I conti con la giustizia (ingiusta) di Nello Scavo Avvenire, 12 settembre 2019 Dentro e fuori il pianeta carcere si consumano quotidianamente drammi dimenticati, dove si mischiano approssimazioni dei tribunali e scarso senso di pietà per le vittime. Egidio, malato e costretto a scontare in cella l’aiuto dato ad uno straniero. Ha trascorso la fine della sua vita in galera per aver portato un migrante irregolare in Italia. Intanto Bonafede invia gli ispettori per fare chiarezza sul caso del permesso premio al killer ragazzino. Scene da un Paese ingiusto, verrebbe da dire. Due fatti nelle ultime ventiquattr’ore sollevano ancora una volta il coperchio su casi di cattiva amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Vittime e carnefici non possono mai essere messi sullo stesso piano, ma spesso e volentieri assistiamo a cortocircuiti (mediatici e non) che rischiano di far esplodere tutto. Succede quando ci si dimentica della richiesta di verità da parte delle vittime e insieme quando si smarrisce il senso di pietà. È solo la punta dell’iceberg del sistema: tante altre storie come queste si consumano nell’oblio. Anche questa è un’ingiustizia. Nove mesi di galera per aver portato un migrante irregolare in Italia. Nessun passaggio di denaro, nessuno scambio di favori. Lo aveva fatto gratis. Ma la legge è legge, e quello si chiama “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”. Perciò Egidio a 80anni passati è finito in galera. Ne è uscito da morto. Non di vecchiaia, ma di tumore. La giustizia avrà avuto le sue ragioni. Che poi si sia trattata di una sentenza “giusta”, è tutto da vedere. La storia, raccolta e rilanciata dall’ agenzia Agi per la firma di Manuela D’Alessandro, è sconcertante. Il vecchio Egidio, che il suo avvocato Letizia Tonoletti ricorda come “operaio saldatore e giramondo in pensione”, in carcere a Parma “spesso doveva attaccarsi a una macchinetta per respirare”. E insomma “non doveva finire in una prigione”. Il giorno prima del suo decesso, il 6 settembre, il magistrato di Sorveglianza ha autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale. Troppo tardi. L’uomo era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona. Nel 2012 avevano trovato un uomo dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. “Dopo essere stato denunciato, il mio assistito non ha più ricevuto notizie di quel procedimento perché - spiega l’avvocato - ha cambiato domicilio dimenticandosi di comunicarlo alla magistratura”. Dopo la sentenza sono arrivate le forze dell’ordine a rinfrescargli la memoria. Per il diritto penale si tratta di un reato ostativo, che cioè non consente alternative alla detenzione in cella. Unico modo per evitare la galera sarebbe stata una perizia medica che non ne consentisse la permanenza in una casa circondariale. Istanza che, in casi come questo, può essere depositata solo dopo che il condannato sia stato arrestato. A maggio di quest’anno l’avvocato Tonoletti si è fatta avanti chiedendo i domiciliari. Anche in questo caso, però, la scelta non è stata facile. Egidio, infatti, a causa della condanna aveva perso anche l’assegno assistenziale a integrazione della misera pensione. Insomma, stare a casa da solo, senza una rete di solidarietà intorno, gli avrebbe restituito la libertà ma non la tranquillità. Ai primi di settembre, il giudice del tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia conferma al difensore che avrebbe concesso la detenzione domiciliare solo dopo le dimissioni dall’ospedale. Egidio, infatti, tempo prima aveva scoperto di essere affetto da un cancro, trascorrendo periodi di ricovero in ospedale prima di venire arrestato. Che non si trattasse di un delinquente di mestiere, del resto senza alcun precedente, lo prova il non avere comunicato il cambio di residenza. “Se l’avesse fatto, un legale avrebbe potuto chiedere di patteggiare una pena che non comportava il carcere - spiega ancora Tonoletti - o, almeno, fare appello, fermando così l’esecuzione della pena”. Scorciatoie giudiziarie ben note ai mestieranti dell’illegalità, non certo a un povero vecchio. Comunque siano andate le cose, questa brutta storia una cosa la suggerisce: “Sarebbe giusto - suggerisce il legale - che, davanti a casi che coinvolgono soggetti così fragili, la magistratura, prima di emettere l’ordine di esecuzione, allerti i servizi sociali”. La festa, la pena e il populismo giudiziario dei giornali di Maurizio Crippa Il Foglio, 12 settembre 2019 Il 13 marzo 2018, a Napoli, tre minorenni uccisero a sprangate la guardia giurata Francesco Della Corte, per rubargli la pistola. A fine luglio uno dei tre, detenuto, ha usufruito di un breve permesso per passare alcune ore, sotto controllo, in una canonica e festeggiare il diciottesimo compleanno. Su una pagina social sono uscite delle foto della festa. Ieri i giornali, Repubblica e Corriere soprattutto, hanno dato grande risalto a un’intervista indignata, sconcertata, della figlia della vittima, Marta. “Ci siamo sempre affidati alla giustizia. Adesso però comincio ad avere paura”, dice. Delusa dallo stato, vedendo persone che dopo “un delitto così grave ottengono un permesso dopo così poco tempo. Non c’è niente di rieducativo, in tutto questo”. Non è ovviamente a tema, qui, neppure lontanamente, muovere appunti ai sentimenti e ai giudizi, così tragici e legittimi, della figlia. Un appunto, serio, va invece rivolto ai giornali. Nel presentare la vicenda, né il Corriere né Repubblica hanno segnalato l’aspetto giuridicamente centrale della vicenda: se al detenuto è stata concessa una “misura premiale” (non un premio), si deve al fatto che la legge lo permette, all’interno di un’idea della pena che sia rieducativa. Tanto più per quel che riguarda i minori. Altrimenti vigerebbe ancora la legge del taglione. Ma non è così. Presentare la vicenda in una sola prospettiva e con sottolineatura fortemente emotiva è un modo, purtroppo frequente, di alimentare quello che è stato definito populismo giudiziario: un sorpasso pericoloso delle leggi che non fa più giustizia, e non la rende migliore. Il “permesso premio” che rischia di diventare il miglior assist ai giustizialisti di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 settembre 2019 Un’ondata di sdegno e polemiche si è scatenata attorno alla concessione di un “permesso premio” a uno dei tre assassini, allora minorenni, della guardia giurata Francesco Della Corte, brutalmente aggredito il 3 marzo 2018 davanti alla stazione della metropolitana di Piscinola, a Napoli, dove prestava servizio, e poi morto dopo quasi due settimane di agonia in ospedale, il 16 marzo. I tre minorenni (all’epoca avevano 15, 16 e 17 anni) massacrarono a sprangate la guardia giurata nel tentativo di impossessarsi della sua pistola, per poi venderla e ricavarne 5-600 euro. Lo scorso gennaio i tre ragazzi sono stati condannati in primo grado a 16 anni e 6 mesi di reclusione dal tribunale dei minori di Napoli al termine del rito abbreviato, per omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà. A far esplodere le polemiche è stata la decisione di concedere un’autorizzazione a uno dei giovani per uscire temporaneamente dal carcere minorile di Airola (Benevento), dopo poco più di un anno di detenzione cautelare, e festeggiare il 18esimo compleanno con la propria famiglia, in una canonica a poca distanza dal carcere. Nel corso dell’incontro sono state scattate alcune foto della festa (con il ragazzo in compagnia della fidanzatina e di amici sorridenti) che qualche giorno dopo una parente del giovane ha pubblicato su un social network, provocando la comprensibile reazione dei familiari della guardia giurata uccisa. Annamaria, la vedova di Della Corte, ha ricordato che i tre giovani “non hanno mai mostrato un minimo pentimento per l’atroce delitto commesso ai danni di un padre di famiglia”. “Io, che ho perso mio marito devo piangere. Loro, invece, che me lo hanno ucciso, stanno ridendo”, ha aggiunto. Piene di rabbia anche le parole della figlia della guardia giurata, che ha puntato il dito nei confronti di chi ha dato il nullaosta: “Mi permetto di ricordare che di recente ho compiuto 22 anni ma non ho spento candeline e non ho avuto torte e regali. E lo sa perché? Perché chi oggi festeggia ha ucciso mio padre, la persona più importante della mia vita”. “Quelle foto - ha precisato Nicola Pomponio, il legale del giovane - non sono state postate dal mio assistito ma caricate da un parente a sua insaputa. Non c’era alcuna intenzione di offendere il dolore dei parenti della vittima, specie a pochi giorni dal processo d’appello”. Nel frattempo, però, le polemiche hanno raggiunto la dimensione nazionale. Il Capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha detto di comprendere la rabbia dei familiari di Della Corte, aggiungendo che il problema “è che questo Paese morirà di bulimia normativa”. Mentre è notizia di oggi che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha incaricato l’ispettorato di via Arenula di compiere accertamenti preliminari sul caso, “volti a valutare la correttezza della procedura ed eventuali condotte disciplinarmente rilevanti”. Sulla vicenda occorre fare alcune precisazioni. Innanzitutto non è corretto parlare di “permesso premio”, dal momento che questo può essere concesso solo dopo una condanna in via definitiva (dal tribunale di Sorveglianza). Inoltre, non è ancora chiaro se la Corte d’appello per i minorenni, che fra pochi giorni si esprimerà sul processo di appello nei confronti dei tre giovani e che ha autorizzato la temporanea uscita del ragazzo dal carcere, fosse al corrente che si sarebbe tenuta una vera e propria festa (risulta, infatti, essere stato autorizzato solo un pranzo con i familiari più stretti). Ciò che è certo, però, è che si è di fronte a una decisione piuttosto insolita, di cui gli avvocati impegnati quotidianamente ad assistere persone sottoposte a custodia cautelare faticano persino a rintracciare un precedente, in cui a un detenuto incarcerato preventivamente è stata concessa l’autorizzazione a uscire temporaneamente per festeggiare il proprio compleanno. Alla base di questa decisione vi saranno state probabilmente valutazioni da parte dei giudici che riguardano il percorso di reinserimento sociale dei minori condannati (ben diverso da quello degli adulti), tuttavia non può non colpire l’inopportunità di concedere un permesso a un ragazzo che, oltre ad aver brutalmente ammazzato una guardia giurata solo un anno fa, non ha mai manifestato pentimento per il gesto. La decisione rischia così di costituire il migliore assist ai giustizialisti che affollano il Paese, sempre pronti a invocare “più carcere per tutti” di fronte a una giustizia troppo clemente. Questa volta con un pericolo ulteriore, e cioè che l’ondata di sdegno possa anche contribuire a un ripensamento - in senso restrittivo e manettaro - sui permessi per i detenuti, come notato in un’intervista al Mattino da Gemma Tuccillo, capo del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità: “È pienamente comprensibile e merita il massimo rispetto la reazione suscitata dalle foto, ma va sottolineato che, nel complesso, l’istituto del permesso legato al trattamento ha dato buoni risultati ed è una delle tappe fondamentali del programma di recupero. Del resto, senza entrare nel merito del caso in esame, l’opinione pubblica viene colpita dalle situazioni patologiche nelle quali i giovani ne hanno fatto un uso distorto, a fronte di una casistica complessivamente rassicurante”. Carceri: intesa per diritto a studio. Sono 800 i detenuti iscritti ad atenei italiani ansa.it, 12 settembre 2019 Un confronto permanente per garantire a detenuti e persone in condizione di limitazione della libertà personale la fruizione di un miglior diritto agli studi universitari. È quanto prevede il Protocollo d’intesa sottoscritto oggi dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini e dal presidente della Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari (Cnupp) Franco Prina. L’accordo punta a regolare in maniera più omogenea i rapporti fra Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria e Istituti da un lato e singoli Atenei dall’altro. Per far questo, con il Protocollo viene istituito un tavolo di confronto, composto da referenti del Dap e rappresentanti della Cnupp, che permetta un dialogo costruttivo e costante fra le parti. Il Tavolo elaborerà linee guida e schemi di convenzioni per disciplinare uniformemente i rapporti fra i due enti, convocherà riunioni su specifiche tematiche per migliorare l’esercizio del diritto al proseguimento degli studi universitari e si occuperà di sviluppare iniziative e programmi di collaborazione anche per il personale dell’Amministrazione a livello territoriale. Saranno inoltre organizzati dibattiti e incontri pubblici finalizzati a sensibilizzare la società sull’importanza di garantire il diritto allo studio universitario in favore delle persone detenute, nonché progetti di ricerca universitaria su tematiche di interesse comune. La Conferenza rappresenta gli Atenei italiani che operano attualmente in 75 istituti penitenziari italiani per garantire ai detenuti presenti il diritto agli studi universitari. Ottocento circa sono stati nell’anno accademico 2018/2019 gli studenti iscritti alle 27 Università italiane sedi di Polo Universitario Penitenziario: di questi, 743 sono detenuti (223 dei quali in regime di alta sicurezza o sottoposti al 41bis) e 53 in esecuzione penale esterna. Reinserimento detenuti e prevenzione recidiva: avanza scambio con il Messico di Marco Belli gnewsonline.it, 12 settembre 2019 Prosegue fruttuosamente e con soddisfazione il dialogo avviato ormai diversi mesi fa tra le autorità governative italiane e quelle messicane e promosso dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) in Messico, in tema di reinserimento dei detenuti e di prevenzione della recidiva criminale. A seguito del reciproco scambio di visite fra i rappresentanti delle Amministrazioni penitenziarie dei due Paesi, è stato siglato il 2 agosto scorso nella capitale messicana il Memorandum d’intesa fra Nazioni Unite, Segreteria di Governo di Città del Messico e Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per l’implementazione nel sistema penitenziario dello Stato messicano del Progetto “Lavori di pubblica utilità” sulla base del modello italiano. Ora il Governo di Città del Messico ha annunciato per l’ultimo trimestre del 2019 il lancio di un programma di impiego di pubblica utilità per persone private della libertà, che sarà supervisionato e accompagnato dall’Unodc. Tale programma sarà ispirato all’esperienza italiana e permetterà a detenuti con determinati profili di svolgere mansioni al di fuori delle carceri, in spazi sicuri e monitorati. Le persone che parteciperanno al programma saranno così coinvolte in attività socialmente utili come il recupero del verde pubblico e il mantenimento di strade, parchi e giardini. L’Unodc in Messico, che promuove la cooperazione internazionale e lo scambio di esperienze tra organizzazioni italiane e messicane nella lotta contro la criminalità organizzata, la corruzione e altre aree sotto il suo mandato, intende intensificare la cooperazione tecnica transnazionale e l’apprendimento delle buone pratiche. In tal senso il suo rappresentante, Antonino De Leo, ha annunciato che “entro la fine dell’anno l’Unodc in Messico pubblicherà un libro per documentare l’esperienza italiana nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, le sue buone pratiche e le lezioni apprese”. Questo testo, che l’Ufficio delle Nazioni Unite pubblicherà in collaborazione con l’Istituto nazionale di scienze criminali (Inacipe), illustrerà la legislazione antimafia e anticorruzione, i meccanismi preventivi, investigativi e operativi a tale riguardo, le buone pratiche di partecipazione della società civile e il settore privato, nonché l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. L’antidoto a Bonafede di Giovanni Fiandaca* Il Foglio, 12 settembre 2019 La conferma del grillino come Guardasigilli è un rischio. Sta al Pd normalizzare la deriva punitivista. Quale penalista di lungo corso, e soprattutto come Garante regionale siciliano dei diritti dei detenuti, raccolgo e condivido il grido d’allarme che da più parti si leva a causa della attuale situazione penitenziaria italiana. L’universo carcerario, sul territorio nazionale e nei contesti locali, non gode affatto di buona salute. Per una molteplicità di fattori noti e meno noti (riemergente sovraffollamento, degrado di non poche strutture, grave insufficienza di risorse e di personale, frequente carenza di attività trattamentali adeguate e di percorsi scolastico-formativi, ecc.), che la più recente gestione politico-amministrativa è stata ben lungi dal rimuovere o attenuare. Al contrario, l’assunzione del ruolo di Guardasigilli, quasi un anno e mezzo fa, da parte di un esponente grillino di fede populistico-repressiva come Alfonso Bonafede, con le ricadute che ne sono altresì derivate sulla scelta del nuovo vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e sulla elaborazione delle rinnovate linee-guida gestionali, ha purtroppo prodotto - secondo un’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori - ulteriori effetti negativi. Ciò sotto il triplice e fondamentale profilo delle condizioni di vita nelle carceri, della garanzia dei diritti dei detenuti e delle diverse attività e iniziative che dovrebbero (almeno in teoria) puntare all’obiettivo costituzionale della rieducazione. Non a caso, nelle interlocuzioni che come garante ho occasione di avere con funzionari e poliziotti penitenziari, educatori, esperti di vario tipo ed esponenti delle associazioni di volontariato, vengono usati per descrivere la drammatica situazione odierna addirittura termini quali disastro, sfascio, sbando, abbandono e simili. Anche a voler concedere che l’impiego di termini come quelli di cui sopra possa peccare per eccesso di drammatizzazione, rimane il fatto che la recentissima conferma di Bonafede come ministro della Giustizia non può non destare giustificate preoccupazioni. È per questo che va sollecitata l’attenzione dell’attuale segreteria del Pd, quale nuovo partner governativo del movimento pentastellato, affinché i suoi dirigenti evitino di rimuovere o trascurare la questione carceraria e tentino di promuovere una svolta anche nella politica penitenziaria: per esempio, indicando un sottosegretario dotato di competenze in ambito carcerario e di orientamento più “liberale” che punitivista. Che il Pd di oggi possa davvero assolve una funzione di antidoto, o quantomeno di ragionevole calmieramento del fanatismo repressivo sinora predominante nel mondo pentastellato, non è però scontato. Incombe, in qualche modo e misura, un rischio. Cioè il rischio che nello specifico settore della giustizia penale la collaborazione governativa demo-stellata abbia, alla fine, esiti più perversi che virtuosi: non è infatti escluso che questa collaborazione rialimenti un certo giustizialismo e punitivismo purtroppo presenti, ormai da non pochi anni, anche nella cosiddetta sinistra progressista. Bisognerebbe scongiurare un tale pericolo. È perciò fortemente auspicabile che d’ora in avanti prevalgano, invece, quelle componenti politico-culturali di matrice per un verso liberal-garantista, e per altro verso umanitario-solidarista, che tradizionalmente hanno radici nel fronte progressista e ne rispecchiano al meglio lo specifico patrimonio ideale e valoriale. Tutto ciò premesso, la svolta che ci si dovrebbe attendere dalla presenza del Pd nel nuovo governo va in una direzione intuibile: nella direzione cioè di uno sperabile recupero di quella riemergente prospettiva riformistica che, almeno a livello di iniziali intenzioni, aveva ispirato l’avvio degli “stati generali dell’esecuzione penale” su impulso del precedente Guardasigilli piddino Andrea Orlando. È realistico adesso confidare in un tale recupero, nonostante la sopravvivenza di Bonafede come ministro della Giustizia? *Garante regionale siciliano dei diritti dei detenuti Che tristezza il silenzio del Conte 2 sulla giustizia di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 12 settembre 2019 Il premier ha scelto di tenere il tema ai margini del suo discorso. Importa abbastanza poco (perché era del tutto prevedibile) che il presidente del Consiglio, nel proporsi alle Camere, abbia parlato pressoché di tutto senza dire pressoché nulla in argomento di giustizia. È importante invece osservare (e anche questo era prevedibile, ma più gravemente) come la cosa sia passata dopotutto inosservata, salvo che su questo giornale e in rarissimi altri casi. O peggio: magari la comunità degli osservatori ha ben ammirato la risolutezza “dell’avvocato degli italiani” nel tenersi lontanissimo anche dalla sola ipotesi di mettere al centro dei propri doveri di riforma un comparto - quello della giustizia, appunto - che per una sensibilità civile appena accennata meriterebbe urgentissimi e profondi interventi. Ma davanti a quel deserto di intendimenti, davanti a quella strepitosa assenza di qualsiasi indizio di una volontà almeno timida di far presente al Paese che la giustizia in Italia è un problema, e che il governo intende farsene carico senza limitarsi alla reiterazione dell’inascoltabile solfa sulla “certezza della pena” o sulla “lentezza dei processi”. Insomma a fronte della riprova che con una simile inaugurazione si prospetti tutto ma non la speranza che finalmente ci si occupi dei diritti delle persone ingiustamente compressi da un sistema di amministrazione della giustizia francamente incivile, ebbene nessuno ha fatto una piega. Nessuno ha avvertito l’esigenza di denunciare che la “ certezza della pena” costituisce una specie di bestemmia civile se è certissimo che la pena, in Italia, significa l’affidamento del condannato a un sistema di ignobile degradazione. Nessuno ha creduto di dover segnalare che i processi troppo lunghi sono indegni ma non diventano degni solo perché sono brevi, giusto come la tortura non diventa più accettabile solo perché è inflitta e si esaurisce più velocemente. Nessuno, infine, ha sentito il dovere di esporre la noncuranza del governo al rilievo che davanti a uno spettacolo come quello offerto dal suicidio quotidiano in carcere, dalla infamia del sovraffollamento, dall’ignominia della detenzione troppe volte inutile, il vagheggiare di un “nuovo umanesimo” rappresenta una specie di tragico insulto. Lo stato desolante del dibattito pubblico su questi argomenti si spiega, per carità. È roba, come si dice, impopolare. E come l’azione dei governi in materia di giustizia è esattamente misurata sul riscontro, che sarebbe immediatamente negativo in caso di riforme civili e liberali, presso il pubblico spaventato e rabbioso, così il complesso dell’informazione e della cosiddetta stampa libera non è punto dal bisogno di sottrarre alimento alla Bestia. In pasto prosegue a lasciarle l’immagine (che è una realtà) della gente che continua a “marcire in galera”. Compiacendosi però ipocritamente del fatto che almeno non c’è più un ministro che lo rivendica e propugna. È persino peggio. Giustizia, i criteri di una riforma di Giovanni Stefanì* Gazzetta del Mezzogiorno, 12 settembre 2019 “La riforma della Giustizia penale, civile e tributaria anche attraverso una drastica riduzione dei tempi” è il punto del programma del nuovo Governo accolto con grande speranza da tutti gli operatori della Giustizia e ricordato ieri sulle colonne della Gazzetta dall’avvocato Lorusso. Sul processo penale, gli organismi di rappresentanza dell’avvocatura hanno più volte manifestato la propria disponibilità ad accettare la rivisitazione dei termini della prescrizione, ma strettamente legata alla riforma del processo stesso, altrimenti il rischio è di fare un clamoroso buco nell’acqua. L’interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che entrerà in vigore dal 2020, rischia, in verità, di divenire un boomerang e peggiorare le cose; va da sé, infatti, che se non si garantisce un efficace ed efficiente svolgimento dei processi penali, gli stessi rischierebbero di divenire sine die proprio perché, essendo sospesa la prescrizione e non esistendo più un tempo tassativo entro cui concludere i tre gradi di giudizio, gli uffici giudiziari, alle prese con innumerevoli contingenze, potrebbero essere meno motivati a imporre tappe forzate ai processi. La riforma della Giustizia civile, invece, non dovrebbe prescindere dalle garanzie processuali per ogni cittadino, perché non è cambiando le regole del gioco che si possono risolvere i problemi dei tempi e dell’efficacia della Giustizia stessa. Per questo, l’avvocatura è contraria a riforme che vadano verso una suddivisione dei processi tra quelli di serie A e serie B, ipotizzando di garantire solo per i primi il rispetto dei principi costituzionali del giusto contraddittorio, dell’esercizio della difesa e del doppio grado di giudizio di merito a tutti. Avvocatura contraria, ma pronta a proseguire l’interlocuzione con il ministro Bonafede per addivenire a una riforma in grado di ridurre i tempi della Giustizia, ma sempre nel rispetto delle garanzie costituzionali e proprie della giurisdizione. Tuttavia, parlare di queste riforme alle nostre latitudini, dove gli uffici giudiziari sono allo stremo e le cronache raccontano di allagamenti, calcinacci che cadono, aule pollaio e topi in libertà (neanche vigilata...), appare anacronistico. A queste latitudini la madre di tutte le questioni è quella delle risorse, sia umane (occorre rinforzare gli organici di magistratura e cancellerie) che, soprattutto, materiali. Va da sé che sedi giudiziarie carenti contribuiscano ad allungare i tempi della Giustizia poiché impediscono a magistrati, avvocati e personale di cancelleria di svolgere le loro funzioni correttamente e con efficienza. Dunque, bene le riforme auspicate dal nuovo Governo ma lo Stato destini all’edilizia giudiziaria ben più risorse di quanto non abbia fatto finora. Altrimenti, sarebbe come far correre una vecchia e arrugginita Cinquecento (i luoghi dove si svolge l’attività giurisdizionale) su una nuova pista di formula 1 (i processi civili e penali riformati): servirebbe davvero a poco. *Presidente Ordine Avvocati di Bari Il 41bis può essere incompatibile per i detenuti con problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2019 La Cassazione annulla un’ordinanza del Giudice di sorveglianza. “Non sono ostativi alla concessione della detenzione domiciliare cd. in deroga l’entità del residuo pena, né il titolo del reato in esecuzione, né l’attuale sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41bis ord. Pen”, così ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza n. 29488, ritenendo che sia necessario provvedere ad una nuova valutazione delle esigenze sottese al caso in questione, annullando con rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Viene così annullata l’ordinanza emessa in data 22 settembre 2017 dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, la quale ha respinto le domande proposte da F.S., detenuto al 41bis, per ottenere il differimento della esecuzione della pena o la detenzione domiciliare per grave patologia di natura psichica. Secondo l’ordinanza del tribunale di sorveglianza la patologia psichica è “di certo presente ed è connotata da gravità, con recenti segnalazioni da parte del servizio sanitario di alto rischio autolesionistico”, ciò tuttavia “non comporta la possibilità di applicare l’istituto del differimento della pena previsto dall’art. 147 c.p., né la detenzione domiciliare - sia pure in deroga alla ostatività essendo tali istituti limitati ai casi di gravi patologie di tipo fisico”. Il legale del detenuto al 41bis ha proposto quindi ricorso per cassazione articolando distinti motivi che sostanzialmente vengono accolti. La Corte sottolinea soprattutto che - come emerge da varie sentenze della corte europea - le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. La Cassazione evidenza anche come in mancanza di un intervento complessivo del legislatore, è il giudice a poter modellare, proprio attraverso il ricorso alla detenzione domiciliare ex art. 47 ter ord. pen., la misura in questione in modo da tutelare, da un lato, la salute psichica del condannato e, dall’altro, la tutela della collettività, proprio perché la collocazione del soggetto portatore della patologia psichica può non individuarsi necessariamente con il “domicilio” ma con il luogo più adeguato a contemperare le diverse esigenze coinvolte, con ovvia valutazione caso per caso ed apprezzamento concreto, “tanto della gravità della patologia che del livello di pericolosità sociale della persona di cui si discute”. La Corte ha precisato, come detto, che alla valutazione di applicabilità della detenzione domiciliare in deroga non può ritenersi di ostacolo né l’entità del residuo pena, né il titolo del reato in esecuzione, né la attuale sottoposizione del ricorrente al 41bis. Alla luce di tali considerazioni complessive, la Corte ritiene che sia necessario provvedere ad una nuova valutazione delle esigenze sottese al caso in questione, annullando con rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Campania. Torna in carcere il 78% dei detenuti di Claudio Mazzone ottopagine.it, 12 settembre 2019 Il Garante: “Questo indica che il carcere è fallito”. Il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello ha rivelato un dato preoccupante “In Campania torna in carcere per recidiva il 78% dei detenuti”. Questa altissima percentuale dimostra in maniera chiara quanto per ora il carcere sia non un luogo di rinascita, correzione e ricostruzione del cittadino ma spesso esclusivamente di sofferenza e punizione. “Questo indica che il carcere è fallito - ha infatti sottolineato Ciambriello - Non torna in carcere chi ha incontrato un volontario, un cappellano, una cooperativa, ha frequentano un corso di formazione. Bisogna incrementare questi momenti. A Poggioreale abbiamo il più alto numero di volontari che si occupa dei detenuti - ha aggiunto il garante - e a Napoli abbiamo l’esperienza della casa dove ci sono una decina di residenti e una quarantina di persone ogni giorno. È una bella esperienza, la Chiesa si è aperta al dopo carcere che deve essere vissuto da tutti con più impegno. Il sovraffollamento non può essere una pena accessoria - ha proseguito - Io penso che addirittura bisognerebbe fare entrare i sindaci delle città nelle carceri, come fanno i consiglieri regionali, i garanti, i parlamentari. Questo per far capire loro che il carcere è qualcosa che appartiene alla città sia per chi è in carcere per una pena ma anche per chi deve vivere il dopo”. Siracusa. Ictus in carcere e il coma, detenuto muore dopo una lunga agonia newsicilia.it, 12 settembre 2019 È morto dopo una lunga agonia il detenuto catanese Michelangelo Fichera, nella sua stanza di ospedale del Reparto Rianimazione di Siracusa. L’uomo era detenuto al carcere di Floridia, nel siracusano. Il carcerato, nell’aprile scorso, mentre si trovava in cella, è stato colpito da un ictus. I tempi del ricovero in ospedale, però, avevano spinto la famiglia a sporgere querela per comprendere in che modo l’uomo fosse stato trattato in carcere prima del ricovero al nosocomio. L’uomo sarebbe rimasto in stato vegetativo per tutti gli ultimi mesi, secondo quanto riferisce il presidente della Onlus “Sicilia Risvegli” Pietro Crisafulli. Con i familiari che potevano vederlo attraverso un vetro e parlargli attraverso un interfono, oppure entrare nella stanza la sera dopo avere indossato gli indumenti di sicurezza. Tutte comunicazioni a cui l’uomo, riferisce ancora Crisafulli, avrebbe risposto con dei movimenti degli occhi e poco altro. Dopo essere stato colpito da un ictus era rimasto in stato di coma per dieci giorni dentro la sua cella, che condivideva con un altro detenuto, e solo dopo il suo trasporto all’ospedale i suoi familiari avevano potuto sapere cosa gli era successo. Proprio queste circostanze avevano spinto la famiglia a presentare una denuncia querela. Nonostante le denunce della famiglia e delle Onlus che si erano occupate del caso, il calvario non è cambiato. “Non c’è stato nessun aggiornamento - dice Alessio Di Carlo - la denuncia che avevamo sporto con la famiglia non ha avuto nessun seguito e il detenuto di fatto è morto in rianimazione”. Dello stesso parere Crisafulli, di Sicilia Risvegli: “Abbiamo fatto il possibile per spostarlo a Catania o comunque per alleggerire il suo regime, ma le nostre richieste non hanno mai avuto ascolto. Persino alla richiesta di avere una relazione clinica, necessaria per attivare qualsiasi spostamento o cura ad hoc, abbiamo sempre avuto risposte evasive”. Crisafulli annuncia che continuerà a denunciare l’accaduto alla magistratura. Messina. “Hanno trasferito mia figlia: non la curano e vive in un lager” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2019 È stata trasferita al centro clinico del carcere di Messina, ma è ancora a rischio paralisi in quanto i suoi arti superiori e inferiori sono quasi completamente atrofizzati. Parliamo di Rosa Zagari, condannata in primo grado a otto anni al processo denominato “Terramara Closed”, compagna dell’ex latitante Ernesto Fazzalari di Taurianova - catturato nel 2016 - a considerato il ricercato più pericoloso dopo l’imprendibile Matteo Messina Denaro. A denunciare il perdurare dell’immobilismo da parte dell’amministrazione penitenziaria per garantirle le adeguate cure è l’associazione Yairaiha Onlus che si occupa dei diritti dei detenuti. Più di un mese fa grazie al sollecito dell’associazione e all’articolo pubblicato da Il Dubbio, Rosa Zagari è stata trasferita dal carcere di Santa Maria Capua Vetere dove non veniva curata, per garantirle appunto le terapie prescritte dai medici. Ma cosa le era accaduto? Il nove febbraio scorso, quando era al carcere di Reggio Calabria, è caduta nella doccia. Subito è stata trasportata all’ospedale, nel reparto di neurologia, e dalla tac è emersa una “duplice rima di frattura lineare in corrispondenza del processo trasverso di destra di L3 e rima di frattura a livello del processo trasverso di L2”. Il primario ha consigliato delle cure adeguate per evitare peggioramenti. “Riposare su letto rigido idoneo - si legge nella cartella clinica - praticare terapia medica con antalgici al bisogno e proseguire con la terapia antitrombotica come da prescrizione neurochirurgica. Si consiglia inoltre di iniziare fin da subito a sottoporsi a prestazioni di Magnetoterapia alla colonna, a massaggio leggero decontratturante dei muscoli paravertebrali, alla rieducazione motoria degli arti inferiori, per cicli di 20 gg. al mese per almeno 5 mesi”. E infine: “Utile, ma solo dopo il terzo mese e dopo controllo radiografico e specialistico, oltre alle prestazioni di fisioterapia, la rieducazione dei muscoli paravertebrali e della colonna dorso-lombare in piscina, in assenza di carico sul rachide”. Cure però tuttora non ricevute, nonostante il trasferimento al centro clinico del carcere messinese. L’associazione Yairaiha Onlus si era attivata il 16 luglio scorso scrivendo al Garante nazionale delle persone private della libertà, a quello regionale, al ministro della Giustizia e al magistrato di sorveglianza, sollecitando un intervento urgente perché “le cure ricevute sono state esigue e inadeguate limitando la terapia al busto, che porta ininterrottamente dal 9 febbraio, e ad antidolorifici. Riteniamo - concludono - che il diritto alla salute rientri tra i diritti fondamentali dell’uomo, a prescindere dagli eventuali reati commessi, così come sancisce la nostra Costituzione”. L’avvocato Antonino Napoli, legale di Rosa Zagari, ha anche presentato un’istanza a giugno scorso, denunciando la mancanza di cure e ha chiesto la nomina di un perito per verificare lo stato di salute della donna, anche per chiedere la compatibilità delle sue condizioni con il regime carcerario. Ma a testimoniare le cure non appropriate è proprio la madre di Rosa che ha scritto l’ennesima lettera rivolte alle istituzioni. “Attualmente Rosa - scrive la signora Teresa Moscato - si trova presso l’Istituto penitenziario di Messina ma non è stata trasferita in una clinica, bensì in un lager, non viene curata, non viene considerata, e i medici oltre ad essere responsabili di atteggiamenti satiriche di basso livello, se ne lavano le mani, ricordando le gesta di un detto Ponzio Pilato. Nell’Istituto penitenziario di Messina, le hanno sospeso la somministrazione di Flactadol per sostituirlo al Contramal, farmaco che deriva dalla classe degli oppioidi, cure, dunque, non appropriate affinché migliori la condizione di salute di mia figlia”. Il diritto alla salute, da ribadire ancora una volta, è riconosciuto universalmente dalla nostra Costituzione, compreso chi è privo della libertà. Non a caso l’articolo 39 comma 2 dell’ordinamento penitenziario sancisce espressamente l’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto, garantendo, la propria tutela alla salute. Un diritto garantito anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce espressamente il divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti. Avellino. Rissa tra detenuti, ancora in coma 25enne tunisino di Angelo Giuliani ottopagine.it, 12 settembre 2019 In un primo momento si era sparsa la voce che fosse morto. È ancora in gravi condizioni all’ospedale Moscati di Avellino il detenuto 25enne di nazionalità tunisina vittima di una feroce aggressione da parte di alcuni reclusi di nazionalità italiana nei confronti di altri detenuti stranieri. Nella rissa coinvolta anche un’altra persona che ha rimediato la frattura delle braccia. In un primo momento si era sparsa la voce che il giovane fosse morto ma in realtà è ancora ricoverato in coma nell’unità operativa di anestesia e rianimazione della città ospedaliera. È solo l’ultimo dei drammi che si sono consumati nelle carceri campane. Proprio nel penitenziario irpino di Bellizzi si sono susseguiti gravissimi episodi di violenza anche ai danni di poliziotti penitenziari. Le risse, le aggressioni sono all’ordine del giorno - denuncia il sindacato di polizia - e sempre ad Avellino qualche giorno fa sono stati rinvenuti all’interno di una cella sei cellulari che venivano utilizzati dai detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza. “Le carceri sono ormai fuori da ogni controllo di legalità, la situazione è drammatica un po’ ovunque - denuncia Aldo Di Giacomo - ma la Campania, anche in virtù della popolazione detenuta presente e della diffusa criminalità organizzata presente su tutto il territorio regionale, è una realtà che andrebbe gestita in maniera totalmente differente da come invece avviene. Ciò che sta accadendo nel carcere di Avellino è inaccettabile, dimostra tutta la inadeguatezza gestionale di chi è ai vertici della struttura che, a nostro avviso, dovrebbe essere immediatamente rimosso dall’incarico.” Napoli. Permesso-premio al baby omicida, c’è l’inchiesta del ministro di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 12 settembre 2019 Scandalo della festa di 18 anni sul web, si muovono gli ispettori del guardasigilli. Vogliono capire cosa è accaduto. E se ci sono state irregolarità nella procedura avviata dal direttore del carcere di Airola, culminata poi nel permesso premio a uno degli assassini del vigilante Franco Della Corte da parte della corte di appello minorile. In poche righe, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede dà il via libera all’ufficio ispettorato di compiere accertamenti sull’autorizzazione a una sortita fuori dal carcere del detenuto, in occasione del suo diciottesimo compleanno. Un caso che ha sollevato scalpore, grazie alle foto postate in Instagram da una parente di Ciro U., uno dei tre imputati per l’omicidio - omicidio brutale - del vigilante all’esterno della metro di Piscinola. Baci, abbracci, risate tra amici hanno scatenato un moto di indignazione, rispetto al quale il guardasigilli prova a fare chiarezza, per verificare eventuali profili di responsabilità disciplinare. Si legge in una nota di via Arenula: “L’ispettorato compirà accertamenti preliminari volti a valutare la correttezza della procedura ed eventuali condotte disciplinarmente rilevanti”. Verifiche doverose, per capire cosa è accaduto lo scorso luglio, quando la sezione minori della Corte di appello ha autorizzato la sortita all’esterno del carcere di Ciro U. Stando a quanto risulta al Mattino, nell’istanza del direttore del carcere di Airola non c’era la richiesta esplicita a organizzare una festa, mentre in discussione c’era l’opportunità di concedere al detenuto la possibilità di pranzare con i congiunti al compimento del suo diciottesimo compleanno. In sintesi, il direttore del carcere chiedeva all’autorità giudiziaria di valutare una possibilità di un incontro ristretta ai soli familiari, grazie a un permesso di qualche ora, per giunta scortato dagli agenti penitenziari, sulla scorta del buon inserimento mostrato dal detenuto al protocollo educativo del carcere. Letta l’istanza, la Corte di appello dei minori dà il via libera al pranzo in famiglia, senza però immaginare che per Ciro U. fosse stato organizzato un party a tutti gli effetti. Stando infatti alle foto pubblicate in Instagram, è possibile notare coriandoli, addobbi, candeline, ma anche amici in un clima decisamente allegro, scanzonato. Un clima che - occorre ribadirlo - ha turbato i parenti del vigilante ucciso, ma anche l’intera opinione pubblica, quanto mai frastornata per quelle scene di allegria e di compiacimento immortalati dalle foto postate a mezzo social. Ed è questo il punto su cui battono le verifiche azionate ieri dal Ministero. Esiste una relazione da parte degli agenti di scorta sulla festa in canonica? Sono stati identificati tutti i partecipanti al pranzo in famiglia, per capire se ci fossero anche amici oltre che parenti di Ciro U.? Non ci stanno a fare da parafulmine o da comodo capro espiatorio gli agenti di polizia penitenziaria, almeno a leggere la nota dei sindacati di categoria. “Sempre più spesso - è la critica dell’Uspp, l’unione dei sindacati di Polizia penitenziaria - si devono eseguire bizzarre scorte per eseguire fantasiose ordinanze dell’autorità giudiziaria, ma questo caso indigna e lascia sgomenti”. Per il presidente dell’Uspp Giuseppe Moretti e il segretario campano Ciro Auricchio, è ancora più grave che il nullaosta sia stato dato a chi “non si è ravveduto” e “non si è mai scusato con la famiglia”. Un caso scoppiato a pochi giorni dall’inizio del secondo grado di giudizio a carico dei tre imputati (oltre a Ciro, sotto processo anche Luigi C. e Kevin A.), che hanno confessato di aver aggredito alle spalle e ucciso - in modo crudele - il vigilante Franco Della Corte. Era il tre marzo del 2018 a Piscinola. Difesi dai penalisti Mario Covelli e Nicola Pomponio, i tre imputati puntano ora ad ottenere dai giudici di appello uno sconto di pena. C’è invece fiducia nella giustizia da parte dei parenti della vittima, rappresentati dal penalista Marco Epifania, che non possono costituirsi parte civile (il rito a carico dei minori non lo prevede), ma che hanno rappresentato il proprio stato d’animo, con una lettera in Corte di appello e al sostituto procuratore generale Anna Grillo, che da martedì rappresenterà la pubblica accusa nel corso del nuovo dibattimento. Spiega oggi Giuseppe Della Corte, figlio del vigilante ammazzato, dopo aver appreso della mossa del Ministro, con l’invio degli ispettori a Napoli: “Certo che mi ritengo soddisfatto, non posso credere al fatto che sia stato concesso un permesso premio all’assassino di mio padre, per festeggiare il compleanno con amici e parenti all’esterno del carcere; questo non lo ritengo rieducativo! Dopo poco più di un anno dall’omicidio, questa belva come può essere premiata? Io non lo accetto, visto che è l’artefice della distruzione della mia famiglia, colui che mi ha provocato tanto dolore”. Napoli. La foto sui social oltraggio alla vittima, ma i detenuti hanno diritto a sperare di Samuele Ciambriello* Il Mattino, 12 settembre 2019 I social possono far diminuire le distanze, allargare il fossato, essere spine nel fianco, sono la cassetta degli attrezzi per creare consenso, a volte per seminare divisioni ed odio. Nella nostra vita quotidiana l’utilizzo dei siti e delle applicazioni di social network è così rilevante, che oramai la consideriamo assodata, come vera e propria parte integrante della nostra quotidianità. Ne siamo vittime e carnefici. Dall’altro giorno alcune foto apparse in rete e postate da una parente di un giovane recluso nel carcere minorile di Airola in provincia di Benevento sono al centro di interessi e commenti. Hanno sicuramente offeso il dolore dei familiari della vittima Franco Della Corte, ammazzato il 16 marzo del 2018. In primo grado i tre giovani minorenni accusati dell’omicidio sono stati condannati a 16 anni. Uno di loro, Ciro, ha ricevuto l’autorizzazione dal giudice, un permesso trattamentale di poche ore per recarsi accompagnato dalla scorta in un ufficio parrocchiale, con il cappellano, a poche centinaia di metri dal carcere per festeggiare i suoi 18 anni con i propri familiari. Questo a luglio. Una cugina posta su Instagram una foto dell’incontro e si riaprono ferite e polemiche, poco prima, il 19 settembre che inizierà il processo di appello. Vediamo come un errore (la pubblicazione) si possa mutare in opportunità di confronto e riflessione. Siamo davanti a un problema delicatissimo, in cui contano molto le sfumature, i dettagli. Per il giovane in carcere il diritto alla speranza è molto importante. Ed è ancora più importante, come sottolineano leggi e la Costituzione, che non sia negato a priori. Il carcere serve a ricostruire la dimensione piena della sua dignità di vita, scontando la giusta pena per il suo reato. Il ravvedimento non può essere solo un fatto personale, quasi privato, intimo. Se hai ucciso, se hai fatto del male, io mi aspetto che tu mandi dei segnali che tu riporti un po’ di speranza con i tuoi gesti, con i tuoi atti, con le tue parole. Una giustizia che ti aiuti a ritrovare a ritrovarti. L’anagramma di carcere è cercare. Ecco perché i giudici, gli educatori, i volontari, il sistema carcere dà una chance ad detenuto, non un privilegio. Carcere, giustizia, tempi certi e dignitosi della detenzione viaggiano insieme. Certezza della pena e qualità della pena. A maggior ragione per i minori. Allo stesso tempo abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti di chi è stato assassinato e nei confronti delle famiglie, sono morti ma sono ancora vivi perché le loro speranze devono camminare sulle nostre gambe. Dobbiamo essere noi più vivi, più veri, più coraggiosi per costruire ancora più vita e vivere la solidarietà vera con chi ha perduto un familiare. E non cadere nella trappola di chi vuole distorcere le notizie, di chi vuole speculare. Sapendo che invocare solo un carcere duro non restituisce né la vita né gli affetti ai familiari. I parenti invocano più carcere, meno atti di comprensione e permessi trattamentali e rieducativi per i loro carnefici, senza sconti di pena o scorciatoie. È questa l’unica strada per elaborare il dolore e sentirsi risarciti da una giustizia responsabile? Sono anni che io nelle carceri invito i familiari delle vittime a portare la loro testimonianza, a parlare di giustizia riparativa. Sono dei veri percorsi di mediazione penale per far nascere dal sangue alberi di speranza. *Garante dei detenuti della Campania Napoli. La sfida di formare la comunità al perdono di Rosanna Borzillo Avvenire, 12 settembre 2019 “Le ferite possono diventare feritoie di luce e di senso”. La nuova sfida della Chiesa di Napoli parte dal carcere: “non luogo di detenzione per chi si è macchiato di una grave colpa, ma luogo teologico dove incontrare Cristo che ha scelto di abitarvi”. La sesta opera di misericordia “Visitare i carcerati” dà il titolo alla Lettera pastorale del cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, ed è il filo conduttore del nuovo anno pastorale che inizierà domani. Ieri la presentazione presso il Centro di pastorale carceraria, diretto da don Franco Esposito, e che quotidianamente ospita detenuti in affido ai quali la diocesi offre la possibilità di imparare mestieri di artigianato, da poter esercitare urta volta rientrati nella vita sociale. “La Chiesa di Napoli - scrive Sepe - sente l’esigenza di vivere questa dimensione della carità in particolare verso i crocifissi della vita”, consapevole che “sono tante le catene che ci tengono imprigionati e che non sono solo quelle del carcere”. Facciamo esperienza quotidianamente di tante schiavitù “che limitano la nostra autonomia e avviliscono la stessa dignità umana”. E tra di esse “l’assuefazione ai dispositivi elettronici, che contagia tanti nostri ragazzi come pure quella di quanti restano imprigionati dalle droghe, dal gioco, dal sesso, dalla maldicenza, dalla violenza”. “La sesta opera di misericordia - sottolinea don Tonino Palmese, vicario episcopale per la carità - è la più disattesa perché facciamo fatica a convincerci che Gesù si sia potuto identificare con avanzi di galera”. Spetta a don Palmese ricordare che oggi le condizioni del carcere sono “disumane: si vive in un abbrutimento permanente, di umiliazioni e limitazioni di ogni genere. Eppure siamo convinti che ad ogni crimine debba corrispondere un’adeguata e severa punizione”. L’arcivescovo invita però a ricordare il suggerimento di Gesù: “chi è senza peccato scagli la prima pietra” e ribadisce che “il perdono è un atto rigenerativo, avvia percorsi di riconciliazione, riporta sulla strada giusta, dischiude nuovi paesaggi. Non è un colpo di spugna per gli errori precedenti; è un colpo d’ala verso un’esistenza nuova”. Su questo punta la Chiesa di Napoli chiede e suggerisce percorsi nuovi. “Perché - spiega don Palmese - la comunità ha una “responsabilità vicaria”. Ci verrà chiesto “Dov’è tuo fratello”? Dov’è il tuo fratello carcerato? Cosa fai per sostenerlo in questa difficile prova della vita?”. Domande scomode e imbarazzanti”. Perciò tutta la comunità ecclesiale è chiamata ad elaborare un progetto pastorale di ampio respiro, in cui Sepe individua come priorità “formare la comunità al perdono; provvedere ad un’anagrafe dei reclusi della propria zona pastorale; adottare un detenuto e la sua famiglia; coinvolgere i detenuti stessi nell’attività di evangelizzazione e di sostegno; sviluppare un piano decapale d’insieme con istituzioni, associazioni, privati”. La Chiesa - conclude Sepe - “non può sostituirsi alla società civile e alle istituzioni statali. Può tuttavia offrire una testimonianza profetica, indicare itinerari”. In proposito Sepe cita san Giovanni Bosco e l’esperienza degli oratori, nata proprio a partire dalla sua esperienza nelle carceri minorili. “Affiancandoci ai percorsi dei detenuti con rasserenante fiducia siamo convinti che, facendo loro percepire il senso della dignità personale, si possa ingenerare un effettivo cambiamento di vita. Più a monte, siamo chiamati ad educare la società ad essere inclusiva, a non accettare l’esistenza di “vite di scarto”, a prevenire la devianza sociale prima che diventi reato, ad incontrare l’uomo prima che a farlo sia l’illegalità”. Napoli. L’appello di Sepe: ogni parrocchia adotti un detenuto di Giuliana Covella Il Mattino, 12 settembre 2019 In visita al rione Sanità il cardinale presenta la pastorale sui carcerati. “La Casa che accoglie ex reclusi diventi la cittadella della carità”. “Oggi ho un lavoro e sono un uomo libero. Sbagliare si può, ma se qualcuno ci dà un’occasione possiamo tornare a una vita normale”. Salvatore, 47 anni, è uno degli ospiti della Casa di accoglienza per detenuti al Rione Sanità, dove il cardinale Crescenzio Sepe ha presentato la Lettera pastorale “Visitare i carcerati”. Chiaro e diretto l’invito dell’arcivescovo alla comunità: “Formare i fedeli al perdono” e “ogni parrocchia adotti un detenuto”, tra i punti salienti del documento. La Casa ha sede presso il Centro Diocesano di Pastorale Carceraria, dove don Tonino Palmese, vicario episcopale per la carità, ha introdotto la Lettera dedicata all’opera di misericordia cui si ispirerà l’attività di tutta la Diocesi. Accompagnato dal direttore della Pastorale carceraria, don Franco Esposito, il cardinale ha visitato la struttura, realizzata per volere della Curia in sostituzione di quella di via Trinchera, per accogliere carcerati in affido ed ex detenuti, impegnati quotidianamente in lavori artigianali. A margine della conferenza, cui hanno partecipato l’assessore comunale alla Cultura Nino Daniele, il vescovo ausiliare Lucio Lemmo e il consigliere della Camera di commercio Antonino Della Notte, il vicario episcopale per la cultura Adolfo Russo ha illustrato le manifestazioni per San Gennaro. “Il mondo carcerario è lontano dalla coscienza e dalla sensibilità della gente - ha detto Sepe - Invece la drammaticità della situazione impone che tutti, a cominciare dalla Chiesa, ma anche dalle istituzioni, abbiano l’obbligo morale di provvedere a un’emergenza che miete tante vittime. Vogliamo sensibilizzare tutti: prendete coscienza di questa realtà e cercate di dare un contributo per risolvere il problema”. Sulla carenza di strutture simili in Campania, Sepe dice: “La nostra è stata un’idea coraggiosa, non solo perché abbiamo unito sotto lo stesso tetto i carcerati, ma per la possibilità di inserimento in futuro nel mondo del lavoro e nella società”. Poi l’invito alle parrocchie: “Accogliere e adottare detenuti della propria e di altre parrocchie. Questa lettera è stata scritta dopo che ho consultato tutti i parroci, i decani e il consiglio episcopale ed è frutto di quanto hanno espresso”. La Casa “Liberi di volare” alla Sanità ospita 13 detenuti residenziali e 50 in affidamento da domiciliari o in semilibertà. Prevede inoltre l’accoglienza per quelli in permesso premio. “Questa deve diventare la cittadella della carità - ha detto il cardinale - ma la Chiesa non può fare tutto da sola”. La struttura, che ha sede in via Buonomo 41, ospitava fino a pochi anni fa le suore del Divino amore che, essendo rimaste ormai in tre e ultranovantenni, hanno deciso di donarla alla Curia che l’ha affidata in comodato d’uso gratuito a don Franco. Tra gli ospiti c’è Salvatore, 47enne del centro storico, separato e papà di una bimba che non ha mai visto perché è stato in carcere per 15 anni per rapina e altri reati. Oggi è libero ed è il coordinatore del gruppo di detenuti della Casa a cui insegna nel laboratorio presepiale (arte che ha imparato in carcere). “Poggioreale soffre il sovraffollamento - dice don Franco - ma non si può reinserire e rieducare in un carcere di 2.400 persone per una capienza di 1.400, con 19 educatori e due psicologi. Questo crea criminalità perché l’80% di quelli che escono dal carcere vi ritornano. Questa Casa serve per dire che è possibile vi siano strutture che realmente favoriscono il reinserimento del detenuto”. A lanciare l’allarme è Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania: “Nella nostra regione vi sono 7.812 detenuti, 15 istituti per adulti, due carceri minorili e uno militare. Abbiamo 7.400 persone che sono nell’area penale esterna, più di 5mila a Napoli e provincia, con 24 assistenti sociali. Di questi 3mila sono ai domiciliari, gli altri sono in semi libertà, affidamento in prova, lavori di pubblica utilità. In questa Casa alla Sanità c’è la Chiesa che opera, ma non può essere la sola. Sul tema delle pene, bisogna liberarsi dalla necessità del carcere per i piccoli reati”. Alba (Cn). Carcere dimenticato, protagonista in negativo in Consiglio regionale di Enzo Massucco targatocn.it, 12 settembre 2019 La struttura langarola ancora in attesa di ristrutturazione dopo l’epidemia di legionella del dicembre 2015. Il garante piemontese Bruno Mellano ringrazia l’ex sindaco Marello, oggi a Palazzo Lascaris, per il suo impegno nel sollecitare un intervento del Ministero. Il caso del carcere albese protagonista in negativo in Consiglio regionale, la cui seduta di ieri, martedì 10 settembre, è stata in parte dedicata all’annuale relazione di Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Nel suo intervento Mellano ha illustrato lo stato dei 13 istituti di reclusione piemontesi e delle 4.700 persone che ad oggi vi sono detenute, su una popolazione carceraria che nell’intero Paese ha raggiunto quota 60.800. Al loro interno si registra un sovraffollamento di circa 600 unità (12%), contro un dato nazionale poco più alto (il 16% per circa 10mila persone), mentre sono 8.850 le persone che scontano la propria pena al di fuori di una cella, sottoposte a misure restrittive della libertà personale e monitorate dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, “grazie anche a una rete sociale molto forte che permette percorsi individuali di recupero e reinserimento”. Mellano si è poi soffermato sull’emblematico caso del “Giuseppe Montalto” di Alba, dove è aperta solo una piccola palazzina - 35 posti su 140 complessivi, occupati da una cinquantina di detenuti - in attesa che il Dipartimento per l’Amministrazione Finanziaria dia corso al bando (per un importo di 4.5 milioni di euro, già finanziati) per la ristrutturazione del corpo centrale, chiuso da oltre tre anni per l’epidemia di legionella che interessò la struttura negli ultimi giorni del 2015. Il Garante ha poi ringraziato l’ex sindaco albese Maurizio Marello, oggi consigliere regionale, che nelle vesti di primo cittadino si era dimostrato “molto attivo per incidere su una situazione che sarebbe diventata assai tragica per il budget necessario e le tempistiche del progetto di recupero”. “Il primo obiettivo per un Paese che vuole essere veramente sicuro è curare il regime carcerario e l’Ufficio del Garante è un tassello importante in questo senso”, ha replicato Marello nel suo intervento, apprezzando poi il riconoscimento fatto dallo stesso garante circa le attività - in primis la produzione e vendita di vino - che vedono impegnati i detenuti albesi grazie all’impegno della comunità locale: “Un’opportunità per collegare la comunità carceraria a quella esterna”, ha spiegato l’ex sindaco, rimarcando la bontà di “una strada sulla quale è molto importante proseguire”. “L’Ufficio del Garante è fondamentale per riconoscere i diritti dei detenuti, l’espiazione di una pena giusta, ma anche in un’ottica di integrazione”, ha detto ancora Marello, che ha chiuso il proprio intervento con un dato: “Nel 2018 in Italia sono stati 64 i casi di suicidio tra i detenuti, 1297 i tentati suicidi e il suicidio è la causa di quasi la metà delle morti in carcere (il 45% di esse). Un sistema che funziona deve avere riscontri positivi: con questi dati significa che dobbiamo interrogarci profondamente su di esso”. Roma. Il caffè è galeotto: dalla torrefazione nel carcere di Rebibbia ai banconi dei bar di Sabrina Quartieri Il Messaggero, 12 settembre 2019 “Un chilo in grani per cortesia, forte e intenso”, chiede Aldo, un signore sulla cinquantina, al ragazzo del negozio dove si vende il “Caffè galeotto”, quello che creano i detenuti del carcere di Rebibbia. Il cliente lo ha assaggiato qualche tempo fa e, da allora, viene qui ad acquistarlo. Poi torna a casa e se lo macina da solo nella sua macchina, per apprezzarne il gusto al meglio quando lo beve. Tra le mura della piccola bottega “a un passo” dalla casa di reclusione romana, ci si ritrova in un microcosmo colorato: sulle pareti ci sono la Banda Bassotti e il commissario Basettoni “che la controlla”, racconta, scherzando, Mauro Pellegrini, a capo della cooperativa sociale “Panta Coop” che, dal 2000 a oggi, ha aperto diverse imprese nella Casa Circondariale e contrattualizzato centinaia di reclusi. Tra i suoi dipendenti, 13 lavorano nella torrefazione interna dove nasce il “Caffè galeotto”, mentre uno, Ferdinando, 36enne di Latina, si occupa di venderlo. Ogni mattina è lui a uscire dal carcere, compiere non più di 50 passi e entrare nel negozio dove trascorre la giornata in compagnia dei clienti che “vengono a trovarti con piacere. Qui la gente ti parla perché ha voglia di farlo e nascono rapporti veri, non si tratta di amicizie forzate”, racconta il detenuto. Proprio lui, quando in bottega ha preso il posto di Lucio, un ex recluso che oggi è tornato dalla famiglia a Napoli, ha voluto dipingere sul muro vicino alla cassa un pezzo di pentagramma con le note e la scritta “Musica… Evasione”. Il sogno di Ferdinando, infatti, è quello di incidere un album insieme a dei big (come Stefano Di Battista) e a degli artisti di altre culture. Per abbattere i pregiudizi, innanzitutto. Il titolo dovrà essere qualcosa come “A un passo dalla libertà e dal carcere”, come la bottega del caffè dove si ritrova a fare il venditore. Accanto a lui, però, c’è sempre la sua fisarmonica. Spesso la prende e inizia a suonare il “Libertango” dell’argentino Astor Piazzolla, “perché se anche non posso raggiungere la libertà fisicamente, lo faccio con il pensiero, che è più forte”, precisa Ferdinando, dentro ancora per quattro anni. Intanto, prende lezioni private di musica, studia Lettere e Filosofia all’università e pensa a quella grande proposta ricevuta dal Direttore dell’Orchestra di Piazza Vittorio, che lo vuole in futuro come membro della band. D’altronde proprio Mauro, suo capo da anni, lo definisce un “detenuto modello”. Per questo è stato felice di accompagnarlo nella sua prima volta in uscita. Insieme, sono andati all’Auditorium di Roma. Era lo scorso giugno e veniva presentato un documentario con alcune musiche composte da Ferdinando. Pochi giorni dopo, insieme a Marian, un violinista che sta scontando la pena, il giovane di Latina si è invece esibito davanti a Mogol. Un momento di cui conserva una foto incorniciata e appesa nel negozio del “Caffè galeotto”, “un prodotto processato manualmente a tostatura artigianale e venduto a chi è sensibile alle nostre tematiche”, spiega Mauro, che ha voluto la torrefazione di comune accordo con le istituzioni carcerarie. “Andiamo nella stessa direzione e lavoriamo per un obiettivo comune che è la recidiva zero - aggiunge l’imprenditore - Insegniamo dei mestieri ai detenuti da 20 anni. I dati ci dicono che i risultati sono positivi. Solo uno dei “nostri” è tornato in carcere dopo essere uscito”, aggiunge il capo di “Panta Coop”. Dalla fine del 2012 a oggi, i passi compiuti sono molti. La torrefazione è stata aperta accendendo un mutuo, senza soldi pubblici e, dopo anni di impegno, formazione e dedizione, il bilancio è positivo. Per questo, entro la metà del 2020, si acquisteranno le macchine per incapsulare e incialdare. “In tal modo ci renderemo autonomi. È stato un percorso lungo - ammette Mauro che, all’inizio, di questo mestiere non sapeva nulla - Sono venuti a formarci i migliori torrefattori italiani, abbiamo studiato tutte le fasi della lavorazione del caffè e fatto ricerca sulla materia prima”. Oggi, le inconfondibili miscele che portano nomi come “Il ricercato”, “L’evaso” e “Il latitante” sono arrivate ben oltre i bar delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli. A Roma si trovano nelle case dei privati, nei bar dell’università La Sapienza (a Lettere e Filosofia), di via dei Castagni e di Tor Sapienza. Il “Caffè galeotto” lo acquista persino una piattaforma di eccellenze italiane a Parigi. Si chiama “Le bouchon de batignolles”. Servito nelle sue tazze brandizzate, nel tempo è stato assaggiato da nomi illustri come Papa Francesco, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la sindaca di Roma Virginia Raggi, chef Rubio (cliente del negozio) e Gianni Rivera. “Ci viene a trovare spesso anche un santone senegalese che vive a Ostia per acquistare una nostra versione a base di jarr, il pepe nero di Guinea, e fiori di garofano”, racconta Mauro parlando del caffè touba. Nella torrefazione del carcere, il responsabile oggi è Gennaro, un napoletano di 46 anni che ormai fa tutto da solo e conosce ogni segreto del mestiere. Il gruppo di lavoro va dai 29 ai 50 anni e tra gli operai ci sono un volenteroso carrozziere romano e Bobo, appena 27enne, in officina solo la mattina perché il pomeriggio “va a scuola”. Loro, come tutti gli impiegati della cooperativa, sono contrattualizzati con busta paga: “Il detenuto, non gravando più sulla famiglia per le sue spese quotidiane, acquista autostima e dignità”, precisa Mauro, che da 20 anni si occupa di offrire un tipo di formazione e occupazione ai reclusi, che sia spendibile quando si torna liberi. “Perché da solo non ce la puoi fare”, irrompe Pino, oggi fuori dalle sbarre. Calabrese di 56 anni, è lui a guidare il furgone del “Caffè Galeotto” per le consegne in città: “In carcere si perde l’uso della parola e anche il contatto con la realtà. Mi sono rimesso al volante con questo camioncino. Che bello fare la fila al semaforo. Per me, e lo so che voi non potete capire - sospira Pino - è un lusso, un grande privilegio”. Aosta. Brissogne, apparecchiature odontoiatriche rinnovate nel carcere gazzettamatin.com, 12 settembre 2019 L’Ausl ha dotato l’ambulatorio carcerario di un sistema per le radiografie all’interno del cavo orale. Nei giorni scorsi l’Ausl ha completato il rinnovo delle apparecchiature odontoiatriche presenti all’interno dell’infermeria della casa circondariale di Brissogne, con la sostituzione del “riunito odontoiatrico” (poltrona e strumenti) e ha dotato la struttura di un sistema radiografico endorale. Si tratta di uno strumento che consente di effettuare radiografie all’interno del cavo orale. In una nota diffusa dall’Ausl si legge: “Con questa nuova dotazione il presidio sanitario carcerario ha a disposizione una strumentazione rinnovata e adeguata alle esigenze interne e l’acquisizione dell’apparecchiatura radiografica risponde alla necessità di garantire la stessa qualità delle cure disponibili all’esterno della casa circondariale, grazie a una dotazione tecnica analoga a quella degli studi dentistici dell’Usl sul territorio regionale ed è gestito da un medico specialista odontoiatra convenzionato”. Aggiunge il direttore dell’Area territoriale dell’Ausl Massimo Presenti Campagnoni: “L’ammodernamento delle apparecchiature e l’acquisizione dell’RX odontoiatrico rispetta il principio generale secondo cui il soggetto detenuto ha gli stessi diritti di salute di ogni altro cittadino. Nello specifico, l’odontoiatria è un servizio molto importante in carcere, in quanto i soggetti ospiti molto spesso presentano problemi odontoiatrici, spesso trascurati, anche gravi”. Milano. Errori giudiziari ai raggi X Italia Oggi, 12 settembre 2019 “Errori giudiziari e ingiusta detenzione: perché non possiamo parlarne”. Questo il tema del convegno organizzato da Camera penale di Milano e ordine degli avvocati di Milano che si svolgerà il 16 settembre dalle 14.30 presso l’aula magna del palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Nel corso dell’evento, che è gratuito e attribuisce tre crediti formativi, sarà proiettato il docu-film “Non voltarti indietro”. Coordinati da Paola Farinoni, consigliere Camera penale di Milano e componente Osservatorio errore giudiziario Ucpi, interverranno Valentino Maimone, giornalista - fondatore di errorigiudiziari.com, co-responsabile dell’Osservatorio errore giudiziario dell’Ucpi, Benedetto Lattanzi, giornalista - fondatore di errorigiudiziari.com, Lucia Fiumberti e Antonio Lattanzi, vittime di errori giudiziari e co-protagonisti del docu-film, Andrea Del Corno, consigliere Ordine avvocati di Milano, Enrico Costa, Commissione giustizia della Camera, Antonio Nova, presidente Corte di appello di Milano-sezione V penale, Giovanni M. Jacobazzi, giornalista de Il Dubbio. Fine vita. Bassetti (Cei): legalizzazione del suicidio assistito, voragine irreversibile di Francesco Ognibene Avvenire, 12 settembre 2019 Leggi che selezionano chi vive e chi muore sono un “obbrobrio” da scongiurare. È un fermo e chiaro appello alle istituzioni quello del presidente dei vescovi italiani sui grandi temi del fine vita. Una “posizione chiara”, espressa “a nome della Chiesa italiana”, in merito a “un tema che tocca i più diversi ambiti della vita individuale e associata”. La esprime con un discorso ampio, preoccupato e quanto mai esplicito il cardinale Gualtiero Bassetti nell’evento pubblico su “Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?” promosso a Roma presso l’auditorium della Cei nel pomeriggio di mercoledì 11 settembre dal tavolo Famiglia e Vita che presso la stessa Conferenza episcopale italiana riunisce l’Associazione Psicologi e Psichiatri cattolici, l’Associazione Medici Cattolici, il Forum delle Famiglie, il Forum sociosanitario, il Movimento per la Vita e l’Associazione Scienza e Vita, con l’adesione di 76 sigle associative del laicato cattolico nei più diversi ambiti, a pochi giorni ormai dall’annunciato pronunciamento della Corte Costituzionale sulla depenalizzazione - pur parziale e condizionata - del suicidio assistito con un probabile intervento sull’articolo 580 del Codice penale. Nel suo discorso, il presidente dei vescovi italiani anzitutto chiarisce che “l’eutanasia non va confusa con il rifiuto dell’accanimento terapeutico” e che piuttosto essa “viene a rassomigliare fortemente al cosiddetto “suicidio assistito”, nel quale è il malato stesso a darsi la morte, in seguito all’aiuto prestatogli, su sua richiesta, da parte del personale sanitario” che dunque, a sua volta, “differisce solo formalmente dall’eutanasia, poiché in entrambi i casi l’intenzione dell’atto e il suo effetto sono i medesimi, cioè la morte della persona”. Anzitutto Bassetti esamina il paradosso culturale diffuso a sostegno della “morte a richiesta”, secondo la quale “esaudire chi chieda di essere ucciso equivalga a esaltarne la libertà personale”. Il cardinale rovescia la tesi affermando che “va respinto il principio per il quale la richiesta di morire debba essere accolta per il solo motivo che proviene dalla libertà del soggetto” poiché “la libertà non è un contenitore da riempire e assecondare con qualsiasi contenuto, quasi la determinazione a vivere o a morire avessero il medesimo valore”. Spesso infatti a chiedere la morte per una deformazione evidente del nostro tempo, e cioè che “la condizione di chi è meno autonomo sia percepita come una zavorra per la famiglia, per la società e per la comunità dei “forti”, un fatto “drammatico”. Il presidente dei vescovi sul punto è categorico: “Dobbiamo guardarci dall’entrare anche noi, presto o tardi, nel vortice dell’indifferenza. Svegliamoci dal cinismo economicista che genera una mentalità che guarda solo all’efficienza. Circondiamo i malati e tutti i più deboli dell’amore del quale, come ogni essere umano, hanno bisogno per vivere”. Ogni uomo infatti “ha una necessità costitutiva di relazione con gli altri”. Non solo: va ricordato, oggi più di prima, che “la vita, più che un nostro possesso, è un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere, senza buttarlo”. Di questa “logica utilitaristica”, capace di causare la “crisi del diritto”, è in fondo figlio anche il “passaggio istituzionale” cui assistiamo - le Camere ferme, la decisione di fatto appaltata alla Consulta, con una scelta con la quale di fatto il Parlamento ha “abdicato alla sua funzione legislativa” - e che “in realtà” pare “orientato, sottotraccia, all’approvazione di principi lesivi dell’essere umano”, come seguendo una strategia pragmatica e inconfessata. L’approdo pare annunciato, ma per Bassetti e per la Chiesa italiana è chiaramente un’ipotesi da scongiurare: “Se si andasse nella linea della depenalizzazione, il Parlamento si vedrebbe praticamente costretto a regolamentare il suicidio assistito. Avremmo allora una prevedibile moltiplicazione di casi simili a quello di Noa, la ragazza olandese che ha trovato nel medico un aiuto a morire, anziché un sostegno per risollevarsi dalla sua esistenza tormentata. Casi come questi sono purtroppo frequenti nei Paesi dove è legittima la pratica del suicidio assistito”. Di più: “L’approvazione del suicidio assistito nel nostro Paese aprirebbe un’autentica voragine dal punto di vista legislativo, ponendosi in contrasto con la stessa Costituzione italiana, secondo la quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, il primo dei quali è quello alla vita. Tale contrasto segnerebbe dal punto di vista giuridico un passaggio irreversibile, con le enormi conseguenze sul piano sociale che tenterò ora di tratteggiare”. Davanti a una società che “già seleziona e stabilisce chi tra gli esseri umani sia anche persona e porti o meno il diritto di nascere e di vivere”, scandisce Bassetti, “le leggi di cui temiamo l’approvazione non farebbero che ampliare tale obbrobrio, rendendo la vita umana sempre più simile a un oggetto e sempre più soggetta alla regola del consumismo: si usa e si getta”. Come evitare questo esito? Una strada c’è, percorribile anche se si tratta dell’accettazione comunque di un vulnus che si vorrebbe ridurre però al minimo. Bassetti spiega con precisione e trasparenza che “la via più percorribile sarebbe un’attenuazione e differenziazione delle sanzioni dell’aiuto al suicidio, nel caso particolare in cui ad agire siano i familiari o coloro che si prendono cura del paziente. Questo scenario, tutt’altro che ideale, sarebbe comunque altra cosa rispetto all’eventualità di una depenalizzazione del reato stesso”. Indicata una via ancora aperta, il presidente dei vescovi italiani però tiene a sottolineare che “in realtà” il Parlamento dovrebbe intervenire sulla legge che ha introdotto le Disposizioni anticipate di trattamento (il “bio-testamento”, in vigore da inizio 2018), legge di cui Bassetti denuncia “l’equivocità”, da correggere su quattro punti: la nutrizione assistita che andrebbe esclusa dai trattamenti sanitari; le circostanze per la sedazione profonda, che “andrebbero chiarite”; l’obiezione di coscienza per i medici da introdurre; il rafforzamento delle cure palliative “la cui importanza è cruciale”. Esaminando gli “effetti sociali” della legalizzazione di suicidio assistito ed eutanasia, il cardinale parla di “piano inclinato”: “Diverrebbe sempre più normale il togliersi la vita e ciò potrebbe avvenire di fatto per qualunque ragione e, per di più, con l’avvallo e il supporto delle strutture sanitarie dello Stato”, una spinta ambientale particolarmente grave “nei passaggi difficili dell’adolescenza” e più ancora inquietante in una società che “indurrebbe a selezionare mediante la formulazione di appositi parametri sanciti dallo Stato, chi debba essere ancora curato e chi non ne abbia il diritto”. Ricordato il magistero di papa Francesco, Bassetti infine scuote la Chiesa, oggi non solo “chiamata a rendere testimonianza ai valori evangelici della dignità di ogni persona e della solidarietà fraterna” ma che deve agire “facendo anche sentire la propria voce senza timore, soprattutto quando in gioco ci sono le vite di tante persone deboli e indifese”. Infatti su questi temi “il contributo culturale dei cattolici è non solo doveroso, ma anche atteso da una società che cerca punti di riferimento. Ci è chiesto, come Chiesa, di andare oltre la pura testimonianza, per saper dare ragione di quello che sosteniamo”. Un piccolo momento di confusione si è vissuto alla fine del discorso, quando il presidente della Cei stava rispondendo alle domande dei giornalisti. Una signora, brandendo una statuetta di una Madonna con bambino, si è avvicinata gridando “Massone” e accusandolo di non essere sufficientemente difensore della vita. Bassetti, allibito ma calmo, ha replicato: “Ma io ho detto tutto il contrario”. Fine vita. Suicidio assistito, l’ora X della Consulta fa paura alla Cei di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 settembre 2019 Scade il 24 settembre il tempo concesso al legislatore dalla Corte costituzionale nell’ambito del processo Cappato/dj Fabo. Appello dei vescovi al Parlamento. Il 19 settembre mega concerto a Roma per sostenere la legge sulla legalizzazione dell’eutanasia. Il tempo concesso dalla Corte costituzionale al legislatore per “intervenire con un’appropriata disciplina” sul fine vita sta per scadere. E inutilmente, si può dire a questo punto, perché se il nuovo governo si tira indietro, come ha comunicato Giuseppe Conte l’altro giorno nel suo discorso al Senato, la palla rimane tutta al Parlamento. Il 24 settembre prossimo, infatti, trascorso l’anno di sospensione del giudizio, la Consulta dovrà per forza rispondere al dubbio di illegittimità costituzionale sull’art. 580 del codice penale, quello che vieta l’aiuto al suicidio. Perché il quesito venne sollevato dalla Corte d’Assise di Milano che rinviò la sentenza su Marco Cappato, a processo per aver accompagnato a morire in Svizzera dj Fabo, in attesa del responso. Dunque ora, a dispetto di quanto chiedono diversi esponenti del centrodestra, che premono per un ulteriore rinvio per cercare di evitare la messa in mora della norma sul suicidio, i giudici costituzionalisti saranno costretti ad emettere il verdetto - molto probabilmente di incostituzionalità, come di fatto già anticipato - sull’attuale assetto normativo del fine vita, concepito in era fascista e inserito nel Codice Rocco. Assetto che, così scrivevano un anno fa, “lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Alla vista di tale orizzonte, la Cei ha cominciato a scaldare i muscoli per il lancio degli anatemi, con un convegno su “Eutanasia e suicidio assistito” organizzato ieri a Roma da un’ottantina di associazioni cattoliche, dal quale il presidente dei vescovi ha dettato i suoi diktat: “Va negato che esista un diritto a darsi la morte; vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente”, ha affermato il cardinale Gualtiero Bassetti come se non ci fosse altro credo al mondo. Il prelato parla all’ala pro-life (che trova adepti anche nel Pd) di quel Parlamento al quale Conte ha rivolto una sollecitazione: “Il tema del suicidio medicalmente assistito non è oggetto del programma di governo: ho ritenuto io stesso - ha detto il premier chiedendo la fiducia al Senato - di non inserirlo perché non ritengo sia un tema che si presti a un progetto politico. Auspico che il Parlamento trovi il modo e le occasioni per approfondire queste questioni e lo possa fare rapidamente”. Altrimenti, ha concluso, lo farà la Corte Costituzionale. Un pericolo assolutamente da evitare, per il card. Bassetti che lancia un appello perché venga chiesta una moratoria alla Consulta e suggerisce ai parlamentari di modificare l’art. 580 con “attenuazioni e differenziazioni delle sanzioni”, in modo di impedire alla Corte di intervenire in termini più radicali. La Cei auspica piuttosto una revisione delle Dat, approvate nel 2017, e l’introduzione dell’obiezione di coscienza al bio-testamento da parte dei medici. Al convegno pro-life, cui erano stati invitati tutti i parlamentari, è giunto il messaggio della presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, che si augura un quadro normativo “certo” basato “non sull’emozione” ma sui valori di “centralità dell’individuo” e “delle relazioni affettive”. Parole, in realtà, che avrebbero potuto essere tranquillamente sostenute anche da Fabiano Antoniani quando chiedeva di poter morire con dignità. In questa ottica si sono mobilitate decine di artisti e personalità della cultura e dello spettacolo che hanno il “coraggio” di “rompere un tabù”, per usare le parole di Marco Cappato, e rilanciare lo slogan “Liberi fino alla fine”. Il 19 settembre a Roma, infatti, l’associazione Luca Coscioni ha organizzato una manifestazione concerto a Piazza Don Bosco, nei giardini intitolati a Piergiorgio Welby, davanti alla chiesa che gli negò i funerali. Dalle 17 si alterneranno sul palco artisti del calibro di Nina Zilli, Roy Paci, Luca Barbarossa, Kento, Oliviero Toscani, Pau e Mac dei Negrita, e tanti altri. E saranno presenti personalità come Giulia Innocenzi, Giulio Golia delle Iene, Marianna Aprile, Stella Pende, Selvaggia Lucarelli, Alba Parietti, Claudio Coccoluto. Sarà Neri Marcorè a condurre una serata che vuole ricordare ai nostri legislatori che da sei anni in Parlamento giace una legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia che porta in calce la firma di oltre 130 mila italiani. “Al nostro Paese servono leggi - spiega la segretaria dell’associazione, Filomena Gallo - che non costringano i cittadini ad andare all’estero per concepire un figlio, fare ricerca o scegliere come porre fine alle proprie sofferenze”. Migranti. La mossa di Conte per cambiare Dublino: “Chi è contrario paga” di Francesca Sforza La Stampa, 12 settembre 2019 Pronto un meccanismo per la redistribuzione di migranti. Sette Paesi accettano le quote. L’avvertimento a Visegrad. Un giorno il Trattato di Dublino sarà rinegoziato, ma i tempi non sono brevi. In attesa di quel giorno, il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha presentato alla neo presidente della commissione Europea Ursula von der Leyen un’alternativa da perseguire cominciando a mettere insieme una coalizione di Stati membri volenterosi, disposti ad avviare un meccanismo temporaneo. Ieri a Bruxelles, nel corso della sua prima visita in veste di rappresentante del nuovo governo italiano, durante un colloquio di circa un’ora, Conte è stato molto esplicito: “C’è grande disponibilità a trovare subito un accordo per la redistribuzione dei migranti salvati in mare, ancorché temporaneo”. In pratica, si tratta di trovare un’intesa tra sei-sette Paesi per evitare che ogni nave che si avvicini alle coste italiane si trasformi in un incubo a cielo aperto. Il governo italiano ha già l’appoggio di Francia e Germania, e sta avviando colloqui per assicurarsi il sostegno di Spagna, Portogallo, Lussemburgo e Romania. L’intesa - che sarà definita nei dettagli al prossimo incontro tra i ministri degli Interni Ue a Malta, il 23 settembre prossimo - si incardina sostanzialmente su due punti: la definizione di una percentuale di accoglienza ripartita tra i Paesi partecipanti, e la caduta - all’interno di questa percentuale - della distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo. Si supera in questo modo uno degli ostacoli maggiori previsti dal trattato di Dublino, secondo cui soltanto determinate categorie di migranti hanno diritto a restare nel Paese di sbarco. Ogni Paese avrà il compito di individuare, all’interno della percentuale che gli è stata destinata, chi ha diritto all’asilo e chi no, evitando in questo modo che il Paese di accoglienza si sobbarchi, da solo, i tempi e i modi per definire le singole situazioni. “Il meccanismo - ha detto il premier Conte - lo stabilizzeremo, lo modificheremo, lo perfezioneremo, ma assolutamente dobbiamo uscire dalla gestione dei casi emergenziali affidati alla sola Italia”. E chi non ci sta? “I Paesi riluttanti - ha detto Conte con chiaro riferimento al gruppo Visengrad - ne risentiranno sul piano finanziario, in modo consistente”. La reazione della presidente von der Leyen è stata positiva, e proprio per rafforzare con il sostegno della commissione un accordo che è a tutti gli effetti intergovernativo (e dunque più fragile, nella misura in cui i governi possono cambiare, e con essi gli orientamenti e gli impegni presi), si è detta disponibile ad assumere un ruolo nella partita. “Siamo pronti a sostenere l’accordo temporaneo sia finanziariamente sia operativamente attraverso le agenzie europee”, ha detto il portavoce della Commissione. A questo si aggiunge un compito di coordinamento, soprattutto in materia di rimpatri. Al momento, la gestione dei rimpatri è infatti gestita a livello bilaterale tra le singole nazioni e i Paesi di origine - un esempio per tutti l’accordo negoziato dal governo Berlusconi tra Italia e Tunisia. In futuro, invece, sarà la Commissione a negoziare con i Paesi di origine a nome di tutti gli Stati membri. Tempi previsti per rendere operativo il meccanismo temporaneo? Velocemente, auspicano gli italiani. “Due-tre mesi”, precisano le fonti. Tra gli altri temi affrontati nel corso del colloquio con von der Leyen e il presidente del Consiglio uscente Donald Tusk, c’è la questione della revisione delle regole del Patto di stabilità e del Mezzogiorno, temi su cui le prossime settimane saranno decisive per individuarne la linea. Nel complesso, l’Italia ha dato l’impressione di avere un’agenda chiara e la Commissione ha mostrato grande apertura di fronte a un governo decisamente “amico” rispetto a quello precedente. Francia e Germania sono già in prima linea nel sostenere il nostro Paese: a Parigi Macron ha parlato di “un’alleanza storica per cambiare Dublino”, e a Berlino Merkel si è detta pronta a organizzare al più presto una conferenza per la stabilizzazione della Libia, in cui l’Italia avrà un ruolo da protagonista. Droghe. Così la Cia creò l’Lsd (per controllare le menti) di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 12 settembre 2019 L’intelligence usò la droga per condurre test su detenuti, spie e psicopatici con l’obiettivo di alterare la personalità. Senza volerlo contribuì alla rivolta generazionale degli anni 60. La Seconda guerra mondiale è finita da pochi anni. L’Europa, ancora distrutta, è spaccata in due. L’Unione Sovietica, ormai potenza nucleare, fa paura. L’America continua a vivere nel terrore anche quando doma il maccartismo e mette fine alla “caccia alle streghe”. È l’alba della Guerra fredda e la Cia, convinta che gli scienziati russi stiano cercando di trasformare l’essere umano in un’arma controllando la sua mente e attribuendogli una nuova personalità, decide di giocare d’anticipo affidando a un brillante chimico, Sidney Gottlieb, un progetto che ha gli stessi obiettivi: scoprire se è possibile sopprimere il carattere di un individuo sostituendolo con un altro creato artificialmente. Gottlieb, un uomo inquieto, scosso da pulsioni etiche che lo spingono a rifiutare la religione ebraica, quella della sua famiglia, per battere altre strade, dall’agnosticismo al buddismo zen, accetta di guidare un programma segreto che lo porterà a usare molti uomini come cavie (alcuni moriranno, altri impazziranno) convinto che, per quanto alto, questo sia un prezzo che vale la pena pagare per difendere la libertà dell’America e dell’Occidente. Ottenuta carta bianca e molti soldi, privo di controlli, Gottlieb investe 240 mila dollari nell’acquisto di tutte le scorte di una nuova droga, l’Lsd, che trova in giro per il mondo. Può essere la materia prima per trasformare la personalità: il chimico decide di sottrarla ai russi (e alla Cina di Mao, ancora isolata ma già temuta). Inizia, invece, a sperimentare lui l’Lsd: prima in centri di detenzione sotto controllo americano in Germania, Giappone e nelle Filippine. Serve a tenere i test lontani da occhi Usa indiscreti, ma anche a ottenere l’aiuto di medici e chimici nazisti: la Cia usa i dati degli esperimenti fatti nei campi di concentramento tedeschi e giapponesi. Anche i metodi ricordano quelli degli abissi del dottor Mengele, l’”angelo della morte”: detenuti non protetti (spie nemiche, assassini psicopatici) torturati e drogati per misurare fino a che punto può arrivare la resistenza della mente umana. Poi Gottlieb trasferisce, in modo meno cruento, i suoi esperimenti negli Stati Uniti: distribuisce l’Lsd a penitenziari e ospedali psichiatrici per esperimenti di varia intensità. Questa storia agghiacciante della quale rimangono poche tracce (gli archivi del programma, chiamato MK-Ultra, furono distrutti quando Gottlieb lasciò la Cia) non è inedita: alla fine degli anni Settanta il caso venne fuori durante le indagini del Congresso sulle attività clandestine dell’intelligence Usa. Ormai sepolto da decenni, riemerge ora nella ricostruzione di un giornalista, Stephen Kinzer, che, dopo anni di ricerche, ha appena pubblicato Poisoner in Chief (avvelenatore capo), un libro nel quale ricostruisce questa pagina tragica della storia americana. Tragica e paradossale: il programma che la Cia aveva ideato per cercare di mettere sotto controllo l’umanità finì, invece, per alimentare involontariamente la ribellione generazionale della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta: gli hippy e i tanti giovani che cercavano la libertà nella droga. L’Lsd di Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, veniva da un esperimento sponsorizzato dalla Cia. E anche la droga di Robert Hunter dei Grateful Dead o quella di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation e dell’Lsd, arrivò, indirettamente, dai massicci acquisti dell’intelligence. Ormai consapevole di poter distruggere una mente, ma di non poterne creare un’altra, Gottlieb, che per i servizi segreti produsse anche veleni - regali tossici per Fidel Castro, un fazzoletto avvelenato per uccidere un colonnello iracheno, una freccia avvelenata per eliminare un leader congolese, tutti attentati falliti - si ritirò nel 1972 quando andarono via i capi della Cia che lo avevano coperto. Passò i suoi ultimi anni creando comuni dedite alle danze folk e alla pastorizia e facendo il filantropo: gestore di un lebbrosario in India e poi a fianco dei malati terminali in un hospice. Svizzera. Carceri, l’incertezza può uccidere rsi.ch, 12 settembre 2019 I tentativi di gesti estremi tra i detenuti avvengono soprattutto nelle carceri preventive, dove non si è a conoscenza del proprio futuro. Come riporta l’Osservatorio svizzero della salute (Obsan), sono 33.000 le persone che hanno tentato di togliersi la vita negli ultimi 12 mesi. Una cifra che fa riflettere, specie se si considera che nella statistica mancano alcuni gruppi particolarmente vulnerabili, come quello dei carcerati. Il direttore della Stampa Stefano Laffranchini, ai microfoni delle Cronache della Svizzera italiana, ha affrontato questa problematica: “La popolazione carceraria è più a rischio, soprattutto nel carcere preventivo, dove la persona viene improvvisamente privata del tessuto sociale. Non ha una prospettiva, non sa cosa le succederà e quindi il rischio di gesti estremi c’è”. Situazione che migliora quando il detenuto viene trasferito nel carcere penale, dove è a conoscenza di quello che dovrà affrontare e di quanto tempo dovrà scontare dietro le sbarre. Qui inizia a lavorare e a frequentare corsi di formazione, uscendo anche dalla cella. Negli ultimi cinque anni, specie grazie ad alcune misure preventive, i tentativi seri di suicidio si possono contare sulle dita di una mano: “Innanzitutto c’è una presa a carico psichiatrica immediata e sulla base dell’analisi medica si decide quale collocazione è più indicata per il paziente, dalla cella normale a quella video sorvegliata”, ha spiegato lo stesso Laffranchini. Nella prigione non mancano le figure di sostegno: un medico generico, un infermiere di igiene mentale e una dottoressa psichiatrica. A partire dal 2020, la struttura avrà anche a disposizione quattro celle ad hoc per i casi psichiatrici, in modo da garantire loro una continuità terapeutica. Quando si è invece confrontati con crisi acute, si procede con il ricovero alla Clinica psichiatrica cantonale (Cpc). Un ruolo importante l’hanno anche i co-detenuti, che spesso intervengono per segnalare comportamenti anomali degli altri incarcerati. Iran. Arrestati un australiano e due cittadine britanniche Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2019 Si tratta di un’accademica di Cambridge e di una blogger. Le due sono state fermate in occasioni diverse. L’uomo sarebbe il compagno della scrittrice. Tutti e tre sono detenuti mnel carcere Evin di Teheran. Ancora da chiarire il motivo dell’arresto. Due donne con doppia cittadinanza australiana e britannica e un cittadino australiano sono stati arrestati in Iran. A renderlo noto lo stesso ministero degli Esteri di Canberra, aggiungendo che ai tre viene fornita assistenza consolare. Tutti si trovano nel carcere Evin di Teheran, lo stesso dove dal 2016 è rinchiusa la project manager 41enne Nazanin Zaghari-Ratcliffe, britannica-iraniana, per accuse di spionaggio. Secondo il Times le due donne detenute sarebbero una docente universitaria dell’Università di Cambridge, che stava insegnando in una facoltà australiana, e una blogger, arrestate in occasioni separate. Secondo i media australiani, il terzo arrestato sarebbe il compagno della blogger. I loro nomi non sono stati rivelati e non è ancora chiaro né di quale reato siano accusati né se siano stati incriminati: si sa solo che una delle due donne sarebbe detenuta da circa un anno. Il Times collega gli arresti ad una escalation di tensione in atto tra Londra e Teheran, sottolineando che si tratterebbe dei primi casi di arresto di persone con doppia cittadinanza una delle quali non sia quella iraniana. Si ipotizza anche l’influenza dei conflitti internazionali: la notizia arriva dopo è stata annunciata la partecipazione di Canberra alla missione guidata dagli Usa per proteggere le spedizioni nello Stretto di Hormuz, che divide la Penisola arabica dalle coste dell’Iran. In settimana l’Australia aveva rivisto gli avvisi ai turisti diretti a Teheran, invitando a “rivalutare la necessità di viaggiare” e a “non viaggiare” in zone vicine al confine con Iraq e Afghanistan.