originario, anzi una sua adulterazione. Coloro che oggi denunciano la banalizzazione del discorso sui diritti, la sua enfasi ideologica, la tendenza a trasformare i più disparati interessi particolari in nuovi diritti senza considerare gli effetti disgregatori della compagine sociale che l’eccesso può comportare, costoro intendono quel motto come una sorta di pericoloso moltiplicatore automatico. Ecco il significato che Hannah Arendt attribuisce a quella sua espressione. La privazione del diritto di avere diritti “si manifesta soprattutto nella privazione di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto. Qualcosa di molto più essenziale della libertà e della giustizia, che sono diritti dei cittadini, è in gioco quando l’appartenenza alla comunità in cui si è nati non è più una cosa naturale e la non appartenenza non è più oggetto di scelta; quando si è posti in una situazione in cui [...] il trattamento subito non dipende da quel che si fa o non si fa [ma da quel che si è]. Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. Esse sono prive non del diritto alla libertà, ma del diritto all’azione; non del diritto a pensare qualunque cosa loro piaccia, ma del diritto alla “opinione”. Non contano niente. Sono soltanto un peso. Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti [...] solo quando sono comparsi milioni di persone che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo. Questa sventura non derivava dai noti mali della mancanza di civiltà, dell’arretratezza e della tirannide; e non le si poteva porre rimedio perché non c’erano più sulla terra luoghi da “civilizzare” perché, volere o no, vivevamo ormai realmente in un “unico mondo”. Questa ultima annotazione circa “l’unico mondo” ci deve fare pensare. Un altro modo di esprimere l’unico mondo è la saturazione degli spazi sulla terra. Soffermiamoci un poco sull’aspetto spaziale dei diritti perché, a onta della sua decisività sotto tanti aspetti, è normalmente ignorato. Quando diciamo spazi saturi o pieni, con riferimento all’oggi, intendiamo soprattutto una nozione socio-politica. Esistono ampie zone sotto-abitate o addirittura disabitate e abitabili, in Asia, America del Nord e del Sud, Oceania. La loro saturazione deriva dal fatto che esse, fisicamente ancora occupabili, non lo sono socialmente e politicamente, a causa della chiusura su se stesse delle società locali. Il mondo, fino ai tempi più vicini a noi, ha sempre contenuto “spazi liberi” o, più realisticamente, spazi che potevano essere “svuotati”, cioè conquistati in favore dell’espansionismo di popolazioni e Stati a corto di risorse interne: espansionismo determinato da ragioni politiche, economiche, demografiche, ideologiche. Tra l’Ottocento e il Novecento, con il cosiddetto “diritto coloniale” al quale illustri giuristi si sono dedicati, si sono giustificati atti e violenze nei confronti dei popoli colonizzati, atti e violenze che, se riferiti alle nazioni europee, sarebbero apparsi crimini contro la loro sovranità. Gli abitanti, nella migliore delle ipotesi, li si considerava popoli-bambini, bisognosi di pedagoghi; nella peggiore, popoli parassiti ed egoisti che, con la loro indolenza, sottraevano alle industrie le risorse che la natura, casualmente, aveva collocato nelle terre da loro abitate. Perfino Tommaso Moro, nella sua Utopia, aveva ragionato così ne11516, al tempo delle grandi esplorazioni e scoperte geografiche. Oggi, non può più essere così. Che cosa significa la parola “globalizzazione”, se non che tutto il mondo costituisce (o è in marcia per costituire) uno spazio unico, totalmente occupato e, perciò, saturo? Se cerchiamo una rappresentazione evidente, impressivi, non solo realistica ma tragicamente reale di che cosa significa la saturazione degli spazi, rivolgiamoci alle centinaia di migliaia, anzi milioni, di persone che, mosse dalla necessità di sopravvivenza ed espulse dai loro Paesi, si accalcano ai confini d’altri Paesi in masse che non sanno dove andare e sopravvivono in condizioni sub-umane. Si calcola che più di settanta milioni di persone vivano lì ammassati. I diritti umani, per loro, sono di fatto sospesi. A ciò si aggiungano i luoghi di costrizione come quelli della Libia tristemente famosi in Italia. Non molto diversi i centri di raccolta “provvisori” dei migranti che esistono in Europa. E così anche le immense periferie delle baraccopoli, bidonville, favelas, township che esistono in tutto il mondo della povertà, dove la vita civile è come sospesa. Quest’immensa umanità si trova precisamente nella a condizione degli ebrei perseguitati nei paesi dell’Europa dove si erano insediati da secoli. Gli spazi saturi sono quelli in cui non esistono riserve utilizzabili per consentire pacifici movimenti. Ogni movimento è una collisione e la collisione genera o stasi o guerra. Il caso del popolo d’Israele è altamente significativo, perché mostra entrambe le possibilità: la stasi, calma prima della tempesta nella quale milioni di persone hanno atteso immobili il degrado della loro condizione, fino allo sterminio; la guerra per ricostruire un territorio per un loro Stato in Palestina. Il mondo globalizzato e saturo vive in questo dilemma tra stasi e guerra, in ogni caso mortifero. Le tensioni si scaricano al suo interno, creando instabilità e violenza, alimentata dall’invidia e dall’odio. La guerra cambia natura e, da guerra esterna tra stati rivali, si trasforma in conflittualità interna allo spazio globale. Insomma, potenziale guerra civile globale senza legge, come condizione endemica del nostro tempo. Coloro che trovano normale “a casa loro” e “prima gli...” credono di preservare la pace e l’ordine “a casa propria”. In realtà, è vero precisamente il contrario. La disperazione di chi deve fuggire da casa propria e l’ingiustizia subita da chi è privato di diritti basilari per favorire i privilegi altrui non fanno altro che acuire le tensioni sociali alle quali si risponde con misure repressive per la tutela dell’ordine pubblico. Immanuel Kant ha trattato del rapporto tra le popolazioni e la terra a disposizione e del modo di disinnescare la violenza insita in questo rapporto. Nel Terzo articolo definitivo del celebre scritto Per la pace perpetua (1795) si sviluppa il concetto di “ospitalità universale” che dovrebbe orientare il “diritto del cittadino del mondo”. Riassumo e interpreto così. Non si tratta di filantropia (la filantropia riguarda la generosità dei privati), ma del diritto dello straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere trattato ostilmente, fino a quando si comporta pacificamente. Kant parla del diritto all’ospitalità a senso unico, dal punto di vista dei popoli europei colonizzatori rispetto ai popoli extra-europei colonizzati. Ma, ciò che è detto vale allo stesso modo al contrario, quando sono i popoli lontani che si affacciano all’Europa: secondo l’argomento kantiano, hanno diritto all’ospitalità, a condizione che non si trasformi in diritto alla conquista, alla rovescia. La formula di Hannah Arendt riguarda una aspirazione morale che corrisponde a un ideale astratto di giustizia. Gli ideali non sono da buttar via, ma non bastano. Perciò non si deve disprezzare il diritto di avere diritti. Ma si deve riconoscere che, per farlo discendere dal cielo in terra, occorre qualcosa di diverso che non l’ideologia dei diritti. Essa può ispirare azioni concrete e, come ispirazione, va bene. Così dovremmo uscire alle idee astratte, dalle “filosofie” e dovremmo entrare in un altro campo, il campo delle azioni e delle politiche nel quale, purtroppo, domina il potere che dei diritti non sa che farsi. Mentre, al contrario, i privilegi gli stanno particolarmente a cuore. 98 rifugiati salvati dalla Libia e trasferiti in Italia. Unhcr: “In migliaia hanno bisogno di aiuto” di Annalisa Cangemi fanpage.it, 14 settembre 2019 98 migranti vulnerabili trasferiti dalle carceri libiche in Italia dall’Agenzia Onu per i rifugiati. Con questa operazione sale a 1.474 il numero di rifugiati vulnerabili assistiti dall’Unhcr ed evacuati dalla Libia nel 2019; tra essi, 710 sono stati trasferiti in Niger, 393 in Italia, e 371 reinsediati in Europa e Canada. Che la Libia non fosse un luogo sicuro l’Onu lo aveva già dichiarato in più di un’occasione. Nel Paese nordafricano i diritti delle persone, rinchiuse nei centri di detenzione, vengono sistematicamente violati. Oggi l’Agenzia Onu per i Rifugiati è passata ai fatti. Un gruppo di 98 rifugiati è stato evacuato dalla Libia in Italia. Si tratta della terza evacuazione umanitaria diretta realizzata quest’anno verso il nostro paese. L’Unhcr ha spiegato che “con il conflitto che continua a infuriare in Libia, le operazioni di evacuazione rappresentano un’ancora di salvezza per i rifugiati più vulnerabili che si trovano nei centri di detenzione e in contesti urbani e che hanno un disperato bisogno di sicurezza e protezione”. I rifugiati vengono da Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan, e tra esse vi sono anche 52 minori non accompagnati. Il più piccolo migrante portato in Italia è Yousef, un bimbo somalo di sette mesi nato in un centro di detenzione e in viaggio insieme ai genitori. La maggior parte dei rifugiati è stata a lungo trattenuta nelle carceri, alcuni per oltre otto mesi. Prima dell’evacuazione, l’Agenzia internazionale ha ottenuto il rilascio dei rifugiati dai centri di detenzione e li ha trasferiti in un Centro di Raccolta e Partenza (Gathering and Departure Facility - GDF) a Tripoli, dove i migranti hanno ricevuto cibo, riparo, cure mediche, supporto psico-sociale, e anche abiti e prodotti igienici. Con questa operazione sale a 1.474 il numero di rifugiati vulnerabili assistiti dall’Unhcr ed evacuati dalla Libia nel 2019; tra essi, 710 sono stati trasferiti in Niger, 393 in Italia, e 371 reinsediati in Europa e Canada. “Oggi abbiamo trasferito al sicuro 98 persone, ma sono ancora poche rispetto alle migliaia che hanno bisogno di aiuto. Nei centri di detenzione ci sono ancora oltre 3.600 rifugiati. Dobbiamo urgentemente trovare una soluzione per loro, come per migliaia di rifugiati più vulnerabili in contesti urbani”, ha detto Jean-Paul Cavalieri, capo della missione per la Libia dell’Unhcr. L’Agenzia Onu per i Rifugiati esprime la propria gratitudine per la cooperazione del ministero dell’Interno libico e per il supporto dell’organizzazione partner LibAid nel garantire il rilascio e il trasferimento dei rifugiati. “L’evacuazione di oggi - ha spiegato Roland Schilling, Rappresentante Regionale per il Sud Europa dell’Unhcr - è un esempio di solidarietà, ringraziamo il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno e la Polizia di Frontiera per averlo reso possibile. Ci auguriamo che altri paesi seguano questo esempio e realizzino simili operazioni umanitarie salva-vita”. “I migranti? Giusto discutere con l’Ue, ma non vedo cambiamenti concreti” di Carlo Lania Il Manifesto, 14 settembre 2019 “Il fatto che non sia stato vietato alla Ocean Viking di entrare nelle acque territoriali italiane è un primo segnale ma non basta: alla nave deve essere assegnato subito un porto sicuro”. Erasmo Palazzotto è deputato di Liberi e Uguali e garante della piattaforma Mediterranea saving humans. La convince il modo in cui il governo sta affrontando la questione migranti? Ancora non abbiamo visto niente di concreto. Mi convince la scelta di affrontare la questione sul piano europeo, ma questo non ci sottrae dal dovere di ripristinare immediatamente la legalità internazionale rispetto al tema del soccorso in mare. A partire dalla vicenda dell’Ocean Viking alla quale bisogna assegnare subito un porto di sbarco perché i migranti che si trovano a bordo hanno il diritto di essere soccorsi. Poi si cominci pure a parlare del nuovo meccanismo di ricollocamento. Ma le discussioni si fanno quando le persone sono sulla terra ferma e al sicuro. Proprio sulla questione delle navi c’è una situazione di stallo da parte del governo. A cosa è dovuta? Intanto diciamo che non c’è un decreto che inibisce alla Ocean Viking l’ingresso nelle acque territoriali italiane, quindi non è stato applicato il decreto sicurezza. E’ un primo segnale. C’è una lentezza burocratica nell’individuare un Pos (place of safety, ndr) perché si preferisce aspettare una soluzione condivisa con l’Unione europea. Credo che questo sia un errore, perché rispettando le convenzioni internazionali e facendo sbarcare quelle persone, assumendoci quindi da soli la responsabilità di applicare le convenzioni internazionali, si ha più forza in Europa per rivendicare che la gestione di questo fenomeno sia condivisa, solidale e non venga assegnata semplicemente agli Stati costieri. Così si ha più forza anche per mettere in discussione il regolamento di Dublino, che è la radice del problema. Pensa che ci sia paura di offrire pretesti alla propaganda della Lega? Se così fosse sarebbe un errore, perché mi pare che Salvini stia facendo comunque la sua propaganda soffiando sulle paure. Le 82 persone che si trovano sulla Viking non cambieranno niente rispetto alla gestione del fenomeno migratorio per l’Italia e per l’Europa, come non avrebbero cambiato niente tutte le altre persone salvate dalle ong in questo anno. E’ ora di cominciare a gestire questo fenomeno in maniera razionale e con buon senso a partire dai numeri, che non rappresentano più un’emergenza, per finire con misure strutturali che ci permettono di governare questo fenomeno nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali e dei diritti umani che in questi ultimi 14 mesi sono stati costantemente violati dal governo italiano e anche dai governi europei. Lei parla di politiche strutturali dell’Ue ma intanto si pensa a un meccanismo per la divisione tra Stati dei migranti su base volontaria. Penso che il meccanismo debba essere su base obbligatoria. Trovo interessante la proposta di Enrico Letta secondo la quale, a prescindere che si trovi o meno la quadra all’unanimità, alcuni Paesi possano accordarsi tra loro e cominciare a gestire il fenomeno. Perché non si possono lasciare le persone a morire in mare aspettando che si raggiunga l’unanimità tra gli Stati. Leu è al governo. Siete disposti a far pesare il vostro ruolo se la discontinuità tanto attesa dovesse tardare ancora? Noi abbiamo il dovere di rappresentare quelle istanze che in questi anni abbiamo sempre difeso fuori e dentro il parlamento e anche oggi dentro la maggioranza di governo. Non ho motivo di temere che questa maggioranza, che ha incluso Liberi e uguali fin dalla sua nascita, non abbia fatto i conti con il fatto che su questo terreno bisognerà confrontarsi. Sono fiducioso che riusciremo a trovare delle soluzioni all’altezza delle sfide che abbiamo davanti. Ci sono dei principi e dei valori, come quelli della salvaguardia, del rispetto e della dignità della vita umana che non sono negoziabili. Detto questo faremo un bilancio quando ci troveremo a dover affrontare le questioni serie e complesse che riguardano al revisione di tutte le normative sull’immigrazione, a partire dai decreti sicurezza. Stati Uniti. Poliziotti-marines addestrati per cacciare i migranti di Luca Celada Il Manifesto, 14 settembre 2019 La Corte suprema conferma la politica di Trump: chi arriva da paesi terzi non entra. E spunta un bando federale per campi d’addestramento stile marines. “Il governo degli Stati uniti ha facoltà di respingere le richieste di asilo di chi sia giunto al confine attraverso un paese terzo”. La sentenza della Corte suprema ha sancito l’ultimo attacco trumpista agli immigrati e ai diseredati accalcati al confine meridionale. Gran parte di quei profughi provengono dal Centro America e da altri paesi sudamericani e africani (numerosissimi i cubani e gli haitiani) e in base alla nuova norma, che impone che abbiano preventivamente chiesto asilo al Messico, verrebbero automaticamente squalificati dall’ingresso in America. L’ultima strategia trumpista di interdizione si aggiunge a quella che precedentemente aveva imposto ai richiedenti asilo di attendere in Messico l’esito della pratica. Come quest’ultima, l’ultimo provvedimento ribalta decenni di politica di asilo e aderenza a norme internazionali. Il confine meridionale non ha ancora il muro ma risulterebbe da ora sigillato a tutti gli effetti per le migliaia di migranti che arrivano davanti ai reticolati e rimangono impigliati nella rete anti-uomo (e donna e bambino) che Trump è andato allestendo negli ultimi tre anni. Il presidente che ama definire le richieste di asilo “una colossale truffa” ai danni del paese, aveva annunciato a luglio che gli Stati uniti non avrebbero più accolto pratiche di asilo da cittadini di paesi non confinanti. Di pari passo Trump ha ridotto il numero di rifugiati accolti in Usa a 30mila, meno di quelli ospitati dal Congo o dalla Serbia. Nella familiare retorica identitaria del regime sovranista, immigrati e profughi - come quelli in fuga dalle Bahamas devastate dall’uragano Dorian e respinti dai traghetti per la Florida qualche giorno fa - sono i soliti furbi in cerca di pacchia serviti da ong dedite al traffico umano. La “soluzione finale” del blocco dell’asilo era stata annunciata a luglio ma subito sospesa dalla sentenza di un giudice federale in seguito a una denuncia della American Civil Liberties Union (Aclu) per incompatibilità con precedenti statuti e le convenzioni delle Nazioni unite. Mercoledì la maggioranza conservatrice della Corte suprema è intervenuta in via eccezionale per autorizzare l’ordine di Trump nell’ultima riprova che gli Stati uniti stentano ancora a trovare gli anticorpi parlamentari per far fronte al regime autoritario di minoranza che continua a rompere ogni argine istituzionale. In particolare è stata normalizzata la guerra dichiarata agli immigrati usata come perno politico da Trump e la campagna di pulizia identitaria mediante la rimozione di massa di residenti ispanici che vi ha fatto seguito. La politica di crudeltà prosegue con deportazioni sistematiche e l’internamento di massa di famiglie immigrate (l’altro ieri è morto un altro detenuto messicano, l’ottavo decesso quest’anno di prigionieri dell’Ice, Immigration and customs enforcement), compresi diversi bambini. Una campagna utile soprattutto a mantenere nel desiderato stato di prostrazione la popolazione ispanica del paese - legale e non - e inibirne i voti prevalentemente democratici. A luglio e agosto Ice ha intrapreso grandi retate di lavoratori, spesso a venire deportati sono genitori stranieri di figli americani che rimangono “orfani” o vengono dati in affidamento, traumatizzati come le controparti separate dai genitori al confine. Né promette nulla di buono la notizia trapelata per errore ieri sul prossimo allestimento di un campo di addestramento alla guerriglia urbana per gli agenti Ice. In via di preparazione a Fort Benning, in Georgia, è simile ai finti villaggi arabi usati per l’addestramento dei marines simulando Iraq o Afghanistan. Quelli per gli agenti anti-immigrati, si legge sul bando pubblicato per l’appalto federale acquisito da Newsweek - verranno invece denominati “Arizona” e “Chicago” e dovranno somigliare a quartieri di città con grandi popolazioni di migranti. Nel bando il governo specifica che le strutture di addestramento dovranno simulare anche “ambienti con presenza di bambini”. Uno scenario sinistro di addestramento alle retate di famiglie civili che lascia presagire un’intensificazione della pulizia etnica e conferma le politiche para-naziste del regime Trump in materia di immigrati e la demonizzazione dei soggetti sociali deboli. Il via libera al blocco degli asili è in via solo preliminare, fin tanto che concluda l’iter definitivo nei tribunali federali, ma è l’ennesima indicazione della congiunzione perniciosa tra esecutivo dai poteri smisurati (eletto da una minoranza popolare) e una magistratura sempre più saldamente in mano repubblicana. Per i migranti fuggiti dal caos sociale e dalla violenza delle nazioni centroamericane intanto si chiudono per il momento le prospettive di accesso. Per i profughi accalcati al confine e stipati in centri di accoglienza di ong a Tijuana Ciudad Juarez e altre città messicane, la cattiva notizia si aggiunge a un’intensificata campagna di “interdizione” da parte delle autorità del governo di Andrés Manuel Lopez Obrador che sta onorando il ricatto che Trump ha imposto a lui e agli altri governi centroamericani: bloccare i migranti a casa propria o subire la funesta ira (commerciale) degli Stati uniti. Turchia. Liberi 5 giornalisti accusati di terrorismo di Victor Castaldi Il Dubbio, 14 settembre 2019 Li avevano accusati di reati gravissimi: favoreggiamento del terrorismo, eversione, attentato alle istituzioni, ma, dopo tre anni di ingiusta e vessatoria detenzione la corte d’appello di Istanbul ha ordinato la liberazione di cinque ex giornalisti del quotidiano turco di opposizione Cumhuriyet. Tra di loro anche il famoso vignettista Musa Kart, particolarmente inviso al presidente Erdogan per i suoi disegni irriverenti e molto critici nei confronti dell’autoritarismo del “sultano”. I cinque giornalisti stavano scontando una condanna per “complicità e favoreggiamento con gruppi terroristici, senza esserne membri”, come recitano gli ambigui e generici capi di imputazione. “Dopo la sentenza, aspettiamo la liberazione dei cinque ex giornalisti, già nelle prossime ore” ha dichiarato l’avvocato Tora Pekin. Laico, libertario e duramente ostile alla presidenza Erdogan, negli ultimi anni Cumhuryet era diventato una bandiera della lotta alla deriva totalitaria che ha colpito la politica e la società turca dal fallito golpe del 2016, al quale sono seguite pesantissime ondate repressive da parte del governo, con centinaia di migliaia di arresti tra militari, magistrati, avvocati, giornalisti, insegnanti. Dopo che la redazione, era stata falcidiata, l’editore era stato costretto ad aggiustare la sua linea; pur rimanendo critico verso il sistema Erdogan, Cumhuryet in questi ultimi due anni ha abbassato i toni e rinunciato al suo tradizionale stile sferzante nei confronti di qualsiasi potere. Un’autocensura figlia del clima da caccia alle streghe che si respira in Turchia, nonostante la luna di miele tra Erdogan e l’elettorato sia finita, come dimostra la bruciante sconfitta alle municipali di Istanbul. La notizia della scarcerazione dei cinque giornalisti è un bel segnale per chi da sempre difende la libertà d’espressione come uno dei pilastri dello Stato di diritto; in particolare l’avvocatura italiana saluta il proscioglimento dei reporter esprimendo una forte soddisfazione per quello che potrebbe essere uno dei primi tasselli del ritorno a una giustizia meno condizionata dagli interessi politici del presidente. Già nel 2006 una delegazione Cnf/Oiad composta dall’avvocato Roberto Giovene di Girasole, componente della commissione rapporti internazionale / Mediterraneo su delega del C.N.F., insieme agli avvocati francesi Fanny Vial, Jerémie Boccara e Lucille Collot, dell’Ordine degli avvocati di Parigi, aveva visitato la redazione di Cumhuriyet, simbolo della stampa di opposizione e dell’élite laica del Paese proprio in segno di solidarietà verso dei giornalisti che condividono con gli avvocati le stesse battaglie di libertà seppur su due fronti diversi. Il Ruanda ai migranti detenuti in Libia: “Siete i benvenuti” di Franco Nofori africa-express.info, 14 settembre 2019 Mentre alcune Nazioni africane, sbalordiscono il mondo, rifiutando di riaccogliere i propri cittadini che hanno tentato l’avventura europea, il Ruanda impartisce all’intero continente una lezione di umana solidarietà, dicendosi pronta ad accogliere un significativo numero di migranti africani rinchiusi nell’inferno dei centri di detenzione libici. L’annuncio di questa decisione è stato dato lo scorso martedì come frutto dell’accordo raggiunto tra l’agenzia Onu per i rifugiati, Unhcr e l’African Union. Accordo cui il Ruanda ha immediatamente aderito. A turbare le coscienze del governo e del popolo ruandese, è stato un servizio diffuso nel novembre 2017 dalla rete americana Cnn, che oltre ai maltrattamenti cui i migranti erano soggetti, mostrava anche come alcuni di questi fossero offerti - nel corso di aste appositamente organizzate - al miglior offerente come schiavi. Già allora il Ruanda, si era detto pronto ad accogliere un certo numero di questi migranti. Disponibilità che è stata ora consacrata dall’accordo menzionato. Del resto, l’esistenza di questi veri e propri lager, allestiti in territorio libico, non può più essere ignorata dal mondo, poiché, stando alle stime dell’Unhcr, sarebbero oltre 500 mila i migranti africani che languono in questi centri di detenzione, totalmente privi della libertà e dei più elementari diritti. Già nella prossima settimana, un volo organizzato dalle Nazioni Unite, sbarcherà in Ruanda 500 detenuti africani evacuati dall’inferno libico. In prevalenza si tratterà di bambini e di persone più vulnerabili, soprattutto originari del Corno d’Africa. Il governo di Paul Kagame è stato accusato dai politici di alcuni Stati africani, di aver proclamato la disponibilità all’accoglienza, perché generosamente retribuito dalle Nazioni Unite, accusa che è stata categoricamente smentita dal ministro ruandese per i rifugiati, Germaine Kamayirese, che ha detto: “E’ un’accusa malevola e infondata. La nostra decisione si basa esclusivamente su sentimenti di umana solidarietà. Gli stessi che ogni africano dovrebbe provare di fronte alla sofferenza di questi sventurati fratelli”. Che si tratti di genuina sofferenza l’ha più volte attestato Amnesty International, descrivendo i centri di detenzione libici come luoghi “orrifici e inumani”, in cui i malcapitati migranti si trovano soggetti a una routine di torture, stupri, malnutrizione e diffusione di malattie infettive, come la tubercolosi, favorite dall’assenza delle più elementari norme igieniche. L’Unhcr, stima che, allo stato, vi siano già in Libia quasi cinquemila persone, nell’impellente necessità di essere evacuate dai campi di detenzione per ricevere immediate cure mediche che salvino loro la vita o non pregiudichino irrimediabilmente la loro integrità fisica. Una volta in territorio Ruandese, i migranti saranno gestiti dalle Nazioni Unite che si adopereranno per ridistribuirli in altri Paesi africani, ma una parte di questi potranno anche restare in Ruanda ed essere inseriti nella società locale. Altri ancora (se lo vorranno) potranno essere rimpatriati nei loro Paesi d’origine, cosa che, però, appare piuttosto improbabile, giacché le provenienze più significative riguardano Somalia, Sud Sudan ed Eritrea: i primi due sono Paesi in cui infuria la guerra civile, il terzo è governato da una dittatura disumana. L’obiettivo dell’accordo in argomento, è comunque quello di portare alla totale eliminazioni dei centri di detenzione esistenti in Libia che, da parte sua, ha già annunciato lo smantellamento di tre siti: Misurata, Tajoura e Khoms. Tuttavia, qualora tutti questi centri fossero chiusi, molti osservatori internazionali, paventano un sovraffollamento ancora più deleterio, se non si troverà il modo di fermare, o almeno ridurre, l’imponente e inarrestabile flusso migratorio verso la Libia, ormai considerata una piattaforma per accedere all’Europa. Con questa iniziativa, il Ruanda si riconferma come il faro continentale dell’emancipazione africana. Situazione, questa che imbarazza alquanto i commentatori occidentali, sempre in bilico tra l’apprezzamento e la critica. Il presidente Paul Kagame, ha indubbiamente portato il proprio popolo a un benessere che fino a pochi anni fa era difficilmente ipotizzabile, ma non tutti i valori democratici, sono rispettati e l’opposizione al governo, così come il dissenso, sono ancora energicamente avversati. D’altra parte, la maggioranza del popolo ruandese ama il proprio presidente e gli è grato per averlo risollevato da uno dei più tragici stermini della storia contemporanea. In queste condizioni chi può dire quale sia la scelta più assennata? Tunisia. L’ombra del terrorismo sulla fragile democrazia di Federica Zoja ispionline.it, 14 settembre 2019 Sono oltre 1.500 i prigionieri detenuti nelle carceri tunisine con l’accusa di fare parte di organizzazioni terroristiche islamiche, mentre supera il migliaio il numero dei combattenti radicali rientrati nel paese nordafricano dopo aver partecipato, fra le file del sedicente Stato islamico (Is) o di altre reti integraliste, ai conflitti mediorientali. Un quadro a tinte fosche - reso pubblico dal Comitato nazionale per l’antiterrorismo - che potrebbe peggiorare ulteriormente se altri foreign fighters decidessero di tornare a casa: si calcola che siano partiti volontariamente per i fronti siriano e iracheno almeno 5mila tunisini, ma la cifra corretta potrebbe addirittura raggiungere quota 8mila. Uomini e donne che hanno partecipato a vario titolo e con ruoli diversi alla edificazione della Dawla (così i seguaci di Abu Bakr el-Baghdadi indicano il loro “califfato” islamico) e che, dopo la sconfitta del Daesh (acronimo arabo dispregiativo che indica appunto l’organizzazione Is), si sono sparpagliati in tutta la regione. Alcuni di loro hanno rinnegato la causa integralista, ma si tratterebbe, secondo indicazioni di intelligence, di una minoranza, a fronte di uno zoccolo duro che potrebbe tentare di destabilizzare nuovi scenari. In patria, si teme che possano saldarsi con gruppi jihadisti locali: nell’area montuosa occidentale, nonostante ripetute ed efficaci operazioni anti-terroristiche, sono ancora arroccate sacche di resistenza dei miliziani filo-qaedisti di Uqba bin Nafi e di quelli fedeli al califfato, gli uomini del Jund al-Khilafah. Non vanno sottovalutati neanche i cosiddetti “cani sciolti”, che hanno continuato a segnare il territorio tunisino nel quadriennio intercorso fra il 2015 (attentati del museo del Bardo e della località turistica di Sousse) e il 27 giugno di quest’anno, quando un duplice attacco coordinato avvenuto nella capitale ha dimostrato la determinazione integralista. Proprio questo evento ha convinto le autorità ad aumentare il livello di allerta e le misure di sicurezza non solo a Tunisi, ma in prossimità di tutti gli snodi nevralgici e dei siti sensibili del Paese. Nell’immediato, è il regolare svolgimento di un appuntamento cruciale per la giovane democrazia ciò che preme particolarmente al governo: il voto presidenziale di domenica 15 settembre (e un eventuale secondo turno due settimane dopo) giunge in un frangente delicato. A seguito del decesso del presidente Béji Caïd Essebsi, lo scorso 25 luglio, un temporaneo vuoto di potere ai vertici dello Stato ha reso indispensabile anticipare la chiamata alle urne di due mesi, lasciando invece immutato il calendario del voto parlamentare (6 ottobre). In una cornice sociale di sostanziale delusione nei confronti della classe politica, incapace di rilanciare la crescita economica e il processo democratico, la sirena islamica radicale potrebbe avere gioco facile nel reperire manodopera fresca, qualora i nuovi eletti non sapessero scuotere il paese dal torpore attuale. “La disoccupazione giovanile è strettamente collegata all’instabilità politica”, si legge in un recente rapporto della Banca africana per lo sviluppo, i cui vertici mettono in guardia i decision makers tunisini dai rischi di una Caporetto economico-sociale: oggi come otto anni fa, alla vigilia della rivoluzione, nelle aree rurali del Paese ha un lavoro solo un giovane su tre, mentre nelle città il rapporto è di uno a cinque. E pure fra i diplomati e i laureati niente è cambiato nonostante la fine del regime dittatoriale: fra il 30 e il 35 percento dei giovani è senza impiego. Nell’ultimo video propagandistico dello Stato islamico nella provincia di Kairouan, condiviso mediante social network, i seguaci del Daesh concentrano la propria attenzione sull’importanza del reclutamento di nuove forze in Tunisia, ben sapendo che il terreno seminato dalla disperazione è fertile. L’obiettivo dichiarato dalla Wilayat Kairouan è quello di prendere di mira i turisti stranieri, i tanto odiati “infedeli”. Ma al di là della consueta retorica integralista, il fine è pragmatico, più che ideologico: sgretolare l’unico settore economico in miglioramento, con un boom di presenze del 15 percento circa nei primi cinque mesi del 2019. Nonostante l’allarme per terrorismo e instabilità sociale, la Tunisia, infatti, è tornata in vetta alle località proposte dai tour operator mondiali. Se le previsioni del ministero del Turismo tunisino dovessero rivelarsi fondate, 9 milioni di viaggiatori avranno visitato la Tunisia a fine 2019. Una gallina dalle uova d’oro che, nel 2010, rappresentava il 21 percento del Pil nazionale, impiegando centinaia di migliaia di lavoratori, e che può ancora aspirare all’eccellenza. Sempre che sviluppo economico e sicurezza nazionale, due facce della medesima medaglia, vadano di pari passo, nell’agenda politica della nuova classe dirigente tunisina. Brasile. Marielle Franco, 18 mesi fa il suo omicidio, ancora sconosciuti i mandanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 settembre 2019 Con oggi, sono trascorsi 18 mesi dall’omicidio di Marielle Franco, la coraggiosa difensora dei diritti umani assassinata a Rio de Janeiro, insieme al suo autista Anderson Gomes, la notte tra il 14 e il 15 marzo 2018. Marielle, 38 anni, nera, bisessuale era in prima linea nel denunciare gli abusi della polizia e le esecuzioni extragiudiziali. Nel 2016 era stata eletta nel consiglio comunale di Rio de Janeiro. Come membro della Commissione statale per i diritti umani di Rio, aveva lavorato instancabilmente per difendere i diritti delle donne nere, dei giovani delle favelas, delle persone Lgbti e di altre comunità emarginate. Due settimane prima del suo omicidio, Marielle aveva presentato la relazione di una commissione speciale istituita dal consiglio comunale di Rio de Janeiro per monitorare gli interventi delle forze di polizia federali e la militarizzazione della sicurezza pubblica. Nonostante sei mesi dopo siano stati arrestati due uomini sospettati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio e sebbene le autorità giudiziarie brasiliane si siano impegnate a proseguire le indagini, Amnesty International ha sottolineato che non vi è stato alcun significativo progresso nell’individuazione di coloro che ordinarono il duplice assassinio e sulle loro motivazioni. All’inizio del 2019 Amnesty International ha sollevato 23 dubbi sul caso. Alcuni di questi nel frattempo sono stati risolti ma altri no: tra questi, l’uso nelle indagini del telefono cellulare dell’autista dell’automobile da cui venne aperto il fuoco, il percorso fatto da quest’ultima per arrivare sul luogo del delitto, le conclusioni delle indagini condotte dalla polizia federale. Soprattutto, resta priva di risposta la domanda cruciale: chi ha ordinato l’assassinio di Marielle? E perché?