Carcere, dal nuovo governo vecchie ricette? di Franco Corleone Il Manifesto, 11 settembre 2019 Nel programma del Governo giallorosso del professor Conte non c’è ancora traccia di discontinuità nei capitoli della giustizia e del carcere, eppure il vizio della speranza non ci abbandona. La svolta che vogliamo è che torni ad essere perseguito il progetto costituzionale dei diritti e del reinserimento sociale delle persone detenute. Il Governo della paura e del giustizialismo ha fomentato e rilegittimato il sovraffollamento penitenziario, riproponendo ricette vecchie e stantie, come quelle edilizie, invece delle strade coraggiose e innovative delle alternative al carcere. Ignaro dei principi costituzionali, il vecchio Governo ha alimentato una rappresentazione conflittuale delle carceri italiane, dove non c’era posto per operatori formati al rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e votati al fine costituzionale del reinserimento dei condannati, ma custodi in lotta contro i custoditi. Inevitabilmente il clima all’interno delle carceri si è fatto sempre più pesante: suicidi, aggressioni, episodi di autolesionismo sono diventati sempre più frequenti, come non si vedeva da molti anni. La risposta alla nuova sofferenza delle carceri non può essere il ritorno alla chiusura dei detenuti nelle camere detentive (le vecchie celle) e l’interdizione degli spazi di socialità perché questa scelta non farebbe che alimentare altra disperazione e altra violenza. Occorre invece scrivere un nuovo patto per la riforma, a partire da ciò che è stato accantonato della proposta degli Stati generali dell’esecuzione penale: alternative al carcere, apertura all’affettività e riforma delle misure di sicurezza. Come Conferenza dei garanti territoriali, abbiamo elaborato una proposta di legge per il diritto alla affettività e sessualità in carcere e chiederemo a Governo e Parlamento di decidersi a chiudere questa vicenda aperta ormai da vent’anni. La pena e la privazione della libertà non possono diventare un limite alle relazioni familiari, affettive e sessuali, e dunque vanno applicate le norme sulla territorializzazione della pena, ampliate le comunicazioni telefoniche, garantita la riservatezza degli incontri con i congiunti. E così, le alternative al carcere devono liberarsi del fardello delle esclusioni di legge, contrarie alla finalità rieducativa della pena che deve valere per tutti: occorre garantire l’accesso alle alternative per gli autori di tutta quella ampia fascia di reati minori e non violenti che riempiono le carceri italiane, a partire da quelli previsti da una legislazione antidroga antistorica (responsabile di ingressi e presenze sopra il 30% secondo i dati del Libro Bianco sulle Droghe curato annualmente dalla Società della Ragione, Forum Droghe, Cnca, Antigone, Cgil e Associazione Luca Coscioni. Infine, bisogna completare il percorso riformatore avviato con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, assicurando l’applicazione della sentenza 99/2019 della Corte costituzionale (e seguendo le indicazioni del Comitato Nazionale di Bioetica). Il che significa consentire la detenzione domiciliare speciale per le persone affette da gravi disturbi psichici e garantire diffusione e qualità dei servizi psichiatrici in carcere e sul territorio, contribuendo così a ridurre l’internamento nelle Rems, che secondo la legge dovrebbero rappresentare la extrema ratio del trattamento (di regola territoriale). Ultimo, ma non meno importante, occorre affrontare la stortura del “doppio binario” tra pena e misure di sicurezza. Su questi punti misureremo la discontinuità del nuovo Governo con il precedente e ci auguriamo che ministri e sottosegretari, vecchi e nuovi, e soprattutto i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vogliano raccogliere la sfida che il mondo del carcere si aspetta. Il 4 e 5 ottobre a Milano la Conferenza dei Garanti regionali e comunali presenterà una piattaforma articolata per una svolta tangibile. Servono ascolto e dialogo contro il radicalismo in carcere di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 11 settembre 2019 L’abbraccio fra un giovanissimo detenuto e una donna venuta fuori dal carcere a raccontare la tragica storia di suo figlio. E poi le parole del ragazzo: “Grazie. Avrei voluto sentire cose così prima di finire qui dentro”. L’incontro, nell’aprile scorso, fra i giovani reclusi del penitenziario minorile Ferrante Aporti di Torino e Valeria Collina, madre italiana convertita all’Islam che ha visto suo figlio imboccare la strada del terrorismo, è stato uno dei momenti più toccanti del progetto europeo “Fair” (acronimo di Fighting against inmates’ radicalization) per prevenire la radicalizzazione in carcere. La signora Collina ha parlato della tragica vicenda del figlio 22enne Youssef Zaghba, che il 3 giugno 2017 con altri due estremisti ha preso parte a un attentato sul London Bridge, che ha causato 11 vittime, fra cui i tre attentatori. Con coraggio e franchezza, mamma Valeria ha condiviso uno spaccato esistenziale in cui elementi di vita familiare, contesto religioso, problemi di incomprensione, ma anche sollecitazioni giunte dal web e dallo scenario geopolitico, hanno concorso a ciò che poi è avvenuto. La sua narrazione è un tassello del mosaico di incontri e laboratori realizzato dal progetto Fair. Costato circa 900mila euro (il 90% da fondi Ue), è tra quelli finanziati dalla Commissione Europea in materia di radicalizzazione e terrorismo. È partito nel 2017 e si concluderà fra un mese. Ed è stato portato avanti dalla Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo di Ravenna, ente capofila di una decina di partner di Finlandia, Lituania, Ungheria, Romania, Slovenia, Olanda, Portogallo e Malta. I risultati del progetto verranno analizzati oggi in Senato, in un convegno aperto dalla vicepresidente dell’assemblea di Palazzo Madama, Anna Rossomando, e dal capo del Dap Francesco Basentini e al quale prenderanno parte criminologi, magistrati ed esperti europei. In Italia, su circa 60mila detenuti in 190 istituti, circa 7mila (fra cui 44 “convertitisi” in carcere) sarebbero praticanti di fede islamica. I condannati o imputati per reati di terrorismo di matrice jihadista sono 66 (dati de12018), inseriti in un circuito di “Alta Sicurezza”: gli uomini in apposite sezioni dei penitenziari di Nuoro, Sassari e Rossano (Cosenza), due donne a L’Aquila. Oltre a loro, si contano 478 soggetti monitorati per rischio di radicalizzazione jihadista: 233a livello “alto”; 103 “medio” e 142 a livello “basso”. Il progetto ha rivolto la propria formazione anche alle guide spirituali, con una sessione per i cappellani del Piemonte e un’altra per 50 imam (in collaborazione con l’Ucoii) presso il Centro islamico di Brescia. A loro si è rivolto Omar Sharif Mulbocus, ex estremista inglese negli anni 90, oggi formatore e testimone di un percorso di deradicalizzazione, che ha offerto strumenti pratici per aprire un dialogo con detenuti “radicalizzati”. E la relazione del progetto Fair - visionata da Avvenire in anteprima - registra un paradosso: l’amministrazione penitenziaria sembra “preferire il proliferare di imam “faida te”, cioè autoproclamatisi tali in carcere, piuttosto che seguire le pratiche pilota che hanno introdotto imam formati e stimati dalla propria comunità locale” che conducono “la salat, la preghiera del venerdì, in arabo e in italiano focalizzando i sermoni su perdono, riconciliazione o dialogo interreligioso”. In carcere, il rispetto dei diritti può evitare la “vittimizzazione” che apre la porta ai radicalismi, spiega il coordinatore scientifico Luca Guglielminetti, e il progetto individua “raccomandazioni concrete per l’Italia che oggi presenteremo con l’auspicio che Parlamento e nuovo governo le facciano proprie”. Fra queste, l’adozione di una normativa in materia di prevenzione del radicalismo, che riparta dal disegno di legge presentato da Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso (ora pm antiterrorismo a Bologna), che il Parlamento non riuscì a varare alla fine della scorsa legislatura. Storia di Egidio, morto di cancro il giorno dopo essere uscito di prigione di Manuela D’Alessandro agi.it, 11 settembre 2019 Era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché, nel 2012, avevano trovato un uomo dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. Aveva 82 anni. Egidio T., operaio saldatore e giramondo in pensione, nessuna condanna in un’aula di giustizia prima di quella che ha segnato l’ultimo vicolo della sua vita, è morto a 82 anni dopo avere trascorso 9 mesi nel carcere di Parma in compagnia di un cancro. La sua è una storia contorta, di disfunzioni comuni nel sistema della giustizia. Nessuno ha una colpa precisa che sia andata così, spiega all’Agi il suo avvocato Letizia Tonoletti, ma certo quell’uomo, “che spesso doveva attaccarsi a una macchinetta per respirare”, non doveva finire in una prigione. Solo il giorno prima del suo decesso, avvenuto il 6 settembre, il magistrato di Sorveglianza aveva autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale. Era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché, nel 2012, avevano trovato un uomo dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. “Dopo essere stato denunciato, il mio assistito non ha più ricevuto notizie di quel procedimento perché ha cambiato domicilio dimenticandosi di comunicarlo alla magistratura”. Si è ricordato di quella vicenda quando, subito dopo la sentenza, sono andati a prenderlo nell’alloggio popolare dove viveva per rinchiuderlo. Il suo difensore non ha potuto che prenderne atto perché il reato è ostativo e quindi non permetteva di evitare il carcere salvo gravi problemi di salute. E, quando il condannato va subito in carcere, l’istanza per chiedere misure alternative viene esaminata a qualche mese di distanza. La difesa l’ha presentata a maggio di quest’anno, dopo avere tergiversato per via dei problemi economici che Egidio avrebbe potuto patire perché con la condanna gli era stato tolto anche l’assegno assistenziale a integrazione della modesta pensione e il rischio era che, tornando a casa, morisse di fame. Ai primi di settembre, il giudice della Sorveglianza di Reggio Emilia ha scritto alla difesa che avrebbe concesso la detenzione domiciliare solo dopo le dimissioni dall’ospedale in cui era stato ricoverato. Nei giorni seguenti, dal carcere è arrivata al magistrato la comunicazione che il ricovero si sarebbe protratto vista la gravità del quadro clinico. Il 5 settembre sono stati firmati finalmente i domiciliari, in ospedale. “Egidio mi aveva giurato di essere innocente - dice ora la legale - e di avere caricato il baule sotto minaccia di morte da parte di un uomo, non immaginando il contenuto del bagaglio. Il suo errore è stato non avere comunicato il cambio di residenza. Se l’avesse fatto, un legale avrebbe potuto chiedere di patteggiare una pena che non comportava il carcere o, almeno, fare appello, fermando così l’esecuzione della pena. La sua però è una dimenticanza comprensibile considerando anche che, dopo la denuncia, ha trascorso lunghi periodi in ospedale a causa del tumore. Sarebbe inoltre giusto che, davanti a casi che coinvolgono soggetti così fragili, la magistratura, prima di emettere l’ordine di esecuzione, allerti i servizi sociali in modo da poter presentare subito un’istanza di misure alternative. Quanto ai tempi, quelli presi dal giudice per decidere sono standard”. In carcere Egidio, che ha vissuto per tanti anni in Argentina, “ha sempre detto di essere stato trattato bene, ma non vedeva l’ora di uscire”. Prima di entrarci, racconta chi lo conosceva attraverso l’associazione di Parma Rete Diritti in Casa, “era sereno e pimpante, nonostante la malattia”. Signor Ministro della (In)Giustizia, nessuno dovrebbe morire in carcere di Carmelo Musumeci osservatoriorepressione.info, 11 settembre 2019 Leggo sempre le notizie che vengono dall’inferno delle nostre “Patrie Galere” perché è difficile scrollarsi il carcere di dosso. Oggi in rete ho letto: “Egidio Tiraborrelli aveva 82 anni e il 18 dicembre 2018 è stato messo in carcere per un reato accertato nel 2012 e per il quale era stato condannato in contumacia a sua insaputa. Dal carcere è uscito solo per andare in medicina d’urgenza dove oggi è morto. Egidio è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato considerato gravissimo, tanto da far entrare in carcere una persona malata di 82 anni, un reato considerato ostativo, tanto da far perdere la possibilità di misure alternative al carcere e di sottrarre addirittura la pensione. Egidio era un vero cittadino del mondo. Lui, con alle spalle una vita di duro lavoro in giro per i deserti a saldare tubi per la Snam e per la Saipem, si era adeguato con leggerezza a vivere in una casa occupata a Parma, legando benissimo con gli altri abitanti e con il vicinato, al quale offriva i prodotti dell’orto e del giardino che curava come fossero figli”. (Fonte: da Rete Diritti in Casa). Cambiano i ministri della (in)giustizia ma il carcere rimane sempre un cimitero dei vivi. Questa morte, per certi aspetti, mi ha fatto ricordare quella di Khalid Hussein, 79 anni, il più anziano prigioniero politico palestinese rinchiuso nelle carceri italiane, morto nel giugno del 2009, malato, vecchio e solo in una cella del carcere di Benevento. Avevo conosciuto Khalid, combattente per la libertà della Palestina e dei palestinesi, condannato all’ergastolo in contumacia per il sequestro della nave Achille Lauro, nel carcere di Parma nel 1998. Parlava perfettamente diverse lingue: russo, arabo, israeliano, inglese, francese, italiano e greco. Mi ricordo che giocavo a scacchi con lui, io ero più bravo, ma lui era più anziano e qualche volta lo facevo vincere, perché altrimenti ci rimaneva male e non giocava più. Non l’avevo mai perso di vista, gli avevo sempre mandato, e mi erano sempre arrivati i suoi, saluti da un carcere all’altro. Mi ricordo che Khalid aveva sempre partecipato a tutte le iniziative del movimento degli ergastolani in lotta per la vita per l’abolizione dell’ergastolo. Aveva partecipato a due scioperi della fame, quello dal primo dicembre 2007 ad oltranza e quello del primo dicembre del 2008 a staffetta. Nel 2007 anche lui aveva fatto parte di quei 310 ergastolani che avevano chiesto al Presidente della Repubblica la pena di morte in sostituzione all’ergastolo. Molti, troppi, di quella famosa lista sono già morti di suicidio o di morte naturale, ma l’ergastolo, purtroppo, esiste ancora: io, infatti, con la mia libertà condizionale, sono solo l’eccezione che conferma la regola. Io e Khalid nelle nostre passeggiate all’aria parlavamo spesso di politica, di Dio e della morte. La pensavamo quasi allo stesso modo, tutti e due atei, lui comunista, io anarchico, e della morte, quando capita ad un ergastolano, dicevamo che è giusta, bella e buona. Il carcere in questo strano paese trasforma la giustizia in vendetta e violenza e viene usato spesso solo come un luogo dove s’invecchia e si muore. Spero che ora sia Khalid che Egidio siano in un posto migliore dell’Italia, un paese crudele che tiene, e fa morire, persone anziane e malate chiuse a chiave in una cella. La vita buia delle “dame di compagnia”, vittime sacrificali del super 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2019 Nessun fondamento normativo di un regime criticato dagli enti internazionali. Accolto il ricorso di un detenuto di Parma, trasferito nella sezione ordinaria del carcere duro. Ma qualcun altro presto prenderà il suo posto. Era recluso ininterrottamente dal 2018 nella cosiddetta area riservata al 41bis del carcere di Parma per fare da “dama di compagnia”, gergo carcerario per indicare la persona che viene sacrificata per condividere l’ora di socialità con il detenuto al 41bis ulteriormente inasprito. Le avvocate Barbara Amicarella e Antonella Minutiello hanno fatto reclamo per chiedere immediatamente il trasferimento, perché tale sistemazione sarebbe ingiustificata e lesiva delle condizioni personali del detenuto, sia pur sottoposto al 41bis, anche per i suoi problemi di salute che lo affliggono. In particolare presenta la sindrome claustrofobica, del tutto incompatibile con la caratteristica ambientale dell’area riservata, dove la cella risulta non areata, scarsamente illuminata, di dimensioni ridottissime, chiusa da una rete metallica e coperta da un tendone. Oltre a ciò, tale sistemazione - come ha poi riconosciuto il magistrato di sorveglianza - comporta la condivisione dell’area di socialità con un solo detenuto e ciò comprime la partecipazione a momenti di socialità (il 41bis l’assicura in gruppi fino a quattro persone) e trattamentali per la finalità rieducativa per un detenuto che comunque ha un fine pena nel 2029. Il magistrato di sorveglianza ha accolto il reclamo e ha ordinato il trasferimento del detenuto presso la sezione “ordinaria” del 41bis, ritenendo che la sua sistemazione nell’area riservata è del tutto ingiustificata. Decisiva è stata anche la relazione effettuata dal garante dei detenuti del comune di Parma, Roberto Cavalieri. Ha potuto constatare nuovamente che la cosiddetta area riservata del carcere di Parma presenta caratteristiche decisamente critiche. Lo spazio dei passeggi è di dimensioni ridottissime, senza una copertura idonea di riparo dalle intemperie. Lo spazio non è servito da luce diretta, ma è in ombra e non è presente alcuna sedia, importante per i detenuti anziani. Il garante Cavalieri ha anche relazionato le condizioni delle celle. Le finestre si affacciano sull’area dei passaggi, dove in sostanza non entra la luce e viene anche compromesso il ricambio dell’aria. L’entrata della cella si affaccia su un corridoio che presenta ampie finestre che prima dei lavori di costruzione del nuovo padiglione permetteva l’entrata di luce naturale, mentre attualmente, con la costruzione dei tunnel di collegamento tra il nuovo padiglione e le sale colloquio, risulta un totale impedimento alla luce naturale di illuminare gli spazi detentivi. Il detenuto, grazie al reclamo delle avvocate, poi accolto dal magistrato di sorveglianza, è stato trasferito, ma subito dopo inevitabilmente è stato sostituito da un’altra persona per fare, appunto, da “dama di compagnia”. È il destino di chi viene recluso nell’area riservata, una forma di carcerazione ancora e parecchio più aspra del 41bis. Ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Queste sono le caratteristiche principali di questa carcerazione che non ha nessun fondamento normativo, ma nonostante ciò è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro. Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali, come il comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate comportano un isolamento totale. Un super 41bis così duro, al punto che l’amministrazione passata, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni la “dama di compagnia”, un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità. E ciò significa che oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Il regime 41bis in area riservata è super duro, così duro che diventa per alcuni una tortura insostenibile. Così come accadde al cugino del capoclan Francesco Schiavone, suo omonimo detto “Cicciarello”, che lo portò a dissociarsi. “Non sentivo alcun rumore quando ero in cella - aveva spiegato ai giudici Schiavone - nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Stavo impazzendo”. Ma lo scopo del 41bis, teoricamente, non è nato per torturare la persona con la finalità di farlo dissociare. La ratio, sulla carta, è quella semplicemente di evitare che i boss diano ordini esterni al proprio clan di appartenenza. Alta tensione sulla riforma della giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2019 Resta ad alta tensione la partita della riforma della giustizia targata Bonafede. Il cambio delle forze di Governo, con l’ingresso del Pd e l’uscita della Lega, fa venire meno anche l’accordo politico che condizionava l’entrata in vigore, prevista per il 2020, delle nuove modalità di calcolo della prescrizione a un pacchetto di norme che accelerasse l’andamento dei procedimenti soprattutto penali. Il testo era stato approvato “salvo intese” dopo una riunione fiume del Consiglio dei ministri lo scorso 1° agosto, dove l’intesa di fondo era stata raggiunta sulla parte dedicata al nuovo sistema di elezione del Csm e sulle modifiche al Codice di procedura civile. Sul penale Lega e 5 Stelle erano rimasti distanti, del tutto insufficienti erano state infatti ritenute dalla Lega le misure delineate dal disegno di legge elaborato dal ministero della Giustizia. A partire dalla determinazione di una soglia di durata coincidente con quella già oggi fissata dalla Legge Pinto, 6 anni. Nelle prossime ore dovrebbe partire un non facile confronto nella nuova maggioranza. Se sullo sfondo resta la distanza su temi chiave come la riforma dell’ordinamento penitenziario, messa a punto dall’amministrazione Orlando e poi subito accantonata dal nuovo ministro Alfonso Bonafede, o la revisione della disciplina delle intercettazioni, anche questa elaborata da Orlando e congelata sino a fine anno da Bonafede, a non volere ricordare il diverso sistema di conteggio della prescrizione previsto da Orlando e modificato da Bonafede, anche sulle misure per accelerare i processi e rivedere il sistema elettorale del Csm potrebbero essere scintille. Da vedere infatti è quanto possa essere condivisa nel Pd una soluzione cui sono invece molto legati i 5 Stelle come quella della dose di sorteggio per la scelta dei futuri consiglieri. Certo da pesare ci sarà anche il pesante coinvolgimento di 2 parlamentari del Pd (Luca Lotti e Cosimo Ferri) nello scandalo nomine che ha investito il Consiglio, ma i mal di pancia sul punto sono prevedibili. Come pure sull’irrigidimento delle sanzioni disciplinari per i magistrati che non rispettano i tempi di durata dei giudizi oppure su norme bandiera come l’innesto possibile della valutazione psicologica nell’esame di idoneità delle toghe. Tra magistrati e avvocati poi l’allarme resta alto. Con le Camere penali che hanno scritto a tutti i parlamentari aprendo al confronto sui tempi della giustizia, sottolineando però quella che è ritenuta una precondizione e cioè la cancellazione dello stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio; mentre l’Anm convoca il direttivo per venerdì, con all’ordine del giorno le modifiche al codice etico dopo il caso Csm, sabato è indetta l’assemblea dei soci e domenica la presentazione in diretta streaming dei candidati alle elezione suppletive del Consiglio. “Sulla nuova prescrizione daremo battaglia per anni” di Errico Novi Il Dubbio, 11 settembre 2019 Intervista al giurista Domenico Pulitanò. “Non c’è motivo di guardare al 1° gennaio come a una data fatale. Da quel giorno la norma che elimina l’istituto della prescrizione dopo il primo grado sarà in vigore, ma produrrà effetti solo sugli illeciti commessi a partire da quella stessa data. Il che vuol dire che c’è ancora una lunga battaglia da fare, in cui sono personalmente impegnato”. A dirlo è Domenico Pulitanò, vera e propria istituzione dell’accademia del Diritto penale italiano. “La scelta di differire l’efficacia della nuova prescrizione, in modo da introdurre prima una riforma del processo, sembra presupporre la necessità di imbrigliarla, quella norma: allora perché la si è introdotta?”. “Non ci riusciamo. Meglio: noi, la cosiddetta élite dei giuristi, rappresentiamo sì una élite ma di tipo tecnico, possiamo dare vita a un confronto interno, ma non riusciamo a farci ascoltare dall’opinione pubblica. Il punto è che, sulla giustizia, non riesce a farsi ascoltare neppure quella parte della politica che dovrebbe seguire una linea più razionale”. Domenico Pulitanò è una istituzione in sé. Professore emerito di Diritto penale della Statale di Milano e della “Bicocca”, avvocato, è considerato dai penalisti un punto di riferimento al pari di pochissimi altri studiosi. Quando, un anno fa, aderì all’appello contro la “nuova” prescrizione rivolto dalle Camere penali al presidente della Repubblica, il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza esultò come farebbe il sostenitore di una squadra di calcio per l’ingaggio di un grande campione. Ora Pulitanò ribadisce tutto l’allarme per l’entrata in vigore della norma che “sospende” (meglio: abolisce) la prescrizione dei reati dopo il primo grado. Anche se, aggiunge, “non c’è motivo di guardare alla scadenza del 1° gennaio come a una data fatale. Sì, da quel giorno la norma che elimina l’istituto della prescrizione sarà in vigore, ma produrrà effetti solo sugli illeciti commessi a partire da quella stessa data. Il che vuol dire che c’è ancora una lunga battaglia da fare”. Una battaglia contro la prescrizione che potrebbe anche durare anni, dunque? Si deve prendere atto di una sorta di equivoco creatosi nella percezione diffusa. Gran parte dell’opinione pubblica sembra considerare quella data del primo gennaio come il tornante fatale dopo il quale in tutti i processi, una volta pronunciata la sentenza di primo grado, non ci sarà più la prescrizione. Ma sappiamo che non è così, perché la modifica introdotta interviene su un elemento di diritto sostanziale, il che vuol dire che nel caso dei processi per reati seri, chiamiamoli così, per anni non cambierà nulla. Sempre che la norma, sostanziale appunto, sia correttamente interpretata. Intende dire che, quando sarà diventato chiaro come l’effetto tangibile della “nuova” prescrizione sia in realtà differito, l’opinione pubblica potrebbe essere meno delusa da un ripensamento del legislatore? Certo, c’è anche questo aspetto, che agevola la dura battaglia politica da condurre contro il blocco della prescrizione. Ma io mi riferisco innanzitutto al fatto che, se ci si vuole opporre a quella norma, non ha senso considerare la data del primo gennaio come l’esplosione di una bomba a orologeria. In questo Giulia Bongiorno aveva torto... A me interessa che una politica seria avrebbe tutto il tempo per rimediare, e che restano intatti i presupposti e le condizioni per condurre una battaglia altrettanto seria. Professore, lei argomenta con efficacia: ma, in generale, come può, l’élite dei giuristi, persuadere un’opinione pubblica abituata ormai a leggi sulla giustizia concepite proprio per aderire alle aspettative della massa? È un problema enorme. È il problema delle élites in generale, che si ingigantisce nel caso delle élites politiche. Vede, noi come tecnici del diritto, siamo fatalmente portati a costruire discorsi che non saranno compresi dal pubblico. A volte sono costruzioni che potemmo definire illuministiche, in senso buono e meno buono, in ogni caso siamo portatori di ragioni che fanno fatica ad essere comprese. Ma la politica... La politica? Ecco, se tutta la politica gialloverde ha seguito una strada illiberale e irragionevole, il punto è che i più liberali hanno avuto difficoltà a farsi sentire. La cultura penalistica, mi riferisco agli avvocati e a noi giuristi, si è battuta, sì, ma i politici che avrebbero dovuto sostenere le ragioni del diritto penale liberale lo hanno fatto molto meno. Perché, secondo lei? Semplicemente, non sono capaci di sviluppare un discorso comprensibile a un vasto pubblico. Ora ci troviamo nel paradosso per cui c’è un ministro della Giustizia continuatore di una politica che sarebbe da modificare. Dall’altra parte c’è un discorso impostato unicamente in chiave garantista e che per questo rischia di essere frainteso. A cosa si riferisce? Al fatto che quel discorso rischia di essere liquidato come argomentazione fiancheggiatrice di illeciti gravi. Intende dire che il garantismo viene per lo più da un centrodestra fatalmente associato ai processi di Berlusconi? Non solo. Dal punto di vista dei populisti è sospetta anche la posizione garantista associabile al mondo di Renzi, che per estensione diventa l’intero Pd. Inevitabile... Il problema è che la critica alle ultime politiche sulla giustizia dovrebbe basarsi sull’efficienza. Bisognerebbe riuscire, per esempio, a interrogare l’opinione pubblica nel seguente modo: credete davvero che con l’innalzamento delle pene, con l’abolizione dell’abbreviato per i reati da ergastolo, con un principio di legalità ridotto alla cosiddetta certezza della pena, cambi davvero qualcosa? O casomai, anziché produrre più tutela e più sicurezza, lungo questa via si finisce per aggravare i problemi? Ecco, un discorso simile proprio non lo si riesce a costruire. Però è vero che il garantismo è molto esposto al pregiudizio del fiancheggiamento... Ciò non toglie che da parte del mondo forense e dei giuristi in generale si debba proseguire con una forte critica. A breve ci saranno altri convegni dell’Unione Camere penali, un congresso a Taormina, e si lavora con l’obiettivo di strutturare una riforma alternativa proprio in materia di prescrizione dei reati. Lavoro in cui sono personalmente coinvolto e che va fatto a maggior ragione considerato l’effetto non immediato che avrà la norma sulla prescrizione. Il che peraltro non significa ignorare gli effetti negativi più generali, comunque evidenti. Effetti di tipo culturale? Certamente si crea un modello, davvero brutto sul piano dei principi, secondo cui la prescrizione è una cosa cattiva e con la sentenza di primo grado ce ne liberiamo. In realtà è inaccettabile che, dopo la sentenza di primo grado, qualsiasi reato diventi imprescrittibile. Il processo eterno... Qui si innesta un altro aspetto sottovalutato: il legame tra la norma che elimina la prescrizione e le riforme del processo penale. Il legislatore ha differito l’entrata in vigore della prescrizione perché era necessario introdurre prima queste riforme del processo: un legame curioso, che pare presupporre la necessità di imbrigliare la norma sui termini di estinzione dei reati, altrimenti portatrice di effetti negativi e non accettabili. E allora, di grazia, perché l’hai introdotta? Ecco un altro discorso rimasto inopinatamente fuori dal dibattito pubblico. Anche qui: sono i limiti dell’opposizione “liberale”? Dico semplicemente che va benissimo l’idea di rendere più veloci i processi, ma che se ci si arriva davvero, le declaratorie di avvenuta prescrizione non ci saranno più. E quindi, abolire la prescrizione equivale a una dichiarazione di resa rispetto alla lunghezza eccessiva dei processi, giusto? Esatto: cerchiamo di farli funzionare, i processi. E ricordiamoci anche che abbreviarli non può essere associato all’idea secondo cui si deve arrivare più celermente all’accertamento delle responsabilità; piuttosto all’idea che si devono ridurre i rischi di avere un innocente sottoposto a un lungo, ed estenuante, processo. In dieci anni processi civili -40%, nel penale arretrato difficile da eliminare di Claudio Castelli* Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2019 Un’analisi dei dati del Ministero relativi al monitoraggio del 1° trimestre 2019 sulla giustizia civile e penale porta a superare luoghi comuni dominanti sull’andamento della giustizia. Non siamo all’anno zero e quanto al settore civile il quadro generale è incoraggiante. Prosegue un trend in corso (dal 2011) di progressiva riduzione delle pendenze con un rapporto sempre favorevole tra sopravvenienze e definizioni: i 5.700.105 procedimenti pendenti nel 2009 a131 marzo 2019 sono scesi a 3.408.529, con una riduzione del 40,2%. Ma disaggregando i dati emergono ulteriori note positive. La forte riduzione delle pendenze non riguarda solo la cognizione (contenzioso, lavoro, famiglia e volontaria giurisdizione), ma anche fallimenti ed esecuzioni, settore in cui si erano accumulati ritardi storici. Dal 2003, quando si era raggiunto il record di 743.240 procedimenti pendenti, si è avuta una costante, anche se non lineare, discesa e al 31 marzo 2019 siamo giunti a 511.858, con un calo del 31,2%. Sono anche in costante calo i procedimenti ultra-biennali nelle Corti di Appello (da 198.803 nel 2013 ai 105.373, con un calo del 47%) e ultra-triennali in Tribunale (da 646.146 a 359.585 con un calo del 44,5%). È poi incoraggiante la buona omogeneità territoriale. Bisogna sempre rammentare che siamo in un Paese dove la durata di un procedimento civile, secondo l’ultimo censimento con dati del 2016, oscilla tra i 342 giorni di durata media di Aosta e i 2.094 giorni di Lamezia Terme (quindi con un rapporto da i a 6). Su 140 Tribunali solo in 32 (cognizione) ed in 9 (esecuzione e fallimenti), non si è raggiunto nel I trimestre del 2019 un rapporto positivo tra sopravvenienze e definizioni. Tribunali distribuiti in zone alquanto diverse del Pese, a testimonianza di un progresso complessivo. I dati delle Corti di Appello sarebbero poi in molti casi entusiasmanti (clearance rate 1,62 per Napoli, 1,61 per Cagliari, 1,58 per Taranto e 1,57 per Bari). Da tali dati si traggono alcune preziose indicazioni. Il problema non di mettere mano al rito, come normalmente si tende a fare per poi parlare di grande riforma della giustizia, ma di avere un progetto pluriennale e di puntare sull’organizzazione con un’adeguata iniezione di risorse. Sicuramente la regolarità dei concorsi per la magistratura è servita, come è stata utile, anche se ancora insufficiente, l’assunzione di personale amministrativo che ha fatto sì che il 2018 per la prima volta non si sia concluso con un saldo negativo tra assunzioni e cessazioni di personale. Come pure alcune riforme sono servite: lo sviluppo delle soluzioni alternative (mediazione, negoziazione assistita), l’ufficio per il processo, i giudici ausiliari nelle Corti. Ma il mutamento fondamentale è avvenuto nell’organizzazione, nella gestione dell’arretrato, nella progettazione, proseguimento ed estensione di prassi virtuose, nello sforzo di coinvolgimento di tutti gli attori del processo in una visuale comune. Una strada su cui occorre continuare e che comincia a dare frutti anche quanto alla durata dei procedimenti. E che occorrerebbe accompagnare con un piano straordinario di recupero dell’arretrato per quei Tribunali tuttora condizionati in modo pesante dall’arretrato formatosi. Il quadro che emerge quanto al settore penale (dibattimentale) è più articolato e controverso. Vi è una riduzione in corso, ma poco significativa (- 0,7%) e sono molte le Corti (10) e Tribunali (79) che continuano ad accumulare arretrato. La realtà è che in larga parte dei Tribunali arriva a dibattimento molto di più di quanta è la loro capacità di definizione, con udienze fissate a distanza di anni. A ciò si unisce, e in parte deriva (più il processo viene celebrato a distanza di anni, più la probabilità di assoluzione è elevata), un alto tasso di assoluzioni, specie nel rito monocratico che non passa per il filtro dell’udienza preliminare. Un circolo vizioso che normalmente non tocca i procedimenti collegiali (i più rilevanti e complessi), cui normalmente vengono assicurati tempi ragionevoli. Un quadro su cui è necessario intervenire, ma con la consapevolezza che la prima esigenza per garantire effettività e tempi rapidi all’intervento penale è di limitare al necessario le sanzioni penali. Penalizzare tutto potrà servire a livello di immediato consenso, ma equivale a non penalizzare nulla e a rendere inefficace l’intervento penale. Di fronte a problemi complessi le soluzioni sono complesse. Illudersi, come era contenuto nell’ultima bozza di riforma, che sia possibile ridurre i tempi processuali per decreto o con la minaccia di interventi disciplinari contro i magistrati è solo perdente. *Presidente Corte di Appello di Brescia Csm in ostaggio del caso Criscuoli, nuova bagarre in vista del primo plenum di Liana Milella La Repubblica, 11 settembre 2019 Non si dimette il consigliere coinvolto nel caso Palamara. Non c’è pace al Csm. Nonostante i reiterati inviti del presidente della Repubblica, nonché del Csm, Sergio Mattarella, rivolti con frequenza prima delle vacanze agli inquilini di palazzo dei Marescialli, a rispettare rigidamente leggi e conseguenti comportamenti congrui, ecco che un’ennesima polemica si preannuncia proprio in coincidenza con il primo plenum che si aprirà domani mattina alle 10. Per comprendere le possibili conseguenze pesanti va tenuto in mente che nell’orizzonte politico del nuovo governo c’è, nel capitolo sulla giustizia, anche la riforma del Csm, il sistema di elezione dei componenti togati e anche le regole interne, nonché leggi fortemente divisive, e sulle quali può contare proprio il parere consultivo del Consiglio, come quelle sulle intercettazioni e sulla prescrizione. Va da sé che un Csm screditato pesa poco, o nulla, sulle future leggi. Molti magistrati di peso hanno già compreso la portata della prossima partita e invitano il Csm a rimettersi velocemente in pista dopo l’inchiesta di Perugia sull’ex pm di Roma Luca Palamara che ha coinvolto ben cinque consiglieri-magistrati su sedici, portandone quattro alle dimissioni, cui va aggiunto il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. Che succede invece al Consiglio proprio nel giorno - mercoledì 11 settembre - del primo plenum della stagione? Ecco che il caso Palamara e le sue conseguenze si ripresentano. Da giorni circola la voce che l’ultimo consigliere coinvolto perché anche lui tra quelli che hanno partecipato agli incontri tra magistrati e politici per discutere i vertici degli uffici giudiziari tra cui la procura di Roma - Palamara, il deputato Pd Luca Lotti indagato dalla procura di Roma, il collega di partito Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa di Magistratura indipendente e deputato dem) - e cioè Paolo Criscuoli di Mi, sospeso ma non ancora dimessosi, sarebbe intenzionato a restare al suo posto, chiedendo un pieno reintegro in quanto non ritiene di essere coinvolto nella vicenda al pari degli altri. Un caso che già infiamma una situazione comunque tesa, su cui incombono le elezioni dei due pubblici ministeri che devono sostituire quelli già dimissionari. I posti lasciati vacanti da Luigi Spina di Unicost e da Antonio Lepre di Mi non sono coperti da consiglieri non eletti, perché nelle elezioni del luglio 2018 le correnti pensarono bene di candidare solo quattro concorrenti per altrettanti posti. Quindi si vota il 6 e 7 ottobre, e la partita si annuncia molto dura per il parterre dei concorrenti, ben 16, tra cui spiccano i nomi di Nino Di Matteo per la corrente di Davigo, di Anna Canepa per Area, di altri magistrati come Fabrizio Vanorio (pm a Napoli) e Tiziana Siciliani (pm a Milano), noti per le loro inchieste. Domenica, in streaming dall’Anm, presenteranno il loro programma. Ma nel frattempo proprio il Csm - tallonato dall’Anm sul caso Palamara, che sabato terrà un’assemblea di tutti gli iscritti - rischia di incartarsi sul caso Criscuoli, le cui dimissioni o meno, ovviamente, per la polemica che scatenano, possono incidere anche sugli equilibri del voto di ottobre. Il caso Criscuoli, che non è indagato a Perugia, è singolare, perché dimostra come ci sia una sorta di insensibilità rispetto al comportamento che dovrebbe tenere chi entra a far parte di un’istituzione importante come il Csm. Criscuoli faceva parte della sezione disciplinare, quella che giudica i colleghi che hanno commesso errori, ma da lì si è dimesso. Adesso anche lui a sua volta è sotto azione disciplinare proprio per via dei fatti su cui indaga Perugia. Se dovesse rientrare in Consiglio si verificherebbe l’assurdo di un consigliere che, nelle commissioni e nel plenum, siede accanto ai colleghi che poi a loro volta dovranno giudicarlo nell’ambito della sezione disciplinare. Su di lui, inoltre, potrebbero incombere gli interventi disciplinari del ministro della Giustizia e del pg della Cassazione. Va tenuto presente che tra le future norme in discussione nella riforma del Guardasigilli Alfonso Bonafede c’è anche quella di aumentare il numero dei membri del Csm - da 16 a 20 i togati, da 8 a 10 i laici - proprio con l’obiettivo di creare una sezione disciplinare i cui consiglieri, giudici dei loro stessi colleghi, non facciano parte di altre commissioni, ma siano una sorta di tribunale interno isolato dal resto. Le ore, ovviamente di febbrili contatti, che precedono il plenum diranno alla fine se la linea del vicepresidente David Ermini - ex Pd di area renziana, ma che ha sposato la linea della totale indipendenza una volta entrato al Csm, e con un forte legame con Mattarella - sarà destinata a prevalere. In questo cado Criscuoli dovrà recedere dalla sua volontà di restare e sarà costretto a dimettersi definitivamente. In caso contrario la sua permanenza al Csm aprirà un caso anche in vista dell’assemblea degli iscritti all’Anm di domenica convocato proprio per esaminare i fatti e gli effetti vicini e lontani del caso Palamara sulla magistratura. Dall’asse M5S-Pd i magistrati si aspettano sì leggi migliori piuttosto dei decreti sicurezza e delle polemiche con Salvini, ma anche scarsa clemenza rispetto agli inciuci delle correnti. Complessivamente l’impressione è che nella querelle tra Bonafede e l’ex Guardasigilli dem Andrea Orlando, il primo potrebbe avere la meglio, perché soprattutto le scelte fatte su intercettazioni e prescrizioni vengono preferite a quelle di Orlando. Ma proprio Bonafede, nei conversazioni riservate, viene criticato per l’assetto del ministero e per i magistrati scelti, mentre vengono preferiti quelli selezionati dal suo predecessore. Il Csm, oggi, non può più permettersi una sola sbavatura. “Graziato” soprattutto per l’intervento di Mattarella dopo il caso Palamara, deve dimostrare di essere realmente una “casa di vetro”, e non solo perché cerchi di ostacolare il lavoro dei giornalisti con rigide circolari interni che ne bloccano il libero accesso e la visione dei documenti, anche quelli non riservati, proprio l’opposto della necessaria trasparenza (per esempio delle carte dei processi contenuta nella riforma delle intercettazioni di Orlando) e sintomo che nessuno di fida di nessuno. Proprio la “casa di vetro” invece è necessaria in vista di nomine importanti. Innanzitutto, se Criscuoli lascia (e il suo passo pare inevitabile), a prendere il suo posto non potrà essere l’ultimo rimasto dei non eletti, Bruno Giangiacomo della sinistra di Area, perché a sua volta sotto inchiesta disciplinare per via di una indagine sulla sua compagna. Area gli ha già espresso il non gradimento, invitandolo a farsi da parte. Anche per questo posto servirà dunque un’elezione suppletiva. Ma poi ci sono le nomine, a cominciare da quella del procuratore generale della Cassazione, che saranno gestite dalla quinta commissione, presieduta da Mario Suriano di Area, scelto da Ermini proprio per sostituire uno dei dimissionari (Gianluigi Morlini) del caso Palamara. Un ruolo strategico, quelle del pg della Cassazione, anche perché componente di diritto del Csm, nonché titolare dell’azione disciplinare al pari del Guardasigilli. In pole il pg di Roma Giovanni Salvi di Area e quello di Venezia Antonio Mura di Mi. Ottime carriere, ma Mi è la stessa corrente che esprime anche l’attuale presidente della Cassazione Giovanni Mammone in scadenza a ottobre dell’anno prossimo. Senza contare che Salvi gode di maggiore anzianità. Nella partita delle nomine, che seguiranno un ordine rigidamente temporale (si sceglie prima chi ha lasciato prima), la nomina del pg della Cassazione potrebbe cadere all’inizio di ottobre. Seguirà la procura di Torino, vacante da dicembre 2018 dopo il pensionamento di Armando Spataro. Poi toccherà ad altri uffici tra cui le procure di Frosinone e Torre Annunziata, per cui corre l’attuale presidente dell’Anac Raffaele Cantone, che giusto domani sarà rimesso in ruolo e tornerà a fare il giudice, collega tra i colleghi. In coda sia la procura di Roma che quella di Perugia, vacanti da meno tempo. Un Csm con impegni come questi non può dare adito ad alcuna polemica, come quella di far sedere al suo interno consiglieri chiacchierati. Nassiriya, generale condannato a risarcire i parenti delle vittime di Grazia Longo La Stampa, 11 settembre 2019 Nel 2003 un’autocisterna carica di esplosivo si lanciò contro la base italiana: morirono in 29. La Cassazione ribalta il verdetto d’Appello per l’ex capo della missione: “Ignorò gli allarmi”. “Le sentenze si accettano e non si commentano. Ma no, in verità non mi sento in colpa per la strage di Nassiriya. Cosa avrei potuto fare io per arginare un kamikaze su un camion con 4 tonnellate di esplosivo?”. Bruno Stano, generale dell’Esercito in pensione ma ancora collaboratore delle Forze armate, è stato condannato dalla Corte di cassazione civile a risarcire le famiglie delle vittime della strage di Nassiriya, avvenuta il 12 novembre 2003, nella quale morirono 19 italiani. Era lui al comando della Brigata Sassari durante la missione italiana in Iraq, quando alle 10. 40 del 12 novembre 2003 un’autocisterna guidata da un terrorista di Al Qaeda piena zeppa di esplosivo si infilò nella base Maestrale. La deflagrazione fu infernale: morirono 28 persone, crollò un edificio e venne danneggiata la palazzina del comando. Il comandante condannato - “Poiché pur essendo pensionato partecipo a un progetto dell’Esercito non posso rilasciare interviste senza essere autorizzato - prosegue l’alto ufficiale, che negli anni è stato promosso fino a diventare generale di corpo d’armata -. Ma vorrei ricordare che quella era una missione umanitaria. La base militare era in mezzo alla comunità locale. E dunque io come primo gesto umanitario avrei dovuto fare evacuare le case? Non era quello il nostro obiettivo”. Assolto in via definitiva in sede penale, il generale Bruno Stano dovrà invece rispondere civilmente per gli errori commessi. Gli Ermellini sono infatti convinti che abbia sottovalutato il pericolo in cui si trovavano i militari all’interno del quartier generale italiano a Nassiriya in caso di un attentato “puntuale e prossimo” alla base e per la “complessiva insufficienza delle misure di sicurezza”. La sentenza - I giudici della Terza sezione civile della Corte Suprema hanno invece confermato l’assoluzione per l’allora colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, attualmente generale e all’epoca responsabile della base Maestrale. Secondo quanto emerso dai processi, Di Pauli tentò di far salire il livello di guardia e di protezione ma i superiori non gli diedero retta. A partire da Bruno Stano che avrebbe sottovalutato il pericolo in cui si trovavano i militari italiani e per questo era stato già condannato dalla Corte d’Appello di Roma a risarcire le famiglie delle vittime. L’avvocato Rino Battocletti, legale di una quindicina di feriti scampati alla strage di Nassiriya accoglie favorevolmente il giudizio: “La sentenza pone fine a un iter giudiziario lunghissimo e molto articolato e accerta, in maniera definitiva, l’obbligo risarcitorio del generale Spano. Da questo punto di vista non si può che esprimere soddisfazione rispetto a una vicenda che avrebbe dovuto trovare già una soluzione soddisfacente per i feriti e i familiari delle vittime”. L’avvocato precisa inoltre che “l’entità dei danni dovrà essere quantificata in sede civile”. Allarmi sottovalutati - A convincere i giudici della Cassazione ad annullare la sentenza di appello che scagionava Bruno Stano da ogni responsabilità civile ci sono alcune considerazioni. Innanzitutto il fatto che, dalle indagini è emerso come il generale avesse ignorato gli allarmi del Sismi (i servizi segreti esteri attualmente definiti Aise) che riferivano di un imminente attentato alle nostre forze a Nassiriya. L’intelligence infatti, il 23 ottobre, segnalò “un attacco in preparazione al massimo entro due settimane”. Il 25 ottobre lanciò l’allarme di “un camion di fabbricazione russa con cabina più scura del resto” e il 5 novembre avvertì che “un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si sarebbe trasferito a Nassiriya”. Il generale Stano, non avrebbe, inoltre messo in atto le strategie necessarie a difendere la base Maestrale. C’è tuttavia da ricordare che prese servizio l’8 ottobre 2003, mentre la base era stata allestita il giugno precedente. Piemonte. In Consiglio regionale si è parlato delle carceri targatocn.it, 11 settembre 2019 Negli ultimi dieci anni il numero dei detenuti nelle 13 carceri piemontesi è aumentato in modo preoccupante, con un tasso di sovraffollamento del 115 per cento. Nella seduta di Consiglio di martedì 10 settembre sono state presentate e discusse le relazioni annuali del Difensore Civico, del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e della Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Sono le questioni relative all’assistenza sanitaria quelle su cui il difensore civico Augusto Fierro ha voluto porre l’accento nel corso della sua relazione all’Aula. A cominciare dai problemi nella presa in carico anziani non autosufficienti rispetto alle leggi regionali e l’adeguamento alle disposizioni a livello nazionale che ha aggiornato i Lea. Fierro ha sottolineato di registrare un costante aumento dei reclami e delle segnalazioni proprio sul tema, anche nella sua qualità di garante della salute. Esiste un’emergenza ignorata: in Italia ci sono 4 milioni di famiglie con parente non autonomo e il Piemonte è fra le regioni più in difficoltà. Esiste, secondo il difensore civico, una discrasia innegabile tra le previsioni dei Lea a livello nazionale e quanto prevede la normativa regionale. Da Roma si prescrive la presa in carico della persona, mentre in Piemonte il percorso prevedeva la domiciliarità: si è assistito alla trasformazione di un diritto ad una sorta di “elastico” dell’applicazione della normativa. La conseguenza, dal suo osservatorio, è una permanente conflittualità tra famiglie degli anziani che si esprime con le opposizioni al ricovero e che presentano difficoltà economiche. In generale, Fierro ha ricordato che con la legge omnibus è stato previsto il controllo da parte del difensore civico sulla efficienza qualità del servizio sanitario piemontese. Ha pertanto richiesto che il Consiglio e in generale la Regione gli risponda, altrimenti tutto diventa irrilevante. A seguito dell’intervento, si sono susseguiti quelli dei consiglieri di maggioranza e opposizione. Ciascuno con le sue posizioni, si è però convenuto di approfondire i temi e i problemi sollevati nella relazione, anche con ulteriori audizioni e dibattiti nelle Commissioni consiliari competenti. Negli ultimi dieci anni il numero dei detenuti nelle 13 carceri piemontesi è aumentato in modo preoccupante: al 31 maggio 2019 erano 4592, per 3972 posti disponibili, con un tasso di sovraffollamento del 115 per cento, un dato tra l’altro falsato che non tiene conto della capienza effettiva delle strutture, con celle temporaneamente inagibili o chiuse per lavori. La situazione è particolarmente critica nel carcere di Alba, ad oggi l’istituto penitenziario italiano con il più alto tasso di sovraffollamento reale: su 142 posti 109 non sono disponibili perché nella parte chiusa a causa della legionella. Situazione simile a Cuneo, dove su 428 posti 140 non sono disponibili. Oltre ai detenuti in carcere ci sono poi 8850 persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale seguite all’esterno. Sono alcuni dei dati riportati nella relazione annuale del Garante regionale Bruno Mellano, che ha ricordato come il Piemonte sia una regione virtuosa per quanto riguarda le misure rivolte alla formazione e all’inserimento lavorativo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, ma ha anche evidenziato una serie di criticità, a partire dal sovraffollamento e dalla necessità di un piano su base regionale di manutenzione straordinaria degli edifici esistenti. Mellano ha anche posto l’accento sulla situazione del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi, “significativamente peggiorata a seguito del taglio del budget all’ente gestore e del conseguente forte ridimensionamento del personale dedicato”. Infine, il Garante ha parlato delle problematiche della sanità penitenziaria, in particolare in relazione al numero di posti letto destinati agli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi all’interno delle Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems). Al dibattito sono intervenuti i consiglieri Alberto Preioni, Sara Zambaia, Alessandro Stecco, Riccardo Lanzo e Federico Perugini (Lega), che hanno sottolineato la difficile situazione in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria e il personale socio-sanitario all’interno delle carceri, Marco Grimaldi (Luv) e Maurizio Marrone (FdI), che si sono soffermati sui problemi del Cpr, Maurizio Marello, Domenico Rossi (Pd), Francesca Frediani e Ivano Martinetti (M5s), che hanno posto l’accento sugli aspetti rieducativi della pena. Toscana. Carcere di Volterra, sì al laboratorio gluten free quinewsvolterra.it, 11 settembre 2019 Voto unanime in Regione alla mozione proposta dalla consigliera Galletti (M5s), così come a quella per il teatro stabile presentata da Nardini (Pd). Il Consiglio regionale ha approvato all’unanimità due mozioni per promuovere iniziative di carattere sociale e culturale all’interno del carcere di Volterra, volte a migliorare le condizioni di vita in carcere e a offrire opportunità occupazionali ai detenuti. La prima, presentata dalla consigliera Irene Galletti (M5s) impegna la Giunta a “destinare risorse regionali, in collaborazione con il carcere di Volterra, il progetto per realizzare un laboratorio che produca cibo gluten free per celiaci e per istituire corsi di formazione destinati ai carcerati e nei quali coinvolgere gli operatori del settore alimentare”. La consigliera, illustrando l’atto, ha ricordato che questa sarebbe l’ideale prosecuzione del progetto “Cene galeotte”, che ha permesso “di dare vita ad un ristorante con un servizio a totale gestione dei detenuti” e che ha consentito, ad alcuni carcerati giunti a fine pena, di trovare occupazione nelle attività di ristorazione locali. La seconda mozione, presentata dal gruppo Pd, prima firmataria Alessandra Nardini, sollecita, invece, il progetto di realizzazione di un teatro stabile all’interno del carcere. Nardini ha ricordato che a Volterra “l’esperienza del teatro ha modificato geneticamente un carcere ritenuto in passato fra i più duri del nostro Paese” e “ottenuto successi e riconoscimenti anche fuori dall’Italia”. La mozione impegna perciò la Giunta regionale ad “attivarsi nei confronti del Governo, con particolare riferimento al ministero di grazia e giustizia”, affinché si adoperi per la realizzazione della struttura teatrale all’interno del carcere, “progetto per il quale l’amministrazione carceraria ha già stanziato un milione di euro”. Il dispositivo dell’atto impegna inoltre la Giunta a sostenere la diffusione della petizione presentata dal Garante dei detenuti della Toscana sulla piattaforma change.org e a “promuovere un tavolo di confronto con la Soprintendenza, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e tutti i soggetti interessati”. Il capogruppo di Sì-Toscana a Sinistra, Tommaso Fattori, ha definito “opportune e condivisibili” le due mozioni, sottolineando che “le condizioni carcerarie si migliorano con progetti con finalità sociali e culturali come questi, ma è giusto ricordare che anche le migliorie infrastrutturali e un investimento in operatori e mediatori culturali contribuirebbe, più che aumentare il numero delle guardie carcerarie, a questa finalità”. Nardini ha anche ricordato che “le Onorevoli Susanna Cenni e Lucia Ciampi hanno presentato in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati un’interrogazione proprio per sapere quali iniziative si intendano intraprendere per sbloccare le questioni relative all’edificazione” del teatro stabile in carcere. “Non possiamo trascurare inoltre che per la realizzazione di questo Teatro stabile il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha, da tempo, stanziato oltre 1 milione di euro - ha aggiunto la consigliera del Pd -, al fine di costruire una struttura capace di accogliere circa 200 spettatori. Bene, è il momento di entrare nella vera e propria fase di realizzazione del Teatro stabile nel Carcere di Volterra. In tal senso considero significativo e importante il recente sopralluogo da parte della Regione, che fa ben sperare che qualcosa si stia muovendo”. Milano. L’Antigone dei detenuti del Beccaria di Jacopo Storni Corriere della Sera, 11 settembre 2019 Laboratori teatrali per conoscere se stessi. Stanno male, la loro anima si contorce, vorrebbero riavvolgere il nastro del tempo per tornare indietro e non commettere più quelle atrocità. Qualcuno di loro ha rubato soldi ai parenti, altri hanno rapinato un negozio, altri ancora hanno spacciato. C’è chi ha picchiato, chi ha tirato fuori una pistola e ha sparato. Qualcuno ha ucciso e adesso si dimena in un tragico rimorso, ma il passato non si cambia, indietro non si torna. E così loro si disperano, piangono, diventano ancora più aggressivi, si ritirano da tutto e da tutti, restano isolati nelle celle dei loro penitenziari. Ma qualcuno trova una speranza, un lumicino di possibilità che diventa focolare, una mano tesa che arriva dai classici: libri, opere, romanzi, poesie. Tutti possono salvarsi, perché sbagliare è umano. Sul palco “Errare humanum est”, è proprio il nome del progetto che l’associazione Puntozero svolge all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano: un laboratorio teatrale dove i ragazzi detenuti mettono in scena i grandi classici di sempre, quelli dove i temi della giustizia e della devianza sono al centro dell’opera. Quelli dove l’uomo è anima fragile, dove gli scrittori interrogano se stessi. Come Sant’Agostino, che visse nel peccato e poi divenne sacerdote, come Seneca, secondo il quale “l’inizio della salvezza è la conoscenza del peccato” e come Cicerone, secondo cui “l’errare è cosa comune, è solo dell’ignorante perseverare nell’errore”. E allora sì, certo che si può sbagliare, chiunque lo fa, ma è possibile recuperare, andare a fondo di noi stessi, fare tesoro degli errori e viverli come occasione per una vita nuova. Come succede ai 35 ragazzi reclusi che imparano il teatro nel carcere milanese grazie ai progetti dell’associazione Puntozero. Studiano (e poi mettono in scena) opere come “Antigone” di Sofocle, dove è forte la presenza di temi quali la legge, la giustizia, il diritto, lo scontro generazionale, oppure “Romeo e Giulietta”, di William Shakespeare, che si apre con una rissa che finisce con il ferimento a morte di Mercuzio, parente del principe di Verona, sono le stesse risse di cui si rendono protagonisti molti detenuti. “Leggendo questi testi imparano che la violenza è una storia comune, fa parte dell’animo dell’essere umano”, racconta l’attrice Lisa Mazoni, responsabile del progetto, che poi aggiunge: “I classici aiutano a metabolizzare le proprie colpe, aiutano a capire che tu appartieni a una comunità con tematiche universali, sbagliare non è capitato soltanto a te”. E così i ragazzi peccatori, rinchiusi nelle loro prigioni, tornano a vivere lentamente. I loro spettacoli riscuotono ovazioni (si sono esibiti anche al Piccolo) e gli applausi hanno rafforzato la loro autostima, pian piano hanno ritrovato se stessi. Ma per fare teatro, c’è bisogno di un teatro, una struttura capace di ospitare gli spettacoli. Ecco perché i ragazzi del carcere Beccaria, oltre a inscenare le opere, si danno da fare per la manutenzione e l’ammodernamento del teatro del penitenziario milanese. “Presto il teatro avrà un ingresso indipendente da quello del carcere e sarà accessibile da tutti, così potremo fare spettacoli per la cittadinanza”. L’associazione Puntozero è nata nel 1995 dal regista e attore teatrale Giuseppe Scutellà e negli anni ha aiutato tanti giovani a uscire dalle sabbie mobili della marginalità. Addirittura alcuni di loro, scontata la pena e usciti dal carcere, sono ritornati nel penitenziario per seguire le lezioni di teatro e partecipare attivamente agli spettacoli. Fondamentale per la riuscita del progetto è il supporto di enti, fondazioni e realtà del territorio, tra cui la banca Intesa Sanpaolo, che soltanto nel 2018 ha donato all’associazione 75.600 euro, attraverso il Fondo di beneficenza e opere di carattere sociale e culturale. Civitavecchia (Rm). Al via il corso di “peer supporter” per i detenuti ilfaroonline.it, 11 settembre 2019 Si tratta di un percorso formativo che intende offrire un’opportunità ai detenuti per diventare coach alla quotidianità nel sostenere altri detenuti. Nelle scorse ore, ha avuto inizio la Quarta Edizione del Corso per detenuti peer supporter presso il settore circondariale della CC di Civitavecchia. Il corso è nato nel 2015, per volontà della ASL Roma 4 in accordo con la Direzione Penitenziaria, come format ed esperienza pilota per fornire un approccio concreto ad una problematica molto seria quale è quella dell’adattamento al contesto carcerario per i detenuti particolarmente fragili o che presentino un vero disagio psichico. In particolare la prospettiva si è, da sempre, focalizzata sulla prevenzione del rischio suicidario e dei rischi di aggressività auto od etero diretta. Si tratta di un percorso formativo che intende offrire un’opportunità ai detenuti per diventare coach alla quotidianità nel sostenere altri detenuti (in un ruolo, quindi, “alla pari”) in una fase esistenziale e/o clinica di particolare fragilità; ciò attraverso l’acquisizione di strumenti e competenze semplici ed orientate sui concetti base della relazione d’aiuto. Tale figura non deve essere confusa con un ruolo di “badante”. Né la creazione di tale figura trasforma i detenuti in operatori. Un peer supporter va, piuttosto, inteso come una figura di riferimento relazionale, un promotore di benessere grazie ad uno stimolo efficace verso l’autonomia e la comunicazione efficace, contrastando l’isolamento di una persona che più delle altre necessiti, per la propria personalità, per il proprio disturbo o per la propria fase di vita, di un’atmosfera accogliente ed emotivamente contenitiva. I risultati sono stati molto positivi nelle precedenti edizioni. In alcuni momenti il supporto dei detenuti formati ha permesso azioni ed interventi veramente efficaci ed equilibrati in situazioni anche critiche. Inoltre, gli stessi partecipanti hanno costantemente riferito di aver beneficiato dell’esperienza formativa proprio in termini di miglioramento personale. Non a caso, molti istituti italiani ed anche esteri hanno manifestato interesse per questa iniziativa, chiedendo documentazione e approfondimenti specifici sui contenuti teorico-pratici del Corso inaugurato a Civitavecchia, data la particolare struttura del corso medesimo. Il corso sarà articolato in 8 incontri tenuti da tutte le aree istituzionali che operano all’interno dei contesti carcerari: Salute mentale, Serd, area sanitaria, area trattamentale, area della vigilanza. Rispetto agli altri anni nel percorso è stato inserito un incontro sulle attività riabilitative del Centro Diurno. Ricordiamo che tutte le iniziative finalizzate a promuovere il benessere psichico durante la detenzione, permettono migliori programmi di reinserimento e, pertanto, una riduzione delle recidive delinquenziali e delle complicanze dei disturbi psichici più gravi, tutti aspetti che rappresentano elementi positivi per la collettività intera. Civitavecchia (Rm). Emozioni e canzoni, Enrico Ruggeri fa vibrare il carcere di Cinzia Valente gnewsonline.it, 11 settembre 2019 Enrico Ruggeri si è esibito ieri nella casa circondariale di Civitavecchia e ha portato i suoi grandi successi all’interno dell’istituto chiudendo la prima edizione del progetto “La mia libertà - Note in carcere”, manifestazione nata da un’idea di Franco Califano. La rassegna ha visto il coinvolgimento di altri artisti, Paolo Vallesi, Dolcenera, Marcello Cirillo e Mario Zamma che, nel corso dell’estate, hanno regalato momenti di svago con i loro spettacoli, ai detenuti e al personale costantemente impegnato all’interno delle carceri. Gli altri penitenziari che hanno ospitato l’iniziativa sono Rebibbia femminile, la Casa circondariale di Velletri, Regina Coeli e Rebibbia Nuovo Complesso. Ruggeri ha intonato i brani più significativi del suo repertorio che sono entrati a far parte della storia della musica italiana. Il cantautore è stato accolto nel teatro della casa circondariale di Civitavecchia, ristrutturato dai detenuti e inaugurato per l’occasione. Abbiamo chiesto al direttore del carcere, Patrizia Bravetti, di raccontare le emozioni di una serata che ha visto la partecipazione di 110 detenuti di media sicurezza, decine di agenti, autorità comunali e associazioni che collaborano con il penitenziario. “Prima di tutto voglio sottolineare che l’evento si è tenuto nel teatro, interamente rinnovato, della casa circondariale di via Aurelia. Palco, sipario e platea ristrutturati da sei detenuti grazie ai finanziamenti della Cassa delle Ammende. È stato fatto un ottimo lavoro - afferma la direttrice - I detenuti hanno riconquistato uno spazio che ora è un teatro a tutti gli effetti e che si è animato per Enrico Ruggeri”. Torniamo al concerto. “È stato uno spettacolo di grande qualità - aggiunge Bravetti - gradito anche dagli agenti. Le canzoni più richieste sono state Mistero, Contessa e Quello che le donne non dicono. Con questa esibizione Ruggeri ha dimostrato ancora una volta di essere un artista di enorme disponibilità e sensibilità”. Sul suo profilo Facebook poche ore dopo il concerto Ruggeri aveva scritto: “Civitavecchia. Oggi. Suonare in un carcere è sempre un’esperienza particolare, di grande intensità e piena di emozioni forti. Abbiamo tutti bisogno di sorrisi, oggi ce ne hanno regalati molti. Grazie a tutti”. Con “Boez” alla scoperta dell’umanità di Stefano Balassone La Repubblica, 11 settembre 2019 “Boez-Andiamo via”, 10 puntate dal 2 settembre su Rai 3 alle 20.25, è un road reality, come Pechino Express, ma strutturalmente somiglia anche a Temptation Island o Isola dei famosi in cui i protagonisti accettano la reclusione in un luogo dove più o meno veracemente affrontano prove, fisiche e psicologiche. Struttura a parte, per tutto il resto la differenza è radicale. I protagonisti sono sei giovani detenuti in carcere o ai domiciliari, che con l’accordo del Ministero ne sono stati estratti a patto di impegnarsi a percorrere a piedi 910 km, da Roma alla Puglia estrema. Li guidano e seguono due accompagnatori ma anche, fuori scena, la troupe e gli autori che scarpinano avendo scommesso sul recupero di quelle sei persone al mondo. È frequente la confidenza a favore di camera, il dialogo entro la comitiva o con chi s’incontra, mentre da casa osserviamo i gesti, la selva dei tatuaggi, gli umori. Presto quell’insieme si districa e partorisce la differenza dei caratteri: l’ironico, il poeta, il drammatico. E a questo punto lo spettatore cede e inizia a proiettarsi in ognuno di quelli a cui, al di là della colpa giudiziaria, la ruota del destino è andata storta. La comunicazione emerge come la medicina fondamentale per chi esce dai luoghi di galera, dove convivi ma non comunichi e, sostanzialmente, resti smarrito circa te stesso. Il gruppo in marcia, invece, costringendo a cooperare (“ce la fai?”, “ti do una mano”, “e ora che facciamo?”) rompe di per sé l’isolamento, la cella emotiva e apre il discorso con il mondo, che fino a lì è mancato. Da cui la radicale differenza con i reality dei Vip e simili che si muovono su schemi scontati e di sé non hanno nulla da rivelare, essendo ben attenti a confermare il personaggio pubblico che si sono costruiti a tavolino. “In Boez-Andiamo via”, invece, c’è qualcosa da scoprire, ed è questo che rende lo spettatore curioso e offre un motivo per seguire quelle persone, nel loro viaggio sia stradale che interiore. “Il mio viaggio nella libertà perduta” di Anna Spena vita.it, 11 settembre 2019 La case editrice Contrasto pubblica il nuovo libro di Valerio Bispuri, “Prigionieri”, un reportage nelle principali strutture carcerarie italiane, che raccoglie tre anni di lavoro e porta avanti il viaggio fotografico cominciato nelle prigioni sudamericane, Encerrados. Che succede a chi è privo di libertà? Come cambia il tempo di chi è rinchiuso? Come cambiano i suoi gusti? Bispuri ha cercato di rispondere a queste domande. Il bianco e nero intenso delle sue fotografie racconta dei drammi personali e dei drammi collettivi di uomini e donne specchio dell’intera società, in un non-luogo fermo nel tempo e nascosto ai margini del mondo. “In questi non-luoghi”, dice l’autore, “per tre anni ho visitato dieci carceri italiane e mi sono accorto di come le persone private della libertà cercano di ricostruire abitudini, affetti e di trovare un’alternativa per il futuro, che spesso non esiste”. Com’è nata l’idea? Questo viaggio nelle carceri italiane è il secondo capitolo di un altro viaggio iniziato nelle prigioni sudamericane. Il primo lavoro si chiama “Encerrados”. Il progetto è un vero un percorso sull’essere umano, sul stato emotivo e psicologico. Che succede a chi è privo di libertà? Come cambia il tempo di chi è rinchiuso? Come cambiano i suoi gusti? La mia fotografia è dedicata la mondo degli invisibili. Quali carceri hai visitato? Sono entrato nelle carceri di massima sicurezza, dove sono rinchiusi affiliati camorristi e mafiosi, come Poggioreale a Napoli e l’Ucciardone a Palermo. Ho visitato le realtà delle colonie penali, dove i prigionieri sono parzialmente liberi e possono lavorare al di fuori degli istituti penitenziari, come accade a Isili in Sardegna. Mi sono immerso nella dimensione delle carceri femminili: nell’antico monastero di Venezia; a San Vittore a Milano e a Rebibbia a Roma. Sono stato in piccole dimensioni carcerarie e in enormi istituti penitenziari. Ho potuto osservare strutture nuove, come il carcere di “Capanne” a Perugia e piccoli istituti come a Sant’Angelo dei Lombardi. Cosa hai trovato nelle carceri? Una parte di umanità che facciamo fatica ad accettare. Quando qualcuno sbaglia per noi è importante che venga rinchiuso e che “la chiave sia buttata”. Poi smettiamo di farci domande su quella persona. Cosa hai visto da dentro che chi è fuori non riesce a percepire? Che dentro le carceri c’è amore. Condivisione. Tolleranza. Parole difficilissime da legare a questo mondo. Ecco io con Prigionieri non volevo denunciare la situazioni delle carceri in Italia. Ma solo raccontare l’umanità che c’è dentro. Come li hai coinvolti? Come li hai convinti a lasciarsi fotografare? Raccontandogli la verità. Che quel progetto non era solo il mio progetto, ma il nostro. Una cosa da fare insieme. Gli ho detto “aiutatemi ad entrare nella vostra dimensione” e questa cosa gli è piaciuta. Ci sono state storie che ti hanno colpito più di altre? Ci sono tante persone in carcere che in realtà non vengono da un percorso criminale. Ma hanno avuto una cosa che io chiamo blackout. Lo so che è difficile da spiegare. Mi ricordo di questo ragazzo di Firenze che aveva bevuto troppo. La sua mente una notte si è oscurata, con la macchina ha imboccato contromano la tangenziale di Napoli uccidendo due persone, tra cui la sua compagna. Non ricorda molto, solo che aveva bevuto qualche birra di troppo. Nella sua stessa cella da qualche settimana c’è anche un detenuto accusato di omicidio: anche la sua mente all’improvviso ha fatto click e ha ammazzato tre persone per un litigio tra vicini di casa.? Valerio Bispuri (Roma, 1971) è fotoreporter professionista dal 2001 e collabora con numerose riviste italiane e straniere. Per dieci anni ha lavorato al progetto “Encerrados”, sulla vita in 74 carceri maschili e femminili nei paesi sudamericani, che nel 2015 è diventato un libro edito da Contrasto. Nel 2017, dopo oltre 14 anni, ha concluso un altro progetto sulla diffusione e gli effetti di una nuova droga chiamata “paco”, diventato anch’esso un libro (Contrasto, 2017). Il lavoro di Bispuri ha ricevuto numerosi premi internazionali ed è stato esposto in diverse città, in Italia e all’estero. Chi salva una vita salva il mondo intero di Liliana Segre Il Manifesto, 11 settembre 2019 L’intervento, a Palazzo Madama, della senatrice a vita, nel giorno del suo 89esimo compleanno, per annunciare le intenzioni di voto sul Conte bis. Signor Presidente, gentili colleghe e colleghi, signor Presidente del Consiglio, il mio atteggiamento, di fronte alla realtà e al clima che ha segnato la nascita del nuovo Governo, è di preoccupazione ma, al tempo stesso, di speranza. Mi hanno preoccupato i numerosi episodi susseguitisi durante l’ultimo anno che non di rado mi hanno fatto temere un inesorabile imbarbarimento della nostra società. I casi di razzismo, sempre più diffusi, trattati con indulgenza, in modo empatico, che quasi sembrano entrati nella normalità del nostro vivere civile. Ma allarmante è anche la diffusione dei linguaggi di odio, sia nella Rete sia nel dibattito pubblico. Troppo spesso al salutare confronto delle idee si sostituisce il dileggio sistematico dell’avversario, col ricorso anche all’utilizzo di simboli religiosi, che a me fanno effetto, in un farsesco ma pericoloso revival del Gott mit uns. A me fanno questo effetto. Forse solo a me, in quest’Aula. La politica che investe nell’odio è sempre una medaglia a due facce. Non danneggia soltanto coloro che vengono scelti come bersaglio, ma incendia anche gli animi di chi vive con rabbia e disperazione il disagio provocato da una crisi che attraversa, ormai da un decennio, il continente e il mondo. L’odio si diffonde e questo è tanto più pericoloso. Mi hanno insegnato che “chi salva una vita salva il mondo intero”. Per questo un mondo in cui chi salva vite, anziché premiato, viene punito mi pare proprio un mondo rovesciato. Credo che l’accoglienza renda più saggia e umana la nostra società. Un altro motivo di sconcerto mi è dato dal vedere che la festa nazionale del 25 aprile, che dovrebbe unire il popolo italiano intorno alla Liberazione, è stata, solo da alcuni irresponsabili, ridotta ad una sorta di faida tra tifoserie. Ma secondo me, non così si comporta una classe dirigente. Voglio venire, però, ora alla speranza. Vorrei che il nuovo Governo nascesse non solo da legittime valutazioni di convenienza politica, ma soprattutto dalla consapevolezza dello scampato pericolo, da quel senso di sollievo che viene dopo che, giunti sull’orlo del precipizio, ci si è ritratti appena in tempo. Mi attendo, insomma, che il nuovo Governo operi concretamente per ripristinare un terreno di valori condivisi, fatto di difesa costante della democrazia e dei principi di solidarietà previsti dalla nostra Costituzione nata dalla Resistenza. Anche io, personalmente, faccio una semplice richiesta, avanzata nelle sedi parlamentari, come mio contributo ad un futuro migliore. Ad inizio legislatura ho presentato un disegno di legge, poi trasformato in mozione, a cui tengo moltissimo. Si tratta della istituzione di una Commissione di indirizzo e di controllo sui fenomeni dell’hate speech, della violenza, dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo. È un argomento che purtroppo conosco: ho vissuto sulla mia pelle come dalle parole dell’odio sia facile passare ai fatti. Realizzare questa Commissione darebbe il segnale di una risposta politica ai problemi che abbiamo di fronte. Mi auguro che maggioranza e opposizione istituiscano subito la Commissione. Penso infine all’insegnamento della storia, disciplina molto speciale perché ci insegna a non ricadere negli errori del passato. Perdere la storia è uno dei primi effetti collaterali della perdita del futuro. La disciplina sta sparendo non solo dagli esami di maturità, ma dalla stessa coscienza delle persone. Senza memoria storica, l’umanità è condannata a disumanizzarsi. Ho apprezzato l’impegno del passato Governo per la reintroduzione dell’educazione civica. Ma non basta una materia in più da insegnare nelle scuole: occorre che l’educazione civica giunga a tutti i cittadini con l’esempio che possiamo dare, che dà la classe politica, le donne e gli uomini che servono il Paese nelle nostre istituzioni. La Costituzione ci impegna a comportarci con “disciplina e onore”, ma anche sobrietà e rispetto per gli avversari. Una classe politica che non agisca secondo uno stile nuovo e democratico non sarà all’altezza delle sue responsabilità. La mia speranza è da ultimo che il nuovo Governo assuma e faccia proprio anche il senso di quel dovere civile, di quella vocazione all’interesse generale che ci viene dai versi di John Donne: “Non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”. È con questo spirito che mi accingo ad esprimere, fiduciosa, un voto favorevole al nuovo Governo. Migranti. Patto con Francia e Germania: “Sbarco nei porti sicuri e ricollocazione” di Francesco Grignetti La Stampa, 11 settembre 2019 Il 23 settembre la firma. La prima accoglienza in Italia e a Malta, poi saranno distribuiti in Europa. I due Paesi ne prenderanno il 25% ciascuno. La trattativa segreta parte da lontano, dal 18 luglio scorso. C’era stata quel giorno a Helsinki una riunione dei ventotto ministri dell’Interno, Matteo Salvini presente. Italia e Malta presentarono un documento congiunto per portare a livello europeo il problema degli sbarchi. Lo stesso giorno, Francia e Germania presentarono un loro documento, dedicato invece alle navi umanitarie. Fu deciso in quella sede di lavorare a un documento congiunto. Nel frattempo i tecnici hanno lavorato sodo per amalgamare le posizioni. E ora ci siamo: il 23 settembre, a Malta, i quattro ministri dell’Interno si vedono per suggellare il lavoro degli sherpa e presentare il “Temporary predictive riallocation program”. Un Programma temporaneo e predefinito per le riallocazioni. Il tema di cui parlerà oggi anche Giuseppe Conte a Bruxelles, all’incontro con Ursula von Der Leyen. Quindici giorni dopo, al vertice tra ministri dell’Interno e della Giustizia che si terrà in Lussemburgo, si spera che ci siano molte altre adesioni per partire sul serio con slancio europeista. Il punto su cui i quattro governi hanno negoziato è un meccanismo automatico, per quote prefissate, che approfitta di un cavillo nel Regolamento di Dublino. E allora: quando ci sarà la prossima emergenza con una nave umanitaria (generalmente sono Ong francesi o tedesche), Francia e Spagna in quanto Paesi di bandiera chiederanno a Italia e Malta di fornire i loro porti come “punti sicuri di sbarco”, senza che per questo italiani e maltesi dovranno farsi carico di tutto quel che segue. Il porto sarà indicato e seguirà una prima accoglienza, ma con l’accordo che nel giro di un mese, tassativamente, tutti gli sbarcati siano accolti altrove. Per il momento, sia il governo francese, sia quello tedesco si sono impegnati a prendersi il 25% degli sbarcati. Ma per Italia e Malta non è ancora sufficiente. E perciò il programma non dovrebbe essere operativo fintanto che il 100% degli sbarcati non avrà una destinazione sicura. Italia e Malta si sono trovate d’accordo che non accoglieranno nessuno facendosi scudo di una ragione economica: già quel mese di accoglienza sarà un forte impegno logistico ed economico. Salvini non voleva concedere di più. E siccome l’accordo è ormai in dirittura d’arrivo, probabilmente anche il neoministro Luciana Lamorgese non si discosterà dalla linea. Questo impegno alla ricollocazione per percentuali prefissate si basa chiaramente sull’esperienza di questo ultimo anno - anche ieri, grazie alla regia di Bruxelles, i profughi a bordo della “Alan Kurdi” scenderanno a Malta e in seguito andranno altrove - ma vuole superare il caso per caso, come esplicitato ieri al Senato dal premier Giuseppe Conte: “È un fenomeno che va gestito a livello europeo”. Conte ha aggiunto: “Dobbiamo lavorare al più presto per modificare il regolamento di Dublino”. La modifica del regolamento richiederà tempi lunghi, però. Ed è tutto da vedere se andrà in porto. Nel frattempo i Paesi volenterosi si sono resi conto che è inaccettabile il braccio di ferro con le navi in mare e la contrattazione tra governi. Con questo Programma, formalmente il regolamento è rispettato: Paese di approdo sarà là dove lo straniero è riallocato, non quello del mero scalo tecnico. Ma perché questo accordo non suoni da “via libera” soltanto alle Ong, è previsto che i partner europei siano di manica larga (sempre per percentuali prefissate) anche con chi viene salvato nell’area Sar italiana o maltese attraverso la Guardia costiera, accettando il principio che questi disgraziati puntano ad entrare in Europa, non in Italia o a Malta. Terrorismo. Come cambia la minaccia dei jihadisti di Lorenzo Vidino La Stampa, 11 settembre 2019 A diciotto anni dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington la minaccia jihadista contro l’Occidente resta in tutta la sua ferocia anche se ha fattezze assai diverse da quelle dell’Al Qaeda di allora. L’11 settembre 2001 Al Qaeda, allora l’incarnazione principale di un movimento jihadista globale che aveva già insanguinato il mondo islamico da decenni ma che era ancora pressoché sconosciuto in Occidente, porta la sua sete di morte mirata a raggiungere un obiettivo - la creazione di società islamiche guidate da una interpretazione ultra-letteralista del Corano - a casa del paese che più di ogni altro considera nemico della visione di Osama Bin Laden e del suo gruppo. Da quel fatidico giorno sono passati, dal punto di vista geopolitico, anni luce: la guerra al terrorismo, con i suoi successi ma anche con le sue derive, migliaia di attentati in tutto il mondo, la diffusione di misure di sicurezza che ormai diamo per normali ma che fino ad allora erano impensabili, l’assuefazione alla paura di attacchi terroristici, infiniti dibattiti su questioni fondamentali come il rapporto tra libertà civili e necessità di sicurezza o sulla natura dell’Islam (del quale il movimento jihadista si auto-proclama paladino e rappresentante, nonostante la sua visione oscurantista sia rifiutata dalla stragrande maggioranza dei musulmani) e la sua posizione all’interno delle società occidentali. Nel 2014, con l’ascesa dell’Isis - gruppo che nasce come costola di Al Qaeda e con la quale ora lotta per la primazia del movimento jihadista globale - la creazione del Califfato e l’ondata di violenza che ne è conseguita, abbiamo toccato l’apice della violenza jihadista. Ma, per quanto la partita col jihadismo sia una che l’Occidente vorrebbe chiudere da anni, è scioccamente ottimista pensare che si possa pensare ad una fine della minaccia. La perdita di territorialità da parte dello Stato Islamico ha chiuso una fase particolarmente intensa della storia del jihadismo, a livello globale come nei nostri confini, per aprirne una nuova caratterizzata da forte incertezza e poliformità della minaccia. Lo Stato Islamico non è più Califfato ma è sempre vivo: come forza insorgente in Siria e Iraq; nelle provincie (wilayet) satelliti che ha creato in vari continenti, cooptando network jihadisti locali; sul web, dove esiste il cosiddetto “califfato virtuale”; e come idea che motiva adepti ovunque, Occidente incluso. È poi ancora forte, anzi, viene ritenuta da molti in forte crescita, Al Qaeda, che seppur offuscata dallo Stato Islamico durante i giorni del Califfato, ha adottato una tattica attendista che l’ha portata a rafforzarsi nel lungo. In questo momento il jihadismo globale non ha un punto focale forte come lo è stato il Califfato per buona parte di questa decade, ma appare più simile a come era dieci anni fa, prima delle Primavere Arabe: disperso su vari fronti, dal Nord Africa alle Filippine, ma con forti legami transnazionali e pronto a colpire ovunque. Il problema è che al Qaeda, l’Isis e la miriade di gruppi che orbitano nelle loro galassie, siano essi più o meno forti, votati più a perseguire obiettivi locali o globali, sono semplicemente emanazioni momentanee di un fenomeno ideologico che continua ad attrarre adepti. Successi tattici (operazioni militari contro gruppi jihadisti, arresti, attentati sventati) sono fondamentali ma rimangono delle vittorie di Pirro finché non si vince la battaglia fondamentale dell’indebolimento dell’appeal ideologico del jihadismo e delle complesse questioni politiche, sociali, educative, teologiche ed economiche che lo rendono attrattivo agli occhi dei suoi tanti adepti. Nigeria. La detenzione in condizioni orribili di bambini sospettati di militare in Boko Haram La Repubblica, 11 settembre 2019 Il dossier di Human Rights Watch. A migliaia tenuti a lungo in condizioni degradanti. Pestaggi, fame in celle sovraffollate con 40°. L’esercito nigeriano ha arbitrariamente arrestato migliaia di bambini e trattenuti in galera in condizioni degradanti e disumane perché sospettati di essere coinvolti con il gruppo islamista armato Boko Haram. Lo si apprende da Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. Molti bambini sono detenuti arbitrariamente per mesi o addirittura per anni in caserme militari squallide e sovraffollate, senza alcun contatto con il mondo esterno. Il rapporto di 50 pagine: pestaggi e fame. “‘Non sapevano se fossi vivo o morto”, è il titolo del dossier di 50 pagine sulla detenzione di bambini nel Nord-Est della Nigeria”. Documenta come le autorità nigeriane trattengano i bambini, spesso sulla base di prove scarse o assenti. I bambini descrivono pestaggi, calore travolgente, fame frequente, ed essere stretti nelle loro celle con centinaia di altri detenuti “come rasoi in un branco”, come ha detto un ex detenuto. Condizioni di vita orribili. “I bambini sono detenuti in condizioni orribili da anni, con poche o nessuna prova del coinvolgimento con Boko Haram e senza nemmeno essere portati in tribunale”, ha dichiarato Jo Becker, direttore per la difesa dei diritti dei bambini di Human Rights Watch. “Molti di questi bambini sono già sopravvissuti agli attacchi di Boko Haram. Il trattamento crudele delle autorità aumenta la loro sofferenza e li vittima ulteriormente “. Il governo nigeriano dovrebbe firmare e attuare un protocollo di consegna delle Nazioni Unite per garantire il rapido trasferimento dei bambini arrestati dai militari alle autorità di protezione dei minori per la riabilitazione, il ricongiungimento familiare e il reinserimento della comunità. Altri paesi della regione, tra cui Ciad, Mali e Niger, hanno già firmato tali protocolli. Accuse senza prove. Tra gennaio 2013 e marzo 2019, le forze armate nigeriane hanno arrestato oltre 3.600 bambini, tra cui 1.617 ragazze, per sospetto coinvolgimento con gruppi armati non statali, secondo le Nazioni Unite. Molti sono detenuti nella caserma militare di Giwa a Maiduguri, il principale centro di detenzione militare nello stato di Borno. Nel giugno 2019, Human Rights Watch ha intervistato a Maiduguri 32 bambini e giovani che erano stati detenuti come bambini nella caserma di Giwa per presunto coinvolgimento con Boko Haram. Nessuno dei bambini ha affermato di essere stato portato davanti a un giudice o di essere comparso in tribunale, come richiesto dalla legge, e solo uno ha visto qualcuno che pensava potesse essere un avvocato. Nessuno era a conoscenza di eventuali accuse nei loro confronti. Uno è stato arrestato quando aveva solo 5 anni. Arrestato perché vendeva patate a Boko Haram. Le autorità nigeriane hanno arrestato i bambini durante operazioni militari, controlli di sicurezza, procedure di screening per gli sfollati interni e sulla base di informazioni fornite da informatori. Molti dei bambini hanno dichiarato di essere stati arrestati dopo essere fuggiti dagli attacchi di Boko Haram nel loro villaggio o mentre cercavano rifugio nei campi per sfollati interni. Uno ha affermato di essere stato arrestato e detenuto per più di due anni per presunta vendita di patate ai membri di Boko Haram. Diverse ragazze sono state rapite da Boko Haram o costrette a diventare “mogli” di Boko Haram. Costretta a sposare un jihadista e per questo accusata. Circa un terzo dei bambini intervistati ha affermato che le forze di sicurezza li hanno picchiati durante gli interrogatori dopo il loro arresto o nella caserma di Giwa. Una ragazza che è stata costretta a sposare un membro di Boko Haram ha detto che dopo che i soldati l’hanno catturata, “I soldati ci stavano picchiando con le loro cinture, chiamandoci nomi e dicendoci che ci avrebbero trattato perché siamo mogli di Boko Haram”. Altri hanno detto che furono picchiati se negarono l’associazione con Boko Haram. In 250 dentro una cella 10 per 10. I bambini hanno descritto la condivisione di una singola cella, circa 10 per 10 metri, con 250 o più detenuti. Dissero che la puzza di un singolo bagno aperto era spesso travolgente e che i detenuti svenivano talvolta per il caldo. A Maiduguri, la temperatura massima annuale media è di 35 gradi Celsius e le temperature possono superare i 40 gradi. Quasi la metà dei bambini ha dichiarato di aver visto cadaveri di altri detenuti nella caserma di Giwa. Molti hanno affermato di soffrire di sete o fame frequenti. Quindici dei bambini erano stati detenuti per più di un anno e alcuni erano stati detenuti per più di tre anni. A nessuno era stato permesso di contattare membri della famiglia al di fuori del centro di detenzione, né le autorità avevano contattato le loro famiglie. Tali casi possono costituire sparizioni forzate, una grave violazione dei diritti umani. Un inferno anche per bambini di 7 anni. I bambini hanno detto che Giwa ha una cella per ragazzi di età inferiore ai 18 anni con bambini di età pari o inferiore a 7 anni. I militari trattengono anche i bambini nelle celle degli adulti, dove i bambini hanno dichiarato che il cibo e l’acqua erano più scarsi e le condizioni erano ancora più affollate. Libia. Sopravvissuti alle bombe ed espulsi dal centro Onu, il dramma senza fine dei migranti di Leonardo Filippi left.it, 11 settembre 2019 Erano scampati al bombardamento del lager libico di Tajoura dello scorso 2 luglio, in cui morirono 53 persone. Avevano trovato rifugio all’interno di una struttura dell’Unhcr, a Tripoli. Un luogo dove finalmente i circa 480 profughi superstiti si sentivano al sicuro, al riparo da nuove torture e omicidi, di routine nel centro di detenzione da cui provenivano. Ora però l’agenzia Onu per i rifugiati chiede agli ospiti abbandonare la struttura perché i posti all’interno sono troppo pochi rispetto alle presenze. Minacciandoli di essere riportati nei centri di detenzione. Mettendo così, in ogni caso, a rischio le loro vite. La struttura dell’agenzia Onu per i rifugiati, conosciuta come Gdf (Gathering and departure facility, ndr), “è gravemente sovraffollata. Più di mille persone sono ospitate qui, mentre la capacità del centro è di 700 persone” spiega in una nota l’Unhcr. “Le infrastrutture e i servizi del Gdf - si legge ancora - sono malridotti e il deterioramento delle condizioni di vita potrebbe portare ad una situazione insostenibile”. Il centro, creato nel 2018, ha la funzione di spazio di transito per quei rifugiati detenuti nel Paese che vengono identificati come i più vulnerabili e per i quali (pochi) viene trovato un posto fuori dalla Libia. Non per tutti, insomma. Per questo ai sopravvissuti di Tajoura è stato chiesto di uscire. Ma i circa 480 superstiti ai quali è stata formulata questa richiesta si sono opposti. Per loro, allontanarsi dalla struttura significa rischiare di tornare tra le mani dei trafficanti di esseri umani, oltre che esporsi ai pericoli del conflitto in corso nel Paese. Per questo hanno deciso di lanciare un appello internazionale. Dopo essere entrati nel centro il 9 luglio, “ora l’Interno e l’Unhcr vuole farci uscire e lasciarci per le strade di Tripoli, dove ci aspettano intensi combattimenti e reti di trafficanti - scrive uno dei profughi all’interno del Gdf, in un messaggio Whatsapp che abbiamo raccolto grazie al lavoro di denuncia del collettivo Josi e Loni project. “Il rischio - prosegue - è di una grande catastrofe umanitaria. Noi rifugiati e sopravvissuti del bombardamento di Tajoura chiediamo aiuto e protezione”. Secondo diversi profughi ora sotto sgombero, vivere all’esterno del centro, a Tripoli, sarebbe tanto rischioso quanto affrontare il mare, e per questo molti di loro starebbero già pianificando la traversata del Mediterraneo, come si evince da alcune testimonianze raccolte dall’Irish Times. I profughi in questione erano fuggiti in massa dal centro di detenzione di Tajoura, nella periferia Est di Tripoli, in seguito al raid dell’aviazione del generale Khalifa Haftar del 2 luglio, un vero e proprio crimine di guerra nell’ambito dello scontro civile in atto nel Paese (non era la prima volta che il centro finiva sotto le bombe; secondo le testimonianze di alcuni profughi, inoltre, i morti sarebbero stati circa un centinaio). Dopo che l’Unhcr si era dichiarata disponibile ad ospitare solo una piccola parte dei superstiti nel Gdf, gli esclusi avevano deciso di entrare comunque nella struttura. A distanza di due mesi dal loro ingresso, però, il personale del centro ha comunicato ai profughi di essere “sgraditi”, in quanto il loro accesso sarebbe avvenuto in maniera “abusiva”, la struttura è oltre il limite della capienza e i posti a disposizione per l’evacuazione sono assai limitati. Motivazioni che, per quanto reali, assai difficilmente giustificano l’esposizione di persone già fortemente traumatizzate al rischio di tornare nei lager libici (nel centro dal quale provengono, quello di Tajoura - è bene ricordarlo - torture e stupri sono all’ordine del giorno). Un’operazione messa in atto, peraltro, proprio dall’agenzia che avrebbe come mandato internazionale la loro protezione. Ma a suscitare forte preoccupazione sono anche le modalità con cui si sarebbe chiesto ai profughi di andarsene. Come testimoniato da alcuni video girati dai migranti, gli operatori dell’Unhcr avrebbero tentato di convincere i superstiti di Tajoura ad abbandonare il Gdf affermando che “non ci sono altre opzioni”, e che qualora non accettassero di farlo “arriveranno qui (le autorità libiche, ndr) e vi riporteranno nei centri di detenzione”. Il Gdf dell’Unhcr, è bene ricordarlo, opera sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno libico del governo di accordo nazionale presieduto da Fayez al-Sarraj. Secondo alcune testimonianze scritte a mano dai profughi e raccolte dalla reporter irlandese Sally Hayden, inoltre, nei loro confronti gli operatori Onu avrebbero paventato l’uso della forza, in caso di rifiuto ad uscire autonomamente. “Non abbiamo mai detto che i profughi saranno forzati ad uscire, o che sarà in alcun modo usata la forza nei loro confronti”, ribatte Paula Barrachina Esteban, funzionaria dell’Unhcr a Tripoli, contattata dal nostro settimanale. “Ma se non volessero abbandonare il centro - prosegue - e non trovassimo altre soluzioni, una possibilità è che le autorità libiche decidano di intervenire e li riportino in stato di detenzione. Non è la cosa che vogliamo, per questo abbiamo deciso di prolungare il dialogo coi profughi. Per ora nessuno di loro è stato fatto uscire, si tratta di una soluzione volontaria”. Il motivo con cui l’agenzia per i rifugiati giustifica la scelta di allontanare una parte degli attuali profughi presenti nel Gdf - ribadiscono dall’Alto commissariato - è legato alle condizioni della struttura, e di chi la abita. “Il Gdf è un centro di transito per i rifugiati detenuti in Libia che individuiamo come più vulnerabili, affinché siano evacuati dal Paese - prosegue Barrachina -. Tra coloro che erano detenuti a Tajoura ne abbiamo individuati 55. Ma ora la struttura è al limite, e non abbiamo a disposizione abbastanza slot per evacuare tutti i profughi presenti nel centro. Perciò abbiamo chiesto ai 480 che sono entrati dopo il bombardamento di luglio di essere trasferiti in ambito urbano, dove vivono già più di 50mila rifugiati”. A chi accettasse di uscire - in gruppi da 20-40 per volta - verrebbero consegnati una piccola cifra di denaro e l’occorrente per l’igiene personale, e verrebbe offerta la possibilità di una successiva valutazione personale per verificare le condizioni per un reinsediamento fuori dal Paese. “La Libia non è un Paese sicuro, lo sappiamo - conclude la portavoce dell’Unhcr -. Per questo quella che proponiamo non è la soluzione ideale, ma è l’unica che abbiamo se vogliamo tornare ad rendere operativo il Gdf. Nell’ultimo anno da qui sono state trasferite 1016 persone, verso il Niger e verso l’Europa. In questo momento abbiamo identificato persone che avrebbero diritto ad abbandonare la Libia, ma non possono accedere al Gdf perché è pieno”. Numeri e argomentazioni, questi, che al momento non fanno presa sui sopravvissuti di Tajoura, portatori di un gigantesco bagaglio di ferite, nel corpo e nella psiche. Costretti ad un assurdo braccio di ferro con chi avrebbe il compito di difenderli, che non intendono mollare. Stati Uniti. La tortura contro gli immigrati è di antica data corriere.it, 11 settembre 2019 Migliaia di immigrati, molti dei quali malati di mente, rinchiusi in isolamento nelle carceri americane. Una pratica che le Nazioni Unite equiparano a una forma di tortura, ma che è invece molto utilizzata dai funzionari dell’Ice (l’Immigration and Customs Enforcement del Dipartimento della Sicurezza nazionale). Non solo adesso con Trump ma anche ai tempi di Obama. Questo è quanto emerge da un’inchiesta indipendente, condotta da media (The Atlantic e New York Times) e organizzazioni non governative(Project On Government Oversight, American Civil Liberties Union e National Immigration Justice Center) su documenti governativi degli ultimi 4 anni. E che squarcia il velo su quella che è una storia di abusi sistematici compiuti da un’agenzia federale. In base agli ultimi dati, ad agosto gli immigrati irregolari detenuti nelle prigioni statunitensi erano più di 55.000, un numero record mai raggiunto in precedenza. Il che aiuta a comprendere come il sovraffollamento carcerario e le lungaggini burocratiche nell’esame delle richieste d’asilo contribuiscano a creare disagi e frustrazioni tra i detenuti. Sempre più numerosi, infatti, sono i casi di persone colpite da ansia, rabbia, depressione e impulsi suicidi. Perciò viste come una minaccia per gli altri detenuti e per il personale, e dunque messe “regolarmente” in isolamento. Una pratica sanzionata dall’Onu, ma che negli Stati Uniti è largamente diffusa, più di ogni altro Paese democratico al mondo. La cosa più grave è che a essere sottoposti a questo regime sono gli immigrati più vulnerabili, come omosessuali, disabili e malati di mente. “I funzionari dell’Ice - si legge nel rapporto di Project On Government Oversight - stanno usando l’isolamento come punizione standard invece che come ultima risorsa, costringendo le persone a stare 23 ore al giorno da sole anche per mesi”. Infatti nei due terzi dei casi si tratta di immigrati coinvolti in infrazioni disciplinari, come violazione delle regole carcerarie, insubordinazione o coinvolgimento in risse. Gli immigrati di diverse nazionalità detenuti dalle autorità statunitensi in celle isolamento sono migliaia, ma è impossibile calcolarne il numero esatto perché per legge vengono registrati solo i casi superiori ai 15 giorni. Questi dati, come era facile immaginare, stanno riaccendono le polemiche negli Usa per l’eccessivo ricorso a questa misura detentiva. E la giustificazione data dall’Ice, secondo cui “l’isolamento si impone come misura protettiva, quando il detenuto immigrato è gay o soffre di disturbi mentali”, non ha fatto altro che inquietare ancora di più le associazioni per la difesa dei diritti umani. Iran. Condannata per essere andata allo stadio, si dà fuoco per protesta e muore milleunadonna.it, 11 settembre 2019 Sahar Khodayari, la 29enne iraniana che si era data fuoco nei giorni scorsi davanti a un tribunale di Teheran dopo la condanna per avere violato il divieto per le donne di entrare negli stadi, è morta la scorsa notte a seguito delle ustioni riportate. La 29enne era stata fermata lo scorso 12 marzo allo stadio Azadi di Teheran dopo esservi entrata travestita da uomo per assistere alla partita della sua squadra - l’Estghlal, allenata ora dal tecnico italiano Andrea Stramaccioni - contro l’Al Ain, club degli Emirati Arabi Uniti. Khodayari, che si era anche ritratta nell’impianto con un selfie, era stata detenuta per alcuni giorni nel carcere femminile di Gharchak Varamin a sud di Teheran, ritenuto tra i peggiori in termini di condizioni di vita. Quando a inizio settembre era stata convocata da un procuratore di Teheran per il sequestro del suo telefono cellulare, aveva appreso che le era stata comminata una condanna a sei mesi per oltraggio al pudore. A quel punto si era data fuoco, procurandosi ustioni di terzo grado nel 90% del corpo. Il caso ha riacceso le polemiche sul divieto per le donne iraniane di assistere alle partite maschili negli stadi di calcio, occasionalmente allentato nei mesi scorsi su pressioni della Fifa ma tuttora in vigore. In sostegno di Khodayari si è espressa nei giorni scorsi anche la deputata Parvaneh Salahshouri, lanciando appelli alla sensibilizzazione contro le discriminazioni subite dalle donne nella Repubblica islamica. La notizia ha destato forti impressioni anche in Italia. “Rabbia e dolore per la morte di una giovane tifosa che si era data fuoco per protesta contro le intollerabili discriminazioni subite nel suo Paese, l’Iran. Una protesta estrema contro un possibile processo per aver tentato di entrare in uno stadio durante una partita di calcio a Teheran”, dichiara la senatrice Pd e capogruppo in commissione diritti umani Valeria Fedeli. “Pur di seguire la sua squadra del cuore, questa ragazza - afferma Fedeli - si era travestita da uomo sfidando il divieto di ingresso alle donne. Arrestata dalla polizia religiosa, ha trascorso alcuni giorni in uno dei peggiori carceri in termini di violazioni dei diritti umani. Si è data fuoco quando ha saputo della condanna a sei mesi per oltraggio al pudore. Una vicenda che ci impone di continuare a fare pressione contro le discriminazioni di genere e di farlo in tutte le sedi internazionali, insieme a tutti soggetti che possono esercitare un’influenza in quelle aree del mondo dove non sono riconosciuti e tutelati i diritti fondamentali e le libertà delle persone”. Iran. La “ragazza blu” non ce l’ha fatta di Farian Sabahi Il Manifesto, 11 settembre 2019 La storia della tifosa iraniana Sahar, ventinove anni, rimbalza sui media con l’hashtag #blue_girl. È stata soprannominata “la ragazza blu” perché amava vestire la maglia dell’Esteglal di Teheran, la sua squadra del cuore. Il 9 settembre Sahar è morta in un ospedale della capitale iraniana per le ustioni riportate il 2 settembre, quando si è data fuoco per protestare contro la magistratura della Repubblica islamica che l’ha condannata a sei mesi di carcere per essere entrata nello stadio Azadi (in persiano Azadi vuol dire libertà) di Teheran, laddove alle iraniane è fatto divieto di salire sugli spalti dal 1981. Un divieto che non è legge, ma viene imposto con severità. I giovani non ne comprendono il senso e per questo protestano, mentre per aggirare l’ostacolo le donne si travestono da uomini, come ben ha raccontato il regista iraniano Jafar Panahi nel lungometraggio Offside, ambientato durante il match di ritorno contro gli irlandesi, il 15 novembre 2001, quando l’Iran vince 1-0 contro l’Irlanda ma non si qualifica per i mondiali di Corea e Giappone del 2002. Nel mese di marzo, Sahar si era tolta il velo e si era messa una parrucca da uomo, aveva cercato così di confondersi tra i tifosi, ma era stata scoperta e arrestata. Con lei, tante altre erano state fermate. Se nel film del regista iraniano Panahi le protagoniste riescono a scappare, il destino di Sahar è diverso: viene arrestata, trascorre tre giorni in cella, esce su cauzione, sei mesi dopo finisce in tribunale senza un avvocato a difenderla. Il giudice non si presenta, forse per un problema in famiglia. Sahar dimentica il cellulare in tribunale, rientra per recuperarlo. Sente qualcuno che parla di una condanna tra i sei mesi e i due anni di reclusione per oltraggio al pudore. All’uscita dal tribunale di Teheran, la giovane donna si dà fuoco. È il 2 settembre. Il corpo ustionato al novanta percento, un polmone danneggiato. Sahar non ce l’ha fatta. Mentre la FIFA mette pressione all’Iran perché apra gli stadi alle donne entro il 31 agosto, Sahar diventa il simbolo della battaglia affinché la politica non interferisca con lo sport. Nella Repubblica islamica dell’Iran ogni cosa può assumere una connotazione politica. L’arte è dissenso, e il cinema ne è una delle espressioni più popolari, in grado di valicare le frontiere. Basti pensare alle vicende del regista Jafar Panai, preso di mira dalla magistratura di Teheran che da anni gli impedisce di lasciare il paese e rilasciare interviste. Anche lo sport, e in particolare il calcio, possono iscriversi in questo registro. Gli iraniani, in patria e nella diaspora, sono frustrati per le continue interferenze della politica negli sport. Per questo, l’hashtag #BanIRSportsFederations corre veloce sui social per impedire all’Iran di partecipare alle competizioni internazionali. E persino Masoud Shojaei, il capitano della nazionale di calcio iraniana, ha il coraggio di criticare le condanne comminate alle donne che cercano di entrare nello stadio: lo fa in persiano, su Instagram, in modo da poter raggiungere l’audience più ampia. Sempre su Instragram, sul suo account da 4 milioni e mezzo di followers il popolare calciatore Ali Karimi (che si è ormai ritirato) ha scritto di voler boicottare gli stadi: il suo post ha ricevuto 100mila like in meno di mezz’ora. Tantissimi altri esprimono rabbia (e solidarietà alla famiglia di Sahar) usando Twitter. Il dibattito limitato ai social è segno della censura di regime, nel momento in cui la pressione esterna su Teheran è ai massimi storici. Nel 2001, quando le iraniane osavano entrare negli stadi travestite da uomini, il dibattito sull’ingresso delle donne negli stadi della Repubblica islamica aveva invece luogo sulla carta stampata perché il presidente era il riformatore Muhammad Khatami che a Teheran aveva portato la primavera. Dopo l’1-0 della nazionale iraniana contro gli irlandesi, il quotidiano Azad (in persiano Azad vuol dire libero) commentava: “Molte donne vorrebbero entrare negli stadi, ma tanto interesse non significa che quell’attività sia eticamente corretta, basti pensare a quanti piace bere alcol, usare droghe, giocare d’azzardo. Detto questo, che le donne guardino le partite da casa, in televisione, è senz’altro appropriato: allo stadio i maschi dicono parolacce, tanta volgarità non si addice all’altra metà del cielo”. Il femminile Zanan (in persiano Zanan vuol dire donne) ribatteva, con sarcasmo. Due le vignette. Nella prima una donna, velata, su una terrazza, orienta il telescopio verso lo stadio lontano. Con l’altra mano sventola una bandierina e fa il tifo. La seconda vignetta mostrava la strada che conduce al campo da gioco, a lato i cartelli con un elenco di oggetti che non è consentito portare allo stadio: bottiglie, coltelli, randelli, catene. E donne. Anche i manager facevano satira. 9 gennaio 2003. Nell’impianto sportivo Iran Khodro, a Teheran, il Peykan ospitava il Barq di Shiraz. Il manager dei padroni di casa, Mahdi Sadras, otteneva che un gruppo di donne potesse accomodarsi in un settore privato. Perché, dopotutto, i sostenitori del Paykan sono particolarmente educati, non dicono parolacce! E poi, dichiarava il manager ai giornali, “la presenza delle donne sugli spalti migliora l’umore dei giocatori”. Iran. Blogger britannica arrestata insieme ad altre due persone Corriere della Sera, 11 settembre 2019 In manette anche una docente e un loro amico. Hanno tutti doppio passaporto inglese e australiano. Due donne con doppia cittadinanza australiana e britannica e un cittadino australiano si trovano in stato di arresto in Iran: lo rivela il governo australiano, secondo quanto riportato dai media internazionali. I loro nomi non sono stati resi noti ma, secondo il Times di Londra, si troverebbero in stato di detenzione due donne con doppia cittadinanza britannica e australiana, una blogger e una docente universitaria. Secondo i media australiani sarebbe stato arrestato anche il compagno della blogger, di nazionalità australiana. Diplomazia difficile - Il Times collega gli arresti ad una escalation di tensione in atto tra Londra e Teheran, sottolineando che si tratterebbe dei primi casi di arresto di persone con doppia cittadinanza una delle quali non sia quella iraniana. Le due donne, una blogger anglo-australiana che stava svolgendo un viaggio in Asia con il suo compagno australiano e una accademica dell’Università di Cambridge che stava insegnando in una università australiana, anche lei con doppia cittadinanza, sarebbero state arrestate separatamente, in diverse circostanze. Secondo il Times, sono detenute nel carcere di Evin, a Teheran, lo stesso dove è rinchiusa dal 2016, con accuse di spionaggio, la project manager anglo-iraniana 41enne Nazanin Zaghari-Ratcliffe. Camerun. Rivolta nel carcere di Yaoundé, leader opposizione condannato a due anni agenzianova.com, 11 settembre 2019 Il tribunale di Yaoundé ha condannato il vicepresidente del partito di opposizione Movimento per il rinascimento del Camerun (Mrc), Mamadou Mota, a due anni di carcere per il suo coinvolgimento nell’ammutinamento del 22 luglio scorso nella prigione centrale di Yaounde dove è detenuto da giugno. È quanto riferisce la stampa camerunese. L’Mrc ha già annunciato ricorso in appello contro la sentenza. Oltre a Mota sono state condannate altre 12 persone, in maggioranza anglofone o appartenenti all’Mrc. Lo scorso 22 luglio i detenuti all’interno del penitenziario di Kondengui hanno dato vito ad una rivolta per chiedere miglioramenti nelle loro condizioni di detenzione. Successivamente la polizia è intervenuta all’interno del carcere per reprimere la rivolta. Nella rivolta sono rimaste ferite decine di detenuti. Secondo quanto riferito dall’emittente statale “Crtv”, i detenuti hanno dato alle fiamme la biblioteca e un laboratorio situati all’interno della struttura. Il carcere, costruito nel 1969 per 1.500 persone, conta attualmente circa 9 mila detenuti, il 90 per cento dei quali non sono stati passati in giudicato. Un episodio simile è avvenuto pochi giorni dopo nel carcere di Buea, nella regione anglofona del Sudovest, dove le forze di sicurezza hanno sparato colpi d’arma da fuoco e lacrimogeni per ristabilire l’ordine. Per quanto accaduto il governo del Camerun ha incolpato i sostenitori del leader dell’opposizione Maurice Kamto, attualmente agli arresti. Il vice portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite, Farhan Haq, ha denunciato il mese scorso che più di 1,3 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria nelle regioni anglofone del Nordovest e del Sudovest del Camerun. Inoltre, si legge nella nota, circa 1.300 persone sono state sfollate soltanto la scorsa settimana in seguito ai nuovi attacchi che hanno provocato decine di morti fra i civili, mentre centinaia di case sono state date alle fiamme. “La situazione continua ad essere caratterizzata da violazioni dei diritti umani diffuse”, ha detto Haq, secondo cui, nonostante le crescenti esigenze, il Camerun resti una delle risposte umanitarie maggiormente sotto-finanziate a livello globale. Nei mesi scorsi anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, aveva lanciato un avvertimento alla comunità internazionale sul rischio che la crisi in Camerun stia “sfuggendo” di mano e che la finestra per la riconciliazione si stia chiudendo. Brasile. Lula parla dal carcere e lancia la sfida a Bolsonaro di Andrea Muratore insideover.com, 11 settembre 2019 Rinchiuso in una stanza di tre metri per tre, guardato a vista da due poliziotti, senza internet né televisione, l’ex presidente brasiliano Lula sta affrontando la sua condanna a dodici anni di galera. Tutto questo nonostante l’emersione di sempre nuovi dettagli, prima fra tutte l’inchiesta di The Intercept del giugno scorso, che danno credito alla tesi del “golpe giudiziario” funzionale alla condanna di Lula per corruzione nell’inchiesta Lava Jato. Lo si può affermare senza negare che, dallo scandalo Odebrecht in avanti, il sistema di potere del Partito dei Lavoratori brasiliano si sia dimostrato vulnerabile a corruttele, influenze criminali e commistioni col potere economico. L’inchiesta però è andata oltre gli argini, portando prima all’impeachment della presidentessa Dilma Rousseff, non coinvolta direttamente dalle indagini, e poi all’incarcerazione di Lula nel momento in cui si preparava al ritorno in campo nelle presidenziali del 2018. Elezioni che hanno visto il suo Partito dei Lavoratori sconfitto da Jair Bolsonaro e dalla sua agenda securitaria, liberista e, soprattutto, giustizialista, al termine di una campagna costruita sulle accuse contro Lula e i suoi collaboratori. La nomina da parte di Bolsonaro dell’ex pm di Lava Jato, Sergio Moro, a “super-ministro” della Giustizia e della pubblica sicurezza rappresenta una sorta di saldatura tra vecchio corso giudiziario e nuovo corso politico. Lula, incarcerato nel momento in cui la sua popolarità aveva raggiunto nuove vette record e in cui la sua vittoria alle presidenziali appariva scontata, è recentemente tornato a far sentire la sua voce in un’intervista a tre giornalisti che lo hanno incontrato in carcere: Mauro Lopes e Paulo Moreira Leite di Brazil 24/7e Pepe Escobar di Asia Times. Lula ha parlato a tutto campo del suo passato da presidente, delle sfide affrontate, degli incontri con i maggiori protagonisti della politica globale e, al tempo stesso, della sua diversità dall’attuale presidente. In una fase che vede la popolarità di Bolsonaro in costante calo e gli incendi amazzonici scoperchiare il vaso di Pandora del sistema industriale brasiliano, Lula va all’attacco e mira a ripresentarsi come leader di statura internazionale. Lula rivendica le sue politiche Escobar ha riassunto in una serie di articoli le sue conversazioni con l’ex presidente, focalizzandosi in particolare sui frangenti in cui Lula segna il suo distacco da Bolsonaro. Lula ha sottolineato il suo ruolo di riferimento al vertice della Conferenza delle Parti (Cop-15) sui cambiamenti climatici a Copenaghen nel 2009 e la sua ostilità ai fazendeiros che oggi sostengono l’establishment della destra brasiliana e si lanciano a viso aperto all’assalto dell’Amazzonia: “Non è necessario abbattere un singolo albero in Amazzonia per coltivare semi di soia o per il pascolo del bestiame. Se qualcuno lo sta facendo, è un crimine - e un crimine contro l’economia brasiliana”. Non solo, ha raccontato la storia interna di come sono proseguiti i negoziati e di come è intervenuto per difendere la Cina dalle accuse statunitensi di essere il più grande inquinatore del mondo. Lula ebbe un ruolo cruciale nell’ascesa dei Brics. Assieme a Russia, Cina, India e Sudafrica, il Brasile creò i Brics “non come strumento di difesa, ma come mezzo d’attacco” all’egemonia globale del dollaro statunitense. Questa l’idea di Lula che ha voluto attuare questo piano attraverso un progressivo affrancamento delle transazioni in biglietto verde - sentiero percorso oggi da Russia e Cina - e con la creazione di una banca di sviluppo autonomo, rintracciabile nelle strutture finanziarie che Pechino ha sviluppato a sostegno delle sue Vie della seta. Secondo Lula, le ragioni dello scoppio di Lava Jato, dell’impeachment del suo successore Dilma Rousseff e del suo arresto vanno ricercate nella volontà degli apparati politici ed economici statunitensi di evitare che Brasilia diventasse un centro d’influenza autonomo in America Latina, tanto che Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan avrebbero avvertito la Roussef dei rischi insiti in una sfida aperta al dollaro che il Paese non è mai riuscito a perfezionare. L’intervista a Lula è un atto politico estremamente forte, un j’accuse esplicito all’amministrazione Bolsonaro, alla sua condotta di politica estera, interna ed economica: Lula difende il multilateralismo e uno sviluppo inclusivo contro la volontà di Bolsonaro di dare esclusiva priorità alle relazioni con gli Usa, demolendo decenni di buone relazioni a livello regionale e globale costruite dal Brasile grazie alla sua condotta diplomatica cauta, e di aprire il Paese al libero mercato e l’Amazzonia allo sfruttamento economico. Gli autogol dei Lavoratori orfani di Lula. Uno scontro che segna la rinascita della dialettica politica in Brasile e mostra le faglie che attraversano un Paese grande e problematico come il gigante verde-oro. Dal carcere, Lula fa sapere al mondo che è tornato ed è il vero capo dell’opposizione a Bolsonaro. Pronto a mobilitarsi e a superare le ferite di quella che ritiene essere una cospirazione giudiziaria creata ad hoc contro l’ex presidente. Caduto Lula, il successore Fernando Haddad è stato surclassato al ballottaggio presidenziale da Bolsonaro: dalla prigione, facendo sentire la sua voce a un elettorato molto favorevole alla sua liberazione, Lula potrebbe sia ricompattarlo che, in prospettiva, ghettizzarlo impedendo l’emergere di un sostituto all’altezza. E l’attuale establishment della Sinistra brasiliana appare di ben altra pasta: la decisione del Presidente del Pt, Gleisi Hoffmann, di non presenziare all’inaugurazione della presidenza di Bolsonaro a gennaio, gettando un’ombra su quella che al di là del clima politico è stata un’elezione valida costituzionalmente, ma di recarsi pochi giorni dopo alla corte di Nicolas Maduro in Venezuela ha rappresentato un autogol clamoroso che Lula non avrebbe mai compiuto. Segno della difficoltà dell’attuale opposizione di sopravvivere politicamente alla caduta del suo patriarca che proprio nella scelta dei suoi collaboratori più stretti ha conosciuto i maggiori insuccessi.