Oltre le mura del carcere con la Croce della Misericordia di Davide Dionisi vaticannews.va, 13 settembre 2019 Udienza speciale del Papa ai Cappellani delle Carceri italiane, alla Polizia e al personale dell’Amministrazione Penitenziaria. Tessitori di giustizia e messaggeri di pace. Hanno scelto questo slogan i 250 cappellani delle carceri italiane che incontreranno Papa Francesco domani mattina in una udienza speciale in Piazza San Pietro. Arriveranno da tutto il Paese, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria e del personale che presta servizio negli Istituti di pena per raccontare al Pontefice che il loro primo impegno è, e rimane, quello di far sì che in prigione ci sia più umanità possibile, fattore indispensabile affinché i detenuti possano reinserirsi nella società. Saranno circa 11mila in rappresentanza delle 190 case di reclusione, guidati dall’ Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, Don Raffaele Grimaldi. “Papa Francesco più volte, come Pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita, è entrato nelle carceri, in luoghi di sofferenza, di emarginazione e di povertà, per parlare della libertà dei figli di Dio, per incoraggiare al cambiamento, e soprattutto per lanciare un grido di aiuto, con la speranza di porre l’attenzione nelle istituzioni, nella società civile, e verso tutte le comunità cristiane, affinché questi luoghi di dolore, siano per tutti una grande sfida di solidarietà e di civiltà” spiega Don Raffaele. La folta delegazione presenterà al Papa la Croce della Misericordia, realizzata dalla volontaria Luigia Aragozzini insieme agli ospiti della casa di reclusione di Paliano, il carcere di massima sicurezza in provincia di Frosinone che ospita unicamente collaboratori di giustizia, visitato dal Pontefice il 13 aprile di due anni fa. “È una Croce messaggio” riprende l’Ispettore dei cappellani “dove le immagini dipinte richiamano la nostra attenzione su alcuni episodi biblici, la Liberazione di Pietro e di Paolo dalle prigioni, il buon ladrone, e i Protettori, San Basilide (Patrono della Polizia Penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (Patrono dei Cappellani delle carceri). Sul fondo della Croce immagini di bambini con le loro madri in carcere. Questa raffigurazione vuole rappresentare il desiderio, affinché le tante madri con i loro piccoli possano scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena, in modo che, ai loro piccoli, loro malgrado, non venga tolta la speranza”. La Croce della Misericordia verrà benedetta dal Papa e verrà portata in pellegrinaggio negli Istituti di tutta Italia. Occuparsi di amministrazione della giustizia, senza mettere al centro di tutto la pena, e cioè il carcere, è l’obiettivo di tutti i cappellani. Incontrando i detenuti, ascoltando i loro desideri, i loro sogni per il futuro, stabiliscono una relazione che, prima di tutto, toglie tante donne e tanti uomini dalla solitudine. Ma è anche un modo per dare valore a queste persone e far partire così un cammino di accompagnamento verso il cambiamento, che, con pazienza, e a volte qualche ricaduta, realizza una vera rieducazione. “Sarà certamente un raduno di comunione, per vivere ancora di più il nostro senso di appartenenza ad una grande famiglia che lavora per fasciare le ferite di molti uomini e donne privati della loro libertà personale” sottolinea Don Grimaldi. “Sarà soprattutto una giornata per ascoltare, dalla viva voce del Successore di Pietro, parole di speranza e di sostegno per il nostro servizio non facile. La criticità delle nostre strutture, a causa del sovraffollamento, carenza di personale, creano grande difficoltà nello svolgere con serenità il delicato compito a cui sono chiamati tutti gli operatori penitenziari”. Al termine dell’udienza i Cappellani doneranno a Francesco una icona sacra, opera di un artista copto egiziano, raffigurante il volto di Cristo. Roberta Cortella. Il mio cammino con i ragazzi del carcere minorile di Francesca D’Angelo Famiglia Cristiana, 13 settembre 2019 La regista ha promosso la prima esperienza italiana di “cammino giudiziario” e con sei giovani detenuti ha percorso la Via Francigena. Ne è nato il docu-film “Boez”. L’idea è stata sua. Ed è arrivata con quell’impetuosa spontaneità che sembra caratterizzare tutte le decisioni di Roberta Cortella: 41 anni, una donna minuta, che sorride alla vita e non si sottrae alle sue provocazioni. La si potrebbe definire una guerriera in incognito: schiva, in apparenza fragile, preferisce stare dietro alle telecamere che non davanti. Ha una fede salda e profonda ma non la sbandiera: il suo credo si traduce in scelte, ovvie ai suoi occhi ma eccezionali per il resto del mondo. Una di queste tante scelte “ovvie” è la docu-serie Boez - andiamo via, che è andata in onda dal 2 al 13 settembre su Rai 3 (Boez è la firma di un writer “nel nome del quale raccontiamo una storia di speranza e rinascita”, spiega Cortella). Il progetto ha preso forma nel 2004 quando la regista e autrice partì, da sola, per il Cammino di Santiago. “Che poi sola non lo sei mai, sul Cammino”, si affretta a precisare. Lo dice come se fosse quasi scontato partire da soli, a riprova di come la sua fede la apra al mondo senza paura. Proprio durante il pellegrinaggio di Santiago, Cortella sentì per la prima volta parlare del “cammino giudiziario”: una pena alternativa al carcere, praticata in Belgio e che ha finito per prendere piede in Europa. Il meccanismo è semplice: proporre un lungo pellegrinaggio a piedi a un gruppo di carcerati, usando il cammino come strumento di formazione e riabilitazione. Su questa esperienza, prima inedita in Italia, Cortella ha realizzato un documentario, dal titolo La retta via. La pellicola è stata notata dall’autrice Rai Paola Pannicelli che ha proposto a Cortella di realizzare una versione italiana del “cammino giudiziario”, a favore di telecamera. Così è nato Boez: dieci puntate che ricostruiscono il viaggio a piedi di sei detenuti nel carcere minorile. Il gruppo viene condotto dalla guida escursionistica Marco Saverio Loperfido e dall’educatrice Ilaria D’Appolonio lungo la via Francigena: 50 tappe, da Roma fino alla punta della Puglia, per circa 900 chilometri. La serie, prodotto da Rai Fiction e Stemal Entertainment, è in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia. Inutile dire che il tema è coraggioso e complesso: vulgata vuole che chi ha sbagliato debba restare rinchiuso in carcere, senza più vedere la luce del sole. Boez racconta invece di persone che decidono di camminare al fianco di questi ragazzi che, probabilmente per la prima volta, accarezzano l’idea di poter cambiare e diventare delle persone migliori. Perché ha voluto dare vita a una serie così complessa, e potenzialmente esposta a critiche, come Boez? “Credo che la mia scelta abbia a che fare con la speranza”. In che senso? “Per me la speranza vuol dire apertura e flessibilità: iniziare a pensare diversamente, in termini di arricchimento e non per stereotipi. Prendiamo per esempio la nostra politica: spesso mi chiedo perché non si dia speranza aprendosi per esempio all’accoglienza. Questa, a sua volta, potrebbe essere foriera di altra speranza. Non dico che sia facile. Io stessa sono partita per il cammino prevenuta, ma spero che lo spettatore possa compiere il mio stesso viaggio: non identificare più i ragazzi con il loro reato e superare il cliché del delinquente. Forse solo così potremo iniziare a cambiare le cose”. In che senso? “Siamo cresciuti con l’idea che dietro al delinquente ci sia la volontà di delinquere. Il che, talvolta, è vero. Il più delle volte però alle spalle ci sono storie familiari devastanti e il reato è solo l’evoluzione inevitabile di tali premesse. La differenza tra me e loro è che io sono stata più fortunata. In Boez emerge per esempio con forza l’assenza della figura paterna: tutti i protagonisti hanno un padre che li picchiava, o li vendeva, o era a capo di una realtà criminale…”. Non deve essere stato facile stare davanti a tutta la loro sofferenza. Si è mai sentita impotente? “All’inizio pensi, o speri, che questo cammino li possa salvare. A parte il fatto che non bastano 15 giorni per redimersi da un passato così complicato e doloroso, mi sono accorta che dire “ti salvo” è un errore di prospettiva perché mette se stessi in primo piano. Se invece dico “ti aiuto” metto l’altro in primo piano, non me stesso. Ecco, è con questo secondo sguardo che ho cercato di affrontare il cammino”. Quanto la sua fede ha fatto la differenza nel rapporto con i ragazzi? “Sinceramente, in questo caso mi piace parlare di fiducia più che di fede. Io, così come tutto il resto della squadra, ho avuto fiducia in questi ragazzi e ciò ha permesso loro di vedersi, di volersi bene e avere a loro volta fiducia in se stessi. Ci sono però stati dei momenti di forte carità cristiana, ma non per merito mio: sono arrivati dalle persone che ci hanno ospitato, per la maggior parte suore, preti, frati…”. In cosa sono stati caritatevoli? “Ci hanno accolto, che non è poco, e con un’attenzione e un rispetto particolari, tanto che i ragazzi hanno subìto il loro fascino. Per esempio la storia di padre Jacques Mourad, che è stato rapito dall’Isis, ha fatto indignare il gruppo: sentivano la sua detenzione come ingiusta perché, a differenza di loro, lui non aveva commesso alcun reato. Don Francesco ci ha ospitato a San Magno (Fondi): era un ex dj e ha raccontato la sua conversione. A Venosa, padre Cesare ha invece discusso con i ragazzi di scienza e fede a telecamere spente”. Anche lei ha dato un aiuto sostanziale visto che ha deciso di prendere in affido uno dei ragazzi: Matteo. Perché l’ha fatto? “Tutti i ragazzi avevano un posto dove tornare dopo il cammino, tranne Matteo: all’ultimo il suo progetto di accoglienza è saltato. Lui, tra l’altro, arrivava direttamente dal carcere, quindi non aveva un luogo dove andare: sua mamma è morta da poco e i suoi fratelli sono sparsi in giro, in situazioni poco stabili. Io e il mio compagno (Marco Leopardi, co-regista della serie, ndr) ci siamo guardati. Non potevamo abbandonarlo al suo destino: sarebbe stato a rischio. Così abbiamo detto agli assistenti sociali che potevamo prenderlo per due mesi in affidamento. La cosa è andata bene e ora lui è ancora con noi, da svariati mesi”. Cos’è per lei la fede? “Sono nata in Friuli e sono cresciuta in un ambiente cattolico. Il mio parroco era un uomo molto attivo e presente nella comunità: non si limitava a dire le omelie ma andava nelle case delle persone, per aiutarle. Ricordo ancora quanto si adoperò per il terremoto del Friuli! Ecco, questa è la mia visione di Chiesa: un prete che bussa alla tua porta e ti aiuta”. Romania e Italia si scambiano i detenuti agenzianova.com, 13 settembre 2019 Lo Scip - Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, con la collaborazione dell’Aeronautica Militare ha eseguito quest’oggi un volo “particolare”, come avvenuto lo scorso 2 aprile. 16 cittadini rumeni arrestati in Italia sono stati trasferiti in Romania, mentre due latitanti rintracciati in quel paese Sono rientrati in Italia per scontare le rispettive pene detentive comminate dalle Autorità Giudiziarie dei due Stati. Il trasferimento dei detenuti sulla tratta Roma - Bucarest - Roma è avvenuto sull’Hercules C130J della 46^ Brigata Aerea, con la scorta del personale dello Scip, in applicazione della Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea che determina il reciproco riconoscimento tra stati UE delle sentenze penali. Le operazioni odierne, come anche le esecuzioni dei mandati di arresto europei, effettuate dai rispettivi uffici territoriali delle forze dell’ordine, sono state coordinate dal Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, che a Bucarest si avvale anche della presenza dell’Esperto per la Sicurezza, Capo dell’Ufficio Coordinamento Regionale per l’Europa Orientale della Direzione Centrale della Polizia Criminale. All’arrivo a Ciampino, espletate le formalità dell’arresto presso l’Ufficio di Polizia di Frontiera Aerea, i 2 detenuti rientrati in Italia saranno trasferiti presso le competenti Case Circondariali a disposizione delle autorità giudiziarie territorialmente competenti. Primo incontro Bonafede-Orlando. “Processi rapidi, priorità comune” di Errico Novi Il Dubbio, 13 settembre 2019 Che sarebbero stati loro due i protagonisti della partita sulla giustizia era chiaro. Così ieri mattina Alfonso Bonafede e Andrea Orlando hanno rotto gli indugi, si sono visti a via Arenula e hanno dato “avvio” a un “tavolo di confronto per un’analisi congiunta dei provvedimenti”. Un’analisi che “si concluderà entro settembre”. Dal ministero della Giustizia trapela, di fatto, solo questo. Oltre alla già nota, comune “consapevolezza” della necessità di una “drastica riduzione dei tempi del processo civile e penale”. Bonafede tiene a far sapere che si è trattato di un colloquio “cordiale e costruttivo”. Mentre Orlando non aggiunge altro alle parole del suo successore. In realtà la scelta di mettere subito sul tavolo i temi, che sono un’infinità, non è casuale. Non lo è neppure il fatto che l’attuale ministro della Giustizia e il suo predecessore siano riusciti a trovare il tempo per un incontro durato ben due ore anche in un giorno caldissimo sul versante sottosegretari. Perché se il “clima” è stato subito positivo, le distanze sono profonde. Non su tutto. Ma in alcuni casi sono destinate a non essere risolte entro la fine del mese. Innanzitutto la prescrizione: sullo stop dopo il primo grado Orlando ha ribadito tutta la preoccupazione, sua e del Pd. Innanzitutto per ragioni legate proprio a quella “rapidità” che sia i dem sia il Movimento 5 Stelle hanno voluto richiamare nel programma. Nel partito di Zingaretti e Orlando è radicata la convinzione che la possibilità di avere tempi illimitati dopo la pronuncia di primo grado indurrà le Procure a non selezionare più i fascicoli in base a una realistica possibilità di arrivare a sentenza definitiva. Manderanno avanti tutto, o quasi. E in appello finirà per crearsi un ingorgo sovrumano. Ma Orlando non ha mancato di segnalare anche l’inevitabile compromissione delle “garanzie”, che l’avvocatura continua a denunciare. È pericoloso lasciare gli imputati, a maggior ragione chi in primo grado è assolto, esposti al rischio di restare perennemente sotto processo: il predecessore di Bonafede al ministero di via Arenula ha ricordato anche questo. E ha segnalato la necessità di prevedere, intanto, ulteriori “finestre di controllo giurisdizionale” sull’operato dei pm. In modo da evitare che inchieste formalmente “al buio” servano in realtà per raccogliere elementi sui futuri indagati senza consumare i termini delle indagini. È una delle previsioni con cui il Pd vorrebbe integrare il ddl Bonafede. Un testo sul quale Orlando ha ribadito la condivisione per le parti relative al processo civile e alla fine delle “porte girevoli” tra magistratura e politica. Ma come per il nodo prescrizione, resta più cautela sul Csm, in particolare per il sorteggio con cui individuare i magistrati candidabili a Palazzo dei Marescialli. Una scelta che continua a trovare Orlando piuttosto critico. E tra i dossier che saranno approfonditi nei prossimi, ravvicinati incontri, c’è anche il decreto intercettazioni. Il vicesegretario pd ne è l’autore. Bonafede vorrebbe modificarne alcune parti. La maggiore difficoltà riguarda le norme che limitano pm e gip nel citare i brogliacci all’interno di richieste e ordinanze cautelari: nel suo testo, Orlando prevede che sia consentito il richiamo solo dei “brani essenziali”. Non è uno snodo insormontabile. Forse non lo sarà neppure la prescrizione. Anche se su quella norma, destinata a entrare in vigore dal 1° gennaio proprio come le intercettazioni, la partita è ancora tutta da giocare. Giustizia, il Pd: congelare la prescrizione, tutta la riforma di Bonafede va rivista di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 13 settembre 2019 Orlando dal Guardasigilli: la bozza non può essere ripresentata tout court come se nulla fosse successo. Nei giorni scorsi c’era stata una telefonata, ieri un lungo incontro. Oltre due ore a confronto, il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, e il suo predecessore Andrea Orlando, ora nei panni di vice segretario del Pd. Per evitare che il nodo della riforma della giustizia - e quello della prescrizione - si mettano di traverso e facciano inciampare il governo rosso-giallo sin dai primi passi. Il succinto comunicato diramato alla fine del colloquio può essere archiviato alla voce “incontro interlocutorio”, che tradotto dal politichese normalmente vuol dire che non è servito a prendere alcuna decisione. Una circostanza che, peraltro, viene confermata da entrambe le parti: più che altro è servito a definire un metodo - quello del dialogo, appunto - per evitare fughe in avanti e liti sui giornali. Nel merito, spiegano, si entrerà soltanto quando sarà completata la squadra di governo. Nella nota si parla di “clima cordiale e costruttivo”, che ha dato l’avvio a un tavolo di confronto per un’analisi congiunta dei provvedimenti che terminerà entro settembre. “È stata condivisa la consapevolezza della priorità della drastica riduzione dei tempi del processo civile e penale”. Ma se c’è un terreno su cui M5S e Pd si sono scontrati quando erano da due parti diverse della barricata, questo è proprio quello della giustizia. E ora, accorciare quella distanza in nome della realpolitik, richiede uno sforzo considerevole. Considerando, soprattutto, che c’è una data verso cui le lancette dell’orologio corrono a precipizio:1 gennaio 2020, data in cui entrerà in vigore la riforma della prescrizione (che prevede lo stop dopo il primo grado), fortemente voluta dai grillini e che la Lega aveva votato soltanto a patto che fosse abbinata a una organica riforma del processo penale. Sul punto, in una recente intervista alla “Stampa”, Orlando è stato chiaro: la “drastica cancellazione” è un “errore”, ma “dobbiamo discuterne”. Il vice segretario del Pd è rimasto nella segreteria e non è entrato nel governo anche per fare da grande mediatore. Ma c’è chi tra i dem, come il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, è molto esplicito: “Il minimo che possiamo chiedere è una norma che blocchi l’entrata in vigore mente si lavora a un quadro più completo”. La riforma della giustizia e del Csm, appunto. Quella che Bonafede aveva presentato in uno degli ultimi Cdm dell’era giallo-verde, per il Pd, non può essere riproposta sic et simpliciter. Non si può pensare che si prenda per buono - ha argomentato Orlando - un testo “costruito da due forze politiche che non ci coinvolsero minimamente”. Per il Guardasigilli, però, quell’impianto è considerata una trincea. “Con la mia riforma 1’80% dei processi penali si dovrebbe concludere in 4 anni. E una rivoluzione e conto di poterla portare avanti con determinazione”. La droga dei social che offende sia la memoria che la speranza di Aldo Balestra Il Mattino, 13 settembre 2019 Sono due gli aspetti che s’incrociano, e confliggono sempre di più, nella notizia del permesso concesso ad un ragazzo detenuto per aver ucciso selvaggiamente, quando era ancora minorenne e insieme a due complici, una guardia giurata. Permesso di poche ore per pranzare “con i soli familiari” in occasione del compimento della maggiore età, accompagnato dalla scorta di poliziotti penitenziari in una canonica messa a disposizione dal cappellano, a poche centinaia di metri dal carcere minorile di Airola. C’è un aspetto che attiene al diritto stricto sensu, alla corretta applicazione e al rispetto di leggi e ordinamenti, ed uno che riguarda il comune sentire, a cominciare da quello intimo e doloroso della famiglia del vigilante napoletano ucciso a botte per rubargli la pistola. Un sentire oltraggiato e ferito, alimentato vorticosamente dalla pubblicazione su Instagram, da parte di una cugina del giovane detenuto, delle foto scattate durante quel breve permesso: non solo un pranzo con i familiari, per il neo diciottenne Ciro da poco condannato a più di 16 anni di reclusione per quell’orrendo delitto alla stazione metro di Chiaiano, ma una vera e propria festicciola. Un party con tanto di palloncini, festoni e fotografie di rito, a cui hanno forse preso parte non solo i familiari stretti del ragazzo detenuto, ma anche (lo si sta verificando) altri parenti e amici. Il tutto a pochi giorni dalla celebrazione del processo d’Appello. Di fronte alle sdegnate reazioni che si sono levate alla pubblicazione dell’istantanea di Ciro che riceve il bacio della fidanzatina in punta di piedi, nella canonica addobbata a festa, ha fatto bene il Ministero di via Arenula ad aprire un’inchiesta a tutto tondo, dovendo ricostruire ogni aspetto, a partire da fondatezza e opportunità del cosiddetto “permesso trattamentale”. Samuele Ciambriello, Garante per i diritti del detenuto, ha ben ricordato sul Mattino che si tratta di una “chance”, non di un “privilegio”. La pena, dice la Costituzione, deve sempre tendere alla rieducazione del condannato. Fino alla richiesta del direttore del carcere, sostenuta dal buon comportamento del ragazzo (che mai, però, ha mostrato sinora segnali di pentimento), non sembrano emergere prima facie controindicazioni particolari. Altra cosa sono la valutazione dell’esistenza dei requisiti nella concessione da parte della Sezione Minori della Corte d’Appello (c’erano tutti i presupposti?) e, soprattutto, le modalità di svolgimento del breve permesso (Prescrizioni particolari? E quali? Chi poteva partecipare?). Su questo secondo punto sarà utile, evidentemente, valutare le relazioni della scorta penitenziaria. Non vorremmo però che questi aspetti, per i quali è utile un accertamento senza se e senza ma, distorcessero pericolosamente la percezione legislativa del permesso stesso, “beneficio accordato se ci sono i presupposti, non uno sconto di pena”, come ha ricordato il Capo dipartimento Giustizia minorile, Gemma Tuccillo. Il problema, allora, è soprattutto interrogarsi e riflettere ancora su come, e quanto, il gesto più praticato di questi tempi molto social, un gesto di apparente e innocente libertà, finisca - bene lo evidenzia Ciambriello - per trasformare tutti (oltre l’utile spunto ad occuparsi del caso) in “vittime e carnefici”, incidendo sulla carne viva del dolore e comunque formando, o coartando, coscienze e giudizi. Quelle foto pubblicate con disinvoltura (ci auguriamo inconsapevole) sui social sono un indiscutibile oltraggio al figlio e alla figlia di Franco Della Corte, un atto incontrollato e incontrollabile di volgare leggerezza. Christopher Lasch, opportunamente, ci ha ricordato come l’individualismo esasperato abbia ormai trasformato stili e comportamenti della nostra vita quotidiana. Il narcisismo proprio, e dei gesti altrui, ostentato sui social, anche dalla banalissima foto del primo giorno di scuola di un figlioletto fino al bacio della fidanzata del ragazzo assassino in permesso premio, o la ripresa video di folli corse in auto e persino la confessione in diretta di omicidi, questo narcisismo sempre più diffuso dimostra come - con la perdita del senso continente della realtà oppure l’inutile ostentazione o deformazione di essa - si finisca per mettere in discussione ciò che di vero, e magari codificato, già c’è. Ovvero il rispetto della riservatezza propria ed altrui, l’opportunità di un gesto, la sicurezza, la legge o magari la stessa considerazione della legge, sino - ma qui il discorso diventa assai più ampio - ai processi democratici e alla vita stessa. Finisce che sia messa in discussione la libertà propria, nel nostro caso quella di aver diritto e aspirare ad un graduale e consapevole ritorno in libertà dopo aver pagato il conto alla giustizia. E senz’altro si offende l’altrui, come quella sacrosanta di vivere in pace, senza offese, il proprio grande dolore per un padre ucciso a bastonate, in una balorda notte di marzo alla stazione metro di Chiaiano. La tragedia di Vittoria e il diritto di difesa che non può mai essere messo in pericolo di Pietro Gurrieri* Il Dubbio, 13 settembre 2019 Gentile Direttore, sono ad esprimerle il mio più vivo rammarico per alcune affermazioni, contenute nell’articolo pubblicato lo scorso 17 luglio dal Suo giornale, a firma di Errico Novi, dal titolo “Vittoria, avvocati contro: non difendere l’assassino”, palesemente distorsive della realtà dei fatti, e del contenuto di dichiarazioni da me rese a una testata giornalistica all’indomani della tragedia di Vittoria. Nell’articolo si esprime preliminarmente un giudizio critico, del tutto ingiustificato, su un articolo di Alberto Pezzini, avvocato e noto scrittore, pubblicato sul quotidiano giuridico on line Avvocati Rando Gurrieri, iscritto al registro nazionale della Stampa, riportandone il seguente estratto: “Non difenderei mai, mai, un uomo che ammazza un bambino, ne decapita un altro e si allontana scappando, perché esiste un giustificato motivo che è la mia coscienza: questa secondo me è la vera Indipendenza dell’avvocato, quella che caratterizza l’avvocatura”. Prosegue, il giornalista, rilevando che, con queste affermazioni, l’avvocato Pezzini “si schiera col collega che dirige il sito, Pietro Gurrieri, risoluto a sua volta nel chiedere, a proposito dell’assassinio di Vittoria, “che non ci sia un solo collega sulla faccia della terra che lo assista nemmeno come difensore d’ufficio”“. Ciò premesso, il dott. Errico Novi prosegue parlando, a proposito delle dichiarazioni sopra riportate, di “insolito anatema, giacché si assimila all’ormai consueta onda d’odio dirottata, oltre che sulle persone accusate dei reati più mostruosi, anche in direzione dei loro legali” e di “maledizione invocata da Gurrieri e poi rilanciata da Pezzini”, rilevando, infine, che tali condotte sarebbero state censurate dalle Camere Penali e concludendo con una serie di affermazioni, queste largamente condivisibili, in merito al rilievo pubblico e costituzionale della difesa e alla funzione dell’avvocato come garante di tale fondamentale diritto. Orbene, ritengo il contenuto dell’articolo in questione profondamente lesivo della mia dignità di cittadino e di avvocato e la ricostruzione dei fatti incompleta ed arbitraria. Innanzitutto, contrariamente a quanto indicato nel sottotitolo, non sono un penalista, essendomi dall’ormai lontano 1993, anno in cui ho prestato il giuramento forense, occupato in assoluta prevalenza di diritto amministrativo, come avrebbe potuto appurare l’autore dell’articolo. Il giornalista, invece, ha riportato alcune righe di un post privato da me pubblicato nella mia bacheca Facebook, e poi riprodotto in quella della pagina Facebook della testata Avvocati Rando Gurrieri, deliberatamente epurandolo dell’inciso iniziale, così da stravolgerne completamente il senso e da pervenire alla conclusione opposta rispetto a quella che era nell’intenzione del sottoscritto. Ho scritto quel post, dal titolo “Alessio, Simone”, di getto, a distanza di poche ore dalla tragedia. L’ho scritto da cittadino di Vittoria, di una comunità da quel momento avvolta da un dolore inenarrabile. L’ho scritto, pensando a questi due ragazzini, che frequentavano una scuola della città i cui piccoli studenti, compresi loro, ho incontrato almeno un paio di volte nel corso del mio incarico, negli anni passati, di assessore comunale all’Istruzione. Un post lungo, riferito a questa comunità, e non certo a quella degli avvocati, nel quale, ad un certo punto, ho scritto così: “Quant’è brutto dirlo per degli avvocati, ma vorremmo per un attimo, d’impeto, che non ci sia un solo Collega sulla faccia della terra che lo assista nemmeno come difensore d’ufficio!”. Una iperbole, come evidente per tutti, meno che per il redattore del Dubbio, che ha ritenuto (incredibile!) di cancellare il periodo iniziale, così, a mio sommesso avviso, rischiando di compromettere i doveri di verità e di completezza nell’informazione anche sotto tale profilo. Come hanno rilevato decine, centinaia di avvocati di tutta Italia, proprio quell’inciso “per un attimo, di impeto” sta a significare che, anche quando ci sono fatti che ci fanno inorridire, trasalire dal punto di vista dell’emozione umana al punto da portarci istintivamente, per un attimo, ad allontanarci dai nostri principi, nonostante tutto, superato quell’attimo, siamo tenuti a continuare a crederci. Credere, da uomini prima ancora che da avvocati, che tutti abbiano diritto ad un difensore e ad una difesa, indipendentemente dal delitto che siano loro contestati; credere che, come proclama solennemente l’articolo 24 della Costituzione, la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento; credere che ciascun accusato abbia comunque diritto ad un processo equo e celebrato nel rispetto assoluto delle regole; credere, ancora, che mai per un Avvocato, l’assunzione di una difesa, anche quando si trattasse di un crimine efferato e ci si trovasse di fronte ad un reo confesso, potrebbe implicare anche implicitamente una difesa delle azioni e della persona, piuttosto che, correttamente, dei suoi diritti; credere, ancora, che la difesa d’ufficio è istituto di centrale rilevanza costituzionale e di altissimo valore civile. Questi sono i principi nei quali, fin dal momento del mio giuramento, e pur non essendo un penalista, mi sono integralmente riconosciuto, e che, sia pure attraverso una iperbole, o un paradosso - ben sapendo che non si potrebbe celebrare un processo senza un Avvocato - ho inteso riaffermare nel mio post. Detto questo, non posso mancare di rilevare, con la stessa nettezza, che oltre al diritto alla difesa, esiste anche un diritto degli avvocati a difendere, di fiducia, a loro insindacabile giudizio, chi ritengano opportuno; così come, per quanti sono iscritti all’albo dei difensori d’ufficio, e pertanto obbligati a prestare la difesa, esiste anche il diritto, riconosciuto dall’articolo 97 comma 5 cpp, a chiedere di poter essere sostituiti per giustificato motivo. Così come non può esservi dubbio che un avvocato incaricato della Difesa in un procedimento come difensore d’ufficio che non ritenga, per le ragioni più disparate, di poter svolgere il proprio mandato con serenità, equilibrio, e senza pregiudizi, ben potrebbe, nello stesso interesse del proprio assistito, azionare la procedura di cui al ripetuto comma 5 dell’articolo 97 cpp. Com’è evidente, si tratta di principi irrinunciabili e non negoziabili e fanno bene le Camere penali a richiamare l’attenzione sulla loro centralità. Principi da me, e certamente anche dall’avvocato Pezzini, che se riterrà di intervenire, lo farà per conto suo, ritenuti indefettibili, come peraltro hanno compreso centinaia, migliaia di avvocati che si sono riconosciuti nel mio post e in quello, successivo, del Collega Pezzini, non scorgendo in essi alcun animus anche solo latamente offensivo rispetto al nostro giuramento di Avvocati. Ragion per cui l’articolo pubblicato sulla sua testata, per quanto concerne i riferimenti alla mia persona, oltre che a quella del Collega, è del tutto inaccettabile. Come è inaccettabile, offensivo e del tutto gratuito il riferimento a quel “cavalcare l’ondata emotiva che la notizia ha inevitabilmente determinato” e al “malcelato tentativo di acquisire consensi”. Un comportamento - fuori le righe da sciacalli - che non appartiene alla mia persona, né alla linea di una testata giornalistica, Avvocati Rando Gurrieri, che da quattro anni, senza richiedere alcun abbonamento diretto o indiretto per l’accesso ai contenuti, e con costi di gestione ancora superiori alle limitate entrate - assicura un’informazione quotidiana, tecnica e pluralista a decine di migliaia di avvocati, che hanno fatto di tale testata uno dei quotidiani giuridici più seguiti del paese. E nell’ambito del quale, giova rilevare, proprio ai temi ed ai principi richiamati dalle Camere penali è stato accordato larghissimo spazio, particolarmente nell’ultimo periodo, nel corso del quale l’Ucpi ha profuso un’intensa azione a loro presidio. Distinti saluti. *Avvocato Risponde Errico Novi Gentile Avvocato, mi colpisce, della sua lettera, la passione delle idee e dello stile argomentativo. Sui valori di fondo siamo evidentemente vicini. Riconosco che aver riportato in modo non integrale la sua frase ne ha alterato il senso. Così come è evidente che il ruolo istituzionale da lei rivestito negli anni scorsi nella comunità di Vittoria consente di comprendere davvero il significato delle sue parole. La passione per il principio di intangibilità del diritto di difesa, che può contagiare anche un giornalista, ha indirizzato il sottoscritto verso una lettura non pienamente coerente con il suo pensiero. Nel suo inciso “per un attimo e d’impeto” sta il riconoscimento di quel principio, di cui va sempre ribadita la dignità così come va fatto per la libertà di difendere, che è diritto, come da lei segnalato, di ogni avvocato. Mi auguro che il risultato finale consista nell’aver ribadito, anche grazie a lei, quanto quel principio sia cruciale per la tenuta della nostra stessa Civiltà, e che ne possa uscire rafforzata la comune determinazione nel continuare a difenderlo. Caso “Why Not”, nessun abuso contro de Magistris di Virginia Piccolillo Coriere della Sera, 13 settembre 2019 Corte di Cassazione: assolti i magistrati di Catanzaro. La Sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Salerno che aveva dichiarato prescritti i reati di abuso d’ufficio a carico dell’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e dell’avvocato generale Dolcino Favi, per aver sollevato dalle indagini Why Not e Poseidone l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, all’epoca pm a Catanzaro. Un annullamento che fa ritornare in vita la prima sentenza, emessa dal tribunale di Salerno per la cosiddetta “guerra tra procure”, che aveva assolto i colleghi dalle accuse di de Magistris di avergli sottratto illecitamente le inchieste per evitare che giungessero a conclusione dimostrando l’intreccio di complicità, favori e affari, all’ombra di una loggia massonica. Un’inchiesta che coinvolse alte cariche istituzionali e politici. Ispirando l’intervento dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. Molti ex imputati ieri si sono fatti sentire. A cominciare dall’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella: “Da de Magistris, falso Robin Hood, ho subito danni che spero verranno presto quantificati”. “L’abuso è storia”, ribatte l’ex pm. “Ci sono alcune cose chiare dalle quali non si può scappare”, dice invitando ad attendere le motivazioni. “La sentenza entra nella legittimità” e non nel “merito”. “E se anche dovessero mettere una pietra tombale, e io non avrò diritto a risarcimento, rimane per sempre che la revoca e l’avocazione furono condotte di abuso al fine di danneggiare un pm. Da una parte ci sono le persone perbene, dall’altra chi non lo è”. “Le parole di de Magistris fanno a pugni con il diritto”, replica l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Murone, invitandolo a non confondere chi non conosce il diritto. “La storia giudicherà lui e la sua carriera politica”, rincara l’ex avvocato generale Dolcino Favi. Il figlio Francesco, avvocato che lo ha difeso, puntualizza all’Adnkronos: “Senza l’esposizione mediatica sarebbe mai diventato europarlamentare e sindaco?”. Vincenza Bruno Bossio, ora deputato dem attacca: “Sono stata uccisa e poi resuscitata”. Assolti (come in primo grado) anche l’ex senatore Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi, deceduto, e Antonio Saladino. Il prestanome di una società può essere condannato se si dimostra il comportamento doloso Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2019 Reati tributari - Omessa dichiarazione Iva - Punibilità del prestanome o amministratore della società - Necessario il comportamento doloso. In materia di reati tributari e in particolare nel caso di omessa dichiarazione Iva, ai fini della punibilità del reato, nella specie l’amministratore di diritto della società o il prestanome, non basta il dolo generico ma è necessario il dolo specifico di evasione, integrato dall’intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella consapevolezza dell’illeceità del fine e del mezzo. Non è infatti sufficiente ai fini della colpevolezza, la mera assunzione dell’incarico di amministratore di diritto. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 28 agosto 2019 n. 36474. Finanze e tributi - In genere - Omessa presentazione della dichiarazione annuale - Dolo di evasione - Prova - Contenuto. In tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 6 maggio 2016 n. 18936. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - In genere - Amministratore della società con ruolo di mero prestanome - Responsabilità penale - Sussistenza. In tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire; a tal fine, è necessario, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza, da parte del primo, che l’amministratore effettivo distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa i beni sociali. Tale consapevolezza, se da un lato non deve investire i singoli episodi nei quali l’azione dell’amministratore di fatto si è estrinsecata, dall’altro, non può essere desunta dal semplice fatto che il soggetto abbia acconsentito a ricoprire formalmente la carica di amministratore; tuttavia, allorché, come nella specie, si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possono scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 febbraio 2006 n. 7208. Finanze e tributi - In genere - Reati tributari - Omessa dichiarazione - Responsabilità dell’amministratore di fatto - Sussistenza - Responsabilità a titolo di concorso dell’amministratore di diritto - Condizioni. Del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o Iva, l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 settembre 2015 n. 38780. Tributi e finalità (in materia penale) - Dichiarazione dei redditi - Omessa presentazione - Redditi di organismi societari - Reato di cui all’art. 5 del D.L.vo n. 74/2000 - Addebitabilità. Il reato di omessa presentazione della dichiarazione del redditi, previsto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, è addebitabile, nel caso di redditi conseguiti da organismi societari, non solo all’amministratore di diritto, formalmente tenuto all’incombente in questione, ma anche al soggetto al quale sia riconoscibile il ruolo di amministratore di fatto. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 settembre 2015 n. 38780. Potenza. Minuscola, buia e degradante, cella incubo nel carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2019 La denuncia del Garante: “incompatibile con i diritti e le libertà fondamentali”. Una cella minuscola, di dimensioni di circa 1,70 metro per 2,5, senza finestre e sprovvista di ogni elemento di arredamento, compreso il materasso che veniva utilizzato per l’allocazione di una persona in caso di situazione di crisi acuta. In sostanza una cella di isolamento ricavata al fondo della zona di transito del reparto detentivo, limitato e chiuso da un cancello, privo di finestre per il passaggio dell’aria e della luce naturale e privo di impianto di riscaldamento. Parliamo del carcere di Potenza, in Basilicata, visitato a novembre scorso dalla delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà presieduta da Emilia Rossi. Nel rapporto appena reso pubblico, il Garante osserva che tale cella di sicurezza non può essere adibita “a ospitare le persone nemmeno per tempi molto contenuti, rischiando, altrimenti, di contravvenire agli obblighi di cui all’inderogabile articolo 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Aggiunge inoltre che “l’utilizzo promiscuo e non definito di un ambiente quale quello destinato indifferentemente, nella Casa circondariale di Potenza, all’esecuzione di perquisizioni o ad azioni di “contenimento” ne manifesta l’assoluta inadeguatezza al trattamento sanitario di eventuali casi di acuzie”. La delegazione del Garante nazionale, pertanto, nel colloquio conclusivo della visita, ha immediatamente richiesto alla Direzione della Casa circondariale di Potenza di mettere fuori uso la stanza in questione ed eventualmente di ristrutturarla con le dotazioni necessarie a renderla un ambiente integrato al reparto infermeria e a esso funzionale, provvedendo in modo da scongiurare che di essa venga fatto un uso diverso da quello a cui deve essere destinata. Per questo il Garante, nel rapporto, raccomanda alla Direzione dell’Istituto di adempiere a quanto richiesto dalla delegazione al termine della visita e chiede di ricevere tempestive ed esaurienti informazioni a riguardo. In occasione della visita all’Istituto di Potenza, la delegazione si è anche intrattenuta con un rappresentante sindacale - il segretario regionale del Sappe Saverio Brienza - che ha richiesto l’incontro in rappresentanza delle Organizzazioni sindacali Sappe, Uspp e Cgil della Polizia penitenziaria, per segnalare alcuni problemi dell’Istituto: in particolare, il rischio igienico- sanitario a cui sono esposti gli operatori e la popolazione detenuta nel reparto “giudiziario”. La delegazione, sempre durante la visita, ha potuto osservare da vicino il problema del reparto. Si apprende, sempre nel rapporto, che è dislocato su tre piani, con struttura a ballatoio separata da reti a soffitto. Al momento della visita accoglieva 103 detenuti distribuiti nelle 44 stanze di pernottamento, di cui cinque singole per piano. Queste, definite “cubicoli”, sono sprovviste dell’angolo cucina e presentano il servizio igienico e il lavabo a vista. Peraltro, anche nelle stanze multiple il servizio igienico è solo teoricamente riservato, giacché sulla parete di separazione vi sono “feritoie” che rendono il locale del tutto visibile dall’esterno. L’intero reparto, inoltre, risulta attraversato dalla rete fognaria e le esalazioni sono percepibili all’olfatto (soprattutto di mattina, come riferito alla delegazione dagli operatori). Infine, esso è collocato accanto al deposito della caldaia che contiene le cisterne del carburante per il riscaldamento con persistenti dispersioni di gasolio. Nei locali delle docce (due con due postazioni per piano), all’epoca della visita le pareti e il soffitto presentavano vistose tracce di umidità e muffa. Anche nelle stanze di pernottamento, in particolare in quelle collocate al piano terra, erano visibili muffa e umidità sulle pareti in gran parte scrostate. Ma anche il reparto femminile non è da meno. Sempre dal rapporto si evince che la delegazione del Garante ha potuto osservare che il reparto era costituito da 10 stanze, 6 da 3 posti e 4 da un posto, quest’ultime con il bagno a vista con separé. Nelle camere multiple il bagno era separato ma si presentava in pessime condizioni di manutenzione, con vistosi segni di muffa sulle pareti. Secondo quanto riferito alla delegazione, è stato elaborato da diverso tempo un piano di ristrutturazione generale dell’Istituto finanziato dal Ministero delle infrastrutture che ha stanziato circa tre milioni per l’adeguamento agli standard di reparti giudiziario, donne e isolamento la cui realizzazione è stata rallentata da problemi legati alla natura sismica del terreno e dalla necessità di dare priorità alla soluzione di questi. Il Garante nazionale, per questo motivo, raccomanda alle competenti autorità dell’Amministrazione penitenziaria di provvedere al completamento di tutte le opere necessarie per assicurare l’adeguamento dei reparti. La Spezia. “La società non vuole vedere il carcere. Noi andiamo avanti” cittadellaspezia.com, 13 settembre 2019 Le parole della dirigente uscente di Villa Andreini: “Chi mi sostituirà troverà un reparto pronto”. I dati: il 60 per cento della popolazione detenuta è straniera, molti hanno problemi legati ad alcol e stupefacenti. “Noi siamo chiamati a svolgere un compito importante e a lavorare con una realtà che la società non vuole vedere. Voi lo portate avanti con dedizione e dignità. Anche se sto lavorando a Massa e qui sono in missione quando arriverà il mio successore troverà un reparto pronto. In questi anni siamo diventati una squadra, voi avete svolto il vostro dovere mostrando doti non comuni”. Una commossa Maria Cristina Bigi, direttrice di Villa Andreini, si è rivolta così ai suoi uomini in occasione del 202esimo anniversario di fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria. La cerimonia si è svolta questa mattina in Provincia alla presenza delle massime autorità militari, civili e religiose cittadine. “È stato un anno molto difficile, perché i numeri a livello nazionale stanno salendo e cominciamo ad avere dei tassi di sovraffollamento elevati - ha aggiunto, ai taccuini di Città ella Spezia Bigi -. Il disagio psichico aumenta e la gestione all’interno degli istituti rimane complessa. La casa circondariale spezzina ha una sua caratteristica e riesce a coniugare la sicurezza con il trattamento e a rispettare la dignità del detenuto, di questo ne sono molto orgogliosa anche se io adesso ho una missione su questo istituto che si risolverà con un’assegnazione ad un nuovo collega. Al momento a turno ci sono ottanta agenti compresi i ruoli apicali e la nostra casa circondariale ha sempre avuto una media di 210 detenuti. Ora siamo a 249, per noi significa che all’interno della casa circondariale non sono possibili gli spostamenti che ci consentono di aumentare la vivibilità. Nonostante questo, con l’aiuto di tutti, in primis delle aree pedagogica e sanitaria riusciamo a mettere in piedi quei progetti che consentono al detenuto di mantenere un rapporto con l’esterno e di svolgere una detenzione più che dignitosa. Gli agenti di Polizia penitenziaria garantiranno anche un servizio esterno al carcere, perché la visibilità rimane importantissima ma anche per un continuo rapporto tra le forze di polizia è fondamentale e fa parte della della sicurezza pubblica”. La dirigente è intervenuta al termine della lettura dei messaggi istituzionali del presidente Mattarella, del ministro della Giustizia e del capo dipartimento. Nel corso della cerimonia sono stati elencati anche alcuni dati relativi alla struttura carceraria spezzina. A fare il punto è stata la comandante della Polizia Penitenziaria Leonarda Nadia D’Anna: “Siamo chiamati a tutelare l’ordine e la sicurezza nell’istituto e della sicurezza pubblica. Elementi che implicano: vigilanza, custodia, tutela dei detenuti che alla Spezia sono più di 240. Si tratta di una popolazione carceraria eterogenea composta al 60 per cento da cittadini stranieri. Molti detenuti hanno gravi problematiche psichiatriche dovute ad alcolismo e tossicodipendenza. Il personale spezzino ha fronteggiato, nel corso del 2019, 57 eventi critici tra i quali 12 colluttazioni, 3 aggressioni nei confronti del personale, 39 casi di autolesionismo e altri gesti estremi. Il poliziotto penitenziario nella presa in carico di ciascun detenuto per tutta la durata della sua detenzione si trova a intervenire sempre sia in via preventiva che dopo un evento funesto. Il mio personale conta 111 unità presenti, di cui 9 donne. Gli agenti hanno immatricolato 246 detenuti, scarcerato 108 ristretti, provveduto all’espulsione di 7 detenuti, eseguito 101 prelievi del dna ai soggetti ristretti. Il locale Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, con un organico di 12 unità, ha effettuato 435 traduzioni di cui una “via aerea”, movimentando 684 detenuti; ha garantito 204 traduzioni per visite mediche ambulatoriali dei detenuti e 13 piantonamenti presso luoghi esterni di cura. Il personale complessivo impiegato nelle traduzioni è stato pari a 1.667, inoltre ha espletato il servizio di polizia stradale e il servizio di ordine pubblico presso Io stadio cittadino e in occasione di manifestazioni pubbliche. In ossequio ai principi e ai diritti costituzionalmente garantiti e previsti nel nostro O.P. sul mantenimento delle relazioni familiari, l’ufficio colloqui, formato da n. 4 unità, con la collaborazione dei poliziotti in servizio che consentono la movimentazione dei detenuti per tale finalità: garantisce una media di circa 400 colloqui mensili per un totale annuo pari a circa 4.800”. D’Anna ha proseguito nella sua relazione: “All’interno della casa circondariale il personale gestisce una media di telefonate mensili di circa 1.100 per un totale annuo pari a circa n. 13.200. Nell’anno 2019 ad oggi hanno effettuato accesso 595 minori per i colloqui con il familiare ristretto e, per essi si svolgono annualmente circa 70 incontri pomeridiani nella “sala ludoteca” nell’ambito della progetto su genitorialità padre e figli. Fondamentale è stato altresì il contributo dell’ufficio Comando, ovvero, collaboratori del comandante, impegnati: nelle comunicazioni di rito di ogni evento critico verificatesi in istituto agli organi Superiori dell’amministrazione penitenziaria, anche tramite Sistemi interni in uso, e alle Autorità Giudiziarie, all’espletamento delle attività di indagini di iniziativa o delegate, dalla procura della repubblica o subdelegate da altre forze di polizia (nel corso dell’anno sono stati redatti 95 atti di polizia giudiziaria. Un’unità, unitamente a un poliziotto dell’Ufficio trattamento, entrambe coordinate direttamente dalla sottoscritta, sono state impegnate nelle istruttorie disposte dalla magistrature di sorveglianza finalizzate a definire i contenziosi relativi ai ricorsi per inumana detenzione. Ad oggi sono state circa 300 (con una media dì 75 annui. Di primaria importanza è stato anche il contributo del reparto (con la formazione di un “gruppo di monitoraggio” e la nomina di due unità di polizia penitenziaria referenti) nelle attività di monitoraggio del fenomeno della radicalizzazione violenta e del proselitismo in ambito penitenziario. Il reparto ha provveduto al delicato compito di scorta e tutela all’ex Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, Inoltre, ha seguito le delicate e numerose attività trattamentali svolte all’interno dell’istituto ma anche attività organizzate all’esterno. A riguardo vorrei ricordare, l’impiego di un cospicuo numero dei miei uomini e di mezzi che sono stati necessari per realizzare degli eventi teatrali a cui hanno partecipato 17 detenuti, nelle date del 29 - 30 - 31 gennaio e 1 febbraio 2019 e che si sono svolte presso l’Auditorium del Centro Culturale “Dialma Ruggiero”, anche duraste le ore serali. Un servizio eccellente e di grande responsabilità. Ricordo inoltre che all’interno dell’istituto operano anche ditte esterne, con manodopera detenuta, seguiti anche dalle unità addette all’area Polizia Penitenziaria della Spezia”. Brindisi. La Provincia pubblica avviso per la selezione del Garante dei detenuti brindisireport.it, 13 settembre 2019 Domande di candidatura, pena esclusione, con carattere perentorio, entro le ore 12 dell’11 ottobre 2019. La Provincia di Brindisi comunica che è attivata la procedura per la presentazione di istanze per la nomina del garante per i diritti delle persone private della libertà personale, che dura in carica per un periodo pari a quello del presidente della Provincia. Alla carica di garante per i diritti delle persone private della libertà personale possono essere preposti tutti i cittadini e cittadine di uno degli Stati dell’Ue e che, per comprovata competenza nell’ambito dello specifico settore d’azione, nel campo delle scienze giuridiche, delle scienze sociali e dei diritti umani, offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni. Nella domanda di candidatura, redatta in carta semplice, pubblicata, insieme con l’avviso, sul sito www.provincia.brindisi.it, i candidati, uomini e donne, dovranno dichiarare, sotto la propria responsabilità, dati anagrafici completi e residenza; assenza di procedimenti penali in corso e di sentenze di condanna; allegare curriculum vitae, descrittivo delle attività d’interesse, passate ed attuali, dei titoli di studio e delle esperienze professionali, con elenco delle cariche pubbliche o in società a partecipazione pubblica, nonché di società private iscritte nei pubblici registri, ricoperte attualmente e precedentemente dalla persona che si candida. Breve relazione esplicativa delle motivazioni della candidatura. La domanda deve essere indirizzata al presidente della Provincia, Riccardo Rossi, (Via A. De Leo, 3 - 72100 Brindisi) e dovrà pervenire, pena esclusione, con carattere perentorio, entro le ore 12,00 dell’11 ottobre 2019. La designazione, da effettuarsi secondo la valutazione comparativa da parte del presidente della Provincia di Brindisi, terrà conto del curriculum vitae e della relazione motivazionale presentata da ciascun candidato o candidata. Per tutte le altre informazioni consultare il sito provincia.brindisi.it. Rovigo. Detenuti formati alla sicurezza sul lavoro per il futuro di Francesco Campi Il Gazzettino, 13 settembre 2019 In attesa del lavoro, un corso di sicurezza sul lavoro. In carcere. È nella casa circondariale di Rovigo che Assistedil, ente di formazione bilaterale, ha tenuto il mese scorso un corso sicurezza base rivolto ai detenuti. Ai 15 partecipanti, che hanno ricevuto una formazione in materia di igiene, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, è stato poi consegnato l’attestato previsto dalla normativa per l’accesso ai luoghi di lavoro. “Hanno partecipato con impegno e interesse al corso, senza il verificarsi di alcuna criticità”, evidenzia il presidente di Assistedil Franco Girardello, che rimarca come “progettare processi di formazione efficaci per i nostri utenti non significa consegnare un semplice pacchetto di indicazioni nozionistiche, al contrario ogni percorso è il risultato di un piano formativo organico che tende a strutturare, solidificare e rafforzare in maniera completa la crescita professionale che rientra nel progetto più ampio di Assistedil riguardo alla formazione continua. Dopo questa prima positiva esperienza, in accordo con la direzione della casa circondariale, proporremo anche attività professionalizzanti, in modo da permettere ai detenuti, una volta usciti, di reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro, anche attraverso i servizi al lavoro per i quali il nostro ente è accreditato in Regione”. Anche da parte del responsabile dell’Area Trattamentale della casa circondariale di Rovigo Claudio Mazzeo, arriva una sottolineatura della positiva dell’esperienza: “La direzione della casa circondariale, nell’esprimere apprezzamento per l’attività espletata, che ha consentito l’acquisizione di un attestato di formazione, primo passo per eventuali avvii di ammissione al lavoro sia all’interno dell’istituto che all’esterno, conferma la bontà dell’iniziativa e auspica che la stessa non sia fine a se stessa, ma rappresenti l’avvio di un percorso formativo professionale a carattere continuativo e permanente”. Il nuovo carcere di Rovigo, a fronte di una capienza massima di 207 ristretti, al 31 agosto ne ospitava 148, ben 110 dei quali di origini straniere. “L’offerta formativa - aggiunge il vicepresidente di Assistedil, Gino Gregnanin -propone due principali macro aree: la formazione in materia di salute, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, formazione obbligatoria prevista dai disposti normativi per lavorare in sicurezza, che nel 2018 ha visto la realizzazione di 84 corsi per un totale di 5.373 ore erogate, con il coinvolgimento di 928 utenti, e i corsi professionalizzanti, per raggiungere obiettivi professionali e personali con 7.342 ore di formazione erogate per 162 utenti”. Milano. La Triennale farà più bello San Vittore di Teresa Monestiroli La Repubblica, 13 settembre 2019 Il progetto per risanare gli spazi del carcere segna la nuova stagione di viale Alemagna. L’ampliamento del Museo del Design, inaugurato lo scorso aprile, è confermato. Così come il desiderio di rimettere mano all’edificio di viale Alemagna per riportarlo al progetto originale di Giovanni Muzio che prevedeva, tra le altre cose, un ristorante al piano terra affacciato sul giardino. Ma per il futuro della Triennale il presidente Stefano Boeri punta anche sull’internazionalizzazione, con una partnership siglata con la Fondazione Cartier per l’arte contemporanea di Parigi, e sulla collaborazione con “i vicini di casa”, prima di tutto le istituzioni che con Triennale condividono l’affaccio sul Parco Sempione, per il progetto del Parco delle Culture, e poi con il carcere di San Vittore con cui è stato avviato un cammino insieme già un anno e mezzo fa. Un percorso che oggi ha un tassello in più, “quello di riprogettare integralmente gli spazi interni del penitenziario, dalle celle al cortile - racconta il Boeri. Stiamo lavorando concretamente da settimane, siamo pronti per lanciare un concorso per la selezione di architetti che abbiano la spinta giusta”. Professionisti che dovranno entrare in carcere per ascoltare la voce dei detenuti e degli operatori, con l’obiettivo di “rendere il penitenziario un posto più bello”, aggiunge il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano. “Non possiamo più permetterci di lasciarlo così. A San Vittore gli spazi sono pochi, ora è il momento di ripensarli. Dopo il bando cercheremo i finanziamenti. Per ora è un sogno, se si realizza sarà un grande servizio per la città”. A un anno e mezzo dal suo insediamento il presidente Boeri fa il primo bilancio e al di là dei numeri la mostra Broken Nature ha chiuso con 281 mila visitatori, il Museo del Design in cinque mesi ha staccato 55 mila biglietti -tratteggia il futuro di Triennale. In cima ai provvedimenti da realizzare c’è l’espansione del Museo del Design per cui il governo ha promesso 10 milioni di euro. Uno stanziamento firmato dall’ex ministro dei Beni culturali e confermato dal successore Franceschini. Appena l’iter burocratico dei soldi sarà pronto, sarà pubblicato un bando di gara internazionale per scegliere lo studio di architettura che dovrà disegnare il nuovo spazio ipogeo che si estenderà sotto il giardino per quattromila metri quadrati. Nel frattempo sarà nominato un comitato che si occuperà delle nuove acquisizioni della collezione e delle collaborazioni con archivi, case museo e musei d’impresa. È stato affidato invece all’architetto Luca Cippelletti l’incarico di seguire i lavori sul Palazzo dell’Arte. Piccole modifiche degli spazi per tornare all’idea di Muzio, con l’ampliamento dell’area bambini e l’intento di trattare con la discoteca Old Fashion per fare della sala da ballo un ristorante. Lavori che non interferiranno con l’apertura della Triennale, che ha studiato il programma “Parla ascolta guarda fai”, a cura di Umberto Angelini, direttore del Teatro dell’Arte, che dal 5 ottobre invaderà gli spazi con sperimentazioni e performance, proiezioni, installazioni e laboratori. Il cartellone prosegue con l’allestimento di uno skate park al piano terra per la mostra “Play!”. E nel 2020 arriveranno le mostre su Enzo Mari, Carlo Aymonino, Giancarlo De Carlo e Vico Magistretti. Avellino. Libertà è parola di scavo. Note a margine di una tentata evasione di Dario Stefano Dell’Aquila napolimonitor.it, 13 settembre 2019 Si presenta oggi alle 17,30, al Circolo della stampa di Avellino, il libro di Beppe Battaglia, “Le Tre Libertà. Fotogrammi di un’evasione e altri modi di uscita dalla prigione” (Sensibili alle foglie 2019). Alla presentazione organizzata dalla Caritas di Avellino partecipano Rita Bernardini, Aristide Donadio, Carlo Miele, modera Giulia Argenio. Se volete comprendere il senso della parola libertà dovete andarla a cercare nel luogo del suo opposto, il carcere. Questo insegnamento di Michel Foucault è ben raccolto nel libro di Beppe Battaglia che racconta una storia vera, vissuta in prima persona. Il tentativo di evasione dal carcere di Favignana, siamo nel 1975, attraverso un tunnel che, nelle intenzioni dei reclusi, deve superare il muro di recinzione e portarli in prossimità del mare. Di qui un motoscafo avrebbe consentito loro di raggiungere la costa e guadagnare la libertà. Compatto, leggero e ironico il racconto si snoda tra gli stratagemmi e i piani di scavo che sono insieme dimostrazione di arguzia e di quella particolare forma di tenacia che si è disposti a mettere in atto solo in un caso, quando è in gioco la nostra libertà. Un libro che fa memoria su cosa era il carcere in quegli anni: un costante clima di violenze, intimidazioni, censura e arbitrio. Un carcere disciplinato dai regolamenti fascisti, nel quale si adoperavano a scopo punitivo i letti di contenzione, e che proprio nel 1975 avrebbe cominciato un lento percorso di riforma normativa. Un carcere nel quale i detenuti erano numeri di matricola senza nome e senza futuro. Epperò, questo libro è qualcosa in più di uno spaccato di una epoca che non c’è più o di un piccolo diario personale. È una riflessione più che mai attuale sul significato della parola libertà. Perché non esiste una sola libertà, spiega Battaglia, c’è una libertà concessa, una conquistata e una comprata. Tra tutte le forme di libertà possibili quella più bella è quella che ci si conquista da soli, anche quando sembra impossibile, quando si è destinati a fallire, quando lo sforzo richiesto è ben al di sopra delle nostre possibilità. Ciò nonostante, contro ogni evidenza razionale, magari contro anche il buon senso che suggerirebbe pazienza, questa ricerca della libertà impossibile è ciò che ti fa sentire vivo, intimamente, che rende possibile sopportare i regimi detentivi più duri, finanche l’isolamento o che ti fa superare la paura delle punizioni e delle sanzioni, fisiche prima ancora che giuridiche. Nel soffio di vento che si avverte al termine del tunnel, dopo anni di privazioni e assenza di cielo e sole, nell’ipotesi del mare che si immagina al di là di un muro, nelle radici di un albero, nella segreta soddisfazione di sfuggire ad un guardiano ottuso e violento. Nel tempo che è trascorso da quella storia, oltre quaranta anni, sono mutate molte cose, prima tra tutte la tensione politica e ideale che attraversava quegli anni. Beppe Battaglia, uscito dal carcere dopo aver espiato fino in fondo la sua pena vi è subito rientrato, ma in veste di operatore sociale, diventando presto una delle figure più stimate in quello che resta un difficile campo dell’intervento sociale. Se molto, forse tutto è cambiato da allora, incluso il protagonista di questa storia, rimane immutata la tensione che era alla base di quel tentativo e che ci insegna, per usare la bella metafora di Battaglia, che “ci sono parole che si pesano sulla bocca e altre che si raccontano con le mani. Libertà è una di queste parole, è parola di scavo”. La libertà è “parola di scavo”, non si può stare fermi ad attenderla, occorre muoversi per conquistarla e poco importa se l’obiettivo non è subito raggiunto. Ognuno come può o come meglio crede, ma ciascuno ha diritto a liberarsi dalla propria prigione (qualunque forma essa abbia) o anche solo a desiderare di farlo. Perché sappiamo bene che la libertà, in fondo, altro non è che desiderio di libertà. Multare i buoni di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 13 settembre 2019 Al netto di una quota standard di rigidità burocratica, l’agente della polizia ferroviaria di Foggia capace di multare i volontari che portano (da vent’anni!) coperte ai barboni perché si aggiravano tra i binari senza regolare biglietto incarna bene lo spirito del tempo. Che ondeggino su un gommone o bivacchino dentro una stazione, gli invisibili procurano un certo fastidio alla maggioranza ex silenziosa. Deturpano la perfezione del quadro e creano ansia, in quanto pericoli potenziali e stimolatori di sensi di colpa. Chi è infastidito dalla loro presenza si illude che non lo sarebbe dalla loro assenza. In realtà nessuno è contento di sapere che i profughi restituiti al mittente finiscono poi per morire nei campi libici e che le vite dei “senza fissa dimora” sono a tempo determinato perché non riescono ad adeguarsi alle regole del gioco sociale. Semplicemente non ritiene che tocchi a lui occuparsene e vorrebbe che lo Stato glieli togliesse dal campo visivo per non essere costretto a pensarci. Invece non solo lo Stato è incapace di svolgere il suo ruolo di spazzino delle emozioni, ma consentendo ai privati di fare del bene, finisce per far sentire peggio chi quel bene non lo fa. Perciò la scoperta di qualsiasi magagna che riguardi il pianeta dei volontari è sottolineata con tanta enfasi e accolta con tanto sollievo. A proposito di sollievo, mi consola la ragionevole certezza che le multe per eccesso di umanità verranno annullate o che, alla peggio, le pagherà Salvini. Edward Snowden: “Lotto perché Internet torni di nuovo libero. Zuckerberg? Si pentirà” di Roberto Saviano La Repubblica, 13 settembre 2019 Immaginate di aprire il vostro computer e di trovare sul desk un documento non redatto da voi che raccolga in ordine tutti i dati della vostra vita. Quando vi siete diplomati, la foto in cui siete allo stadio, il documento della patente, gli audio mandati su WhatsApp. E poi, scavando, ogni singolo dettaglio: una foto di quando eravate ubriachi a una festa dieci anni fa, il dettaglio di un bacio dato alla moglie del vostro migliore amico che entrambi avete giurato di non raccontare e di non far accadere mai più. E ancora: l’elenco di tutti i porno che avete visto, la mappatura di ogni commento stupido e sessista detto in una telefonata. Un selfie da nudi, la foto fatta al compleanno di vostra madre, un video al museo del Louvre. Ebbene, questo documento esiste. O meglio, potrebbe esistere e non è una fantasia distopica, né un’esagerazione: la persona che di tutto questo ha portato prova, documentazione, esperienza diretta ce l’ho davanti ai miei occhi ora ed è Edward Snowden. Non cercate di catalogare in mente, andando a ritroso, le cose fatte o i file inviati che potrebbero esporvi; troppo tardi, è ormai cosa irrimediabile. E anche se aveste vissuto come un monaco trappista nelle alture del Golan, qualche elemento per mettervi in imbarazzo lo si trova sempre. Ah, sia chiaro, non ci sono reati in quest’elenco, nemmeno uno. E a ben vedere neanche immoralità, ma elementi personali, gusti, contraddizioni, errori, passioni di cui dovreste rispondere solo a voi stessi o a chi decidete di metterne a parte ma che, se finissero nelle mani di qualche “giornalista” pagato (o a qualche “tribunale”, dipende dallo Stato in cui vivete) per fare killeraggio sulla vostra reputazione, comprometterebbero la vostra immagine pubblica e dovreste spendere tempo e energie a giustificarvi. Non tutti abbiamo un profilo pubblico, potreste obiettare. Non siamo giornalisti, né volti della tv, non siamo politici né scrittori. Vero, eppure paradossalmente questo genere di informazioni, se rese pubbliche, fanno più danno alle persone comuni che, da sole, si trovano costrette a difendere il proprio privato all’interno di una comunità di persone in carne e ossa, che giudicano e stigmatizzano, e non di odiatori virtuali da social media. Ora però calmate il respiro, nessuna paranoia. Non c’è nessuno che vi stia spiando. Nessuno con occhi voce orecchie; ma ci sono strutture tecnologiche che raccolgono tutto, con il consenso del vostro governo e all’occasione, se serve, se fate qualcosa che non va fatto, se diventate nemico di qualcuno, le informazioni disponibili su di voi verranno selezionate e consegnate a chi potrà servirsene in modo lecito o illecito, secondo arbitrio. Cosa avete fatto? Molto spesso nulla, ma è bastato spiarvi nella vostra normale vita di tutti i giorni per rendervi “mostri”. Snowden ha scritto un libro, Errore di Sistema, in cui racconta come sia riuscito a scoprire tutto questo e come la sua vita lo abbia portato a scegliere di svelare la più grande violazione di massa della privacy mai accaduta in una democrazia. Attendevo questo libro da anni e tra le mani ho non il diario di un esiliato, né il racconto di un testimone, ma la lucida analisi di un intellettuale al quale ho molte domande da porre. Edward, quindi non c’è modo di difendere la propria privacy? “Non puoi pensare che non ti interessa la privacy perché non hai nulla da nascondere, sarebbe come dire che non ti interessa la libertà di stampa perché non ti piace leggere o che non ti importa della libertà di culto perché non credi in Dio. La privacy è l’espressione individuale di un diritto collettivo. Ma quando costruiscono un sistema che cataloga, immagazzina, sfrutta gli scambi tra esseri umani, per usarli contro di noi, devi stare in guardia e chiederti: e ora cosa ci succederà?” Snowden mi sta parlando da uno schermo, mi parla dal suo esilio lungo ormai sei anni. Da quando nel 2013 ha rivelato ciò che accadeva, gli Stati Uniti gli hanno revocato il passaporto e lo hanno denunciato per aver rivelato i programmi che la Nsa: questo è ciò che si sa di lui. Nel libro c’è tutto il resto. Il suo primo atto di hackeraggio lo fa a sei anni quando, per andare a dormire due ore dopo l’ordine della madre, cambia l’orario di tutti gli elettrodomestici di casa, riuscendo a ingannare la famiglia e ad andare a letto più tardi. La sua prima operazione importante risale ai suoi sedici anni, quando scopre che il sito di Los Alamos può essere “bucato” per trovare documenti ad uso interno. Chiamano a casa, la madre crede che abbia fatto danni, invece vogliono assumerlo, ma non sanno che è minorenne. Edward Snowden è il classico nerd che passa le giornate sul Web e con i videogiochi. Quando non è collegato, Edward pensa a quando si collegherà e nel suo libro racconta benissimo la trasformazione del Web. “So bene quale luogo tossico e insano sia diventato oggi il Web, ma dovete capire che per me, quando ci sono entrato in contatto per la prima volta, Internet era qualcosa di totalmente diverso. Era come un amico, un genitore. Tutti indossavamo delle maschere, eppure questa cultura dell’’anonimato attraverso la polionimia’ produceva più verità che falsità, perché aveva un carattere creativo e cooperativo, più che commerciale e competitivo. Dopo la bolla... Le aziende capirono che le persone, quando si trovavano online, erano più interessate a condividere che a spendere, e che la connessione umana che Internet aveva reso possibile poteva essere monetizzata: dovevano semplicemente trovare il modo di inserirsi in questi scambi sociali e trarne profitto. Così è iniziato il capitalismo di sorveglianza, decretando la fine di Internet per come la conoscevo io”. Come è avvenuto, in concreto, questo passaggio? “Le persone, attirate dalla maggiore facilità d’uso, hanno preferito abbandonare i propri siti personali - che richiedevano un costante lavoro di manutenzione - a favore di pagine Facebook o account Gmail, dei quali, però, erano proprietari solo nominalmente. Chi era succeduto alle società che avevano fallito nell’e-commerce, perché non erano riuscite a trovare nulla che ci interessasse comprare, ora aveva un nuovo prodotto da venderci. Quel prodotto eravamo noi stessi. I nostri interessi, le nostre attività, la nostra posizione e i nostri desideri”. Se avessi difronte Mark Zuckerberg, cosa gli diresti? “Non penso sarebbe interessato a conoscere la mia opinione, perché mi pare un uomo piuttosto sicuro di sé”. Insisto... “Gli chiederei: come vuoi essere ricordato? Credo che quando Zuckerberg invecchierà, si guarderà indietro, vedrà il suo fascicolo personale e si rammaricherà di non aver usato le risorse di cui oggi dispone per qualcosa di più nobile e importante, che non vendere più pubblicità”. Si può recuperare la libertà del Web? “Non credo che possiamo riportare le cose come erano un tempo, ma penso che possiamo ricordare che esistono dei valori e rispettarli. Ci sono persone più intelligenti di me, persone come l’inventore del World Wide Web, Tim Berners, che si sta dedicando a una cosa che si chiama re-decentralizzazione di Internet”. Il punto di caduta del tuo discorso è che, in definitiva, non usiamo più il Web, ma siamo usati dal Web... “I cittadini oggi sono meno consapevoli di ciò che accade nelle nostre democrazie e, invece di essere soci della rete, sono diventati oggetto della rete. Quello che sentiamo è un malcontento crescente, perché vediamo il modo in cui queste tecnologie vengono utilizzate contro di noi”. Che cos’è la re-decentralizzazione? “Re-Decentralizzare, ossia fare in modo che il sistema non abbia più bisogno di trattenere i nostri dati per fornire servizi. Per capire il motivo per cui Internet è diventato quello che è oggi, dobbiamo ragionare in termini di servizio pubblico. Tu paghi l’acqua e le società che gestiscono servizi idrici non pensano a come la usi. La stessa cosa vale per l’elettricità. Ma quando si parla di Internet, o di qualsiasi forma di comunicazione che utilizzi Internet, come ad esempio le smart tv, non ti permettono di usare una banale connessione Internet che non possono controllare. C’è un’aggressiva resistenza alla crescita della crittografia. Vogliono poter vedere per cosa usi Internet e applicare tariffe diverse in base al traffico e ai siti che frequenti. Questa è la sfida, questo è il servizio pubblico. Internet è stato trattato in maniera eccezionale e diversa da qualsiasi altro servizio pubblico”. Ci fermiamo a riflettere su come la nostra generazione sia l’ultima ad aver vissuto uno spazio di crescita fuori dalla tecnologia. Snowden dà una lettura non scontata sul perché la tecnologia abbia un’attrazione magnetica sui giovani, sul perché stare sullo smartphone, connessi, costituisca un desiderio irrefrenabile... “I giovani sono naturalmente affascinati e attratti dalla tecnologia perché le macchine non discriminano. È il primo vero incontro che i bambini hanno con una realtà in cui vengono trattati non da bambini, ma come gli altri, perché un computer o uno smartphone non coglie la differenza. Ciò che è cambiato, rispetto a quando ero bambino io, è che la tecnologia con cui interagivo non si ricordava di noi. Accendevo la macchina, la usavo e la spegnevo, e quando tornavo a usarla non si ricordava chi fossi o cosa avessi fatto l’ultima volta, non aveva memoria”. Cosa pensi della condivisione sui social delle fotografie dei bambini? Sarebbe davvero preferibile evitare di pubblicarle? “È estremamente pericoloso il fatto che oggi, partendo dalle immagini che le mamme postano di un’ecografia su Facebook, Twitter o Instagram, la storia privata dei bambini venga catturata e conservata, e che non sia posseduta o controllata da chi l’ha creata. Sono terze parti, aziende, gruppi di aziende o governi che assoldano queste società come ‘delegati’ per avere informazioni. Quello che cercano di creare è un ‘grafico socialè a partire da una semplice connessione tra persone che conosci, con cui parli e interagisci e alle quali importa della tua vita. O almeno questo è quello che accadeva all’inizio della mia carriera nella comunità dell’intelligence”. E poi cos’è successo? “Ora quello che fanno, una volta raccolte le informazioni su di te e sulla tua vita, è arricchire il grafico, per costruire il tuo fascicolo personale”. In termini pratici questo cosa comporta? “La differenza tra me bambino e la mia generazione è che io potevo fare errori, potevo dire cose terribili, provare momenti di vergogna e fare cose di cui mi pentivo e che facciamo tutti da piccoli, perché fare errori ci fa crescere. Oggi invece le persone sono desensibilizzate perché sanno che quello che hanno detto rimarrà, non puoi dire che era stato un errore e devi difenderti e giustificarti e finisci per rafforzare un’identità in cui non ti ritrovi più, che non volevi, ma è troppo tardi: sei intrappolato nel tuo passato. Ogni cosa che facciamo ora dura per sempre, non perché vogliamo ricordarla, ma perché non ci è permesso dimenticarla”. Vuoi dire quindi che qualsiasi cosa diciamo o scriviamo ci perseguiterà? “Viviamo gli errori come un archivio. Molti giornalisti si chiedono, ad esempio, se io sia un eroe o un traditore, perché ci piace l’idea competitiva di schierarci, di scegliere una squadra. Quello che neghiamo sono le nostra capacità, credendo di essere incapaci sia di fare del bene che di evitare il male. Dicono: non sono Gandhi, non sono Martin Luther King, ho le bollette, ho dei figli e voglio solo andare a casa e guardare il mio programma preferito. Beh, anche Gandhi voleva una vita felice. Io non sono Gandhi, sono una persona semplice, ma amo una cosa: amo l’idea che possiamo connetterci con tutte le persone del mondo e costruire legami di fratellanza, costruire reti oltre barriere di lingua, confini, culture e diventare migliori tramite uno scambio. Ma quando costruisco un sistema che cataloga, immagazzina, sfrutta e arma questi scambi contro di noi a beneficio di coloro che ottengono informazioni che ci riguardano, non posso fare a meno di chiedermi: cosa succederà?”. Una volta, Edward, hai detto che il vero valore di una persona non si misura dai valori in cui sostiene di credere, ma da che cosa è disposto a fare per proteggerli. Se non pratichi i valori in cui credi, probabilmente non ci credi fino in fondo. Non senti di non star praticando i tuoi valori vivendo in Russia, un Paese che viola i diritti umani, un regime che risponde a un unico uomo e a uno strettissimo gruppo di oligarchi, dove i tribunali e i processi sono costruiti per impartire condanne e mai (se non in casi rarissimi e spesso manipolati) assoluzioni? “Molte persone dimenticano che non è stata una mia scelta vivere in Russia. Ero a Hong Kong in viaggio verso l’America latina quando il governo americano, l’ex segretario di stato John Kerry, mi ha annullato il passaporto e sono atterrato in Russia. Di sicuro avrei potuto collaborare con la Russia e dire che era il posto più sicuro del mondo per una persona come me e mi avrebbero accompagnato in limousine fino all’hotel, ma ho rifiutato. Mi è costato molto negli anni. Sono stato intrappolato in quell’aeroporto per circa 40 giorni. Da lì ho fatto domanda di asilo in 27 Paesi nel mondo, inclusa l’Italia, ma anche Francia, Germania, Norvegia: i Paesi che immaginiamo rispettino i diritti umani. Ma ogni volta che si arrivava alla decisione e pensavamo fosse una decisione positiva, i miei legali sentivano che una di “quelle due persone” aveva chiamato i ministri degli Esteri di quei Paesi, e quelle due persone erano John Kerry, il segretario di Stato o il vicepresidente Joe Biden. E così ero intrappolato. Non sapremo mai perché i russi mi lasciarono uscire dall’aeroporto, ma al momento ero l’uomo più ricercato al mondo. C’erano giornalisti che si affollavano là fuori tutti i giorni. Ho avuto un asilo temporaneo, per un anno, e dopo quell’anno non mi è più stato garantito asilo. Non ho più scorta, agenti di protezione, vado in metropolitana, prendo il taxi e pago l’affitto come chiunque altro. È una situazione rischiosa e non ne ho il controllo, ma la realtà è che il motivo per cui mi va bene vivere così, nonostante sia frustrante - per quanto io abbia criticato il governo russo per le sue politiche di sorveglianza, per la gestione delle elezioni politiche, per come vengano effettuate e abbia supportato le proteste - è che se il governo americano o i loro amici provassero a uccidermi, confermerebbero la mia teoria, perché io non ho fatto nulla per danneggiare il mio governo. Volevo aiutarlo. Ciò che ho iniziato a fare, con questo lavoro di giornalismo, non è un atto di rivoluzione, ma un atto di ritorno agli ideali degli Stati Uniti. E penso che sia la parte più tragica della mia presenza in Russia che, ripeto, non è voluta da me. Tutto il mondo ha sempre creduto che fossero gli Stati Uniti a proteggere i dissidenti. Cosa accade quando notiamo di vivere in un mondo in cui un dissidente deve essere protetto dagli Stati Uniti? Credo ciò dimostri quanto sia un periodo oscuro della nostra storia e spero non duri troppo”. Sulla presenza di Edward Snowden in Russia sono nate mille leggende, tra le più comuni quella che abbia dato informazioni riservate ai Russi in cambio di ospitalità o che fosse già una spia al soldo dei cinesi: nulla di tutto questo è provato, ciò che ha denunciato, invece, ha trovato puntuale riscontro e lui stesso ha sempre negato di aver mai collaborato con i russi. Perché, dunque, lo tengono lì? Un’ipotesi potrebbe essere questa: Snowden è la prova vivente che, ogni qual volta gli Usa si presentano come la più grande democrazia sulla terra, esiste in realtà un lato oscuro, un’ombra da tenere lontana, il più possibile. E per distruggere questa “contraddizione”, la macchina del fango è lo strumento principale. “All’inizio avevo deciso di non difendermi. Quando sono uscito allo scoperto nel giugno del 2013 e tutti parlavano di me ai telegiornali, è iniziata la propaganda che tu ben conosci. Ogni domenica ai talk show i giornalisti riportavano notizie che non erano vere, e gli altri le ripetevano: è il loro lavoro. Non ho rilasciato interviste fino a dicembre 2013. Mi ci sono voluti sei mesi. E non ho nemmeno risposto alle critiche, volevo solo commentare i risultati raggiunti e cosa ancora c’era da fare. Il motivo per cui non ho risposto alle critiche era che la mia reputazione non importava. Se avessi risposto, anche se avessi smontato le accuse e dimostrato di aver ragione, avrebbero continuato a ripetere le loro accuse perché quegli attacchi non sono nati per essere affrontati con i fatti, per capire cosa è realmente successo. Non interessano i fatti, interessano i sentimenti”. Snowden vive una campagna di pressione mondiale enorme, è “il traditore”, “la spia”, “il nemico della democrazia americana”, “l’alleato dei terroristi”, “la quinta colonna degli stati canaglia”... Eppure la sua scelta è di piena e consapevole strategia... “Se avessi risposto a tutti gli agenti che mi accusavano in televisione, dicendo che non era vero niente, la faccenda si sarebbe focalizzata su di me e la questione vera che era di interesse pubblico, cioè se quei programmi fossero legali o meno, se il governo avesse davvero violato la Costituzione, sarebbero passati in secondo piano”. Se rispondi, l’attenzione va su di te e se tu sei fragile possono schiacciarti, ma se i tuoi “fatti” sono più forti di tutto, anche più forti di te, a loro spetterà il compito di smentire i tuoi accusatori... “Il governo avrebbe saputo come rigirare le cose, tutti avrebbero parlato di me e non dell’NSA. Fa male. Ci sono moltissime persone, soprattutto nel mio Paese, che non hanno idea di ciò che è vero su di me. Abbiamo pochi momenti di respiro nella nostra vita e possiamo usarli per difendere la nostra reputazione o per focalizzarci sull’unica cosa che possiamo fare, cioè il nostro lavoro. La cosa più difficile, e che mi fa provare molta empatia nei tuoi riguardi, è stata stare semplicemente zitti, ma stare zitti con un obiettivo preciso, perché quando decidi di parlare, lo fai per dire qualcosa di importante”. L’Europa ha perso un’occasione unica rifiutando l’asilo politico a Snowden; avrebbe potuto dimostrare il diverso approccio nel dare sicurezza ai cittadini. Se Paypal, Facebook, Apple, Microsoft nascono negli Usa, è anche perché l’Europa non ha considerato una sfida alla sua altezza avere delle proprie piattaforme, ma è chiaro anche quanto poco riesca a preservare spazi di diritto e di scambio dentro un perimetro di libertà. “Ho percorso i corridoi più oscuri del governo e ho scoperto che è la luce che temono”, ho letto questa frase di Snowden in un’intervista rilasciata a Glenn Greenwald e me ne sono ricordato mentre lo guardavo negli occhi sul grande monitor che avevo davanti... “Siamo vicini di età e, considerata la nostra situazione, è quasi ironico: entrambi siamo stati in esilio e visto da un punto di vista storico, l’esilio è una cosa terribile. Nella letteratura italiana e nel passato, essere in esilio era quasi peggio della morte. Sei tagliato fuori dalla famiglia, dalla società, dalla vita intellettuale, dalla lingua. Ma siamo qui a parlarne. Non hanno vinto...” Vero... Ti trovo pieno di speranza. Anche il tuo libro lo è. Hai un viso sereno e non sembra avvelenato da quello che stai subendo... “Sai, l’oppressione politica ha strumenti che iniziano a non funzionare più. L’esilio non riesce a fermare più una conversazione. Se mi chiedi se ho una vita felice, nonostante tutto quello che ho passato, nonostante i sacrifici che anche tu hai dovuto fare, ci sono molti fattori che ci danno fastidio. In verità sono più felice ora di quando sono uscito allo scoperto, perché almeno ora posso credere nelle cose che faccio. Non so cosa accadrà in futuro, se sarà positivo o negativo, ma non ne ho il controllo. E poi pensiamo alla questione rimpianto: se avessi potuto, avresti agito diversamente? No, certo”. Ti sei mai pentito? “Mai. Anzi mi sono pentito solo di una cosa”. Quale? “La cosa che rimpiango è non essermi fatto avanti prima. Rimpiango ogni anno che ho impiegato a decidere in cosa credessi, per rendermi conto di ciò che succedeva e decidere di fare qualcosa. Spesso mi chiedo cosa sarebbe successo se mi fossi fatto avanti prima. Recentemente mi hanno chiesto se mi piacerebbe tornare al tempo della mia vita sul Web, quando potevo cambiare continuamente nome. E chiedo a te la stessa cosa. Non sarebbe bello se un giorno potessi avere un altro nome, o vivere in Danimarca?”. Sarebbe bello... Sì. “Ma più passa il tempo e vivo così, più mi sento a mio agio nel trovarmi a disagio. È una sorta di dote, allenarsi a trovarsi nella propria pelle. È una di quelle situazioni eccezionali in cui impari molto. Una cosa che vorrei ridurre è l’impatto sulla famiglia e gli amici”. La tua famiglia è con te? Temi per i tuoi familiari? “Sai, io sono minacciato da una parte che impone su se stessa delle restrizioni etiche, per cosi dire. La mafia può toccare i familiari, il governo non può. La mia famiglia non ha dovuto vivere altre conseguenze se non quella di essere preoccupata per me e le difficoltà che tutti affrontano quando in casa hai qualcuno che è diventato famoso, o per meglio dire, famigerato. La mia famiglia capisce perché ho fatto quello che ho fatto. Non so se provano quello che provo io, non parlo per loro, ma abbiamo ancora un rapporto molto stretto. È stata di grande consolazione”. Vorresti tornare negli Usa? “Sì, vorrei tornare negli Usa e vorrei che mi fosse concesso un giusto processo e essere giudicato secondo la legge. L’Espionage Act del 1917 (della cui violazione Snowden è accusato ndr) in realtà non era stato creato per fermare le spie, ma per fermare la resistenza politica. Credo però che questa legge non durerà. Penso anche che anno dopo anno, tutte le accuse che mi sono state mosse crolleranno sempre di più. Gli agenti dell’NSA ora dicono che avrebbero dovuto loro stessi rivelare quello che ho rivelato io e che il programma che avevo denunciato lo stanno eliminando”. Davvero pensi di poter un giorno tornare in Usa dopo tutto quello che è successo? “So solo che quando il mio Paese avrà bisogno di me, io ci sarò”. Dopo la pubblicazione di questo libro aumenteranno i guai... “Non ho fatto quel che ho fatto per avere amici. L’ho fatto perché penso che le cose in cui crediamo contino. Ma contano soltanto in relazione a ciò che siamo in grado di rischiare per esse. L’unica su cui posso contare, pensando al mio futuro, è la mia compagna Lindsay”. Sto per salutare Edward Snowden e lo ringrazio per la sincerità delle sue risposte e la profondità non scontata, ma lui continua... “Non so chi vivrà più a lungo tra noi due...” E allunga un sorriso tenero da bimbo. Per esorcizzare mi giro e faccio una foto, un selfie di me con Edward dietro, sullo schermo. Lui sorride e aggiunge: “Sapevo che avrei sempre lavorato con i computer ma non avrei mai immaginato di vivere dentro un computer”. Il Pd al lavoro per “sminare” il dossier migranti di Daniela Preziosi Il Manifesto, 13 settembre 2019 Il “Trattato di Lampedusa”, da Zingaretti sì alla proposta di Letta. Il segretario: bene il governo, le cose cominciano a cambiare anche grazie all’Europa. Quello di Enrico Letta è “un ottimo contributo”. La prima parola della giornata di Nicola Zingaretti è per la proposta, clamorosa a suo modo, di sostituire il Trattato di Dublino - nella sostanza immodificabile a causa dei veti dei paesi sovranisti - con un nuovo trattato “tra i paesi che ci stanno” (potrebbe essere firmato a Lampedusa, è la suggestione) che accettino “la propria parte di responsabilità” sugli arrivi dei migranti, per “organizzare l’accoglienza e suddividerne equamente il peso tra i Paesi firmatari, creando automatismi per scongiurare le penose aste al ribasso cui abbiamo assistito in questi anni a ogni arrivo di una nave”. La proposta di Letta, affidata a una lettera a Repubblica, è la prima mossa della giornata in cui il Pd affronta concretamente il dossier migranti, tema su cui Matteo Salvini e le destre aspettano al varco il nuovo governo. L’ex premier, impegnato ieri nell’apertura della sua affollatissima Scuola di politica a Cesenatico, sa che si tratta di “una scelta radicale ma necessaria”, “un atto simbolico fortissimo”. È anche conscio delle obiezioni tecniche che saranno avanzate nella “bolla bruxellese”, ragiona con chi ci ha parlato, ma è convinto che ormai serva una “drammatizzazione istituzionale”. Perché gli oggettivi passi avanti fatti nell’ultimo anno su Dublino dall’europarlamento non bastano. E solo tenendo lontani Orban e sovranisti dal tavolo in cui si prendono le decisioni ci si potrà sottrarre dal loro il potere di ricatto. Zingaretti loda anche il premier Conte che nell’incontro con Ursula von der Leyen si è mosso “molto bene chiedendo il superamento di Dublino”. Ma appunto la strada di Dublino è sbarrata. Quella di Lampedusa, paradossalmente, può dimostrarsi più fruttuosa. Non a breve, però. E per l’immediato al Nazareno è forte la consapevolezza che il dossier migranti va subito sminato, ovvero affrontato con “umanità e concretezza” - le parole che il segretario ha usato mercoledì sera a Porta a Porta. In mattinata, dopo il vertice governativo coordinato da Conte (presenti i ministri Di Maio, Franceschini, Lamorgese, Guerini, De Micheli) che affronta per la prima volta il tema degli sbarchi e dei ricollocamenti, Zingaretti si dice di nuovo soddisfatto: “Positiva l’attenzione e la soluzione sulla vicenda della Ocean Viking da parte del governo. È importante che le cose comincino a cambiare per il bene dell’Italia e con il coinvolgimento dell’Europa” twitta. Il Pd spinge per garantire subito lo sbarco dei naufraghi. Ma da quel fronte non arrivano ancora notizie certe. Agli atti resta la contrarietà di Di Maio a rimangiarsi gli slogan dell’era gialloverde. Matteo Orfini, il più critico sulle politiche migratorie anche del suo partito, parla di un “passo avanti” ma, avverte, “c’è molto da fare. La proposta Letta è interessante ma parziale. Senza rimettere in discussione radicalmente gli accordi con la Libia non se ne verrà mai a capo”. È quello che hanno spiegato i rappresentanti delle Ong ieri a Bruxelles nel corso di un’iniziativa del Gue sui salvataggi in mare in vista della presentazione alla commissione Libe (sulle libertà e i diritti) di una risoluzione contro la criminalizzazione di chi salva le vite in mare. Per Mediterranea erano presenti Beppe Caccia e Lucia Gennari che dopo l’evento hanno incontrato gli europarlamentari dem Majorino e Smeriglio.La richiesta al nuovo governo italiano non è solo - ‘solo’ si fa per dire - la cancellazione dei decreti sicurezza, in forza dei quali in Italia vengono seequestrate le navi delle Ong. Fin qui nel programma di M5S e Pd ci sono impegni fumosi: questi decreti verranno cambiati “alla luce dei rilievi del Quirinale”. Ma per le Ong a monte di tutto c’è la questione italiana e europea degli accordi anche economici con la Libia, e cioè il subappalto dei ‘salvataggi’ “alle milizie che si fanno chiamare Guardia Costiera libica”, spiega Caccia. Altro campo minato, non solo per il governo: anche per il Pd. Chiama in causa direttamente le sue politiche ai tempi del governo di Paolo Gentiloni, oggi commissario europeo, e del ministro Marco Minniti. Intanto domani a Roma la festa di Leftwing, cioè quella della corrente dei giovani turchi di Orfini, raccoglie soldi a favore delle Ong. Stati Uniti. Migranti senza asilo, la Corte suprema dà ragione a Trump di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 13 settembre 2019 Ribaltato il parere dei giudici di San Francisco. La Corte suprema degli Stati Uniti da ragione a Donald Trump e alle sue politiche restrittive nei confronti dei migranti provenienti dal centro America. Viene così ribaltata la decisione della Corte d’Appello di San Francisco che aveva posto uno stop ai progetti della Casa Bianca. In questo nuovo quadro normativo le persone che fuggono da situazioni di povertà e contesti di violenza non potranno chiedere asilo negli Stati Uniti se si ritiene che, durante il loro viaggio, abbiano attraversato altri paesi terzi considerati “sicuri” e dove avrebbero potuto fare domanda di accoglienza. Si mostrano dunque i primi effetti scaturiti dalla composizione della Corte suprema ormai dominata quasi completamente da giudici di orientamento conservatore. I liberal, su 9 componenti della Corte stessa, sono solo due, Ruth Bader e Sonia Sotomayor che sono state anche le uniche a dissentire con la sentenza pro Trump. Più in dettaglio, la controversia legale verte sull’obbligo per i migranti di richiedere l’asilo nel paese attraversato prima di arrivare negli Usa, e solo dopo un eventuale diniego esiste la possibilità di compiere lo stesso iter in territorio statunitense. Da ciò sono però esentati coloro che provengono dal Messico o giunti per via aerea. Inoltre le persone che dimostreranno di essere perseguitate nei paesi di origine non saranno deportate, ma non godranno di nessuna protezione derivante dal loro status di rifugiato. Fino ad ora dai paesi centroamericani è arrivata la stragrande maggioranza di coloro che chiedono asilo. Quest’anno, circa 811mila persone sono state fermate e internate al confine sud, di queste, quasi 590mila provenivano da El Salvador, Guatemala e Honduras. Ma la nuova norma interesserà anche un numero minore di migranti africani, asiatici e sudamericani che spesso intraprendono viaggi lunghissimi e pericolosi. La reazione alla sentenza è portata avanti soprattutto dall’American Civil Liberties Union, che sostiene inammissibili le limitazioni al diritto di asilo. Per l’avvocato Lee Geleren “l’attuale divieto eliminerebbe praticamente tutto l’asilo al confine meridionale, anche nei porti di entrata” anche se il provvedimento potrebbe essere considerato come un passo temporaneo da cambiare perché “sono in gioco le vite di migliaia di famiglie”. Non sono mancate critiche neanche da parte dei giudici contrari alla legge che siedono al tavolo della Corte Suprema, la Sotomayor ha dichiarato infatti che “ancora una volta il potere esecutivo ha fatto una legge che cerca di sovvertire una prassi di lunga data per i rifugiati che cercano di fuggire dalle persecuzioni”. Fino adesso infatti esisteva una vecchia consuetudine secondo cui gli Stati Uniti ascoltano tutte le richieste di asilo, indipendentemente da come siano arrivate le persone al confine. Esistono però forti dubbi che Messico e Guatemala possano far fronte ad un aumento dell’afflusso di profughi, i funzionari di Città del Messico hanno già mostrato tutta la loro contrarietà alla decisione statunitense. All’inizio della settimana, il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard ha ribadito che la sua nazione non sarebbe diventata un paese terzo per i richiedenti asilo, così come diverse capitali centro americane hanno rifiutato di sottoscrivere accordi di questa natura con gli Stati Uniti. Libia. L’Onu: “La polizia vende i profughi ai trafficanti” di Nello Scavo Avvenire, 13 settembre 2019 L’Onu ha le prove: “La Guardia costiera libica trasferisce migranti in centri di detenzione non ufficiali”, dove si ritiene che funzionari del governo “vendano i migranti ai trafficanti”. Non prima di avere torturato, schiavizzato, stuprato. L’ultimo rapporto del segretario generale sulla Libia è già sul tavolo del procuratore del Tribunale internazionale dell’Aia. E non piacerà ai leader europei. I crimini sono stati documentati e riassunti nelle 17 pagine che costituiscono un pesante atto d’accusa che Antonio Guterres ha messo nero su bianco, dopo avere raccolto le informazioni di tutte le agenzie Onu sul campo, coordinate dall’Unsmil, la missione delle Nazioni Unite a Tripoli. La sequenza di violazioni chiama in causa la responsabilità di quei Paesi, come l’Italia, che finanziano ed equipaggiano a fondo perduto le autorità libiche, senza mai riuscire a ottenere neanche il minimo impegno per il rispetto dei diritti fondamentali. Il 7 giugno l’Alto commissario per i diritti umani “ha invitato il governo di accordo nazionale - rivela Guterres - a lanciare immediatamente un’indagine indipendente per individuare le persone scomparse”. Centinaia di migranti intercettati in mare, infatti, vengono regolarmente fatti sparire. Ma dell’inchiesta, nessuno sa nulla. Alle donne, specialmente le più giovani, tocca il trattamento più infame. “Continuano a essere particolarmente esposte a stupri e altre forme di violenza sessuale”. E stavolta le fonti non sono le organizzazioni umanitarie, ma gli osservatori delle Nazioni Unite a cui si sono aggiunti nell’ultimo anno gli investigatori della Corte penale dell’Ala. “L’Unsmil ha continuato a raccogliere resoconti da donne e ragazze migranti - si legge nel dossier - che erano state vittime di abusi sessuali da parte di trafficanti, membri di gruppi armati e funzionari”. Nel periodo osservato sia le donne libiche che le straniere “hanno continuato a rischiare di subire abusi sessuali da parte delle guardie carcerarie”. Entro novembre il procuratore internazionale Fatou Bensouda depositerà un aggiornamento sulle investigazioni, ma dalla relazione di Guterres è facile prevedere alcuni dei capi d’accusa: “Perdita della libertà e detenzione arbitraria in luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali; tortura, compresa la violenza sessuale; rapimento per riscatto; estorsione; lavoro forzato; uccisioni illegali. I migranti hanno continuato a essere detenuti in sovraffollamento, in condizioni disumane e degradanti, con cibo, acqua e cure mediche insufficienti e servizi igienico-sanitari molto scarsi”. I colpevoli, secondo il segretario generale, sono indistintamente “funzionari statali, membri di gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e membri di bande criminali”. Un cartello criminale che può contare sul ruolo decisivo dei guardacoste. I “soccorsi” in mare, infatti, riforniscono di migranti i boss del traffico internazionale, moltiplicando gli introiti. Le operazioni della cosiddetta Guardia costiera, fieramente sostenuta da Bruxelles e da Roma, sono una delle principali cause delle violazioni. Non è un caso che Guterres si guardi bene dal parlare di “soccorsi”. “Il numero di prigionieri - si legge - è cresciuto a seguito dell’aumento delle intercettazioni in mare e della chiusura delle rotte marittime”. Una manna per i contrabbandieri di vite umane. Tutto alla luce del sole. “L’Unsmil ha continuato a ricevere segnalazioni credibili di detenzione prolungata e arbitraria, torture, sparizioni forzate, cattive condizioni di detenzione, negligenza medica e rifiuto di visite da parte di famiglie e avvocati da parte di i responsabili delle carceri e di altri luoghi di privazione della libertà”. Al momento si contano 4.900 rifugiati e migranti detenuti nelle prigioni del governo, “ma un ulteriore numero sconosciuto di persone è detenuto in altre strutture” clandestine. Il 29 luglio, vista “l’assenza di misure per far fronte a queste condizioni”, l’Onu aveva chiesto “la chiusura di tutti i centri di detenzione”. Invano. In Afghanistan salta la pace. “Ma la scusa di Trump non regge” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 13 settembre 2019 Intervista allo studioso Antonio Giustozzi. Le promesse al vento di Washington, l’insoddisfazione dei Talebani il cui leader ora rischia grosso, l’errore strategico del Pakistan, gli auspici del presidente Ghani... Così fallisce un negoziato. “Un’ambasciata a Kabul con spie, contractors e marines poteva starci, ma poi il presidente americano se ne è uscito con la presenza militare di lungo termine” Delegazione dei Talebani incontra i media a Mosca alla vigilia del terzo round di colloqui con gli Usa a Doha, in Qatar. L’inviato Khalilzad che promette e non mantiene. I Talebani insoddisfatti. Gli Usa incerti sul ritiro. L’errore strategico del Pakistan, che alza troppo il tiro e consegna al presidente afghano Ghani un successo inaspettato. Per Antonio Giustozzi, tra i più autorevoli studiosi del movimento degli studenti coranici, sono le ragioni che hanno fatto saltare il negoziato tra gli Usa e i Talebani, il cui leader, Haibatullah Akhundzada, ora rischia grosso. Condotto per mesi a Doha dall’inviato americano Zalmay Khalilzad, l’accordo prevedeva il ritiro delle truppe straniere, la garanzia che i jihadisti a vocazione globale non avrebbero avuto spazio nel Paese, una riduzione della violenza in alcune aree e la disponibilità dei Talebani a negoziare in futuro con altri attori politici afghani, incluso il governo di Kabul. Il 7 settembre Trump ha detto che il negoziato con i Talebani era saltato a causa dei loro attentati. Mossa per ottenere maggiori concessioni, tentativo di rivedere quanto già concordato o accordo troppo ambiguo? La scusa di Trump non regge. I Talebani erano insoddisfatti dell’andamento dei negoziati. Khalilzad ha fatto promesse che non ha mantenuto. Non è riuscito a convincere Ghani a farsi da parte. Così ha proposto che, anziché un governo a interim, a negoziare con i Talebani fosse una delegazione rappresentativa di tutte le correnti politiche, anche di opposizione. Ghani ha accettato la delegazione, ma le ha negato potere negoziale autonomo. Non era quello che i Talebani speravano ed era inaccettabile anche per i pachistani, molto ostili verso Ghani, che contraccambia. È mancato il consenso anche sulla natura della presenza militare statunitense, dopo il ritiro delle truppe… C’è stata una certa esitazione americana sull’idea del ritiro completo. I Talebani erano pronti ad accettare la presenza dell’intelligence Usa - per monitorare gli accordi e la presenza di gruppi jihadisti - a condizione che fosse camuffata. Un’ambasciata a Kabul con tante spie, qualche centinaio di marines, oltre alla presenza di contractors formalmente non riconducibili alla Cia poteva passare, ma poi Trump, via Twitter, ha fatto riferimento a una presenza di lungo termine. Haibatullah ha già problemi a far accettare ai “duri” la linea del negoziato. L’idea di una presenza prolungata o del controllo di una base militare spaccherebbe il movimento. L’ordine di riprendere gli attacchi è arrivato a fine agosto, in coincidenza con l’uscita di Trump. I termini dell’accordo raggiunto “in linea di principio” non sono mai stati chiariti del tutto. Una scelta, o di per sé erano ambigui? Khalilzad ha un’eccezionale abilità nel dire e non dire. Ha fatto avvicinare le tre parti ma raccontando storie diverse a ciascuno e mantenendo una certa opacità. Arrivati al dunque, i Talebani si sono accorti che la delegazione afghana non era autonoma, che quei 500 uomini dell’intelligence nell’ambasciata Usa assomigliavano a una base militare; gli Stati uniti che le garanzie talebane sui jihadisti erano poco chiare, etc. Khalilzad sperava che una volta portati in mezzo al guado i tre attori si sarebbero accordati, perché tornare indietro sarebbe stato politicamente troppo costoso. Ma Trump non tiene conto di queste cose. Molti ritengono che la questione non sia se, ma quando Washington deciderà di tornare al tavolo negoziale… Per Trump i tempi sono stretti. Se non succede nulla entro dicembre, non se ne farà nulla. Non avrà tempo sufficiente per capitalizzare. Nel lungo periodo o la guerra continua per sempre o si negozia, ma sarà sempre più difficile trovare una controparte taliban disposta a farlo. Se Haibatullah venisse bruciato dal negoziato, sarebbe già il secondo leader a rimanerne vittima (dopo mullah Mansur, polverizzato nel maggio 2016 da un drone Usa nel Beluchistan pachistano, ndr). Vorrebbe dire che per i Talebani è più facile e conveniente fare la guerra che la pace. L’accordo prevedeva la presa di distanza dei Talebani dai jihadisti a vocazione globale, inclusa al-Qaeda. Quali sono i loro rapporti, ora? In forte deterioramento da febbraio, quando Haibatullah ha ordinato ai suoi di tagliare i ponti con i gruppi jihadisti, su richiesta di Khalilzad. Ci sono stati incontri ai quali hanno partecipato membri senior della Rahbari Shura (la cupola della leadership talebana, ndr) per rassicurare al-Qaeda, che però ha perso fiducia. Al-Qaeda non ha preso posizione pubblicamente perché ancora riconosce Haibatullah come leader supremo. È una situazione imbarazzante. Esclude lo scontro frontale, ma compromette rapporti di lunga data. La questione dei rapporti con al-Qaeda rischia di frammentare ulteriormente il movimento? Più passa il tempo e più sarà difficile per Haibatullah mantenere consenso sulla linea negoziale… Le critiche dei duri sono accese. “Sono fratelli di jihad, ci hanno aiutato, ora dovremmo rivolgerci contro di loro? È inaccettabile” dicono molti. Se il negoziato dovesse finire così sarebbe in questione la leadership di Haibatullah, che da febbraio fino almeno a giugno ha optato per la de-escalation militare, costata cara ai Talebani in termini di perdite. Nella Rahbari Shura alcuni elementi pro-Haibatullah si sono già riallineati con Sirajuddin Haqqani, del fronte oltranzista. Contrari a qualsiasi accordo, in particolare con gli americani, gli Haqqani sono stati costretti da pachistani e sauditi ad abbassare la testa. Per sei mesi sono stati buoni. Poi a fine luglio hanno avuto un nuovo via libera. E il Pakistan, tradizionale sponsor degli studenti coranici, come si sta muovendo? Per i pachistani l’accordo è anche un modo per rientrare nelle grazie di Washington, ma la situazione è complicata: ora possono optare per la prova di forza militare, e allora Haibatullah, l’uomo del negoziato, potrebbe non servire più, oppure forzare i Talebani a ulteriori concessioni. Ma oltre alla soddisfazione di Washington, cosa ne guadagnerebbero? Già hanno perso in Kashmir. Se perdessero anche in Afghanistan sarebbe dura. Islamabad ha commesso un errore di calcolo, spronando i Talebani ad aumentare la pressione militare su Ghani e sugli americani prima della firma dell’accordo. Hanno alzato troppo il tiro. Era ciò che voleva Ghani. Il fatto che al potere ci sia ancora lui, e vicino al secondo mandato, è una sconfitta clamorosa per i pachistani. Sul “che fare” dopo un eventuale accordo, sul tipo di sistema politico-istituzionale da istituire in Afghanistan, i Talebani sembrano avere idee confuse… Alcune idee ferme ci sono, e c’erano delle Commissioni al lavoro. Accettano che sia impossibile tornare all’Emirato e che serva un regime ibrido, che coniughi elementi dell’attuale Repubblica islamica con elementi dell’Emirato. Accettano che ci siano elezioni per determinare chi governa e un regime pluralistico, anche se non del tutto inclusivo. Le discussioni con altri partiti politici afghani, soprattutto islamisti, sono già in una fase avanzata, e anche per questo saboteranno le presidenziali del 28 settembre, ma senza stragi clamorose di civili, per non compromettere la parziale uscita dal loro isolamento politico interno. Bahrein. L’estremo atto di crudeltà: cure mediche negate a un prigioniero di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 settembre 2019 Abdel-Jalil al-Singace è stato uno dei primi promotori della “primavera” del Bahrein a finire in carcere, nel marzo 2011. Dopo due processi, il 7 gennaio 2013 la Corte di cassazione ha confermato la sua condanna all’ergastolo per l’infondata accusa di aver “costituito un gruppo di terroristi per rovesciare il regime e cambiare la costituzione”. Negli oltre otto anni che ha trascorso in prigione, le condizioni di salute di al-Singace si sono via via deteriorate: soffre di sindrome post-poliomielitica, anemia falciforme e disturbi muscolo-scheletrici cronici. Dal 22 agosto, avverte acuti dolori al petto, intorpidimento delle dita e tremori alla mano sinistra su cui si appoggia per camminare con le stampelle. Il 28 agosto il medico del carcere lo ha visitato, diagnosticando una forte tensione del muscolo cardiaco ed ha fissato appuntamento con un cardiologo dell’ospedale militare. Quando al-Singace ha rifiutato di indossare l’uniforme carceraria e di uscire dalla prigione ammanettato, la direzione del carcere ha reso noto che “il prigioniero aveva cambiato idea” e ha annullato la visita. Un prigioniero innocente, oltretutto in queste condizioni di salute, non dovrebbe rimanere un giorno in più in carcere. Anzi, non avrebbe mai dovuto entrarci. Iran. Blogger di viaggio arrestati, fotografavano con un drone di Giordano Stabile La Stampa, 13 settembre 2019 L’Iran arresta tre cittadini australiani e alza il tiro contro Canberra, colpevole di aver aderito alla coalizione internazionale a guida americana che pattuglierà le acque del Golfo persico. Gli arresti sono stati eseguiti alla fine di luglio ma sono emersi soltanto adesso. Le autorità australiane hanno rivelato i nomi di due dei detenuti. Sono i blogger Jolie King e Mark Firkin, in viaggio attraverso il Medio Oriente per realizzare reportage da pubblicare su Instagram. Sono stati fermati perché sorpresi a usare un drone senza permessi. Il timore è che vengano accusati di “spionaggio”. Jolie King ha anche passaporto britannico e Londra ha affiancato Canberra nell’azione di protezione consolare. Di origine australiana Nel 2017 Jolie e Mark sono partiti dall’Australia occidentale per un viaggio attraverso l’Asia con destinazione finale la Gran Bretagna. Hanno pubblicato con regolarità immagini e video della loro lunga avventura su Instagram e You Tube, una pratica comune per finanziare questo tipo di reportage, e hanno accumulato ventimila follower. “La nostra motivazione principale - raccontavano - è ispirare tutti a viaggiare, e a rompere tabù e pregiudizi nei confronti di Paesi bistrattati dai media”. Un proposito nobile che si è infranto con la diffidenza delle autorità iraniane, che li avrebbero sorpresi, secondo la tv australiana, a usare un drone per le riprese senza permessi. Il terzo cittadino australiano arrestato è una donna, ma non è stata identificata. Anche lei possiede un secondo passaporto britannico. La sua situazione sarebbe più seria, in quanto già processata e condannata a dieci anni di carcere, quasi certamente per spionaggio. Si sa che ha frequentato l’università di Cambridge e lavorava in un ateneo in Australia. Tutti e tre gli australiani sarebbero nella prigione di massima sicurezza di Evin, dove è stata a lungo rinchiusa un’altra britannica, Nazanin Zaghari-Ratcliffe, anche lei accusata di spionaggio. Mercoledì, anche per questo caso, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha incontrato l’ambasciatore iraniano. Sul tavolo anche la questione del sequestro della petroliera Stena Impero, ancora in mani iraniani. Raab ha denunciato “l’anomalo numero di cittadini con doppio passaporto detenuti in Iran”. Ma adesso lo stesso problema investe l’Australia, che ha appena aderito alla coalizione internazionale a guida Usa nel Golfo. È probabile che gli arresti siano una ritorsione di Teheran. India. Aiutano gli aborigeni, devastata scuola dei gesuiti di Stefano Vecchia Avvenire, 13 settembre 2019 Ancora una volta lo Stato del Jharkhand, dove la presenza cristiana è soprattutto tra i gruppi meno favoriti e sottoposti alla pressione per la riconversione all’induismo, è stato teatro di un episodio di violenza. A finire sotto attacco questa volta è una istituzione educativa aperta agli “adivasi”, i gruppi aborigeni. E, di nuovo, tutto è accaduto nel disinteresse delle autorità. A denunciarlo è padre Thomas Kuzhively, segretario del St. John Berchmans Inter College di Mundli, gestito dai gesuiti della provincia di Dumka-Raiganj, che il 3 settembre è stato devastato da, si stima, 500 individui armati di bastoni, mazze di ferro, catene, coltelli e anche pistole. Dopo avere denunciato l’incapacità della polizia a fermare la violenza, i responsabili dell’istituzione hanno lanciato un appello al governatore dello Stato, al premier del governo locale e ai presidenti della Commissione nazionale per i diritti umani e della Commissione nazionale per le minoranze affinché si individuino le responsabilità di quanto accaduto. Come ricordato all’agenzia Asia News da padre Kuzhively, a scatenare la furia dei radicali indù sarebbe stato un contrasto tra alcuni alunni e gli studenti di origine tribale ospitati in un vicino ostello. Questi ultimi sarebbero stati l’obiettivo degli assalitori, che hanno selezionato gli studenti tribali picchiandoli selvaggiamente al punto che solo l’intervento di alcune religiose ha impedito un linciaggio. La folla ha anche cercato di bloccare l’ambulanza chiamata per trasportare all’ospedale i feriti, due quelli gravi, e aggredito alcuni poliziotti. “La folla non era nelle condizioni di ascoltare nessuno”, ha confermato il preside, padre Nobor Bilung, a sua volta sfiorato da un corpo contundente. Oltre che accanirsi sugli studenti, gli aggressori hanno danneggiato gravemente la scuola e l’ostello. Non contenti, ha aggiunto il preside, “hanno tentato di molestare le suore e le ragazze, hanno distrutto alcune motociclette parcheggiate di fronte alla scuola e hanno rubato tutto ciò che potevano, dai cellulari usati dai ragazzi dell’ostello ai soldi conservati nell’ufficio del preside”. Elevato il bilancio dei danni: 1,5 milioni di rupie (circa 19mila euro). È molto forte l’amarezza per un evento che manifesta il clima di tensione nell’area, pronta a esplodere contro le minoranze già emarginate e coloro che, come gli educatori cristiani, sono accusati di proselitismo mentre tentano di migliorarne le prospettive attraverso l’istruzione.