Il 25 ottobre a Milano il Festival della comunicazione dal carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2019 Il ruolo dell’informazione tra paure, gabbie e contro l’incultura dell’emergenza. “Paure e gabbie, perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, è il titolo del secondo festival della comunicazione dal carcere e sulla pena che si terrà venerdì 25 ottobre allo Spazio Agorà, viale Alemagna, 6 a Milano. Ad organizzarlo è la Conferenza nazionale volontariato giustizia, dove gli operatori che, con i detenuti danno vita a tanti giornali e realtà dell’informazione dal carcere, chiedono invece prima di tutto di assumersi in modo chiaro la responsabilità delle loro azioni, e di restituire alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. I volontari mettono al primo posto la responsabilità dell’informazione, soprattutto quella legata alla cronaca nera e giudiziaria, che “può avere un peso enorme nell’alimentare la paura, invece che aiutare a capire. Quello che proponiamo è allora un percorso per provare a vedere gli ambiti nei quali la rabbia rispetto ai reati, se non affrontata, dà spazio a una giustizia vendicativa. E finisce per creare nuove gabbie, meno libertà, più odio e una qualità della vita peggiore per tutti”. Gli organizzatori, per spiegare lo spirito del festival, sottolineano che di “verità” costruite per darle in pasto alla gente quando c’è un’emergenza, come la lotta armata negli anni 70, criminalità organizzata, gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino, è piena la storia del nostro Paese. “E così - proseguono - cresce l’incultura prodotta dall’emergenza, che porta a chiedere pene “esemplari” e ad “accontentarsi” di un colpevole ad ogni costo”. Fanno l’esempio di Fiammetta Borsellino - la quale sarà presente - che, quando ha scoperto l’amara realtà di finti pentiti e processi senza verità, si è invece ribellata a tante menzogne, insegnando a tutti che la mafia si combatte prima di tutto con una cultura nuova, non con dei colpevoli ad ogni costo. Al festival non mancherà il racconto della nuova riforma dell’ordinamento penitenziario che ha tagliato fuori l’implementazione delle misure alternative. “Gli Stati Generali dell’esecuzione della pena prima - spiegano gli organizzatori del festival - e poi la Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, presieduta da Glauco Giostra, uno dei massimi esperti in materia, avevano elaborato un progetto che poneva finalmente al centro la rieducazione, intesa come accompagnamento della persona detenuta a un graduale rientro nella società. Tutte soluzioni - concludono amaramente - che sono state bruciato dalla paura della gente e dal grande inganno di chi promette che più carcere porta davvero più sicurezza”. Altro tema immancabile è quello relativo alla gabbia dell’ergastolo ostativo e ne parlerà approfonditamente il professore Davide Galliani, tra i curatori del testo di recente pubblicazione “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Le testimonianze di esperienze significative di comunicazione dal carcere inizieranno con l’intervento di Juri Aparo e del Gruppo della Trasgressione, una delle realtà più importanti in questo ambito. Porterà un contributo Pietro Buffa, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia. È autore di molti saggi sulla vita detentiva, fra cui “La galera ha i confini del vostro cervello”. Porterà il saluto del comune di Milano, che patrocina l’iniziativa, Lorenzo Lipparini, assessore a partecipazione e cittadinanza attiva Interverrà per un saluto il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune del Milano Francesco Maisto A coordinare i lavori per l’Ordine dei giornalisti della Lombardia Mario Consani, cronista giudiziario del quotidiano Il Giorno, già consigliere dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Per i giornali delle carceri le giornaliste Ornella Favero e Carla Chiappini. Nessuno è colpevole per sempre. Venezia racconta il carcere di Simona Musco Il Dubbio, 10 settembre 2019 Il viaggio della Consulta nei penitenziari. “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, diceva Fedor Dostoevskij. Ed il viaggio della Corte costituzionale all’interno degli istituti penitenziari dello Stivale è stato proprio questo, un modo per misurare il grado di civilizzazione del nostro Paese, ma anche per riannodare i fili che tengono legati tra di loro due mondi apparentemente separati: quello dentro e quello fuori le mura. E quel viaggio si è trasformato in un film, diretto dal regista Fabio Cavalli, e presentato lo scorso 5 settembre alla Biennale di Venezia, come evento speciale della 76esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica. “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper media, è il racconto degli incontri fra sette giudici della Consulta e i detenuti di sette istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni e la sezione femminile di Lecce. Una cosa “mai successa prima”, ha evidenziato Cavalli. Che ha ricordato il senso profondo dell’articolo 27 della Costituzione: “il carcere serve per dare una seconda chance a chi ha sbagliato. Quindi di fatto nessuno sbaglia definitivamente e tutti possono essere recuperati. Questo - ha concluso - è il senso di questa operazione”. Si tratta, dunque, di un documento importante, unico nel proprio genere, ha evidenziato il presidente della Biennale, Paolo Baratta, “perché parlare della Costituzione a chi ha subito le conseguenze delle legge vuol dire spiegargli che ha perso la libertà ma non la dignità di cittadino”. Un documento che rientra in quella categoria di film “che si rivolgono alla formazione di una nazione e di un popolo”. Un popolo costretto a riabituarsi ad un’idea andata persa, ma che rappresenta uno dei pilastri sui quali si basa la nostra Costituzione: la funzione rieducativa della pena. Il viaggio, dunque, serve soprattutto per riumanizzare il carcere, ma anche chi lo osserva dall’esterno, rimettendo in contatto il mondo dell’illegalità e quello della società cosiddetta civile, in un periodo storico in cui il giustizialismo ha sostituito la giustizia, cercata pubblicamente, come gogna e punizione esemplare. La Corte Costituzionale, però, ha tentato di rimettere in ordine le cose, ricordando ai non addetti ai lavori il significato della punizione in uno Stato democratico. “Andare verso una porzione della popolazione dell’Italia che vive dietro le mura ha voluto significare proprio una testimonianza - ha sottolineato Marta Cartabia, vicepresidente della Consulta che quella è una parte del popolo italiano, che vanno ricostituiti i legami e che da lì può rinascere una comunità anche tra soggetti apparentemente così distanti”. Da quelle immagini emerge il desiderio, spesso ignorato, “di rinascita personale. Nessuno di noi ha la bacchetta magica che può trasformare un luogo di detenzione in un luogo di civiltà - ha aggiunto - ma ci auguriamo di aver iniziato a gettare un seme”. Una testimonianza portata anche dagli stessi giudici della Corte, come Francesco Viganò. “Il film è la storia di un incontro tra due realtà molto distanti che magari non si conoscono molto e per questo sono particolarmente felice di essere qui, per far conoscere la Corte costituzionale e per far conoscere la realtà del carcere, una realtà un po’ oscura e dimenticata”, ha spiegato. Un atto di realismo, ha aggiunto il collega Luca Antonini. Il carcere è parte della realtà, “una realtà che non bisogna dimenticare. Il cinema può essere finzione, però deve esserci sempre un aggancio con la realtà. E ha anche il compito di generare una cultura”. Da Poggioreale a Capanne: la vita nelle carceri dopo le rivolte di Carmine D’Argenio linkabile.it, 10 settembre 2019 Tra i temi toccati alla Camera dei Deputati dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte nel discorso per la fiducia al suo Governo-bis; quello degli investimenti da 110 milioni di euro per il superamento del vetusto complesso del sistema carcerario italiano. Con annessa possibilità di 15 milioni di sgravi fiscali sul lavoro, in direzione dei soggetti investiti a vario titolo dalle misure cautelari restrittive delle libertà personali. Con la fiducia al voto, il confermato Ministro della Giustizia Bonafede, dovrà affrontare l’ormai annosa tematica punto su punto. Il sistema carcerario italiano sembra infatti stia letteralmente scoppiando. Almeno così “denunciano” gli epiloghi dei fatti dell’ultima settimana avvenuti nelle carceri di Poggioreale di Napoli e Capanne di Perugia. Un parallelismo di fatti di cronaca all’interno delle mura dei due importanti Istituti Penitenziari, che fanno riemergere la situazione esplosiva, che ciclicamente si perpetua. La recrudescenza, con la prima fuga avvenuta in assoluto in oltre cento anni di storia dello storico carcere napoletano, e la presa in ostaggio di una guardia carceraria a Perugia; ha illuminato i riflettori sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e di detenzione dei reclusi. Con i primi che devono evolversi in Polizia di Stato, secondo la visione, corroborata dal Garante dei Detenuti della Campania - Samuele Ciambriello - del nuovo slogan a profusione di speranza, che supera il “vecchio” vigilare per redimere. “Dove la speranza oltre ad essere una virtù, è un atteggiamento costituzionale che serve a rieducare e risocializzare la persona diversamente libera. Se facciamo lavorare in condizioni umane coloro che devono garantire la sicurezza all’interno, a beneficiarne saranno gli stessi detenuti, e viceversa con il giusto approccio qualificato anche da una nuova e più moderna e specifica Formazione degli Addetti ai lavori; saranno proprio quest’ultimi a giovarsene, nell’edificazione di una rete, ognuno con competenze sempre più professionali anche nel mondo “dell’interno” per stare bene tutti insieme. Perché chi sconta una pena deve pagare per l’errore commesso, ma non deve perdere la dignità alla vita. Il sistema attuale con il doppio degli “ospiti” consentiti per cella, va ripensato per non creare discarica umana”. Capitolo a parte, che affrontiamo nella seconda parte, sentendo la rappresentanza del Sindacato di Polizia Penitenziaria; la denuncia dello stesso Garante Ciambriello, inerente i “detenuti che vengono in carcere e sono seguiti all’esterno dal Dipartimento di Salute Mentale. “Dentro” non vengono curati da esperti. I più fortunati stanno nelle residenze esterne (cosiddette Rems - Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza-) ma c’è ne sono troppi che pur avendone diritto, non vengono mai destinati a queste strutture alternative, che andrebbero ampliate per le necessità dovute”. Sulla presunta o meno, linea “camorristica” imposta dall’alto per strumentalizzare l’intero periodo della fase di protesta culminato nei gravi episodi dei giorni scorsi, la tendenza del Professor Ciambriello è quella di “demitizzare” la forza dell’organizzazione criminale, che potrebbe esser combattuta con armi elementari, come quelle dell’introduzione a sistema monitorata di Skype, di maggiori minuti di conversazione telefonica, e quanto possa servire a stroncare il mercato parallelo, ivi compreso quello delle sostanze stupefacenti, che anche in carcere può lucrare sulle oltre 7.800 presenze per reati non legati alle organizzazioni mafiose. “Ricondurre tutto sempre a queste ultime, è un modo per rimuovere i problemi”. Conclude il Garante campano dei detenuti. “Con la chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) nel 2013 sono state pensate e create le cosiddette Rems. Non essendo però mai andate a regime, si è tenuti i detenuti fuoriusciti dalle vecchie strutture, a gravitare intorno alle Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (Asm). Dislocate in Campania tra Secondigliano, Santa Maria ed Avellino. Persistono però forti problematiche di ricollocamento di questi soggetti. Perché le liste d’attesa invece delle nuove strutture, sono lunghe. Ed all’interno non si riesce a gestirli, perché sono evidentemente profili problematici. Vanno seguiti dal punto di vista psicologico-psichiatrico oltre che sanitario. Manca un programma terapeutico completo che “guardi” professionalmente a questi soggetti, che poi la Polizia Penitenziaria si ritrova ad approcciare in maniera ordinaria, senza determinati tratti specifici della competenza di materia di disciplina tanto delicata. Le Asl dovrebbero investire non solo sugli operatori sanitari. Ma anche sulla stessa Polizia Penitenziaria per una adeguata Formazione a 360 gradi”. Così si esprime invece il Segretario Regionale campano Uspp (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) Ciro Auricchio, interpellato sulla questione Rems sollevata dal Garante dei detenuti campani Ciambriello, come ultima emergenza da affrontare con le dovute misure del caso. Oltre la nota fitta agenda che va dalla richiesta di forze nuove e formate alle odierne esigenze di sistemi cha vanno riammodernati, al superamento delle barriere di ogni sorta, che nonostante tutto non possono essere di una Società civile. Conte e la giustizia che non c’è di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 settembre 2019 Nel discorso del premier solo trenta secondi dedicati a questo argomento. Nessun accenno alla riforma approvata dai gialloverdi che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado e che entrerà in vigore il primo gennaio 2020. Trenta secondi. È il tempo che il premier Giuseppe Conte ha dedicato alla riforma della giustizia durante il suo discorso programmatico di un’ora e venticinque minuti pronunciato alla Camera. Trenta secondi in cui Conte si è limitato a leggere lo scarno rigo e mezzo dedicato alla giustizia contenuto nella bozza del programma di governo M5s-Pd, sottolineando la necessità di “una riforma della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi, e una riforma del metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura”, con la piccola aggiunta di un messaggio distensivo rivolto alle toghe: “Questo piano riformatore dovrà salvaguardare il fondamentale principio di indipendenza della magistratura dalla politica”. Insomma, il governo rosso-giallo è nato, ma ancora non è chiaro come i due partiti di maggioranza intendano intervenire su un terreno così delicato e scivoloso come quello della giustizia, in particolare attorno alla riforma approvata dal precedente governo che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, e che entrerà in vigore il primo gennaio 2020. Ciò che è certo, però, è che negli ultimi giorni sono aumentati i (preoccupanti) segnali di apertura del Pd al M5s proprio sulla riforma della prescrizione. Sabato scorso in un’intervista alla Stampa, il vicesegretario del Pd (ed ex ministro della Giustizia) Andrea Orlando ha definito “un errore” la drastica cancellazione della prescrizione, aggiungendo però che “dentro un percorso processuale si possono trovare equilibri compensando con altre garanzie”. Il giorno prima, il capogruppo Pd in Commissione Giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli, aveva auspicato intervistato dal Foglio il rinvio dell’entrata in vigore della prescrizione in salsa grillo-leghista (“non possiamo lavorare con questa spada di Damocle sulla testa”), ma aveva anche lasciato intendere che nel caso in cui nei prossimi mesi si riuscisse ad approvare una riforma complessiva del processo penale, in grado di garantire tempi brevi e certi ai procedimenti, allora i dem potrebbero anche accettare di mantenere la “bomba nucleare” (come la definì il ministro Bongiorno) della revisione della prescrizione, che a quel punto sarebbe teoricamente disinnescata. Magari con qualche correttivo che preveda, ad esempio, la sua applicazione solo in caso di condanna dell’imputato. Un simile scenario, però, darebbe vita a una contraddizione forse ancora più grande: se i processi in Italia diventassero finalmente rapidi ed efficienti, abolire la prescrizione avrebbe ancora meno senso, dato che la sua funzione sarebbe proprio quella di intervenire per “sanare”, dal punto di vista del diritto, i pochi casi di processi che dovessero protrarsi per tanti anni, oltre una durata ragionevole. Senza dimenticare che per definire una riforma veramente radicale del processo penale, capace di “disinnescare” la bomba della prescrizione, i dem dovrebbero convincere i grillini (e l’Associazione nazionale magistrati) a intervenire su alcune distorsioni della giustizia che chiamano in causa l’operato delle toghe (dalle priorità nell’esercizio dell’azione penale all’iscrizione effettiva delle persone nel registro degli indagati). Chi nel frattempo mantiene una linea dura sulla prescrizione è l’Unione delle Camere Penali, che in vista del voto di fiducia al governo ha inviato una lettera a tutti i parlamentari nella quale si ribadisce che la “sostanziale abolizione” dell’istituto rappresenta “un vulnus profondo ai principi costituzionali del giusto processo”. “La prescrizione è istituto di garanzia, necessario anche per determinare la ragionevole durata del processo, a tutela non solo dell’imputato ma anche della persona offesa”, affermano i penalisti nella lettera, ricordando tra l’altro che oltre 150 accademici di tutte le università italiane hanno sottoscritto un appello al presidente della Repubblica in occasione della promulgazione della legge segnalandone i gravi profili di incostituzionalità. Bonafede, Orlando e un’idea fissa: evitare il crac sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 10 settembre 2019 A breve l’incontro tra il ministro e il vicesegretario dem. Giuseppe Conte, sulla giustizia, poteva dire di più. Invece ha esibito una vistosa genericità. Serve, ha ricordato nel suo discorso di insediamento, “una riforma della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi”. Senza dare ulteriori indizi. Solo accennati sul Csm, per il quale urge un nuovo “metodo di elezione” dei suoi componenti. Nient’altro, dal presidente del Consiglio, su un tema che per importanza sarà solo un gradino sotto la legge di Bilancio. Conte sa che, almeno in campo penale, le divisioni sono nelle cose, e che il solo modo per disinnescarne il potenziale è attenuare i riverberi mediatici. Una scelta chiara. Anche nel modo in cui Orlando ha maneggiato i postumi della sua intervista di sabato scorso alla Stampa. Ha diffuso una nota per rammaricarsi della distanza fra il titolo (“Giustizia, la riforma non va”) e il testo (dai toni pacati), poi ha twittato per spegnere le successive “polemiche sulla giustizia”, da lui definite “completamente inventate”. Le divergenze ci sono eccome. La più netta è sulla prescrizione, le altre, dalle intercettazioni al sorteggio per il Csm, vengono dopo. Una parte non piccola del Pd farebbe una fatica enorme a sopportare l’entrata in vigore della norma che abolisce l’istituto dopo il primo grado. La tensione è aggravata dai tempi stretti: l’efficacia della “nuova” prescrizione voluta dal M5S decorre a partire dal 1° gennaio prossimo, cioè da qui a poco più di tre mesi. Vista la delicatezza della situazione, il vicesegretario dem e il suo successore a via Arenula potrebbero vedersi già in settimana, per un colloquio “a quattr’occhi”, dopo il “cordiale” (aggettivo utilizzato da entrambi) scambio telefonico di venerdì scorso. Cercheranno di abbozzare una road map prima che la situazione si complichi davvero. Orlando dà l’impressione di non illudersi sulla possibilità di un “congelamento” dello stop alla prescrizione. Non sarà lui, quanto meno, a chiamare alle armi il partito su questo fronte. “Credo che la drastica cancellazione della prescrizione sia un errore, ma dentro un percorso processuale si possono trovare equilibri compensando con altre garanzie”, ha detto sempre alla Stampa. Tra i dem acquista via via popolarità una soluzione, in particolare. Riguarda l’introduzione di più stringenti “finestre di controllo giurisdizionale sull’attività dei pubblici ministeri”. Ne ha parlato al Foglio il capogruppo pd nella commissione Giustizia della Camera, Alfredo Bazoli. Potrebbe voler dire anche prevedere verifiche più incisive, in capo al gip ma anche al vertice dell’ufficio, sul rispetto delle regole, da parte dei pm, nelle iscrizioni degli indagati a registro. È l’improprio ricorso alle indagini “a modulo 45”, ossia su atti che potrebbero contenere solo in via ipotetica “notizie di reato”: modalità che consente di fatto di avviare le indagini su specifici e in realtà ben noti soggetti assai prima della loro formale data di inizio, in modo da guadagnare tempo. Nella scorsa legislatura, Cnf e Unine Camere penali segnalarono all’allora guardasigilli Orlando la necessità di tipizzare uno specifico illecito disciplinare relativo a simili, pur non frequenti, condotte di alcuni inquirenti. Non se ne fece nulla e si optò per il più evanescente rimedio dell’avocazione da parte del Pg. Adesso il Pd potrebbe chiedere di assecondare le “antiche” richieste dell’avvocatura. Anche tenuto conto che proprio i penalisti intensificano il loro pressing sulla prescrizione. Ieri il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza ha inviato a tutti i parlamentari l’appello, sottoscritto da “oltre 150 Accademici di tutte le Università italiane” con cui a fine 2018 si chiese a Mattarella di rinviare alle Camere la legge con lo stop alla prescrizione dei reati. Quella “sostanziale abolizione”, ricorda Caiazza in una nota, “è un vulnus profondo ai principi costituzionali del giusto processo: la prescrizione è istituto di garanzia, necessario anche per determinare la ragionevole durata” dei giudizi. Pensare che il confronto tra M5S e Pd possa prescindere da tutto questo è insensato. Ma Bonafede e Orlando faranno il possibile per non trascendere dalle divergenze alla rissa. “Carcere agli evasori” e riforma Bonafede la linea è quella M5S di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2019 Elogi al testo del Guardasigilli che blocca la prescrizione e il bavaglio sulle intercettazioni. Con l’alleato sarà scontro. La riforma della Giustizia che ha portato al capolinea il governo giallo-verde, viene citata nel discorso del presidente Giuseppe Conte senza che si distanzi di una sillaba da quanto scritto al punto 15 dell’accordo del nuovo esecutivo M5S-Pd. Ma nella controreplica a Montecitorio, Conte rafforza il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’uomo che l’ha incamminato verso Palazzo Chigi: “Il ministro Bonafede offre tutte le garanzie di continuare un progetto al quale aveva iniziato a lavorare già”, Pd avvertito. “Serve - ha detto Conte - una riforma della giustizia civile, penale e tributaria anche attraverso una drastica riduzione dei tempi e una riforma del metodo di elezione dei membri del Csm. Questo piano riformatore dovrà salvaguardare il fondamentale principio di indipendenza della magistratura dalla politica”. Ma quando si dovrà passare ai fatti, lo scontro è garantito. L’anticipo di burrasca c’è già stato. Il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, uomo chiave di questa neo alleanza e pure predecessore di Bonafede, ha avvisato: “Un governo nuovo non può prendere per buono un testo costruito da due forze politiche che non ci coinvolsero minimamente”. Come dire: azzeriamo tutto. Niente blocco fisso della prescrizione, niente superamento della legge bavaglio. Orlando, poi, ha provato a metterci una pezza: “Esistono punti sui quali con il M5S siamo già d’accordo e altri sui quali lavoreremo per trovare un’intesa”. Bonafede, dopo il giuramento al Quirinale aveva dribblato la domanda sui nodi prescrizione e riforma del Csm: “Ci sarà tempo per occuparsene, abbiamo ambizioni importanti”. Non poteva certo ricordare che il primo annuncio da ministro del Conte 1 era stato quello di voler bloccare -cosa che poi ha fatto - la riforma delle intercettazioni di Orlando, bocciata da magistrati, avvocati e giornalisti. In vista della scadenza della proroga di questa legge, il 31 dicembre, il ministro ne stava preparando un’altra, nel frattempo, però, è cambiato l’alleato di governo. Ma il Pd, come la Lega, ha sempre avuto la tentazione del bavaglio, il braccio di ferro è scontato. Così come per la prescrizione. La riforma di Orlando l’aveva bloccata, ma solo dopo una condanna di primo grado e solo se veniva rispettato il tempo contingentato per Appello e Cassazione, 18 mesi a testa. La spazza-corrotti, invece, la prescrizione la blocca dopo il primo grado. Altra spina nel fianco è la riforma elettorale del Csm. Bonafede, da sempre, ha sostenuto che per arginare la correntocrazia ci voglia un sorteggio indiretto. Un’idea che nel Pd non ha mai fatto breccia, almeno fino a quando non è deflagrato lo scandalo nomine del Csm e la combutta del pm Luca Palamara insieme ai Dem Cosimo Ferri, Luca Lotti e alcuni ormai ex membri del Consiglio per pilotare la designazione del procuratore di Roma. Il “giustizialista” Bonafede ha scardinato pure la riforma dell’ordinamento penitenziario del “garantista” Orlando. E se per accelerare i tempi della giustizia si riparlerà di depenalizzazione, ci saranno altre scintille. Conte ha poi parlato della lotta agli evasori, ricalcando il programma: “Dobbiamo rendere sempre più efficace il contrasto all’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene, incluse quelle detentive per i grandi evasori”. Il Pd sarà d’accordo? Potrebbe esserlo in parte ma - risulta al Fatto - che ci siano già stati attriti durante i negoziati in vista del governo. D’altronde, l’anima renziana del Pd ha portato, all’epoca del governo dem-alfaniani, a innalzare le soglie di punibilità per omesso versamento dell’Iva, per la dichiarazione infedele e così via. Il M5S voleva cancellare queste norme, ma l’ex alleato leghista ha sempre fatto quadrato ed è andata avanti solo la “pace fiscale”. Vedremo se ci saranno altri muri. Nuovo governo e silenzio sulla giustizia di Gian Domenico Caiazza* Gazzetta del Mezzogiorno, 10 settembre 2019 Nel programma politico - il famoso contratto - del defunto governo gialloverde, la Giustizia penale la faceva da padrona. Insieme al reddito di cittadinanza ed al disfacimento della legge Fornero sulla previdenza era il tema più ricco di roboanti propositi, per di più tutti a costo zero e dunque di massimo rendimento populistico al minimo costo: e così, purtroppo, è stato. Riforma - Smantellamento della riforma dell’ordinamento penitenziario, in nome della famosa “certezza della pena”; moltiplicazione dei reati, aumenti iperbolici delle pene, pioggia di nuove ostatività alle misure alternative al carcere, giustizia “fai da te” domestica sempre legittima (ma è una fake news, per fortuna), processi sempiterni grazie alla abolizione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado. Insomma un festival degli orrori, un autentico incubo per chiunque creda nei valori costituzionali del diritto penale liberale e del giusto processo. Materiale di risulta - crediamo e speriamo - in gran parte destinato all’inceneritore della Corte Costituzionale. Fugace accenno - Dissolvenza incrociata, ed eccoci al governo giallorosso. Nessun contratto, ma un programma ricco di ben oltre venti punti, nei quali si parla di tutto fuorché di giustizia penale. Un fugace accenno alla necessità di ridurre i tempi del processo, per il resto un silenzio assoluto. Il silenzio, si sa, è il più indecifrabile degli atteggiamenti umani. Io faccio delle domande, quello non mi risponde: vai a capire perché. Nasconde segreti inconfessabili? Non ha la minima idea di cosa dire? Ha bisogno di tempo? Mi vuole dire: fammi un’altra domanda? Chissà. Certo, passare dal frastuono mediatico più ossessivo e scomposto al silenzio più british fa un certo effetto; e naturalmente preoccupa. Fuor di metafora, è infatti ben chiaro che le due forze politiche contraenti il nuovo patto di governo, consapevoli delle esplosive implicazioni di qualsivoglia affermazione di principio in tema di giustizia penale, hanno preferito, al momento, glissare. Problemi - Una scelta di corto respiro, direi. Mi ricorda la leggendaria scena in cui Woody Allen, finito insieme alla sua vistosissima amica in un vicolo cieco popolato da loschi figuri, dopo un momento di terrore le sussurra, risoluto: “Fai finta di camminare”. I problemi ci verranno addosso da subito, tacere non serve a nessuno. Vogliamo ricordarne qualcuno? 1. Sovraffollamento carcerario. La situazione è drammatica e cresce esponenzialmente. La risposta edilizia, oltre che concettualmente sciagurata, è letteralmente ingestibile per i suoi tempi lunghi e i costi altissimi. Il formidabile lavoro messo a punto dagli Stati Generali della esecuzione penale torna imperiosamente di attualità, e con esso la scelta di fondo della de-carcerizzazione della pena. Come intende agire la nuova maggioranza? 2. Interventi di riforma del codice di rito per ridurre i tempi lunghi del processo penale. Il buon lavoro portato a termine d’intesa tra avvocatura, magistratura e Ministro Bonafede ha prodotto tuttavia una legge delega svilita e svuotata dai veti ideologici posti dalla Lega sul potenziamento dei riti alternativi (patteggiamento e rito abbreviato). Il tema è l’unico esplicitamente evocato nel nuovo programma di Governo. Verrà dunque riscritta la legge delega secondo gli accordi raggiunti a quel tavolo? 3. Il 1° gennaio 2020 entra in vigore la folle norma abrogativa della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, perfino se assolutoria. Un mostro giuridico che grida vendetta, bocciato con veemenza in modo unanime dall’intera comunità dei giuristi italiani. Il nuovo Governo intende assumersi la responsabilità di varare la nuova figura sociale dell’“imputato a vita”? 4. La legge “spazza-corrotti” è già subissata di eccezioni di incostituzionalità le più varie (una quindicina di remissioni alla Corte Costituzionale, un record senza precedenti, inarrivabile). Il nuovo Governo intende prenderne atto, e trarne le ovvie conseguenze? 5. La riforma dell’Ordinamento Giudiziario, che sembrava una necessità non rinviabile dopo il noto scandalo esploso intorno alla nomina del nuovo Procuratore capo di Roma, sembra finita nel dimenticatoio. Davvero pensiamo di risolverla a colpi di sorteggio? Queste, e molte altre ancora, le domande impellenti alle quali occorre rispondere, e da subito. Per parte nostra, non daremo tregua al Governo: il silenzio è d’oro, a volte, ma non quando occorre governare un Paese. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Abolizione della prescrizione: la lettera del Presidente Caiazza a tutti i parlamentari camerepenali.it, 10 settembre 2019 Nella dichiarazione programmatica del nuovo Governo sono stati esposti, seppure in modo estremamente generico, propositi riformatori per la maggiore efficacia del processo penale. I penalisti italiani, accogliendo l’invito ad agire sui tempi del processo, si sono fatti portatori, unitamente alla associazione dei Magistrati, di proposte di riforma destinate ad incidere sulla durata delle indagini e del giudizio. Vi è però una sorta di precondizione culturale prima ancora che politica. La sostanziale abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio è un vulnus profondo ai principi costituzionali del giusto processo: la prescrizione è istituto di garanzia, necessario anche per determinare la ragionevole durata del processo, a tutela non solo dell’imputato ma anche della persona offesa. Oltre 150 Accademici di tutte le Università italiane - docenti di diritto costituzionale, di diritto penale sostanziale e processuale, Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale - hanno sottoscritto un appello al Presidente della Repubblica in occasione della promulgazione della legge segnalandone i gravi profili di incostituzionalità. In allegato la lettera del Presidente Caiazza con il testo di quell’appello e l’elenco degli autorevolissimi firmatari. Illustre Senatore, Illustre Senatrice, Illustre Onorevole, è imminente l’inizio del dibattito parlamentare per la fiducia al nuovo esecutivo. Nella dichiarazione programmatica del nuovo Governo sono stati esposti, seppure in modo estremamente generico, propositi riformatori per la maggiore efficacia del processo penale. L’Unione delle Camere Penali Italiane, che pure ben poco ha condiviso delle riforme in materia sostanziale penale e processuale promosse nella presente legislatura, si è sempre impegnata nella interlocuzione parlamentare - per il tramite delle audizioni nelle relative Commissioni e nel confronto diretto con i gruppi parlamentari ed i singoli deputati - rappresentando le ragioni delle proprie posizioni critiche e formulando autonome proposte di riforma. Significativo è stato l’impegno al tavolo ministeriale per la discussione sulle ipotesi di intervento nel processo ove i penalisti italiani, accogliendo l’invito ad agire sui tempi del processo, si sono fatti portatori, unitamente alla associazione dei Magistrati, di proposte di riforma destinate ad incidere sulla durata delle indagini e del giudizio: nuovo impulso ai riti speciali, polmone necessario per rendere gestibile un numero più ristretto di dibattimenti penali, nuova definizione della regola di giudizio per l’archiviazione e per la funzione di filtro dell’udienza preliminare, interventi di depenalizzazione in materia di contravvenzioni. Proposte di riforma hanno poi avanzato i penalisti a presidio dell’effettiva durata delle indagini preliminari e per la certezza dei tempi riservati all’esercizio dell’azione penale oltre che la previsione del controllo di giurisdizione sul momento della iscrizione nel registro delle persone indagate. Della sintesi di tali contributi vi è importante traccia nel disegno di legge delega già predisposto dal Guardasigilli e di cui avrà modo di occuparsi il Parlamento. L’Unione delle Camere Penali è a disposizione per rappresentare il punto di vista degli Avvocati, dare conto delle ragioni delle individuate criticità e spiegare le proprie proposte. Vi è però una sorta di precondizione culturale prima ancora che politica che è nostro intendimento rappresentare affinché sia parte rilevante nello sviluppo della discussione delle riforme penali. Si tratta della questione della prescrizione. La maggioranza parlamentare, protagonista della precedente esperienza di Governo, cedendo a vocazioni giustizialiste ha proceduto alla sostanziale abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Si è trattato di un vulnus profondo ai principi costituzionali del giusto processo: la prescrizione è istituto di garanzia, necessario anche per determinare la ragionevole durata del processo, a tutela non solo dell’imputato ma anche della persona offesa. Oltre 150 Accademici di tutte le Università italiane - docenti di diritto costituzionale, di diritto penale sostanziale e processuale, Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale - hanno sottoscritto un appello al Presidente della Repubblica in occasione della promulgazione della legge segnalandone i gravi profili di incostituzionalità. Siano certi di fare cosa utile facendole pervenire, in allegato alla presente, il testo di quell’appello e l’elenco degli autorevolissimi firmatari, come da link riportati in calce, affinché quelle ragioni e quegli argomenti possano arricchire ed orientare il dibattito parlamentare su questa decisiva quanto imminente questione che il nuovo Governo sarà chiamato da subito ad affrontare. Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione delle Camere Penali Italiane Battisti dal carcere: “La lotta armata? Non è valsa la pena” di Mauro Favale La Repubblica, 10 settembre 2019 “C’è qualcuno oggi che può onestamente dire che la lotta armata era da fare, che ne sia valsa la pena?”. La domanda retorica è il passaggio chiave di una “Lettera ai compagni” che dal carcere di Massama, a Oristano, dove è rinchiuso da otto mesi, Cesare Battisti, ex membro dei Proletari armati per il comunismo, consegna a una rivista letteraria on line “di movimento”, “Carmilla”. È la prima volta da quando è stato arrestato che l’ex fuggitivo (37 anni di latitanza passati tra la Francia e il Sud America), fermato dall’Interpol a Santa Cruz de La Sierra, Bolivia, lo scorso 12 gennaio, decide di parlare. Lo fa con chi, Carmilla appunto, più volte negli ultimi anni ha preso le sue parti, provando a smontare inchieste e processi conclusi con la condanna all’ergastolo per il terrorista accusato di aver partecipato o commesso quattro omicidi (il maresciallo Antonio Santoro, il gioielliere Pierluigi Torregiani, il negoziante Lino Sabbadin e l’agente della Digos Andrea Campagna) alla fine degli anni 70. Una lettera nella quale Battisti si rivolge a chi, nella galassia della sinistra più radicale e movimentista, aveva criticato le dichiarazioni che aveva reso a marzo davanti al coordinatore del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili e al capo della Digos del capoluogo lombardo, Cristina Villa. “Mi si chiede, era veramente necessario assumermi le responsabilità politiche e penali? Mi chiedo quale necessità muove coloro che si pongono questa domanda”, scrive oggi. Al procuratore di Milano, in un interrogatorio in carcere di 9 ore, Battisti aveva ammesso i 4 omicidi che gli sono stati imputati anche nella speranza di poter accedere (non prima di 10 anni, quando ne avrà 74) ai primi permessi premio. Ma intanto, seppur in una vicenda giudiziaria tutta in salita (il suo legale, Davide Staccanella, sta provando a commutare l’ergastolo in una condanna a 30 anni di reclusione), l’ex terrorista, già scrittore di romanzi noir, ci tiene a rivolgersi al suo mondo per sfatare il “mito Battisti”, creato apposta, scrive “per abbatterlo. “Questo si capisce e ha una logica feroce. Quello che non si capisce è il mito ripreso anche dai compagni, un buon mito da sventolare in nome della lotta rivoluzionaria. Poco importa che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato, martire da agitare secondo i gusti da un lato o dall’altro della barricata”. Per questo, dunque, Battisti decide di parlare con il magistrato, “perché se non smitizzavo il mostro, se non dicevo che sono appena umano, allora sarebbe stato meglio se mi avessero scaraventato subito giù dall’aereo di Stato”. “È una lettera molto franca - afferma l’avvocato Staccanella - nella quale Battisti spiega di non voler più essere un vessillo, tirato da una parte o dall’altra. Per il resto, nella sua deposizione non c’è stato alcun atteggiamento di delazione”. E, in effetti, al procuratore di Milano l’ex terrorista ha parlato solo di se stesso, senza fornire indicazioni su chi, nel corso di 37 anni, abbia coperto la sua latitanza. Nella lettera, allora, si concentra sugli ultimi 15 anni, dal febbraio 2004, quando venne arrestato in Francia, fino ad oggi: “Sono stati un inferno continuo, tra anni di carcere, arresti rocamboleschi, enorme dispendio di energia personale e di forze solidali”. Poi, prima dei saluti (“Un abbraccio a chi lo vuole”) promette un’appendice alla sua lettera: “Se incoraggiato, posso raccontare in seguito i retroscena di Ciampino”, di quando fu accolto dai sorrisi a favore di telecamere dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Salvini e Alfonso Bonafede. Femminicidio di Piacenza, la narrazione killer di giornali e tv di Angela Azzaro Il Dubbio, 10 settembre 2019 L’uccisione di Elisa Pomarelli da parte di Massimo Sebastiani ha messo in evidenza, più di altri casi, l’arretratezza e l’impreparazione di giornali e tv su un tema così delicato come il femminicidio. L’elenco delle nefandezze scritte è lungo. Si va dal “gigante buono”, come un titolo del Giornale ha definito - tra le proteste - Sebastiani, al solito “è stato un raptus”, fino “all’amore non corrisposto”. Sono tutti modi per sminuire l’accaduto, per giustificare un atto, per mettere in buona luce chi ha commesso il delitto. “Piangeva”, “è pentito”, “era ossessionato” sono alcune delle descrizioni lette in questi giorni che svelano come ancora oggi scontiamo la ricaduta di una cultura che resta profondamente maschilista. Anche quando si dice di voler stare dalla parte delle donne, nel momento in cui si deve raccontare un fatto di cronaca che le riguarda si fa ricorso a tutti gli stereotipi che fanno parte della stessa cultura in cui nasce la violenza degli uomini. Non è garantismo, non è difesa dello Stato di diritto contro il processo mediatico. Se così fosse, quando sono coinvolte persone di origine africana non leggeremmo ricostruzioni totalmente diverse e di stampo razzista. Nel caso di Piacenza c’è un di più che lo rende particolarmente emblematico. Elisa era lesbica. Una parola che in questo Paese desta ancora paura e scandalo. Altrimenti non si capisce perché questa difficoltà a pronunciarla, dirla, scriverla. Secondo un giornalista di Repubblica non andava usata perché Elisa, che aveva 28 anni, non aveva deciso ancora che cosa “diventare da grande”. È una riflessione sconcertante che rivela come le donne, anche quando sono adulte, vengono raccontate come minus habentes, incapaci quasi di decidere, incastrate nello stereotipo dell’incertezza, della confusione, della fragilità emotiva e sessuale. Elisa aveva un orientamento sessuale che viveva alla luce del giorno e raccontarlo non vuol dire calpestare la sua privacy ma dare valore alla sua biografia, alla sua storia, a una vita spezzata da un uomo violento. Non dire che era lesbica significa invece avallare l’idea che amare altre donne in fondo sia meno dignitoso che amare l’altro sesso, che una donna lesbica lo è solo a metà perché gli uomini, in fondo in fondo, le piacciono sempre. Non dirlo è un atteggiamento discriminatorio spacciato per rispetto. Dopo il ritrovamento del cadavere, l’uccisione di Elisa è diventato il primo titolo dei Tg. L’informazione ha capito finalmente l’importanza del tema? No, purtroppo non è così. È invece il segno della sua ulteriore banalizzazione. L’uccisione di una donna, da parte di un uomo che pretendeva di amarla contro il suo volere, viene spostato dal piano del potere di un sesso sull’altro e ridotto a cronachetta televisiva. Non si è parlato del fenomeno dei femminicidi, non si sono intervistate le donne impegnate nei centri antiviolenza, non si è aiutato chi è a casa a capire fuori dalla solita drammaturgia. Si è scelto invece di toccare le corde emotive: i vicini di casa, la sorella che scrive il saluto su Facebook, lo sconcerto del Paese, i fiori, il silenzio in cui si sono chiusi i genitori della giovane donna. Neanche una frase che faccia capire davvero che cosa sia accaduto e cosa fare per uscirne. Il copione giornalistico si ripete con la stessa drammatica evidenza della realtà, senza scarto, senza spessore. Eppure in questi anni si è fatto tanto per cambiare il linguaggio e far capire a giornalisti e giornaliste l’importanza dei termini e dello stile da utilizzare. Il movimento femminista “Non una di meno”, nel suo piano antiviolenza, dà preziosi suggerimenti e le giornaliste riunite nell’associazione “Giulia” organizzano corsi di formazione rivolti a colleghe e colleghi. Non mancano gli studi e le competenze, ma quando si parla di femminicidio ritornano i soliti termini. Chi scrive un articolo e ancora di più chi firma un servizio in tv ha una responsabilità molto grande: parla a migliaia di italiani e di italiane e può fornire gli elementi di comprensione per un cambiamento di mentalità. Ma prima lo sforzo per cambiare lo dobbiamo fare noi. Essere collaborativi non salva dal reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 37348/2019. Commette reato di occultamento delle scritture contabili il legale rappresentante che non indica il luogo di conservazione dei registri obbligatori. Ed è irrilevante l’atteggiamento collaborativo che ha consentito i verificatori di determinare il volume di affari. A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza nr. 37348 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società veniva condannato per occultamento di scritture contabili (articolo 10 del decreto legislativo 74/2000). La decisione del Tribunale veniva confermata anche in appello e l’imputato ricorreva in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, la contraddittorietà ed illogicità della motivazione. Da un lato, infatti, i giudici territoriali avevano accertato l’omessa esibizione delle scritture contabili obbligatorie, dall’altro, avevano dato conto che il comportamento collaborativo dell’imputato avesse permesso ai verificatori di ricostruire completamente il volume di affari. Peraltro, per il periodo di imposta oggetto di contestazione, il bilancio era stato regolarmente presentato ed era stato esibito ai funzionari, così come i registri dei beni ammortizzabili, dei corrispettivi e delle liquidazioni Iva. Infine, le risultanze determinate dall’agenzia delle Entrate coincidevano con i valori del bilancio regolarmente presentato. Perciò, secondo la difesa, la mancata esibizione non era stata accompagnata da risposte reticenti o fuorvianti a dimostrazione che non sussisteva alcun tentativo di occultamento, tanto che lo stesso imputato aveva collaborato ai fini della ricostruzione. La Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza. I giudici di legittimità hanno rilevato che le scritture non erano custodite presso la sede della società, risultata peraltro fittizia, e nemmeno presso il commercialista. Inoltre, l’imputato mai aveva indicato un luogo dove potesse reperirsi la documentazione. Tale comportamento - secondo la sentenza - evidenziava non solo la volontà di non esibirla ai verificatori, ma anche di volerla sottrarre attraverso il trasferimento in un luogo ignoto, realizzando così l’occultamento sanzionato dalla norma. La Suprema Corte ha poi precisato che il comportamento collaborativo della contribuente era irrilevante ai fini della sussistenza dell’illecito. Il legislatore, infatti, ha inteso sanzionare qualunque comportamento che renda anche soltanto più difficoltosa l’attività di verifica fiscale a causa della distruzione o dell’occultamento. La madre del guidatore etilista non evita la confisca di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2019 Sentenza 33231/2019. Un genitore non può sperare di evitare la confisca del veicolo a lui intestato, se lo affida al figlio alcolista e questi commette il reato di guida in stato di ebbrezza grave. Lo ha stabilito la Quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 33231/2019. Quando c’è l’ebbrezza grave (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro), l’articolo 186, comma 2, lettera c) del Codice della strada prevede anche la confisca del mezzo. Unica eccezione, quando il veicolo “appartiene a persona estranea al reato”. Il concetto di estraneità al reato è sempre stato interpretato in modo molto largo, per responsabilizzare i proprietari di veicoli e limitare i casi in cui la confisca (deterrente di riconosciuta efficacia, introdotto nel 2008) può essere elusa con prestiti e intestazioni “di comodo”. Quindi, non basta il solo fatto che l’intestatario non sia chi ha commesso il reato. Inoltre, per essere considerato estraneo all’infrazione, un proprietario non solo non deve contribuirvi attivamente, per esempio affidando il veicolo a una persona palesemente ebbra: occorre pure che eviti atteggiamenti negligenti che abbiano favorito l’uso indebito del mezzo (sentenza 2024/2007). Per esempio, non deve essere a conoscenza nemmeno di potenziali ebbrezze. È in quest’ultimo filone che s’inserisce la sentenza 33231/2019, che riguarda un uomo andato a sbattere contro un’auto in sosta mentre guidava con tasso alcolemico di 2,82 grammi/litro l’auto intestata alla madre. Secondo la difesa, l’uomo stava guidando l’auto della madre semplicemente perché conviveva stabilmente sia con la genitrice sia col fratello e la sorella. Tutti i componenti del nucleo familiare “potevano tranquillamente servirsi della vettura”. Ma nel corso del giudizio di merito era emersa una deposizione proprio del fratello secondo cui l’interessato sarebbe stato un alcolista e ciò “aveva causato alla famiglia tanti problemi”. Per questo sia il Tribunale sia la Corte d’appello avevano disposto la confisca della vettura. La misura è stata ora confermata dalla Cassazione, che ricorda la testimonianza del fratello per dimostrare come venga così accertato il fatto che la madre fosse “certamente a conoscenza” dell’etilismo del figlio. Ciò rende “evidente la totale imprudenza” della madre nell’affidare la propria auto al figlio alcolizzato. Si sarebbe potuto concludere diversamente solo se la difesa avesse dimostrato che il giorno dell’incidente ci fossero state ragioni di necessità a costringere la proprietaria a far guidare il figlio. Sarebbe finita diversamente anche nel caso in cui il figlio avesse rifiutato di sottoporsi all’alcoltest: la stessa Quarta sezione, nella sentenza 4961/2018, ha chiarito che il concetto di estraneità al reato non vale nel caso del rifiuto. Il guidatore non ha obbligo di dichiarare subito se ha colpa di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 33789/2019. Punendo il reato di fuga in caso di incidente con feriti, il Codice della strada intende garantire l’identificazione dei soggetti coinvolti e la ricostruzione del sinistro. Ma l’interpretazione rigorosa della norma (articolo 189, comma 6) esclude che l’interessato debba ammettere di essere l’autore del fatto, in occasione dell’intervento delle forze di polizia: basta che si ponga a loro disposizione mentre compiono gli opportuni accertamenti sul posto. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 33789/2019, depositata il 25 luglio. La Corte di appello aveva condannato l’imputato - nonostante egli fosse rimasto a lungo sul luogo dell’incidente - ritenendo che “la mera presenza fisica sul luogo dell’accaduto” del conducente sia equiparabile al suo “immediato allontanamento” se non rende possibile la sua identificazione quale autore del sinistro e la ricostruzione dello stesso. La Cassazione ha invece stabilito che il reato non sussiste, perché la condotta sanzionata è solo l’allontanamento fisico dell’interessato dal luogo dell’incidente, senza che gli possa essere imposta una forma ulteriore di collaborazione con l’autorità intervenuta. L’unico obbligo del conducente è dare assistenza ai feriti. Ma è un comportamento diverso dal dovere di fermarsi per fornire le proprie generalità e viene punito autonomamente dal reato previsto dal comma 7 dell’articolo 189. La sentenza in commento, giustamente, contempera l’esigenza dell’autorità di svolgere le indagini per ricostruire un incidente con feriti (disponendo di tutti gli elementi utili) con il diritto dell’interessato di non autoaccusarsi. Peraltro, un’ammissione di responsabilità resa dall’interessato nell’immediatezza del fatto, in assenza del difensore, è destinata a non essere utilizzabile come prova a suo carico. L’articolo 63 del Codice di procedura penale, infatti, prevede che “se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese”. L’ottemperanza all’obbligo di fermarsi, tuttavia, deve essere spontanea ed efficace, non indotta o inutile: la Cassazione lo ha ricordato anche in questo caso, richiamando un suo precedente (sentenza n. 42308/2017), in cui un conducente di un automobile era stato condannato perché, dopo avere investito due pedoni, si era fermato scendendo dall’auto solo dopo che una persona che aveva assistito all’impatto si era posto davanti al mezzo indicando le vittime, e si era poi allontanato senza fornire le proprie generalità, stanti le rassicurazioni fornite dalle persone offese circa il proprio stato di salute, nonostante la violenza dell’urto idonea ad arrecare danno alle persone. Una cosa, infatti, è garantire all’indiziato il diritto di non autoaccusarsi; un’altra, invece, consentirgli di sottrarsi indebitamente all’accertamento delle sue responsabilità. Sicilia. Allarme carceri sovraffollate Serena Giovanna Grasso Quotidiano di Sicilia, 10 settembre 2019 Al Pagliarelli di Palermo presenti duecento detenuti in più rispetto ai 1.182 da capienza regolamentare. Nell’Isola sui ventitré istituti penitenziari, in quattordici si rileva un numero di presenze superiore al consentito. Torna il rischio di affollamento nelle carceri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, sono 60.254 i detenuti presenti nelle carceri italiane allo scorso 31 luglio, quasi il 20% in più rispetto ai 50.480 posti consentiti dalla capienza regolamentare (si tratta esattamente di 9.774 posti in esubero). Nel dettaglio, le regioni maggiormente sofferenti sono la Campania (con una capienza stimata in 6.157 unità ed una presenza effettiva ammontante a 7.606 detenuti), il Lazio (con una capienza di 5.254 unità e presenze pari a 6.483), la Puglia (con 3.745 detenuti a fronte di una capienza regolamentare ammontante a 2.319), ma soprattutto la Lombardia che all’interno delle mura carcerarie accoglie oltre duemila detenuti in più rispetto al limite massimo consentito (8.472 presenze, rispetto alle 6.199 limite). Al contrario, la situazione siciliana è abbastanza regolare nel complesso: infatti, nella nostra regione il numero complessivo di detenuti (6.396) è inferiore di 88 unità rispetto al numero massimo di detenuti definito dalla capienza regolamentare (6.484). Ma le apparenze ingannano: infatti, se scendiamo nel dettaglio dei singoli istituti penitenziari tutto cambia. Oltre la metà delle strutture siciliane ospita un numero di detenuti superiore rispetto alle proprie capacità (si tratta esattamente di quattordici dei ventitré penitenziari complessivi). La situazione peggiore si rileva al Pagliarelli di Palermo, in cui sono presenti ben duecento detenuti in più rispetto al consentito: infatti, l’istituto ospita 1.382 detenuti, rispetto ai 1.182 massimi da legge. La capienza regolamentare viene calcolata sulla base del criterio dei nove metri quadrati per singolo detenuto, più cinque metri quadrati per gli altri (lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni). Naturalmente la superficie si riduce notevolmente nel momento in cui si verificano delle eccedenze. Valori ben oltre il consentito si riscontrano anche al “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento (356 rispetto ai 283 consentiti, ovvero 73 in più), a Siracusa (+56) e a Caltanissetta (+52). Al contrario, presso gli istituti penitenziari di Barcellona Pozzo di Gotto (231 rispetto ai 416 consentiti, ovvero 185 in meno), Messina (195 rispetto al massimo di 294, quindi 99 in meno) e all’Ucciardone di Palermo (383 rispetto ai 571, corrispondenti a 188 in meno) è presente un numero di detenuti di gran lunga inferiore rispetto alla capienza regolamentare. Sui 6.396 detenuti presenti all’interno delle carceri siciliane, 4.017 hanno già ricevuto la condanna definitiva, in 1.117 sono stati condannati in modo non definitivo e in 1.230 sono in attesa di primo giudizio. Gli stranieri sono in 1.101 e rappresentano il 17% del totale regionale (un’incidenza nettamente più contenuta rispetto al 33,3% osservato in Italia, dove sono stranieri 20.080 dei 60.254 detenuti complessivi). In generale, in Sicilia si osserva il quarto valore di detenuti complessivamente più elevato a livello nazionale, dopo Lombardia, Campania e Lazio, corrispondente al 12,7% del totale. Ad incidere negativamente sul sovraffollamento delle carceri è anche il limitato uso delle misure alternative e della messa alla prova, che contribuiscono a saturare le presenze all’interno degli istituto penitenziari. Si tratta, in particolare, di strumenti riservati a chi ha commesso reati minori, consistente nella sospensione del processo, consentendo all’imputato o indagato che ne fa richiesta di saltare il processo e cancellare il reato a patto che questi svolga una serie di attività che comprendono lavori di pubblica utilità, condotte riparative per eliminare le conseguenze del reato e risarcimento del danno. Campania. Il Garante dei detenuti: troppe persone malate trattenute illegalmente in carcere cronachedellacampania.it, 10 settembre 2019 “Mentre noi parliamo, 15 detenuti in Campania vengono trattenuti illegalmente in carcere, nonostante abbiamo diritto a uscire ed essere spostati in strutture per la salute mentale”. Lo ha dichiarato Samuele Ciambriello garante dei detenuti in Campania durante la trasmissione “Barba e capelli” di Radio Crc. “Abbiamo bisogno di più posti detentivi - ha proseguito Ciambriello. Da 10 anni la sanità nelle carceri è regionale, appartiene quindi alle Asl. Attualmente abbiamo persone che entrano in carcere perché hanno commesso un reato, ma hanno un’altissima probabilità che, una volta scontata la pena, il reato venga commesso nuovamente. Il carcere è incompatibile o no con alcune patologie? Posso avere gli arresti domiciliari ospedalieri? Da un po’ di tempo abbiamo ottimi rapporti con l’Asl di Napoli. A settembre riprenderemo un tavolo aperto permanentemente. Mancavano i defibrillatori nei padiglioni di Poggioreale, rischiando così che i detenuti morissero di arresto cardiaco. Farò fare agli agenti penitenziari un corso di primo soccorso”. Parma. Muore a 82 anni dopo un anno in cella: favorì l’arrivo di una “clandestina” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2019 Muore a 82 anni, aveva un tumore ai polmoni che si è aggravato durante la carcerazione al penitenziario di Parma. Un uomo buono, per chi lo conosceva, che fino a pochi anni fa viveva in una roulotte e l’unico aiuto proveniva dalla rete diritti in casa, un collettivo di Parma che lotta per il diritto alla casa per chi non ha nulla e viene abbandonato dalle istituzioni. Parliamo di Egidio Tiraborrelli, un uomo che all’età di 17 anni era emigrato in Argentina dove ha svolto il lavoro di operaio saldatore. Rientrato in Italia è rimasto solo, con l’unico fratello di qualche anno più giovane, anche lui nullatenente. “Egidio si presentò da noi - spiega a Il Dubbio Katia Torri, l’attivista della rete diritti in casa - perché praticamente era senza tetto e ci aveva chiesto se potesse mettere la sua roulotte nel cortile della casa occupata”. Torri racconta che gli stessi abitanti dell’occupazione hanno espresso il desiderio di ospitarlo dentro l’edificio nonostante non ci fosse un effettivo spazio adeguato per lui, “ma Egidio - spiega l’attivista - aveva insistito che non voleva recar troppo fastidio e gli bastava uno spazio per la sua roulotte”. Egidio si era integrato perfettamente con gli altri, tanto da coltivare un piccolo orto e condividere gli ortaggi con gli abitanti che li considerava quasi come figli”. Ma Egidio, “Gidio” per gli amici, non sapeva che ha subito un processo e nemmeno della condanna scaturita nel 2012 per un reato considerato gravissimo per la nostra legislazione, quello di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Eppure, la sua vita piena di sacrifici e stenti aveva avuto anche un piccolo risvolto positivo grazie all’aiuto degli attivisti del collettivo: era riuscito ad ottenere una casa popolare. La tranquillità tanto agognata è durata poco. A causa della condanna avvenuta a sua insaputa, a dicembre del 2018 è stato tratto in arresto e ha varcato i cancelli del carcere di Parma. Ma cosa ha commesso di così grave per meritarsi una condanna che rientra tra i reati ostativi, il famigerato 4bis dell’ordinamento penitenziario nato per contrastare l’emergenza mafiosa e poi allargato nei confronti di altri reati, fino alla corruzione grazie allo spazza-corrotti? Aveva aiutato, tramite un passaggio in macchina, una persona dell’est nel varcare i confini. Non era un trafficante, non ci ha guadagnato nulla, ma ha peccato nell’aver aiutato una persona ad entrare in Italia. Egidio era quindi colpevole di aver fatto varcare i nostri sacri confini, lui che da migrante ha varcato vari confini del mondo. Egidio, come detto, aveva un tumore e in carcere si aggiunge un’altra tragedia, quella della precaria assistenza sanitaria. “Ci aveva contattata una volontaria del carcere - racconta Katia Torri del collettivo rete diritti in casa - dicendoci che c’era solo un impianto della bombola di ossigeno per tutti i detenuti malati e quindi se la scambiavano a turno”. Anziano, malato e di fatto incompatibile con l’ambiente carcerario. Ma non aveva un avvocato, quindi gli attivisti con grande difficoltà si sono adoperati per fargli nominare una avvocata di loro fiducia. Dopo aver ottenuto la nomina si è adoperata per ottenere la sospensione della pena. Alla fine, ottiene i domiciliari tramite il ricovero ospedaliero. Un ricovero breve, perché dopo una settimana - esattamente venerdì scorso - Egidio Tiraborrelli muore. Come detto, era povero Egidio. E nella solitudine e povertà, anche quando muori i problemi non finiscono visto che fare un funerale ha un suo costo. Ha un figlio in Argentina che a breve raggiungerà l’Italia, mentre nel frattempo il fratello di Egidio è in giro per assistenti sociali per potergli garantire almeno una degna sepoltura. Roma. Detenuti per progetti di pubblica utilità: la giunta Raggi approva un protocollo d’intesa romatoday.it, 10 settembre 2019 Raggi: “Un ulteriore passo avanti nella promozione di un’iniziativa apprezzata a livello internazionale”. Approvato in Giunta Capitolina lo schema di Protocollo d’Intesa fra Roma Capitale e Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena, attraverso la partecipazione a progetti di pubblica utilità nel territorio di Roma Capitale. Tramite tale delibera si autorizza l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale, Daniele Frongia, a sottoscrivere tale Protocollo di Intesa con il Ministero della Giustizia, rappresentato dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dott. Francesco Basentini. I progetti attuati finora si sono ampiamente dimostrati come dei validi mezzi per coniugare le esigenze dell’Amministrazione di cura del territorio con la promozione della funzione rieducativa della pena e reinserimento sociale dei detenuti. Grazie al nuovo Protocollo di Intesa, quindi, si rinnova l’accordo fra le parti concordando di demandare i dettagli dei singoli progetti a degli specifici Protocolli Operativi, per lo stesso si stabilisce la durata di 12 mesi, tacitamente rinnovabile salvo esplicita volontà di ciascuna parte firmataria di porre termine notificata con un anticipo di almeno 60 giorni. Con il Protocollo, inoltre, si delinea la possibilità di integrare interventi nelle aziende agricole di proprietà di Roma Capitale quali Castel di Guido e Tenuta del Cavaliere e si istituisce, infine, una Cabina di Regia da riunire con cadenza periodica e almeno una volta ogni due mesi per condividere ogni eventuale criticità relativa alle attività avviate. “L’apprezzamento internazionale ricevuto per i progetti avviati a partire dal marzo del 2018 testimoniano come stiamo lavorando nella giusta direzione. Una delegazione messicana è stata accolta da noi lo scorso giugno per apprendere i dettagli dei nostri progetti con i detenuti ed esportarli nel mondo, ciò dimostra ancora una volta come Roma possa e debba essere all’avanguardia sotto molteplici aspetti, in primis sul sociale. Siamo orgogliosi di aver dato vita a tale iniziativa e la firma che l’Assessore Frongia apporrà sul Protocollo d’Intesa palesa la nostra voglia di proseguire in questa direzione e ampliare sempre di più l’offerta lavorativa su base volontaria per le persone soggette a misure restrittive”, afferma la Sindaca di Roma, Virginia Raggi. “Ancora una volta mi preme ringraziare il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Tribunale di Sorveglianza di Roma e il Prap - Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise - per aver permesso una così rapida ed efficace attuazione dei progetti che abbiamo attivato con i detenuti. La cittadinanza e la stampa ci hanno dato più volte testimonianza di come tali iniziative siano apprezzate e condivise, per questo proseguire con un nuovo Protocollo di Intesa era una delle nostre priorità. Dare una formazione e possibilità lavorativa una volta espiata la pena ai detenuti è non solo un mezzo proprio di uno stato di diritto, ma una vera e propria dimostrazione di come porti vantaggi sia al singolo detenuto che all’intera collettività”, afferma l’Assessore Daniele Frongia. “Siamo sempre più determinati nel creare iniziative ed occasioni che dimostrino quanto Roma possa e voglia essere una comunità solidale”, aggiunge l’Assessora alla Persona, Scuola e Comunità solidale Laura Baldassarre. “Il riscontro positivo proveniente dalla cittadinanza non può che consolidarci nel nostro impegno, tanto più che il Protocollo di Intesa prefigura già la possibilità di individuare ulteriori ambiti di intervento per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Si incontra così il bene individuale con quello pubblico, in una sinergia di sforzi alla diffusione di una cultura e di una prassi effettiva di integrazione”. Avellino. “Nel carcere di Ariano Irpino sopravvitto più caro, è indegno” ottopagine.it, 10 settembre 2019 L’accusa del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Ogni volta che vado in un carcere trovo sempre qualche novità in negativo o qualche buona prassi. Oggi recandomi in una visita al carcere di Ariano Irpino (Av) scopro che i familiari dei detenuti, quando effettuano un vaglia postale pagano 6.50 € e poi indipendentemente dall’entità dell’importo, la posta trattiene ulteriori 16 euro. È immorale, illegale, indegno” ha denunciato il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Il Garante poi continua, evidenziando un’altra negatività: “Il sopravvitto è qui rincarato rispetto ad altri istituti campani su alcuni prodotti che riguardano generi alimentari, per l’igiene o anche per la bomboletta del gas. chi controlla tutto questo? Perché accadono queste cose? Questa del sopravvitto nelle carceri sta diventando un altro tipo di estorsione che si fa nei confronti dei diversamente liberi che si ritrovano ad acquistare prodotti che costano talvolta più del doppio rispetto a fuori.” Ieri il Garante, accompagnato dalla Direttrice Maria Rosaria Casaburo, ha visitato diversi padiglioni intrattenendosi con i detenuti, parlando con loro, ascoltandoli. È stato poi anche nell’infermeria. “Spero che quanto prima vengano fatti dei lavori per adeguare questo reparto, sia in termini di accoglienza che in termini sanitari, ad un vero centro clinico. Gli stessi detenuti, in post operazione, o celiaci, non ricevono cure adatte sia in termini sanitari che riguardo le proprie esigenze alimentari” continua il professor Ciambriello. Il carcere, che conta 336 detenuti, di cui 290 definitivi, la maggior parte dei quali arrivati in seguito a provvedimenti disciplinari, con una presenza di 60 detenuti tossicodipendenti, ha appena 2 educatori, non ci sono attività trattamentali, ne un campo sportivo, né una palestra, né iniziative ludiche o culturali. La situazione tragica dell’istituto, determinata dalla carenza di personale pedagogico, dalla struttura fatiscente, è aggravata anche dallo scarso numero di agenti di polizia penitenziaria che effettivamente opera in carcere, rispetto al numero previsto in pianta organica. In istituto sono presenti solo due psicologhe con poche ore a disposizione, uno psichiatra che si reca lì saltuariamente, insomma va potenziata sia la presenza di figure sociali, sia il numero delle ore per le quali sono presenti in istituto visto che partecipano anche alle commissioni di disciplina e quindi il rischio è che vedano il detenuto o per 5 minuti al mese o che non lo vedano proprio. Il Garante lancia un appello alle associazioni, alle cooperative, agli artigiani, affinché possano entrare nelle mura del carcere per delle attività. Infine conclude: “Se dovessi sintetizzarlo con una battuta direi che in questo carcere si vive di ozio, visto che non ci sono neanche detenuti art. 21 all’esterno del carcere”. Firenze. “Essere infermiere in carcere oggi è una sfida” quinewsfirenze.it, 10 settembre 2019 L’infermiera Monica Pusceddu attraverso Opi Firenze Pistoia, racconta la vita all’interno del carcere sottolineandone problemi e criticità operative. L’infermiere non è solo il professionista che opera nelle strutture ospedaliere, Monica Pusceddu, infermiera che opera nel settore della sanità penitenziaria della Usl Toscana Centro lo racconta attraverso Opi Firenze Pistoia ricordando l’aggressione avvenuta a metà agosto all’interno della casa circondariale. L’utenza attuale del carcere di Sollicciano comprende circa 800 detenuti. “Essere infermiere in carcere oggi è una sfida, sia professionale che etica, perché, come ci ricorda l’articolo 3 del nuovo codice deontologico, “l’infermiere si astiene da ogni forma di discriminazione e colpevolizzazione nei confronti di tutti coloro che incontra nel suo operare”. Ci troviamo a dover gestire sia culture differenti dalla nostra che persone socialmente svantaggiate per cui, a prescindere dal reato commesso (del quale non dobbiamo essere a conoscenza, né eventualmente tenere conto), è fondamentale la presa in carico del paziente” racconta Monica Pusceddu. Pusceddu aggiunge “Sono diverse le problematiche che ci ritroviamo ad affrontare: dalle lunghe distanze date dai corridoi che separano l’infermeria da alcune zone del carcere dove potrebbero trovarsi i pazienti da soccorrere, agli interventi infermieristici che vanno sempre coordinati con la polizia penitenziaria per ragioni di sicurezza. Gli ambulatori non sono totalmente sotto la gestione dell’Usl Centro anche dal punto di vista della manutenzione, per cui molto spesso, per interventi urgenti (come per esempio allagamenti, infiltrazioni, imbiancature e illuminazione elettrica) dobbiamo rivolgerci agli uffici tecnici dell’amministrazione penitenziaria che non sempre ha i mezzi per sopperire ad alcune esigenze. Inoltre gli spazi a noi riservati sono angusti, fatiscenti e talvolta con poca illuminazione e l’assistenza da erogare diventa difficoltosa anche per queste concause”. Inoltre “La complessità assistenziale è data anche dalle diverse etnie che compongono il bacino di utenza e dal livello culturale e sociale medio-basso: spesso i detenuti provenienti dall’Africa sub-sahariana hanno frequentato a malapena le scuole elementari e non avendo beneficiato nel loro paese di un servizio sanitario strutturato si ritrovano per la prima volta ad avere a che fare con una istituzione sanitaria ben definita. Il detenuto che si vede privare della propria libertà utilizza spesso degli atteggiamenti manipolatori nei confronti del personale sanitario, mettendo in atto gesti autolesivi, talvolta di poco conto, talvolta di grave entità come i tentativi di suicidio, che nell’ultimo anno purtroppo in alcuni casi sono stati portati a termine. Il detenuto si trova a fare richieste non conformi, molto spesso dal punto di vista terapeutico, che l’infermiere o il medico gli devono negare. Nella relazione di fiducia paziente/infermiere quando queste richieste non vengono soddisfatte capita che il detenuto risponda con aggressioni sia verbali che fisiche”. “Un importante percorso attivo è il monitoraggio delle malattie infettive: questo fa sì che i pazienti vengano intercettati e curati subito ma anche che ci sia una risonanza positiva sulla cittadinanza nel momento in cui il detenuto tornerà libero”. Il resoconto operativo tra le pareti del carcere si conclude con una analisi degli aspetti da migliorare “la base di tutto è sicuramente la formazione, poiché attualmente si parla troppo poco di infermiere penitenziario e anche all’interno delle università dovremmo iniziare a orientare i futuri professionisti verso questa realtà. Quello che potrebbe aiutare nel miglioramento della qualità dell’assistenza è senz’altro una sempre maggiore interazione e un confronto con gli altri servizi, sia territoriali che ospedalieri. Non da meno è il problema della sicurezza che è costantemente al vaglio dell’amministrazione penitenziaria e dell’azienda sanitaria che necessariamente devono coordinarsi e integrarsi al fine di ridurre al minimo il rischio. Oggi dovremmo puntare molto di più sull’informazione su casi limite come l’aggressione dello scorso 14 agosto, per poter formare i colleghi in modo che sappiano affrontare situazioni critiche e di conflitto con l’utenza”. Bergamo. Da Celadina oltre ottanta parrocchiani in visita nel carcere di Carmelo Epis santalessandro.org, 10 settembre 2019 Per le detenute è stato un incontro intenso, perché hanno capito che oltre quelle mura qualcuno pensa a loro. Per la parrocchia di Celadina è stato un incontro coinvolgente, che ha permesso di conoscere da vicino la realtà del carcere. Un incontro - come ha sottolineato il parroco don Davide Galbiati - che spinge “a superare la pigrizia intellettuale di chi dice: “Hanno sbagliato, devono pagare”. Una giornata davvero particolare quella vissuta dalla parrocchia, nel pomeriggio del 5 settembre, nell’ambito delle feste patronali, quando oltre 80 persone hanno varcato le porte del carcere per conoscere da vicino una realtà nascosta, anche se vicina alle proprie case. Prima tappa la visita alla lavanderia, dove si alternano ogni mese le 40 detenute. “Lavano e stirano, ricevendo un compenso per il loro lavoro - ha sottolineato Anna Maioli, capo area trattamentale, che ha fatto da cicerone. Grazie a quanto ricevono per i vari lavori, detenute e detenuti si sentono responsabili e impegnati. Inoltre possono comprare quanto serve per la pulizia personale, come sapone, dentifricio, shampoo, il giornale, le sigarette e andare dal barbiere. Tutte cose che non sono pagate dall’amministrazione carceraria”. Maioli ha ringraziato la parrocchia perché, nelle feste natalizie, raccoglie materiale per la pulizia personale. Quindi ha mostrato i lavori delle detenute nella scuola di ceramica, seguite da una ceramista, che periodicamente vengono messi in vendita. Ci sono poi altri lavori per i detenuti maschi. Un gruppo dei 500 presenti nella struttura, aiuta un cuoco, che ogni giorno prepara 350 coperti, dalla colazione alla cena. C’è poi un forno che sforna pane, consegnato anche a domicilio, panettoni e colombe. In ogni cella si può tenere un fornello, sempre pagato dai detenuti, per consentire di bere un caffè o un tè. I volontari sono una presenza indispensabili, perché aiutano detenuti e detenute a trascorrere la giornata e ascoltano i racconti delle loro vite. Per consentire un futuro a chi termina di scontare la pena, per non far perdere gli anni scolastici, o anche solo per riflettere e formarsi, sono attivi corsi di scuola elementare, media e istituto alberghiero. Quattro detenuti proseguono gli studi universitari e i docenti vengono in carcere per gli esami. Sono attivi anche corsi di italiano per i detenuti stranieri. Ogni giorno sono 120 i detenuti che studiano. “Sensibilizziamo alla frequenza regolare. Ci sono anche persone che neppure sanno la loro data di nascita”, ha aggiunto Maioli. Il gruppo si è quindi spostato nella sala teatro, dove c’erano le detenute, alcune molto giovani, e la nuova direttrice del carcere, Teresa Mazzotta, che ha indicato come priorità del suo impegno il reinserimento e l’accompagnamento dei detenuti al termine della pena. “Il carcere non è quello che appare nei film e neppure un luogo dove si danno giudizi sommari sulle persone. Ogni detenuto porta con sé problemi, speranze, rimpianti, ricordi. È molto triste vedere i loro figli piccoli piangere quando termina il tempo di ricevimento”. La direttrice ha invitato a fare gli auguri di buon compleanno a suor Valentina, una religiosa delle Poverelle, impegnata in carcere, che compiva 80 anni. “Grazie - ha risposto la religiosa, visibilmente emozionata. Busso ovunque per cercare fondi per i bisogni dei detenuti e mi sento chiamare “frà Sircòtt”. Ricevo anche insulti, ma rispondo che i carcerati sono dei cittadini”. Quindi il saluto di Daniela, una detenuta. “Siamo donne di etnia, religione e lingue diverse. Siamo qui per degli errori commessi e non è facile fare i conti con il passato. Pesa la lontananza da casa e dagli affetti”. Vanni ha risposto a nome della parrocchia: “Abbiamo sempre visto il carcere dal di fuori, ora l’abbiamo visto dal di dentro. Grazie per la vostra testimonianza”. Dopo alcuni momenti di preghiera e canti, eseguiti dal Coro parrocchiale Shalom, ha preso la parola il parroco. “Abbiamo sentito narrare storie di vita di persone che riconoscono di aver sbagliato. Sono voci che ci hanno fatto conoscere il carcere vero, non quello dei luoghi comuni. Abbiamo imparato a non dare giudizi duri e affrettati. Un detenuto è una persona che ha sbagliato, non un ladro a vita”. Firenze. Spiragli di luce, il Teatro del “Meucci” si apre alla città di Gianfranco Macigno gnewsonline.it, 10 settembre 2019 Spiragli “Teatri dietro le quinte” è la sezione teatrale progettata dalla compagnia teatrale “Interazioni elementari”, che si terrà da oggi a sabato nell’ambito dell’edizione dell’Estate Fiorentina 2019. Oltre che all’Istituto penale per minorenni “G Meucci”, che apre i suoi spazi al pubblico offrendo alla città un luogo in cui i protagonisti diventano il teatro ed i giovani detenuti che partecipano ai laboratori organizzati nell’istituto, gli spettacoli verranno messi in scena nel Teatro Spazio Alfieri e nel Cinema Teatro di Castello. Al “G. Meucci”, via degli Orticellari 18, gli spettacoli iniziano oggi alle 18.30 con una dimostrazione di lavoro, a cui parteciperanno i giovani attori detenuti e un gruppo di attori esterni, curata da Emmanuel Gallot-Lavallée. Domani alle 10.30 Sasà Striano, ex detenuto ora attore professionista, incontrerà i giovani detenuti e il pubblico esterno. Mercoledì alle ore 18.00 l’attore Filippo Frittelli e i giovani attori detenuti presentano lo spettacolo One Man Jail. Alle 19.30 Dimostrazione di lavoro del laboratorio esperienziale Fiori nel Deserto-Saharat Zohra a cura di Verdiana Dolce e Davide Martiello. Sabato 14, infine, alle 17.00 festa finale con la partecipazione dei laboratori dell’istituto e alle 19.00 concerto conclusivo di Peppe Voltarelli. Tutti gli spettacoli sono aperti al pubblico a offerta libera. Salerno. Un progetto di musicoterapia per i detenuti del carcere di Vallo della Lucania di Gennaro Maiorano infocilento.it, 10 settembre 2019 Continuano le attività dirette ai detenuti della casa circondariale. È stato pubblicato nei giorni scorsi il bando relativo ad un nuovo progetto: la musicoterapia. Quella promossa dalla direttrice Gabriella Niccoloi è una iniziativa finalizzata a favorire attività che consentano di attenuare il disagio legato alla condizione dei carcerati. Il bando mira ad individuare cooperative, associazioni o professionisti che possano avviare questo progetto con i detenuti. Il carcere di Vallo della Lucania non è l’unico in Italia ad aver avviato questo esperimento adottato anche in altre strutture con importanti risultati. Molti sono anche i casi di spettacoli musicali tenuti nelle varie case circondariali italiane. Quello di Rebibbia ha addirittura una propria band ufficiale. La musicoterapia è soltanto uno dei progetti svolti in favore dei detenuti vallesi. Da tempo, infatti, questi sono coinvolti anche in altre attività come quelle teatrali. Trieste. I sentimenti dei detenuti diventano opere d’arte di Luigi Putignano Il Piccolo, 10 settembre 2019 Ha fatto tappa in questo fine settimana nella sala Fittke la mostra degli elaborati che hanno preso parte al concorso artistico per persone detenute “A mano libera” su iniziativa del gruppo scout del “Clan Arcobaleno” dell’Agesci Ts 2 Nordest. Sono giunti 11 elaborati realizzati da cinque detenuti, giudicati in base a tecnica d’esecuzione, creatività e messaggio trasmesso. “L’idea del concorso d’arte - ha spiegato la scout Giorgia Linardon - è nata l’anno scorso dopo un percorso di approfondimento e dibattito sul tema della pena e della realtà del carcere”. La mostra rientra all’interno delle attività del Progetto Area Giovani del Comune, cui hanno collaborato, tra gli altri, la docente di storia dell’arte e membro della giuria Lucia D’Agnolo, lo scrittore Pino Roveredo e la garante comunale dei detenuti Elisabetta Burla. “Abbiamo deciso - così Linardon - di attribuire tre premi di 300, 200 e 100 euro. Per finanziare il montepremi e le altre spese per la preparazione della mostra abbiamo organizzato diverse attività di autofinanziamento”. Si è trattato di un percorso non facile dal punto di vista burocratico: il bando è stato prima approvato dal Provveditorato di Padova e poi inoltrato a tutti i direttori delle carceri coinvolte. Tre i temi: “Come vorrei decorare la mia parete”, “La mia vita tra 20 anni” e “Una giornata in libertà”. Il primo premio se l’è aggiudicato Luca Trimarco, della casa circondariale di Gorizia, per “l’originale, intrigante, e un po’ misterioso, accostamento di nomi e date alle macchie cromatiche e per l’uso felicissimo del colore”. Ex aequo per la seconda piazza tra Bmt, del carcere di Udine, e il Gruppo laboratorio Arteducativa composto da Salvo Pietro, Giovanni Pinna e Jean Luca Falchetto, del carcere di Verona Montorio. Terzo premio a Vasquez Lopez Andres Felipe del carcere di Pordenone. Milano. “Sala Fuoricinema”, nel carcere di Bollate apre sala cinematografica affaritaliani.it, 10 settembre 2019 La sala sarà aperta la pubblico su invito. L’iniziativa rientra tra le novità della Movie Week. Apre il 18 settembre la “Sala Fuoricinema” una sala cinematografica e teatrale all’interno del carcere di Bollate, ma aperta al pubblico (su invito). È una delle novità della Movie Week, che partirà il 13 settembre, andando avanti per una settimana fino al 20, con manifestazioni diffuse in tutta a città. L’iniziativa che riguarda la casa di reclusione di Bollate nasce dall’idea dell’associazione Fuoricinema e dal “sogno” della direzione dello stesso carcere. Bollate infatti “aveva una sala teatro che necessitava di restauro”, come ha raccontato la direttrice, Cosima Buccoliero, questa mattina in conferenza stampa a Palazzo Reale. È così che personale sia “interno che esterno al carcere”, muratori ed elettricisti, “si sono prodigati a titolo di volontariato per realizzare la sala e far prendere corpo a quella che fino a poco tempo prima era solo un’idea”. L’obiettivo è quello di “aprire il carcere alla città”, nella speranza che la sala “sia usata, con le dovute precauzioni, per proiezioni cinematografiche aperte al pubblico e per diffondere la cultura del cinema ai detenuti che non possono frequentarlo all’esterno”, per contribuire alla loro crescita e al loro riscatto, ha aggiunto al direttrice. L’inaugurazione il 18 settembre, all’interno del quadro della Movie Week, rappresenta “un momento simbolico” per la manifestazione stessa, secondo l’assessore alla Cultura, Filippo Del Corno. Padova. Polisportiva Pallalpiede, la squadra di detenuti che vince in campo e fuori La Repubblica, 10 settembre 2019 La squadra nata nel 2014 all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, sarà tra gli ospiti di Future Vintage, in collaborazione con Radio Deejay e m2o: il festival culturale e della comunicazione si svolgerà dal 13 al 15 settembre al Centro Culturale San Gaetano di Padova. Il calcio come occasione di socializzazione e reintegrazione per i detenuti: è questa l’idea alla base della nascita della Polisportiva Pallalpiede, la squadra fondata nel 2014 all’interno del carcere Due Palazzi di Padova che è l’unica a livello nazionale iscritta a un campionato Figc. Un progetto che si è rivelato vincente: nella scorsa stagione, la Polisportiva Pallalpiede ha vinto il girone C di Terza Categoria, che va ad arricchire un palmares in cui erano già presenti 4 Coppe disciplina, il trofeo che viene assegnato alla squadra più corretta del campionato. Della squadra fanno parte detenuti di tutte le nazionalità, che durante la settimana si allenano e nel week-end affrontano le altre squadre del campionato, un’occasione per confrontarsi con nuove persone e situazioni. Ma al di là dei titoli in bacheca, ciò che ha portato alla nascita di questo progetto sono le statistiche sulla popolazione carceraria e la volontà di potenziare la funzione rieducativa degli istituti penitenziari: in Italia la media della recidiva, per chi sconta in carcere tutta la pena, è del 67%, mentre per chi usufruisce di misure alternative alla detenzione la percentuale crolla al 19%, scendendo ulteriormente al 12% per i detenuti degli istituti penitenziari più strutturati ed attrezzati per il perseguimento dell’obiettivo rieducativo. La pratica sportiva diventa in tal modo la base di un processo volto a trasmettere ai detenuti i valori della solidarietà, della lealtà e del rispetto dell’altro e delle regole e, attraverso il coinvolgimento della società esterna, a far sentire i carcerati meno isolati realizzando un momento di crescita personale. La Polisportiva Pallalpiede sarà tra gli ospiti di Future Vintage, in collaborazione con Radio Deejay e m2o: il festival culturale e della comunicazione giunto alla decima edizione che dal 13 al 15 settembre, al Centro Culturale San Gaetano di Padova, torna a esplorare le ispirazioni, le origini e le contaminazioni delle tendenze contemporanee attraverso un nuovo payoff: “Be Dissident”. L’evento “Rimettiamoci in gioco”, organizzato per dare visibilità a questo caso in cui sport, socializzazione e rieducazione si fondono in maniera positiva e produttiva si terrà giovedì 12 settembre alle ore 11 alla Sala Future del Centro San Gaetano. Oggi la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio di Vito Totire labottegadelbarbieri.org, 10 settembre 2019 I numerosi suicidi che si sono verificati a Bologna negli ultimi anni sono passati rapidamente nel dimenticatoio: quelli nelle carceri in particolare o quello in questura nel 2017, i tanti legati a situazioni di povertà e abbandono ma anche quelli ancor meno “prevedibili” come la vicenda della farmacista del Pilastro, un suicidio importante come tutti gli altri che tuttavia non ha indotto una sufficiente riflessione sui metodi di indagine adottati dalle istituzioni. Quella del 10 settembre 2019 - Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio - è una iniziativa/scadenza utile che non dobbiamo sprecare. Occorre cercare di non ridurre il tutto a qualche convegno e a pochi spazi sui media. Occorrerebbe definire dal basso un programma collettivo costruito dalle comunità locali senza delega ai tecnici ripristinando piuttosto con i tecnici la antica ma essenziale dialettica della “validazione consensuale”. Molti anni fa a Bologna esisteva un Tavolo per la salute mentale. Dell’esistenza di questo tavolo non abbiamo più notizia. Si potrebbe riattivare? Non che il problema del suicidio sia inevitabilmente e automaticamente connesso alla psichiatria. Un nesso esiste, in alcune circostanze (vedi il testo di Scheff citato in coda) ma il problema di fondo è superare le costrittività sociali, materiali, psicologiche che sono quasi sempre all’origine delle condotte suicidarie. Un recente articolo (su Il Fatto quotidiano) ha descritto il quadro epidemiologico mondiale. Si è registrato un significativo calo dei suicidi soprattutto a vantaggio delle donne nei Paesi extra-occidentali. L’autore dell’articolo (Pino Arlacchi) correttamente correla questo andamento sia al miglioramento delle condizioni materiali e relazionali di vita sia come disconferma delle pregresse ipotesi eziologiche genetiste/lombrosiane. Abbiamo cercato di iscriverci a uno degli eventi clou di quest’anno in Italia, previsto a Roma il 16-17 settembre. Troppo tardi, iscrizioni chiuse: non si potrà seguire neanche in streaming. Saremmo andati volentieri ad ascoltare e discutere. Leggendo meglio il programma però sono sorti dubbi sull’impostazione del suddetto convegno. L’iniziativa si ripete ogni anno da diversi lustri. Avevamo all’inizio intravisto un’impostazione positiva (sulla lunghezza d’onda della esperienza storica del Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles) e avevamo soprattutto sperato che il convegno annuale di Roma desse avvio a una solida e capillare rete per la prevenzione. Ci pare che all’iniziale impostazione - certo già molto accademica e “scientista” - si stia sovrapponendo la longa manus delle multinazionali farmaceutiche. Non potremo discutere con i relatori del convegno e dunque le nostre perplessità le approfondiremo altrimenti. Accanto a relazioni di assoluto e drammatico interesse (il rischio suicidario nella popolazione carceraria) ve ne sono altre che destano preoccupazione in quanto fanno riferimento ad asserite “evidenze genetiche” (come abbiamo visto assolutamente disconfermate dalle osservazioni di Pino Arlacchi) e altre che ripropongono mezzi “miracolistici” per prevenire e affrontare il fenomeno: uso del litio o dei farmaci antipsicotici long-acting; stimolazione magnetica transcranica (!); e ben due comunicazioni (in una giornata e mezza) sull’uso della Esketamina, farmaco “stupefacente”, approvato con una velocità incredibile - pare con l’appoggio di Trump - in un contesto come quello statunitense già devastato dallo strapotere delle multinazionali del farmaco e da una tragica epidemia ancora in atto causata da oppiacei legali. Ci sono nel convegno romano altri argomenti importanti (sarebbe utile ascoltarli) sul rapporto fra internet e suicidio, sul rapporto fra social e identità personale. E ci sono relazioni “sorprendenti” come quella su “cannabis e rischio suicidario” ma anche in questo caso preferiamo ascoltare o leggere prima di criticare in maniera aprioristica. Tuttavia preoccupa - senza ovviamente voler insinuare giudizi negativi su tutto il convegno - il peso dell’industria farmaceutica. Viene correttamente segnalata alla luce del sole la sponsorizzazione da parte di ben 14 case farmaceutiche fra le quali, in pole position - anche dal punto di vista dell’impostazione grafica della locandina - proprio la casa che produce la Esketamina. La precisazione secondo cui la sponsorizzazione non è condizionante …suona come una excusatio non petita. La questione che stiamo discutendo è drammatica dunque intendiamo evitare polemiche e critiche aprioristiche. Anche per questo chiediamo il massimo di partecipazione dal basso e di trasparenza. Ogni comunità locale dovrebbe adottare un piano di osservazione e di prevenzione. È necessario evitare che anche le tragedie e i lutti diventino occasione di profitto per le case farmaceutiche. Profitti che sono sotto gli occhi di tutti (vedi il testo di Goetze, citato in coda) e che sono stati resi pubblici anche in relazione all’ultimo “farmaco miracoloso” cioè l’esketamina. La prevenzione non si fonda sui farmaci ma sulle condizioni materiali e sulla qualità delle relazioni umane. Migranti. La prudenza del premier che spera in un aiuto dell’Ue di Carlo Lania Il Manifesto, 10 settembre 2019 Conte promette di riscrivere i decreti sicurezza, ma resta l’impronta anti-ong. Le due navi ancora al largo primo banco di prova del nuovo esecutivo. Che a Bruxelles chiede di rivedere Dublino. Era uno dei temi più spinosi del suo discorso alla Camera e Giuseppe Conte l’ha affrontato nell’unico modo in cui forse poteva farlo: facendo intendere, più che dicendo esplicitamente quale sarà la politica del governo giallorosso sull’immigrazione. Una scelta dettata al premier dalla prudenza e dalla necessità di avere i voti utili a far decollare il nuovo esecutivo. Così chi sperava in una esplicita messa in soffitta della politica dei porti chiusi, il segno di discontinuità tanto invocato per lasciarsi una volta per tutte alle spalle le scelte salviniane, almeno per ora è rimasto deluso. La svolta ci sarà, o almeno si spera, ma per il momento più che da una revisione delle norme in vigore potrebbe manifestarsi attraverso le scelte dei ministri più direttamente interessati dall’emergenza immigrazione: quello dell’Interno Lamorgese, della Difesa Guerini e delle Infrastrutture De Micheli, gli unici che ancora possono vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane a una nave con dei migranti a bordo. Decisione che molto probabilmente non verrà presa. Per verificarlo non ci sarà neanche bisogno di aspettare molto visto che in acque internazionali ci sono le navi di due ong, l’Alan Kurdi e la Ocean Viking, con in tutto 55 migranti che potrebbero decidere di dirigere verso l’Italia. “Il ministero è operativo, 24 ore su 24. Affronteremo anche questa emergenza se sarà un’emergenza”, assicurava ieri in Transatlantico Lamorgese. Modifiche ai decreti sicurezza, accordo in Europa per la distribuzione dei migranti e la revisione del regolamento di Dublino. Ma anche accoglienza e rimpatri. È lungo questo asse che Conte ha disegnato ieri le future mosse del governo. Sui due decreti cavallo di battaglia di Matteo Salvini il premier ha ripetuto di voler seguire i rilievi indicati a suo tempo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e per quanto riguarda il sicurezza bis di voler tornare alla versione varata a maggio dal consiglio dei ministri “prima - ha spiegato suscitando le reazione della Lega - che intervenissero le integrazioni che, in sede di conversione, ne hanno compromesso l’equilibrio complessivo”. Si tratta di un passo indietro parziale, che comunque non cambia l’impronta anti-ong data al provvedimento da Matteo Salvini quando sedeva al Viminale. Anche se meno onerose restano infatti le multe per le navi che non rispettano il divieto di ingresso (da 10 a 50 mila euro invece che da 150 mila a un milione) e il sequestro dell’imbarcazione in caso di recidiva. Non proprio un buon inizio. Per vedere il bicchiere mezzo pieno bisogna guardare a una parola chiave come “accoglienza”. Il premier l’ha utilizzata più volte anche nei giorni scorsi, e lo stesso ha fatto il ministro Lamorgese che quando era prefetto a Milano si impegnò non poco per convincere i sindaci della provincia a farsi carico dei richiedenti asilo. Favorire l’integrazione, come ha detto ieri Conte alla Camera, significa ripristinare tutti quei servizi per i richiedenti asilo cancellati dalla riforma del sistema Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) voluta sempre da Salvini con il primo decreto sicurezza, come i corsi di lingua italiana o di formazione al lavoro. Un nuovo rapporto con l’Ue - L’obiettivo è quello di far dimenticare i litigi con Salvini, con la speranza di riuscire ad arrivare a un accordo definitivo per la distribuzione in Europa dei migranti che arriveranno in Italia superando così le emergenze dettate dal momento. Un primo appuntamento decisivo ci sarà il 23 settembre alla Valletta dove i ministri dell’Interno di Malta, Italia, Francia, Germania e Finlandia (in quanto presidente di turno dell’Ue) si vedranno proprio per discutere di questo. Altro punto importante riguarda infine la riforma di Dublino e in particolare la cancellazione dell’obbligo per il Paese di primo arrivo di farsi carico dei migranti. Chissà perché tutti continuano a ignorare che da più di due anni il parlamento europeo ha approvato un’ottima riforma che aspetta solo di essere esaminata dai capi di Stato e di governo. La strada comunque è in salita e non solo per la scontata opposizione dei paesi di Visegrad e più in generale del Nord Europa, contrari al principio delle quote. Stando a quanto trapelato ieri da Bruxelles il nuovo commissario all’Immigrazione destinato a sostituire il greco Dimitris Avramopoulos non potrà appartenere a nessuno dei Paesi più direttamente coinvolti dall’emergenza immigrazione e quindi maggiormente interessati a mettere mano alla regolamento. Nigeria. Pena di morte e carcere, ad Abuja un incontro di attivisti per una giustizia più umana santegidio.org, 10 settembre 2019 La Comunità di Sant’Egidio, la World Coalition against the Death Penalty e la Life Wire Foundation con una dichiarazione congiunta hanno invitato i governanti della Nigeria a far prendere parte al Paese a un movimento globale in crescita, in particolare in Africa, quello per l’abolizione di fatto e di diritto della pena di morte. Le organizzazioni stimano che 2.000 persone siano nel braccio della morte in Nigeria. Dopo essersi recati in visita a diversi carceri nigeriani, le organizzazioni si sono incontrate alla fine di agosto nella capitale, Abuja, insieme a rappresentanti di altri soggetti, come il Nigerian Bar Association, per discutere della riforma del sistema carcerario e dell’abolizione della pena capitale. La dichiarazione congiunta firmata alla fine dell’incontro è disponibile al seguente link (Documento). Nel meeting è stata discussa la recente legge di riforma del sistema penitenziario, in cui con il cambio della denominazione di “Nigerian Prison Service” in “Nigerian Correctional Service” l’enfasi è posta su un reinserimento del condannato nella società, piuttosto che sul carattere afflittivo della pena. Nella visita alle prigioni è evidente il problema del sovraffollamento, dovuto a una presenza di un elevato numero di persone in attesa di un processo (più del 75%) o di una condanna. Nella dichiarazione si esorta a continuare il processo di riforma, per approfondire l’indirizzo avviato con il cambio di denominazione, per evitare reclusioni di durata indefinita in attesa di processo. Una specifica Commissione si è formata per sostenere questo percorso. I soggetti partecipanti all’incontro di Abuja hanno trovato come premessa comune condivisa in modo unanime l’abolizione della pena di morte. Alla fine del 2008, più di 2000 persone risultano condannate a morte e attendono il giorno dell’esecuzione nelle celle nigeriane. 46 di loro sono stati condannati nel 2018. Nell’ultimo decennio, “solo” sette esecuzioni hanno avuto luogo. Un recente emendamento delle leggi permette la commutazione della pena capitale in pena detentiva dopo una reclusione di dieci anni. Da questa modifica, una moratoria “di fatto”, non esplicitata, ha ridotto drasticamente il numero delle esecuzioni. I soggetti firmatari della dichiarazione offrono la loro cooperazione per assicurare l’implementazione della riforma e di lavorare insieme per una piena moratoria delle esecuzioni e l’abolizione della pena capitale. Colombia. È strage di leader sociali ed ex combattenti Il Manifesto, 10 settembre 2019 Dalla firma degli accordi di pace sono stati uccisi 167 dirigenti indigeni e 140 guerriglieri Farc che avevano deposto le armi. Tra le vittime dell’ultimo weekend di sangue anche ambientalisti, contadini e un candidato sindaco. Non passa quasi più un giorno, in Colombia, senza che scorra del sangue: di un leader sociale, di un dirigente indigeno, di un ex combattente, di un candidato politico. L’elenco è interminabile. Tra venerdì e sabato sono stati assassinati il dirigente sociale José Cortes, a Nariño, e tre ex guerriglieri delle Farc: due a Cúcuta, Milton Urrutia Mora e José Milton Peña Pineda, e uno in Chocó, Jackson Mena. Tutti e tre impegnati nel processo di reinserimento nella vita civile e tutti e tre lasciati privi di quelle misure di protezione che il governo si era impegnato ad assicurare. Con loro sono 140 gli ex combattenti uccisi a partire dalla consegna delle armi nel dicembre del 2016. Poco prima, tra il 4 e il 6 settembre, erano caduti tre leader sociali ad Antioquia, portando a 13 il numero delle vittime nel dipartimento dall’inizio del 2019: il difensore dell’ambiente Fernando Jaramillo, che si era opposto ai progetti minerari nella regione, e due dirigenti contadini della giunta di Acción comunal La Milagrosa, un modello di organizzazione di base attivo soprattutto nelle aree rurali. E sempre il 6 settembre un’operazione dell’esercito nella Valle del Cauca aveva provocato la morte di un giovane indigeno, Omar Gusaquillo, e il ferimento di un altro, Diego Alexis Vega: secondo le testimonianze, l’esercito avrebbe fatto fuoco malgrado il giovane avesse gridato: “Non sparate, siamo disarmati, siamo della Guardia indigena”. L’obiettivo, pare, sarebbe stato quello di montare un “falso positivo” del genere di quelli assai diffusi sotto il governo di Álvaro Uribe, quando i militari presentavano come guerriglieri caduti in combattimento giovani innocenti assassinati per via extragiudiziale. Appena prima, la Onic, l’Organizzazione nazionale indigena della Colombia, aveva denunciato l’assassinio di tre dirigenti indigene nei dipartimenti di Arauca e Cauca, proprio alla vigilia della Giornata internazionale della donna indigena, il 5 settembre: due dirigenti nasa e una leader del popolo Makaguan, la 70enne Magdalena Cucubana, nota per la sua profonda conoscenza delle tradizioni del suo popolo. Omicidi a cui la Onic ha risposto ribadendo la propria opzione per la pace “con giustizia sociale”: “Crediamo che il conflitto, la violenza e il ricorso alle armi non abbiano alcun futuro nel nostro paese”, ha affermato l’organizzazione, ricordando come, dalla firma dell’accordo di pace, siano stati 167 i leader indigeni assassinati. Ma in vista delle elezioni regionali del 27 ottobre non vengono risparmiati neppure i candidati politici. L’aspirante sindaco del municipio di Toledo, in Antioquia, Orley García è stato raggiunto sabato da 13 colpi di arma da fuoco, appena cinque giorni dopo l’assassinio di Karina García, candidata a sindaca del municipio di Suárez, nel Cauca, insieme alla madre e ad altri quattro leader sociali e militanti politici. Alle minacce e agli attentati “alla vita di quanti aspirano a esercitare incarichi politici”, come pure di dirigenti sociali, difensori dei diritti umani ed ex combattenti, il partito Farc ha reagito sollecitando per l’ennesima volta il governo a “dare risposte efficaci” e ribadendo il proprio impegno a favore del processo di pace. E il governo, per tutta risposta, ha ordinato - di fronte alla ripresa delle armi da parte dei dissidenti delle Farc - il ridimensionamento delle misure di protezione assicurate ai membri del partito che hanno invece optato per la via della pace.