Carceri e pene, torniamo agli Stati generali di Stefano Anastasia Il Manifesto, 9 ottobre 2019 Occorre una inversione di rotta nel senso dei principi costituzionali e del carcere come extrema ratio. Sono queste le condizioni per una effettiva ed efficace tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute che, secondo la Costituzione e le norme internazionali, non possono essere compressi oltre quanto strettamente necessario alla privazione della libertà. Grava ancora un senso di incertezza sulle prospettive del carcere in Italia. La popolazione detenuta continua a crescere mentre il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, rivendica la continuità del governo in carica con quello che lo ha preceduto e lo testimonia con una recente circolare volta a contrastare le evasioni dalle carceri che, oltre a indicare ragionevoli misure di prevenzione, individua una nuova categoria di detenuti da “attenzionare”: quelli che “abbiano dato prova di una spiccata tendenza all’evasione”, “provenienti da particolari aree geografiche, i quali hanno dato più volte prova di riuscire a superare ostacoli naturali e artificiali con una certa facilità, senza curarsi delle conseguenze, dei controlli del personale e dei rischi fisici nel tentare di superare altezze spesso anche considerevoli”. Nel frattempo, il ministro e alcuni parlamentari del suo partito partecipano a una campagna di stampa contro la Corte europea dei diritti umani e, chissà, domani contro la Corte costituzionale, ree di aver affermato l’una, di poterlo fare l’altra, l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con le Convenzioni internazionali e la Costituzione repubblicana. Nell’assemblea nazionale dei garanti delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e dagli Enti locali, tenutasi venerdì e sabato scorso a Milano, abbiamo ribadito la necessità di una inversione di rotta rispetto al recente passato e a questo inquietante presente. Una inversione di rotta nel senso dei principi costituzionali e del carcere come extrema ratio. Sono queste le condizioni per una effettiva ed efficace tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute che, secondo la Costituzione e le norme internazionali, non possono essere compressi oltre quanto strettamente necessario alla privazione della libertà. Non solo: secondo la nostra Costituzione, alle istituzioni pubbliche spetta la responsabilità di mettere in atto azioni positive volte al reinserimento sociale delle persone detenute. Per questo è stucchevole quanto deleteria la polemica contro misure universalistiche di sostegno sociale, come il reddito di cittadinanza, che giustamente la legge riconosce anche ai condannati in esecuzione penale esterna che ne abbiano i requisiti. Bisogna dunque riaprire le porte al carcere della speranza, alle alternative e a una giustizia dei diritti: i diritti delle vittime reali o potenziali, degli indagati e degli imputati, dei detenuti e dei condannati che - qualsiasi sia il loro reato - non perdono lo status di persone e di cittadini. Checché ne dicano i lugubri cantori del carcere a vita, è solo così che la giustizia penale può contribuire a garantire una maggiore sicurezza nelle nostre comunità. I Garanti territoriali si impegneranno su questa strada, in raccordo con il Garante nazionale, sollecitando le Regioni e gli Enti locali a fare fino in fondo la loro parte nella tutela della salute e nella promozione di opportunità di reinserimento attraverso l’istruzione, la formazione professionale, l’avviamento al lavoro e il sostegno sociale. Ma eguale impegno va perseguito a livello nazionale, superando quel clima conflittuale che è stato alimentato nello scorso anno e riprendendo il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale su alcuni punti fondamentali della vita in carcere e delle sue alternative, dalla affettività alle relazioni con il mondo esterno, dalla promozione di lavoro retribuito all’accompagnamento a fine pena attraverso l’accesso più ampio possibile alle alternative alla detenzione. Per questo abbiamo concluso la nostra assemblea lanciando la proposta di una riconvocazione nella prossima primavera degli Stati generali dell’esecuzione penale, su iniziativa di tutti quei soggetti, istituzionali e non, che condividono il programma costituzionale in materia di carcere, esecuzione penale e privazione della libertà. Naspi, un diritto (spesso negato) anche per i detenuti: Antigone non ci sta today.it, 9 ottobre 2019 I detenuti lavoratori hanno diritto a percepire una remunerazione corrispondente alla quantità del lavoro prestato in carcere: che cosa fare per vedere riconosciuti i diritti. Antigone: “L’Inps ha instaurato la disdicevole prassi del mancato riconoscimento a detenuti ed ex detenuti”. L’indennità di disoccupazione (Naspi) è un diritto per detenuti ed ex detenuti. Per questo motivo Antigone, Cgil e Inca Cgil presentano un modulo per ricorrere contro i rigetti, che purtroppo sono frequenti e inammissibili. L’Associazione Antigone, che da tempo si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, sottolinea che i detenuti lavoratori, così come i liberi cittadini, hanno diritto a percepire una remunerazione corrispondente alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera. A stabilirlo sono state, nel corso degli anni, diverse sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale. Niente Naspi ai detenuti: “Disdicevole prassi” - “Tuttavia, nonostante queste pronunce, l’Inps, con il messaggio n.909 del 5.3.2019, ha instaurato la disdicevole prassi del mancato riconoscimento della Naspi (già indennità di disoccupazione) a detenuti ed ex detenuti che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per i loro periodi di quiescenza dal lavoro” dicono da Antigone. Contro questa pronuncia l’associazione Antigone, alcuni garanti regionali (Lazio, Umbria, Emilia Romagna, Toscana) e il Patronato Inca si sono mossi, contestando tale prassi che illegittimamente diniega prestazioni previdenziali e ricorrendo contro le determinazioni negative assunte dall’Inps. Antigone, Cgil e Inca Cgil, hanno elaborato un modello di ricorso gerarchico, a disposizione di tutti, per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla naspi. Il ricorso va inoltrato attraverso la piattaforma web dell’Inps avendo cura di dotarsi di pin dispositivo. Solo agli avvocati accreditati è consentito di proporre ricorsi per terze persone poiché il pin è personale e legato alla propria posizione Inps. Per la presentazione del ricorso, è possibile conferire mandato al Patronato Inca Cgil. In caso di diniego anche da parte del Comitato provinciale dell’INPS sarà possibile ricorrere al tribunale del lavoro. Detenuti, come veder riconosciuto il diritto alla Naspi - Il patronato INCA è disponibile nella proposizione di ricorsi in questa specifica materia per cui ci si può rivolgere agli sportelli del patronato al fine di proporre il ricorso sia gerarchico che giurisdizionale. Informazioni ulteriori e aiuti alla compilazione si potranno richiedere anche al Difensore civico dell’Associazione Antigone. Che cos’è la Naspi - La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dall’articolo 1, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 - che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione Aspi e MiniAspi - in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1° maggio 2015. Viene erogata su domanda dell’interessato. La Naspi spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l’occupazione, compresi: apprendisti; soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato con le medesime cooperative; personale artistico con rapporto di lavoro subordinato; dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni. Non possono accedere alla prestazione: dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni; operai agricoli a tempo determinato e indeterminato; lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per i quali resta confermata la specifica normativa; lavoratori che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato; lavoratori titolari di assegno ordinario di invalidità, qualora non optino per la Naspi. “In Uruguay abbiamo illustrato il nostro sistema di pene alternative” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 ottobre 2019 Parla Lucia Castellano, Direttore generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova. Pochi giorni fa a Montevideo in Uruguay si è tenuta una conferenza bilaterale di due giorni sulle misure alternative alla detenzione e la messa alla prova, organizzata dalle agenzie europee: Eurosocial, Copolad e El Pacto. Le tre organizzazioni hanno mission diverse: Eurosocial è un programma di cooperazione che contribuisce a ridurre le disuguaglianze, migliorare i livelli di coesione sociale e rafforzare le istituzioni di 19 Paesi dell’America latina; Copolad promuove la creazione di politiche sulle droghe, supportate da strumenti obiettivi di monitoraggio e basati su strategie affidabili ed efficaci; El Pacto è un programma di Assistenza contro il Crimine Transnazionale Organizzato. Nell’incontro si sono confrontati i rappresentanti dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, nonché la delegazione italiana e quella spagnola per confrontarsi sulle misure alternative alla detenzione. In rappresentanza del nostro Paese sono intervenuti Lucia Castellano, Direttore generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova presso il ministero della Giustizia, un magistrato di sorveglianza, e i rappresentanti di El Pacto ed Eurosocial. Come racconta al Dubbio la dottoressa Castellano “in America del Sud il tasso di carcerazione è elevatissimo e le pene alternative sono quasi esclusivamente deflattive del carcere. Ad esempio il Guatemala non le prevede proprio. A ciò si deve aggiungere che per l’opinione pubblica non può esistere altra pena che la prigione”. Secondo uno studio pubblicato ad aprile del 2019 dall’Igarapé Institute, un noto think tank brasiliano, “più di 10,4 milioni di persone sono detenute in tutto il mondo. Di queste, circa 1,4 milioni (12,6%) sono in America Latina”. Inoltre la regione deve affrontare alti livelli di criminalità: il tasso medio di persone nelle carceri è di oltre 263 per 100.000 abitanti; in Italia si aggira sui 60. Inoltre, il crescente utilizzo di detenzioni pre-processuali rappresenta oltre il 30% della popolazione carceraria; in alcuni Paesi sud- americani oltre il 70% dei detenuti viene incarcerato prima del processo. “Ci siamo confrontati - prosegue Castellano - sul senso delle pene alternative, da non considerare come premi bensì come vere e proprie sanzioni da scontare all’esterno del carcere, lasciando il carcere come extrema ratio. Poi abbiamo cercato di far comprendere che le misure alternative sono anche uno strumento di lotta contro la criminalità organizzata, perché privano le carceri di quella manovalanza a cui insegnare ad essere criminali”. Durante i dibattiti è stato spiegato il sistema italiano delle misure alternative, sottolineando che non è solo gestito dall’amministrazione penitenziaria: “In America Latina non ci sono progetti condivisi con il territorio e il terzo settore, ma solo prescrizioni di regole da osservare. Durante gli incontri - ha proseguito Castellano - ho raccontato del nostro lavoro in Italia e ho detto che la risposta punitiva, dentro come fuori dal carcere, è un tema che riguarda tutti e che deve partire dal territorio, dalla comunità fuori dal carcere: enti locali, terzo settore, imprese, scuole. Con i colleghi abbiamo evidenziato come il concetto di sicurezza sociale passi attraverso le misure alternative, suscitando l’interesse degli interlocutori, compresi alcuni giudici”. Se la fine pena (non) è mai di Luigi Manconi La Repubblica, 9 ottobre 2019 Il ricorso presentato dal governo italiano contro la sentenza della Corte europea dei diritti umani del 13 giugno 2019 è stato dichiarato inammissibile. In quella pronuncia, si sostiene che l’ergastolo ostativo è in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta in modo assoluto trattamenti inumani o degradanti. Il che corrisponde, nella sua sostanza più profonda, al contenuto dell’articolo 27 della nostra Carta Costituzionale. E, invece, a sentire una certa propaganda (triviale, ma, riconosciamolo, efficace), opporsi alla misura dell’ergastolo ostativo significherebbe, più o meno, “aiutare la mafia”. Ne consegue che la sentenza della Cedu finisce per essere intesa come una sorta di “concorso esterno”, e coloro che la condividono sono presentati come fiancheggiatori in doppiopetto di mafia, ‘ndrangheta, camorra (e, per non farci mancare nulla, della Sacra Corona Unita). Poco importa se a condividere le argomentazioni che hanno determinato la decisione della Cedu siano, tra gli altri, fior di giuristi e galantuomini come Giostra, Pugiotto, Galliani, Palazzo, Dolcini e tre presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Onida, Flick, Silvestri). Ma cos’è l’ergastolo ostativo? È quella forma di pena perpetua che non consente al condannato, anche in presenza di prove certe di riabilitazione, il ritorno alla vita sociale dopo un congruo periodo di tempo. Di conseguenza i condannati per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possono essere ammessi ai “benefici penitenziari”, né alle misure alternative alla detenzione, e, in particolare, alla liberazione condizionale. Sono sottoposti a tale regime quei reclusi che non hanno collaborato con le indagini della magistratura (a eccezione dei casi in cui si sia resa “comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”). Le ragioni che inducono tanti - Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Piero Grasso, Nino Di Matteo e altri - a sostenere la necessità irrevocabile dell’ergastolo ostativo sono in parte motivate e si affidano soprattutto agli effetti dell’allarme sociale che le organizzazioni criminali tutt’ora suscitano (e comprensibilmente). Ma non è affatto detto che lo strumento scelto sia quello più adeguato, oltre che capace di rispondere ai parametri di tutela dei diritti fondamentali della persona. Vale in qualche modo quello che può dirsi a proposito del regime speciale di 41bis. Esso non è stato istituito per realizzare un “carcere duro”, maggiormente afflittivo e punitivo, ma perché perseguisse un unico scopo. Quello di recidere i legami tra condannato e organizzazione criminale esterna. Non diversa è la motivazione originaria dei limiti che la legislazione antimafia ha imposto ai benefici penitenziari. Quella, cioè, di impedire ai detenuti, dimostratisi tutt’ora socialmente pericolosi, di continuare a delinquere una volta usciti dal carcere. Anche in questo caso la norma perseguiva la maggiore efficacia e non la massima crudeltà; e, in ogni caso, non dovrebbe confliggere con l’articolo 27 della nostra Carta, dove si afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cosa impossibile, va da sé, se il fine pena è “mai”. Entrambe le misure (ergastolo ostativo e 41bis) nascono come provvedimenti straordinari per stati d’eccezione (com’era considerata l’Italia nei primi anni 90, dopo gli assassinii di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta) e tutt’e due le norme, nate come misure di emergenza, sono diventate, col tempo, permanenti. Le legittime preoccupazioni di chi teme che, di un’eventuale abolizione dell’ergastolo ostativo, possano usufruire i capi delle mafie, vanno prese sul serio, ma la risposta giusta dovrebbe essere un’altra: quella di verificare, nella maniera più rigorosa, la sussistenza dello stato di pericolosità sociale; e, nel caso di continuità di esso, protrarre la detenzione. E così di consentire al giudice, anche in questa circostanza, di giudicare. Si tratta di passare, dunque, da un dispositivo automatico a un giudizio analitico, che non escluda alcuno, preventivamente - ma in realtà, definitivamente - dalla possibilità di emancipazione dal crimine. Questa opportunità forse riguarderà pochi tra i responsabili delle stragi e dei grandi delitti, ma dimostrerà, in maniera inequivocabile, la superiorità giuridica e morale dello stato di diritto rispetto ai suoi nemici giurati. P.s. Uno dei più insidiosi luoghi comuni sostiene che “in Italia nessuno sconta l’ergastolo fino alla fine”. Le cose non stanno così. A oggi gli ergastolani sono 1.790 (e tra essi molti muoiono in cella). E i sottoposti a “ergastolo ostativo” sono 1.255. La Cedu conferma: l’ergastolo ostativo è “inumano e degradante” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2019 Diventa definitivo il giudizio negativo della Corte Europea sull’ergastolo ostativo italiano. Il collegio dei cinque giudici competente ha rigettato la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza Cedu del caso Marcello Viola. Quindi diventa definitiva la sentenza emessa il 13 giugno dalla camera semplice della Corte europea, la quale condanna l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, ovvero per tortura e trattamenti inumani e degradanti. Il caso specifico, come detto, riguarda Marcello Viola. La sua pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Egli, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine all’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Ma i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione. I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4bis, visto le numerose polemiche da parte degli esponenti di governo e l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo Renzi, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale. Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici. Questo, però, fino a quando non ci sarà una eventuale sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiari l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano. Ma la data già c’è. La Consulta, il 22 ottobre dovrà decidere se se la preclusione all’accesso dei benefici previsto dall’art. 4bis è incostituzionale. Questo grazie al caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea. Una violazione della convenzione ora definitivamente riconosciuta anche dalla Corte Europea tramite la sentenza Viola. Ricordiamo ancora una volta che l’attuale 4bis non ha nulla a che fare con l’intuizione di Giovanni Falcone. Quest’ultimo, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4bis. La ratio non prevedeva l’esclusione dei benefici se c’era assenza di collaborazione: nel caso si doveva attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Mentre il secondo decreto legge, approvato dopo la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, ha introdotto un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario: senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Ed è ciò che i giudici della corte europea di Strasburgo hanno stigmatizzato, considerandolo, di fatto, una tortura. Anche perché, ebbene ricordarlo, non significa che automaticamente i detenuti per reati ostativi vengono liberati. Significa dare la possibilità ai magistrati - con l’ausilio del parere dell’antimafia - di valutare la concessione o meno dei benefici. Non sarà la mafia a ringraziare, ma lo Stato di Diritto. “L’ergastolo ostativo va abolito”. La Cedu rifiuta il ricorso italiano di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 ottobre 2019 La Corte europea dei diritti dell’uomo conferma la condanna all’Italia del giugno scorso. L’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui Diritti umani, e perciò va abolito. A conferma dell’orientamento già espresso dalla Cedu nella sentenza del 13 giugno scorso, è arrivata ieri la decisione dei cinque giudici che fanno da filtro alla Grande Chambre e che hanno rigettato, tra gli altri, anche il ricorso presentato dal governo italiano in quella occasione, contro la condanna subita per il trattamento inumano e degradante nei confronti di Marcello Viola, boss mafioso che si è macchiato di efferati delitti e che stava scontando il carcere a vita con isolamento diurno per la durata di due anni e due mesi dopo essere stato sottoposto per sei anni al regime di 41bis. Il combinato disposto delle norme 4bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario che regola il cosiddetto “ergastolo ostativo” - ossia la detenzione a vita senza liberazione condizionale, misure alternative o altri benefici penitenziari, nel caso in cui il detenuto non collabori con la giustizia - secondo la Corte di Strasburgo va modificato. Perché costituisce una “life sentence without hope”, limita “indebitamente la prospettiva di un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena”, come scritto nella sentenza del 13 giugno. Pertanto, “non può essere qualificata come comprimibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione”. Secondo i giudici europei deve soprattutto essere smantellato il principio dell’automatismo, per fare in modo che siano i giudici a decidere caso per caso (gli ergastolani in Italia sono 1.776 di cui quasi i due terzi condannati all’ergastolo ostativo). Una decisione importante anche se non esecutiva, quella della Corte di giustizia europea creata nel 1959 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa per monitorare l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo del 1950. Soprattutto perché potrebbe contribuire ad orientare la Corte costituzionale che il 22 ottobre prossimo dovrà pronunciarsi sulla stessa questione. Inoltre, potrebbe diventare una sentenza “pilota”: dopo il risarcimento che a questo punto lo Stato italiano deve a Marcello Viola, potrebbero seguire altri ricorsi. Il pronunciamento della Cedu delude le aspettative e gli accorati appelli di quasi tutte le istituzioni e le parti politiche italiane che, come una sola voce, chiedevano alla Cedu di tenere conto della “specificità italiana” e di evitare perciò decisioni che avrebbero “smantellato il sistema giudiziario antimafia” del nostro Paese. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, ieri però è andato un tantino oltre, arrivando a dire che “la Cedu ha deciso di andare allo scontro con l’Italia”. “Non c’è solo la questione di risarcimenti milionari che potranno chiedere - puntualizza il senatore del M5S - c’è soprattutto l’offesa che è stata fatta a generazioni di siciliani, italiani, magistrati, uomini delle forze dell’ordine che per difendere lo Stato sono stati sterminati in attentati schifosi. Questi giuristi non comprendono la virulenza di questi soggetti. Lo Stato combatte contro il tritolo lanciando margherite. Ora è a rischio anche il 41bis”. Luigi Di Maio ci pensa un po’ di più ma alla fine il risultato non cambia: “Un terrorista o un mafioso che ha ucciso, ha fatto saltare in aria magistrati o ha sciolto i bambini nell’acido deve restare in galera a vita”, dichiara al Tg1 il ministro degli Esteri. Sulla stessa linea Giorgia Meloni. E perfino Leu non si discosta molto: “La decisione di non accogliere il ricorso dell’Italia è figlia di una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano - commenta il senatore Pietro Grasso - Non è un caso che l’abolizione dell’ergastolo fosse uno dei punti del papello di Riina per fermare le stragi”. A salutare il verdetto come una “splendida notizia” sono invece l’Unione delle camere penali, il Partito radicale e le tante associazioni attive nell’universo penitenziario. “La Corte di Strasburgo fa cadere la collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto - dichiara Nessuno tocchi Caino - e sono falsi gli allarmismi sulla liberazione immediata dal carcere di centinaia di ergastolani perché, più che i condannati a vita, saranno liberi i magistrati di sorveglianza che, nel concedere benefici e misure alternative, oggi hanno le mani legate”. Per Antigone, “si tratta di una decisione di civiltà giuridica che ci riporta al pari di molti altri paesi europei”. Perché, sottolinea Patrizio Gonnella, “uno Stato forte non teme se stesso e i propri giudici né la liberazione di persone che hanno scontato in carcere decenni di pena”. Oltre mille i “reclusi a vita”. Consulta e Parlamento ora sono chiamati a decidere. di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 ottobre 2019 Nessun automatismo per i giudici di sorveglianza. Marcello Viola, il pluriergastolano ‘ndranghetista che aveva presentato il ricorso a Strasburgo, tornerà davanti al tribunale di sorveglianza dell’Aquila, città nella quale è detenuto, per vedersi applicare i permessi-premio e la liberazione condizionale che in passato gli erano stati negati. Gli altri condannati che si sono rivolti alla Corte europea - dovrebbero essere una ventina, ma non c’è un dato preciso - potranno fare altrettanto in attesa che i giudici europei decidano di applicare anche a loro i principi sanciti con la sentenza ribadita ieri. Ma il “popolo dell’ergastolo ostativo”, che in teoria potrebbe cominciare a chiedere le misure alternative alla reclusione senza spiragli, ammonta a 1.106 persone (su un totale di 1.633 ergastolani definitivi); più della metà dei quali (628) rinchiusi da oltre vent’anni e 375 da più di 25. La gran parte sono accusati di associazione mafiosa; gli altri per omicidi o sequestri di persona aggravati da favoreggiamento dalla mafia, terrorismo, tratta di esseri umani, traffico di droga, pedopornografia e altri reati gravi. Nomi noti e meno noti: dal boss Leoluca Bagarella a Giovanni Riina, da Francesco “Sandokan” Schiavone a Michele Zagaria, fino alla neo-brigatista Nadia Lioce. In ogni caso, per loro non si apriranno indiscriminatamente le porte del carcere. In primo luogo perché - come spiega l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, che ha contribuito al ricorso di Viola a Strasburgo - “non ci sono automatismi”, sebbene “lo Stato italiano abbia il dovere di rivedere la norma”. Pena il pagamento di multe, prevede il costituzionalista Alfonso Celotto. Tuttavia, ammesso che l’Italia cancellasse subito la preclusione dei benefici penitenziari agli ergastolani condannati per quel gruppo di reati, sarebbero comunque i giudici di sorveglianza a decidere l’ammissione dei detenuti ai permessi o alle altre misure, valutando ogni volta le singole situazioni, dalla “pericolosità sociale” al “ravvedimento”. E la vicenda del pentito Giovanni Brusca, il killer di mafia che in quanto pentito non è un ergastolano e dunque già gode di attenuazioni alla detenzione pura e semplice, dimostra che possono essere molto rigorosi. Ma a prescindere dalla Corte europea e da ciò che sceglieranno di fare governo e Parlamento, ad avere un effetto diretto sulla legislazione italiana sarà la decisione che dovrà prendere la Corte costituzionale dopo l’udienza del prossimo 22 ottobre. Quel giorno si discuteranno due eccezioni di incostituzionalità che ricalcano in buona parte la questione affrontata a Strasburgo. Due diverse ordinanze della Cassazione e del tribunale di sorveglianza di Perugia, infatti, hanno sollevato un dubbio che si sovrappone al “caso Viola”: il fatto che, come previsto dall’attuale articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, solo la collaborazione del condannato con i magistrati possa essere considerato il metro per non considerarlo più un pericolo per la società esterna, e quindi ammetterlo alla richiesta di misure alternative. Con questa norma, sostiene chi s’è rivolto alla Consulta, i giudici di sorveglianza non hanno la possibilità di valutare l’evoluzione del condannato verso quel reinserimento sociale che l’articolo 27 della Costituzione fissa come obiettivo della pena. Che deve valere per tutti. E proprio i permessi premio e le altre possibilità di uscire gradualmente dal carcere consentono di progredire su quel percorso che poi dev’essere valutato dalla magistratura. Con questi presupposti, l’esclusione automatica dei benefici per chi non collabora sarebbe in contrasto con la legge fondamentale della Repubblica. In più, la Cassazione pone un altro dubbio: che sia legittimo equiparare, tagliando fuori dall’accesso ai benefici entrambe le categorie, gli affiliati all’associazione mafiosa con chi è stato condannato ad altri reati con l’aggravante del favoreggiamento alla mafia o del “metodo mafioso”. Sebbene nelle eccezioni sollevate davanti alla Consulta non se ne facesse cenno perché precedenti alle decisioni della Corte europea, è presumibile che i giudici costituzionali tengano in considerazione anche del verdetto di Strasburgo. E la loro sentenza avrà conseguenze immediate. In un senso o nell’altro. Ergastolo ostativo: nessun allarme, usciamo dalla gabbia mentale di Mauro Palma Il Manifesto, 9 ottobre 2019 Né stupore, né allarme per la decisione del Collegio della Grande Camera della Corte di Strasburgo di rigettare la richiesta italiana di riesame della sentenza dello scorso giugno sul caso di Marcello Viola. La III sessione della Cedu aveva condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. L’articolo 3 è un articolo inderogabile della Convenzione europea e vieta, oltre alla tortura, anche le pene o i trattamenti inumani o degradanti. Da tempo la giurisprudenza della Corte ha considerato che “l’ergastolo senza speranza” sia da considerare un trattamento di questo tipo e che l’ordinamento degli Stati tenuti insieme da quell’impegno solido che l’appartenenza alla comune Convenzione per i diritti umani rappresenta, debbano prevedere dopo un congruo numero di anni che il giudice possa stabilire se la persona che sta eseguendo una condanna all’ergastolo abbia compiuto un percorso significativo di resipiscenza e possibile reinserimento, rappresenti ancora un pericolo per la società esterna, abbia o meno ancora legami criminali. Nessun automatismo concessivo, quindi, ma soltanto la possibilità di valutare la persona, senza inchiodarla al reato commesso 25 o 30 anni prima. Un principio che si è andato consolidando negli anni. Nel caso italiano, si trattava di stabilire se l’ordinamento offrisse o meno un’ipotesi di “speranza”, anche nel caso di reati gravissimi e peculiari, quali sono quelli connessi alla criminalità organizzata e, in generale, quelli compresi in quell’eterogeneo elenco di reati dell’articolo 4bis. È vero che è prevista l’ipotesi che la collaborazione possa essere inesigibile per vari motivi, incluso il già totale accertamento degli eventi e degli autori, tuttavia la Corte ha ritenuto che la sola ipotesi collaborativa prevista dalle nostre norme non fosse sufficiente e ha osservato che la non collaborazione può non essere legata alla persistente adesione al disegno criminale, o considerata sinonimo di attuale pericolosità sociale. E d’altra parte, potrebbero esserci anche collaborazioni opportunistiche e non dovute ad un effettivo distacco dalle organizzazioni di appartenenza. In sintesi, ha affermato che ci debba essere un momento - sottolineo nuovamente dopo un alto numero di anni - di considerazione da parte del giudice del singolo caso in esame, anche perché ha ricordato che le politiche penali europee mettono sempre più l’accento sull’obiettivo della risocializzazione anche per i condannati all’ergastolo o a una lunga pena detentiva. La sentenza del giugno scorso ha dato anche un’indicazione generale: richiamando un particolare articolo del Regolamento della Corte (l’art. 46) ha chiarito che il problema non riguarda una singola situazione, ma ha una dimensione “strutturale”, sistemica, per cui ha implicitamente invitato lo Stato a riconsiderare la materia sulla base delle indicazioni formulate nella sentenza. Che peraltro è stata adottata dai sette giudici con sei voti a favore (incluso il giudice italiano) e uno contrario (quello polacco). Quindi, nessun allarme, quali quelli letti in questi giorni circa lo smantellamento della lotta alla criminalità organizzata, che continua e deve continuare con la stessa determinazione. Soprattutto nessuna conseguenza, se non quella del ripensamento e della revisione complessiva degli strumenti da utilizzare per sconfiggere le organizzazioni criminali: la sentenza non mette fuori dal carcere il signor Viola, né alcuna altra persona nella stessa posizione; mette piuttosto noi fuori dalla gabbia mentale dell’impossibilità di una pena costituzionalmente orientata anche per coloro che hanno commesso reati gravissimi e strutturati in forme organizzative criminali radicate anche territorialmente. Ma, anche nessuno stupore per la decisione del Collegio di non riesaminare il caso: alla forma allargata di composizione della Corte (i 17 giudici della Grande Camera) si ricorre per casi che investono la possibilità di stabilire un principio che abbia un carattere di novità per tutti i 47 Paesi del Consiglio d’Europa. Nel caso in esame, quello del rifiuto dell’ergastolo senza speranza, il principio era già chiaro e affermato dalla Corte. Quindi, nessun nuovo principio generale su cui soffermarsi, ma un’applicazione specifica. Un’applicazione che però per noi, per la nostra cultura, ha la forma e la sostanza di un principio su cui riflettere. Una decisione che dà corpo ai principi costituzionali di Mauro Palma* Il Dubbio, 9 ottobre 2019 La decisione della Cedu di non rinviare alla Grande Camera, per rivederla, la sentenza Viola, presa alcuni mesi fa, non mi stupisce affatto, perché di solito vengono rinviate quelle sentenze che toccano elementi di principio generale che possono riguardare tutti gli Stati. Il principio generale, in questo caso relativo all’ergastolo ostativo, è stato fornito molto tempo fa dalla Corte, quando ha affermato che non può esserci una detenzione a vita senza che ci sia la speranza. I principi particolari riguardano il singolo Stato e servono per capire se il meccanismo in atto è in grado o meno di fornire quell’elemento di speranza. E nello specifico, quello che ci dice la sentenza Viola è che il nostro sistema non è in grado di fornire quell’elemento che consente la revisione, dopo moltissimi anni, della pericolosità della persona costretta all’ergastolo ostativo. In qualche modo era presumibile che la questione non andasse alla Grande Camera, in quanto la sentenza Viola era stata presa da sette giudici, con un risultato di sei a uno, compreso il voto del giudice italiano. In queste ore molti si dicono allarmati per questa decisione, ma io non vedo nessun dramma. Mi sembra, piuttosto, che ci sia uno sbaglio interpretativo. Prima di tutto va chiarito che non succede assolutamente nulla, in quanto la Corte afferma che un giudice può valutare, dopo un congruo numero di anni, il comportamento della persona all’ergastolo e la sua pericolosità, ad esempio di tipo mafioso, per stabilire se può o meno godere di qualche privilegio. Neanche per il signor Viola, ad esempio, c’è una qualche forma di automatismo: rimane in carcere. Quella della Corte è un’affermazione, ma ciò non implica, in automatico, una scarcerazione del signor Viola. Credo, perciò, ci sia stata una cattiva interpretazione di tipo allarmante, mentre bisogna ricordare che si tratta solo dell’affermazione di un principio. Il giudice, in ogni caso, deve poter considerare la persona e la sua pericolosità dopo un numero alto di anni di prigione. Dopodiché potrà stabilire, se ce n’è bisogno, anche di non concedere alcun beneficio. Sento dire che dopo tale decisione la lotta alla mafia rischia di essere smantellata, ma non si sta smantellando un bel niente: ridare la possibilità di giudicare una persona dopo 26 anni non toglie nulla alla necessaria lotta alle organizzazioni criminali, che deve rimanere ferma, senza retrocedere di un millimetro, né introduce strani automatismi liberatori. Tanto meno c’entra nulla con il 41bis, come qualcuno ha detto, perché l’ostatività riguarda alcuni detenuti al carcere duro ma anche altri che ne sono fuori. Il 41bis, invece, riguarda un’altra vicenda, ovvero la doverosa interruzione dei legami comunicativi con l’organizzazione di appartenenza. La decisione, in definitiva, dà corpo alla finalità rieducativa dell’articolo 27 della Costituzione. Se la rieducazione prevista da questo articolo ha effettivamente avuto i suoi effetti, il giudice può allora effettivamente stabilire delle forme di liberazione condizionale dopo un certo numero di anni. Si dà consistenza, dunque, al principio della rieducazione, che è una finalità costituzionale della pena che vale per tutti. La chance va data e anche se le organizzazioni criminali hanno carattere di eccezionalità, i principi stabiliti dalla Costituzione sono erga omnes. Ho sentito anche tirare in ballo Giovanni Falcone, ma per rispetto al suo pensiero eviterei di farlo. Ho letto parole su ciò che lui voleva o non voleva, ma bisogna ricordare che ciò che ha testimoniato è la necessità di avere una strategia rispetto alla lotta contro le organizzazioni criminali e che tale strategia sia forte. Gli strumenti sono storicamente determinati, momento per momento. D’altronde le stesse organizzazioni evolvono, ahimè, nelle loro forme. Il punto irrinunciabile della strategia di Falcone, invece, è quello di dire che le organizzazione mafiose richiedono un pensiero complessivo, da mettere in campo con fermezza, e quello rimane solido. Rispetto alle sentenze mi misuro sempre sulla loro ragionevolezza e utilità sociale. Non va pensata come la decisione di un normale processo: le sentenze di Strasburgo sono di indicazione e quella relativa al caso Viola è ragionevole. Spetta poi al legislatore nazionale saperla utilizzare. Si può continuare a combattere le mafie rispettando i diritti umani, anzi, si deve. I diritti umani hanno sempre una dimensione sociale generale. Uno Stato permissivo rispetto alla sua lotta per le mafie non tutela i diritti umani delle persone, così come uno Stato che non tutela i diritti umani, anche di chi è mafioso, è debole nella lotta alle mafie. *Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale Flick: “Ci hanno ordinato di non violare la dignità” di Errico Novi Il Dubbio, 9 ottobre 2019 Il presidente emerito della consulta: “L’articolo 117 della Costituzione vincola lo Stato italiano a rispettare la Convenzione europea dei Diritti umani e le sentenze della Corte di Strasburgo”. A ricordarlo è il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick. C’è un po’ di Giovanni Maria Flick, del presidente emerito della Consulta che è stato anche guardasigilli, in una sentenza storica come quella sull’ergastolo ostativo. “Insieme con altri studiosi, avevo trasmesso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo una valutazione in veste di amicus curiae, come avviene spesso per i casi sottoposti ai giudici di Strasburgo. Ebbene, ci eravamo permessi di sollevare un aspetto forse non sempre considerato, ossia la lesione che l’ergastolo ostativo produce anche rispetto alla competenza del giudice nella valutazione sull’effettivo recupero del condannato. E proprio la restituzione di tale piena potestà valutativa al giudice di sorveglianza è non solo un ritorno ai principi costituzionali, ma anche l’esclusione di qualsiasi rischio di mettere fuori i boss, come sento dire”. Flick, naturalmente, non si sente affatto corresponsabile di una tremenda minaccia per la Repubblica: in una giornata storica per la civiltà del diritto, sa di aver cooperato a riaffermare il principio inviolabile della dignità. Ma l’Italia potrebbe sottrarsi al rispetto di questa sentenza? Secondo l’articolo 117 della Costituzione siamo sottoposti agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali. La Convenzione europea dei Diritti umani è un architrave di tale ordinamento sovranazionale: ne siamo vincolati e siamo dunque vincolati ad applicare le sentenze della Corte di Strasburgo. Nel caso specifico, considerato che il collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso italiano, si afferma non un diritto di singole persone, ma un’indicazione vincolante a cui lo Stato deve uniformarsi. L’accesso ai benefici, per chi è condannato all’ergastolo, non potrà essere subordinato alla collaborazione. E se comunque lo Stato italiano non si uniformasse? Ci sarebbe la possibilità di ricorrere al giudice affinché sollevi la questione di costituzionalità delle norme sull’ergastolo ostativo. Peraltro la stessa Corte costituzionale è già investita della valutazione sull’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che preclude l’accesso ai benefici per alcuni reati, e già in quella sede, tra pochi giorni, potrà esprimere una valutazione adeguata. Ma posso muovere un’obiezione alla sua stessa domanda? In che senso? Nel senso che trovo difficile una contestazione formale dello Stato italiano rispetto a un giudizio con cui la Corte di Strasburgo evoca il problema della dignità. Al centro della pronuncia sull’ergastolo ostativo c’è la dignità? La Corte dice che va contro la dignità della persona offrire un’unica alternativa al carcere a vita individuata nella collaborazione con la magistratura. Tale previsione, secondo la commissione Diritti umani presieduta da Manconi, configurerebbe persino una tortura di Stato... Non so fine a che punto sia una considerazione compatibile con quanto previsto dalla Convenzione di New York contro la tortura. E comunque non credo sia necessario spingersi fino a tal punto. Anche perché la Corte ha richiamato l’Italia al rispetto di un ulteriore cardine del diritto penale, qual è la competenza esclusiva del giudice sulla valutazione del percorso rieducativo del condannato e sul suo possibile reinserimento. Con l’ergastolo ostativo tale competenza era stata disconosciuta? Evidentemente sì: subordinare l’effettivo reinserimento sociale del condannato alla sua eventuale collaborazione significa avocare la valutazione che dovrebbe competere al giudice naturale precostituito, se possiamo così definirlo, che nel caso del detenuto è il giudice di sorveglianza. Si tratta di un’affermazione che risponde anche alla presunta grande incognita che questa sentenza, per alcuni, dischiuderebbe. A cosa si riferisce? Al fatto che riconoscere la competenza del giudice di sorveglianza fa giustizia dei timori di veder liberate fiumane di mafiosi: sarà il magistrato, in ciascun singolo caso, a valutare se è effettivamente compiuto un processo di recupero. Si restituisce dignità all’uomo. Persino se è stato mafioso... Anche in relazione a una conseguenza, sottovalutata direi, dell’ergastolo ostativo. Vede, nel nostro ordinamento, nella nostra tradizione, il processo di cognizione ha come oggetto il fatto. La gravità della lesione al bene giuridico offeso. A essere giudicato non è il mafioso o il corrotto, ma il fatto. L’uomo viene in considerazione solo con l’esecuzione della pena. Con l’ergastolo ostativo si opera un capovolgimento, perché nella fase di esecuzione si continua a giudicare non l’uomo e il suo percorso, ma ancora il fatto. Solo che così un Paese trasfigura i connotati stessi del diritto penale. Una perdita di civiltà? Tanto più perché simmetricamente connessa al cosiddetto diritto penale del nemico. Al mantra del buttare la chiave, in cui il carcere non è estrema ratio, ma soluzione abituale e, inevitabilmente, discarica sociale. In tal modo il processo di cognizione, a sua volta, non giudica più il fatto ma l’uomo, mafioso o corrotto che sia, in quanto nemico a prescindere. Un sistema da Stato d’eccezione: la Cedu ci sollecita a superarlo? In un momento di eccezionalità qual è stato il 1993 forse l’ostatività poteva avere una spiegazione: ora non la si può comprendere. Così come mi sono sempre sentito in compagnia del Santo Padre, di Moro, di Napolitano, nel ritenere che l’ergastolo fosse una pena illegittima nella formulazione ma legittima nell’esecuzione finché è possibile avere una prospettiva di uscirne con la liberazione condizionale, quando si ritiene ragionevolmente che il condannato si sia rieducato. Con la scomparsa, provocata dal regime ostativo, di quel recupero di legittimità, io proprio non riuscivo ad accettare quell’illegittima dichiarazione che è il fine pena mai. Eusebi: “Recuperare il detenuto contribuisce alla prevenzione” di Diego Motta Avvenire, 9 ottobre 2019 Per il professore di Diritto penale dell’Università Cattolica, “il recepimento di questa sentenza non comporta affatto la scarcerazione automatica. Toccherà poi al Tribunale di sorveglianza”. Grazie alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sarà possibile per un giudice tornare a esprimersi sui possibili percorsi di “redenzione” e reinserimento sociale dei criminali più pericolosi. Non ci sarà più la parola “mai” dopo il fine pena. Quanto al pericolo sicurezza, spiega Luciano Eusebi, professore ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano, “non assisteremo affatto alla liberazione automatica di determinati reclusi”. Semmai, siamo di fronte alla possibilità di ripensare a un modello che davvero garantisca una possibilità a tutti, nonostante le gravi efferatezze commesse. “Recuperare il detenuto contribuisce alla prevenzione. Una società è giusta e ha futuro solo se sa esprimere anche attraverso i criteri delle sue sanzioni valori antitetici a quelli della prevaricazione e della violenza” spiega Eusebi. Professor Eusebi, cosa cambia allora per l’Italia dopo il pronunciamento arrivato dalla Corte di Strasburgo? La sentenza giudica incompatibile col divieto di trattamenti inumani e degradanti previsto dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la presunzione assoluta di non rieducazione dei detenuti per reati cosiddetti ostativi (quelli previsti dall’articolo 4bis primo comma dell’ordinamento penitenziario) ove non collaborino con la giustizia: nel caso in cui, cioè, sebbene a distanza di molti anni dal reato commesso, non offrano un contributo ancora utile alle esigenze investigative. La conseguenza è l’inapplicabilità di qualsiasi profilo di diversificazione delle modalità esecutive della condanna, come pure di una possibile liberazione condizionale. Il che ha reintrodotto di fatto l’ergastolo senza speranza, ove non vi sia collaborazione, per quasi i tre quarti dei più di 1.700 condannati a tale pena, in quanto autori dei reati cosiddetti ostativi. Quali effetti potranno esserci per i detenuti sottoposti al 41bis? Il recepimento di questa sentenza non comporta affatto la scarcerazione automatica. Resta comunque necessaria la prova del venir meno di qualsiasi collegamento con la criminalità organizzata. In realtà, quanto stabilito dalla Corte restituisce, piuttosto, al Tribunale di sorveglianza il giudizio sul percorso rieducativo che abbia compiuto lo stesso detenuto che ha deciso di non collaborare. Quali sono di solito i motivi che spingono un ergastolano a non pentirsi? Chi non collabora può avere motivi diversi, come l’esigenza di non esporre a gravi ritorsioni i propri familiari. Altri non vogliono barattare la loro libertà con la possibile reclusione di persone a loro sottoposte in passato, che magari da tanti anni non delinquono. Ciò detto, anche la collaborazione può non essere affatto sintomo di un’effettiva rieducazione. Sia la Corte europea che la Corte costituzionale italiana ritengono che l’ergastolo resti compatibile con i principi, rispettivamente, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della nostra legge fondamentale solo se risulti prevista a distanza di tempo (non più 25 anni) una valutazione del percorso rieducativo effettuato, e la scarcerazione in caso di esito positivo. Quale scenario si apre adesso? La Corte europea ha respinto, ieri, l’istanza di rinvio del giudizio, già assunto da una sezione della medesima, alla valutazione della sua Grande Chambre, per cui quel giudizio è divenuto definitivo. Ora esso potrà essere direttamente utilizzato dai giudici italiani in sede interpretativa delle norme vigenti oppure, se ciò non sarà ritenuto possibile, potrà condurre a un giudizio di incostituzionalità delle medesime norme per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, che vincola al rispetto, salve incompatibilità con la Costituzione stessa, al rispetto degli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese. Il superamento dell’ergastolo ostativo in realtà era già stato oggetto di studio da parte del mondo giuridico... Sì. Era accaduto nel 2014: la Commissione ministeriale Palazzo, di riforma del sistema sanzionatorio penale, comprendeva oltre a docenti universitari e alcuni avvocati, anche autorevolissimi magistrati. In ogni caso la stessa Corte costituzionale si pronuncerà il prossimo 22 ottobre su un caso di preclusione dell’accesso al primo provvedimento di un eventuale percorso risocializzativo, costituito da un “permesso”, sempre relativamente a un reato ostativo. Come spiegare, in tempi di rancore diffuso, all’opinione pubblica la necessità e l’importanza di percorsi di recupero anche per chi si è macchiato delle colpe più atroci? Bisogna spiegare che agire per il recupero e la responsabilizzazione dei condannati risulta nell’interesse generale della prevenzione e dell’intera società. Nulla è temuto maggiormente dalle stesse organizzazioni criminali di quanto non lo sia la defezione da parte dei suoi stessi membri, dato l’effetto destabilizzante ed emulativo che ciò può produrre. Nulla, in altre parole, rafforza maggiormente la legalità del fatto che proprio chi abbia commesso reati riconosca fattivamente le ragioni della legge e sappia reimpostare la sua vita futura. Ma laddove, fin dall’inizio, venga preclusa ogni speranza per certi condannati, specie per i più giovani, la comunità sociale perde chance di prevenzione fondamentali. Papa Francesco ha ricordato che “non bisogna mai privare le persone del diritto di ricominciare”. Non si dovrebbe partire anche dalla sfida di rendere più umano il carcere? Papa Francesco opportunamente rimarca che una società è giusta e ha futuro solo se sa esprimere anche attraverso i criteri delle sue sanzioni valori antitetici a quelli della prevaricazione e della violenza. Il diritto non costruisce in base a logiche di ritorsione, ma - fermo restando il contrasto degli apparati criminosi e dei profitti illeciti connessi - attraverso la sua capacità di motivare, e di conseguire consenso anche da parte di chi ha pur gravemente violato la legge, al rispetto dei precetti normativi. “Rivedere l’ergastolo ostativo non vuol dire rimettere i boss in libertà” di David Allegranti Il Foglio, 9 ottobre 2019 Parlano il costituzionalista Davide Galliani e il filosofo del diritto Emilio Santoro. Il 22 ottobre la sentenza della Consulta. La Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo, ieri ha bocciato il ricorso del governo sull’ergastolo ostativo. Una decisione che è stata accompagnata, nei giorni precedenti, da allarmi sui “regali alla mafia” e sul rischio che “decine e decine di mafiosi possano uscire dal carcere”. Il prossimo 22 ottobre la Corte costituzionale dovrà decidere, a partire da un caso simile, sulla legittimità del 4bis rispetto però ai permessi premio (nella sentenza Viola era rispetto alla liberazione condizionale). E anche in quel caso, immaginiamo, si moltiplicherà il terrorismo psicologico. Davide Galliani, costituzionalista ed estensore di un amicus curiae nel caso Viola contro Italia alla Cedu, ci spiega perché dietro questi allarmi ci sia anche della malafede. “Anzitutto - dice Galliani al Foglio - è interessante notare come si siano allarmati tutti quanti adesso, quando in realtà la sentenza Viola è stata depositata il 13 giugno. È passata abbastanza inosservata, ma ora che il governo ha deciso di rivolgersi alla Grande Camera, tutti hanno iniziato a dire la propria, al di là del merito. Dal punto di vista giuridico e anche per come funziona la Corte di Strasburgo, il panel di cinque giudici doveva decidere se mandare la sentenza Viola in Grande Camera o meno, non stava decidendo nel merito. Né stava mettendo in discussione, come qualcuno ha detto, il regime di 41bis”. Questa levata di scudi tardiva “dunque fa riflettere. Sono passati tre mesi, dove sono stati finora?”. A un certo punto, però, politici e magistrati si sono svegliati. Da Luigi Di Maio ad Alfonso Bonafede, a Nino Di Matteo. Tutti a parlare di mafiosi in libertà e duro colpo allo stato da parte dell’Europa. Anche se, dice il professor Galliani, “io escluderei che tutti i politici abbiano letto veramente la sentenza Viola. Basta leggere che cosa c’è scritto nel cosiddetto Spazza-corrotti, che estende il regime ostativo anche per reati che non sono associativi. Pensi al peculato. Lei mi può spiegare che collaborazione potrà mai dare un vigile urbano che si è intascato 300 euro? Chi ha scritto questa norma non capisce che il regime ostativo al massimo può avere un senso nei confronti di reati associativi, come la mafia. Ma come può avere senso tanto per la mafia quanto per il peculato? Mi verrebbe da dire “perdonateli perché non sanno quello che fanno”. I magistrati invece è difficile pensare che siano ignoranti, anzi. Quindi quando parlano lo fanno, si suppone, con cognizione di causa. “Lasciamo stare la politica, ma un magistrato non può dire che la Cedu va a intaccare il carcere duro. Semplicemente non è vero, quindi se lo dice è in malafede”. Insomma, dice Galliani “è una strumentalizzazione quella cui stiamo assistendo. La sentenza Viola non riguarda il carcere duro. E non si può certo dire che chi nutre delle perplessità sull’ergastolo ostativo sarebbe un fiancheggiatore della mafia. Papa Francesco è contro l’ergastolo, dunque sarebbe colluso con la mafia?”. Dunque, è “giusto esprimere liberamente delle perplessità di natura giuridica (come hanno fatto la Cassazione e la sorveglianza sollevando le questioni di costituzionalità, senza essere tacciati di stare, anche solo indirettamente, dalla parte della mafia. Purtroppo è questo il messaggio che sta passando”. Sono molti i messaggi sbagliati che sono emersi in questi giorni. Dal fatto che adesso “decine di mafiosi usciranno” al fatto che Strasburgo non conosce bene i problemi dell’Italia. “Ma niente di questo è vero. Dire che “usciranno tutti i boss” non ha alcun senso. Strasburgo dice semplicemente una cosa: durante una detenzione ultradecennale - più di vent’anni, poniamo - è possibile che una persona cambi, nonostante le nostre carceri facciano schifo. Il giudice deve poter prendere atto del cambiamento, ma non è detto che apra le porte del carcere. Il carcere ostativo nega i benefici penitenziari, dal permesso premio fino alla liberazione condizionale, a meno che un condannato collabori con la giustizia. Se non collabora, è considerato socialmente pericoloso, sempre e comunque”. La Cedu vuole semplicemente restituire al giudice la possibilità di decidere. Ep oi, aggiunge Galliani, “basta con la strumentalizzazione di Giovanni Falcone sul carcere ostativo, davvero insopportabile. Falcone merita di meglio. Bisogna portargli rispetto. Mentre sul 41bis sappiamo che tanto Falcone quanto Paolo Borsellino erano tendenzialmente favorevoli, sull’ergastolo ostativo non possono esserci strumentalizzazioni. E sa perché? Perché quando è stato introdotto il regime del quale parliamo, Falcone era già morto. Quindi o qualcuno mi prova che aveva scritto qualcosa a favore del carcere ostativo, oppure, siccome non lo puoi dimostrare, vuol dire strumentalizzare il suo nome. Io lo lascerei davvero in pace. Possiamo usare altri argomenti, ma non questo”. Per giorni, come detto, Nino Di Matteo & soci hanno lanciato allarmi sulla libera uscita dei mafiosi dal carcere grazie all’imminente decisione della Cedu. Eppure, proprio questa settimana la Cassazione ha respinto la richiesta dei legali di Giovanni Brusca di ottenere la detenzione domiciliare. Brusca continuerà dunque a scontare la sua pena nel carcere di Rebibbia. Per Emilio Santoro, filosofo del diritto, è la dimostrazione che non è vero che adesso ci sarà il via libera ai mafiosi. “Non è che la Cedu abolisce il carcere ostativo, ma consente al magistrato di sorveglianza di valutare, dal percorso riabilitativo di un reo, se può uscire dal carcere oppure no. Nel caso di Brusca, contro il parere della Dia, la Cassazione ha stabilito per l’appunto che Brusca non può uscire dal carcere. Grazie alla Cedu torniamo semplicemente a questo: il magistrato di sorveglianza valuta se tenere un mafioso in carcere oppure no. L’ostatività che la Cedu ha abolito impediva al magistrato di sorveglianza di valutare il detenuto. Quando Di Matteo dice che adesso i mafiosi usciranno dal carcere, significa che non ha nessuna fiducia nei confronti dei magistrati di sorveglianza”. Adesso si attende la Corte costituzionale del 22 ottobre e “tra i giuristi è ormai pacifico ritenere illegittimo l’ergastolo ostativo, a parte qualche magistrato - come Ardita o Di Matteo - nessuno più sostiene il contrario. Quindi io penso che la Corte costituzionale non farà altro che ribadire lo stesso concetto stabilito dalla Cedu. Quello che fa la Cedu è ribadire, in linea con la giurisprudenza consolidata, che negare la possibilità di rilasciare un detenuto sottoposto a ergastolo è una forma di tortura. Io capisco la lotta alla mafia, ma un paese civile può condurre questa lotta rimanendo in linea con gli standard europei dei diritti umani, senza ricorrere alla tortura. Un tempo ci si chiedeva se fosse giusto torturare o meno un terrorista, e si è stabilito di no. Oggi è la stessa cosa”. La cosa assurda, dice Santoro, “è che quando c’è stata la sentenza Viola, a giugno, nessuno ha detto nulla. Nemmeno Salvini, che pure era ministro dell’Interno e di solito è il primo ad attaccare l’Europa. Abbiamo dovuto aspettare un governo, in cui ci sono anche il Pd e Leu, che brontolasse contro la riaffermazione di un principio: non si tortura nessuno, ma si valutano i comportamenti delle persone”. “Nessuno aveva detto niente dopo la sentenza Viola, nemmeno Salvini, sempre il primo ad attaccare l’Europa. Abbiamo dovuto aspettare un governo, con il Pd e Leu, che brontolasse contro la riaffermazione di un principio: non si tortura nessuno, ma si valutano i comportamenti delle persone” Gonnella: “Perché ora è necessario abolire l’ergastolo” di Gaetano De Monte dinamopress.it, 9 ottobre 2019 Colloquio con Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone per i diritti dei detenuti, a margine della storica sentenza della Corte europea per i diritti umani di Strasburgo (Cedu), che oggi ha invitato l’Italia a rivedere la normativa sull’ergastolo ostativo, cioè senza alcun tipo di benefici, considerato dalla Corte come trattamento disumano e degradante. L’ergastolo ostativo è una punizione disumana e degradante, la quale viola l’articolo 3 della Convenzione europea per i Diritti Umani. È quanto ha stabilito la Gran Camera europea per i diritti umani di Strasburgo (Cedu) accogliendo il ricorso precedentemente presentato da un cittadino italiano, Marcello Viola, riconosciuto boss di ‘ndrangheta il quale era stato condannato a quattro ergastoli per diversi omicidi, sequestro di persona e traffico di armi. In questione era l’articolo 4 del nostro ordinamento penitenziario che vieta al detenuto condannato per gravi reati - se non collaboratore di giustizia - la concessione di benefici come i permessi, il lavoro fuori dal carcere e le misure alternative a esso, l’ergastolo ostativo, appunto. Istituto giuridico che ora la Cedu con questa sentenza invita l’Italia a riformare, ma, soprattutto, che apre la strada ai ricorsi di altri detenuti a cui non vengono riconosciuti benefici di alcun tipo. Come Sebastiano Cannizzaro, boss mafioso catanese in carcere da più di dieci anni e sul cui ricorso per l’assenza di permessi, invece, il prossimo 23 ottobre si esprimerà la Corte Costituzionale. Tornando alla sentenza di oggi, in realtà, i giudici si sono espressi rigettando il ricorso presentato dal Ministero della Giustizia italiano, perché la Cedu già lo scorso giugno, in prima battuta, aveva dato ragione al detenuto Viola. Ora, innanzitutto, spiega a Dinamopress, Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione per i diritti dei detenuti Antigone: “Il rigetto del ricorso dell’Italia da parte della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fa sì che la decisione presa dai giudici della stessa Corte di Strasburgo lo scorso giugno, in merito all’ergastolo ostativo, sia definitiva”. e poi, prosegue ancora Gonnella: “con questa sentenza viene restituita finalmente ai giudici la possibilità di una valutazione discrezionale, cancellando quell’automatismo che trasformava questo tipo di ergastolo in una pena senza alcuna speranza di reintegrazione sociale, come invece la Costituzione impone. Mentre oggi si sta creando un inutile allarme, paventando l’uscita dal carcere di decine o centinaia di mafiosi. Dico soltanto che, se uno Stato è forte, non teme se stesso e i propri giudici, né la rimessa in libertà di persone che hanno scontato in carcere decenni di pena”. D’altronde, dice Gonnella: “Lottare contro l’ergastolo, non significa non avere a cuore la sicurezza del paese o non credere nella lotta contro le mafie. Sarebbe come accusare Papa Francesco, che ha abolito l’ergastolo dall’ordinamento vaticano, di non aver a cuore la lotta alla mafia”. Sulla situazione, in generale, delle carceri italiane, Gonnella aggiunge: “Oggi la situazione delle carceri dal punto di vista dei numeri ci riporta al 2010, quando l’Italia fu condannata dai giudici europei per le condizioni inaccettabili di sovraffollamento e l’assenza di spazi vitali”. Infatti, spiega il presidente di Antigone: “I detenuti oggi sono 61 mila, ossia 10 mila in più rispetto ai posti letto regolamentari. In questo contesto tutti stanno peggio, il detenuto si perde nella folla, maggiori sono i rischi di abusi e salute negata. Fortunatamente, ci sono ancora molti operatori penitenziari che interpretano il loro ruolo in modo costituzionalmente corretto, mentre ci vorrebbero segnali forti e in controtendenza in termini di decarcerizzazione. Ma anche l’adozione di misure quali l’estensione dei contatti con i familiari, il diritto alla sessualità, che, più in generale, potrebbero avere effetti in termini di riduzione del tasso di disumanizzazione”. È capitato invece che i provvedimenti governativi dell’ultimo anno siano andati al contrario verso il non-umano, intrisi dell’ideologia del populismo penale. Sui dettati normativi noti come “decreti sicurezza”, infatti, Patrizio Gonnella così si esprime: “avevano un impianto illiberale e per certi versi intriso di autoritarismo”. E poi conclude: “Non è facile quantificare gli effetti sul sistema penale e penitenziario, di certo hanno eroso un sistema di garanzie, già di per sé flebile, soprattutto per i più vulnerabili”. L’impressione, di contro, è che nel frattempo proprio in questi giorni la macchina del populismo penale si è di nuovo già ben azionata. A dimostrarlo è proprio il dibattito sull’ergastolo ostativo, la cui abolizione è stata vista e considerata da più parti come un segnale ai mafiosi. Una posizione che ha accomunato in queste ore magistrati come Nino Di Matteo e politici come i ministri Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio ma, più a “sinistra”, anche l’ex-presidente del Senato in quota Liberi e Uguali ed ex magistrati Pietro Grasso. Tra gli stessi magistrati l’unica voce fuori dal coro che si è espressa per l’abolizione dell’ergastolo ostativo è l’ex-pubblico ministero del tribunale di Milano Gherardo Colombo. Ai profeti della crudeltà a tutti i costi, bisognerebbe invece ricordare - aggiungiamo noi - che in quanto privazione illimitata di libertà l’ergastolo è una condizione di vita disumana. E ora che in qualche modo anche la Corte Europea per i diritti dell’Uomo lo ha riconosciuto, bisognerebbe ritrovare il coraggio di abolire l’ergastolo, in quanto trattamento contro l’umanità. Maria Falcone: “E un passo che azzera anni di lotta ai clan” di Riccardo Arena La Stampa, 9 ottobre 2019 La sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci lancia l’appello a tutta la politica: “Pericoloso equiparare gli ergastolani mafiosi agli altri condannati al carcere a vita”. La sorella del giudice ucciso con la moglie e la scorta nel 1992 a Capaci, prima da insegnante e ora come anima della fondazione intitolata a Giovanni Falcone, è un simbolo della lotta a Cosa nostra. Maria Falcone, torneranno in circolazione anche gli assassini di suo fratello? “Non posso nascondere la mia preoccupazione. Sinceramente non me lo auguro”. È una norma di civiltà, come dicono associazioni e avvocati che hanno propugnato queste decisioni della Corte europea? “Bisogna contestualizzare. Le norme dell’ordinamento italiano ora messe in discussione furono introdotte dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, un momento tragico per un Paese che ha dovuto fare i conti con una criminalità organizzata che ha caratteristiche di unicità rispetto alle organizzazioni criminali estere. In nessun altro Stato d’Europa tanti uomini delle istituzioni hanno pagato con la vita l’impegno contro le mafie e noi, in Sicilia e non solo, abbiamo vissuto anni di vera e propria guerra”. Niente ergastolo ostativo, nemmeno per i responsabili di gravi crimini che non abbiano mai nemmeno accennato una collaborazione con la giustizia, un’ammissione, nulla… “Significa vanificare la ratio, la finalità della nostra legge. L’automatismo previsto dall’ergastolo ostativo, il subordinare la concessione dei benefici solo a chi recide i legami con i clan e dà un contributo reale al lavoro degli inquirenti, deriva dalla natura peculiare della criminalità organizzata, una particolarità che abbiamo imparato a conoscere in anni di violenze”. Da Cosa nostra si esce solo da morti. È una delle “regole” che rendono le mafie così uniche e pericolose… “L’ergastolo ostativo, come tutta la normativa premiale per i cosiddetti pentiti, sono serviti a scardinare un’organizzazione che si era considerata granitica e contro la quale si può agire solo attraverso conoscenze “dall’interno”. Per questo il legislatore ha dato una chance a chi passa dalla parte dello Stato”. Ora questa chance la si vuol dare a tutti… “Io dico che va garantita a chi accetta, anche se tardivamente, le regole dello Stato, e in questo caso è doverosa. E giustificata invece la differenza di trattamento nei confronti di chi ha scelto di rimanere fedele al giuramento prestato all’anti-Stato, per diventare uomo d’onore”. La parola passa al legislatore italiano, che dovrà adeguarsi alle indicazioni della Corte. Cosa si sente di dire a chi dovrà fare questa legge? “Alla politica tutta rivolgo un appello, perché si trovi una soluzione che non vanifichi anni di lotta alla mafia e che sappia contemperare i diritti con la sicurezza dei cittadini. Un automatismo al contrario, che passi attraverso una equiparazione degli ergastolani mafiosi agli altri condannati al carcere avita, sarebbe pericoloso”. Prossimo step, il 41bis? “È altrettanto pericoloso concedere premialità che possano vanificare gli effetti del carcere duro, altra misura nata dopo le stragi del ‘92, che ha consentito di spezzare i legami tra boss detenuti e clan. Far accedere i mafiosi che scontano l’ergastolo al 41bis ai benefici carcerari significherebbe azzerare anni di lotta alla mafia, nonostante anche grazie alla recisione di quel perverso contatto tra il mafioso e il suo mondo, a Cosa nostra si siano inferti duri colpi”. La vedova Schifani: “Il vero fine pena mai è per noi familiari dei morti di mafia” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 9 ottobre 2019 Il marito era uno dei tre agenti morti a Capaci: “Dicono che l’ergastolo è come la tortura. L’Europa non capisce, un po’ come succede con i migranti”. “Ma che mondo è? Praticamente l’Europa informa che hanno abolito il vero ergastolo, l’unico vero deterrente per frenare la violenza dei mafiosi”. A Rosaria Schifani, vedova di uno dei tre agenti dilaniati con Falcone a Capaci, non piace l’ermetico aggettivo “ostativo”. “Meglio chiamarlo il vero ergastolo, come non capiscono i giudici della Corte europea. Perché le altre condanne a vita sono una finzione. L’ergastolo ostativo ce lo portiamo noi addosso. Noi familiari di vittime innocenti. Mentre i nostri morti per Strasburgo non hanno valore”. Una finzione? “Il vero ergastolo non c’è più. Non commetti altri reati in carcere, mostri un atteggiamento remissivo, dai qualche informazione ed ecco la pena scendere a vent’anni o anche meno. La morte di una persona vale vent’anni? Ma almeno in questi casi qualcosa devi confessare o rivelare. Adesso si rischia di eliminare il “fine pena mai” pure per chi non offre notizie, per chi non si pente, per chi non chiede perdono. Un modo per garantire permessi premio e misure alternative a tutti”. Dall’altare lei tuonò contro i mafiosi dicendo “...vi perdono, ma inginocchiatevi...” “Infatti io posso perdonare, la società può perdonare. Purché il mafioso si inginocchi davanti alle leggi dello Stato. Non deve solo pentirsi intimamente. Quello è un affare che riguarda il singolo criminale e Dio. E Dio non si fa prendere in giro. Noi dal mafioso ci aspettiamo che si inginocchi alle regole dello Stato. E se questo non accade perché non collabora, perché non offre informazioni utili a scardinare pezzi di mafia, vuol dire che merita di restare in carcere”. La Corte europea sostiene che sono vietati i trattamenti inumani... “E dice pure che l’ergastolo è come la tortura. Ma così l’Europa sembra davvero lontana. Un po’ come succede con i naufraghi del Mediterraneo. La mafia considerata come una storia che riguarda aree lontane. E invece le mafie sono nel cuore dell’Europa. La pena serve per ammonire, per difenderci. L’ergastolo parificato addirittura a tortura? Vivere in carcere sarebbe peggio che morire? No il peggio è la bomba che Brusca ha fatto esplodere per uccidere Falcone, la moglie e tre agenti fra i quali il mio Vito”. La Cassazione ha invece negato i domiciliari a Brusca che così rimane in carcere, dopo la condanna a 30 anni... “E invece dovevano dargli l’ergastolo. Non mi piacciono nemmeno gli 80 permessi premio e il fatto che fra due anni tornerà in libertà. Tu ammazzi e ti danno premi...”. In questo caso un aiuto Brusca lo ha offerto, sostengono... “Ma il cosiddetto “papello” di Riina prevedeva l’abolizione dell’ergastolo. Questo voleva la mafia. Chi uccide un proprio simile deve invece scontare una pena tale da fargli capire anche il dolore provocato nei familiari della vittima. Temo che ciò non accada, che non accettino le regole della società civile. E che gli effetti di questa sentenza si riversino su di noi”. Su di voi? “I nostri cari erano pieni di vita. La loro morte per noi è stata un ergastolo a vita, come diceva la povera mamma di Roberto Antiochia, Saveria: ci hanno condannato all’ergastolo del dolore”. Il pm Tartaglia: “Senza carcere duro avremo meno pentiti” di Liana Milella La Repubblica, 9 ottobre 2019 “A seguire alla lettera la decisione della Cedu si rischia di tornare a prima di Falcone”. Dice così Roberto Tartaglia, ex pm a Palermo, nel pool del processo trattativa Stato-mafia, oggi consulente della commissione Antimafia, in pole per succedere al posto di Raffaele Cantone alla presidenza dell’Anac. Si può superare l’ergastolo ostativo? “Oggi non possiamo permetterci di rinunciare a quelle norme e di avviare un processo di sgretolamento del regime del “doppio binario”, cioè la disciplina differenziata per soggetti che, come gli affiliati mafiosi, appartengono a un circuito criminale che, sul piano sociologico, criminologico e culturale, è obiettivamente e innegabilmente differente da tutti gli altri contesti malavitosi”. Eppure molti garantisti sostengono l’esatto contrario… “Invece è un dato innegabile che non dobbiamo assolutamente dimenticare, ricordandoci sempre le lapidarie parole di Giovanni Falcone, di fatto l’iniziatore del regime del doppio binario. Proprio lui, in un bellissimo articolo del 1989, non a caso intitolato “La mafia tra criminalità e cultura”, scriveva che “ritenere la mafia una pura organizzazione criminosa avente come unico scopo la ricerca di lucro è un enorme errore di prospettiva, che rischia di far impostare male le stesse strategie repressive”. A prendere alla lettera la Cedu si rischia di tornare a prima di Falcone? “Certamente. Perché non si può negare che questa disciplina “differenziata” per i mafiosi, soprattutto sul versante carcerario, ha contribuito a dare un grande sostegno allo strumento preziosissimo delle collaborazioni con la giustizia, senza il quale, piaccia o non piaccia, l’azione repressiva, e talora anche quella preventiva, in materia antimafia non potrebbe certamente essere più la stessa”. Cosa devono fare governo e Parlamento? “Un fatto è certo: la sentenza sembra difficilmente superabile e rischia di far proliferare il numero dei ricorsi di detenuti mafiosi oggi all’ergastolo. L’unica strada è attingere all’eccellente cultura giuridica che per tradizione l’Italia detiene. Occorre prestare molta attenzione a tutte le pronunce che la Consulta ha emesso nel corso degli anni per rendere compatibile il “doppio binario” con i fondamentali principi della Costituzione sull’uguaglianza e la finalità rieducativa della pena”. Vede? Anche lei sostiene che qualcosa si può cambiare nel “fine pena mai”… “Stiamo parlando di principi della cultura liberale italiana che sappiamo benissimo come maneggiare e come bilanciare con l’esigenza, davvero ineliminabile, di un’azione antimafia efficace e incisiva. Possiamo dire che la Consulta ha già trasformato negli anni alcune delle “presunzioni assolute” inizialmente previste in materia di mafia (quelle che non ammettono mai di essere superate, perché non riconoscono la prova contraria),in presunzioni solo “relative” (superabili con una prova contraria rigorosa e specifica)”. Quindi già adesso, grazie alla Consulta, le nostre leggi contro la mafia sono state integrate? “Certo. È accaduto, per esempio, quanto la Corte è intervenuta sulla presunzione assoluta della custodia cautelare in carcere per i mafiosi, trasformandola in una presunzione relativa: e cioè il carcere rimane la regola per i mafiosi, ma è possibile, in presenza di circostanze specifiche ben documentate e provate, sostituirlo in alcuni casi con una misura meno afflittiva”. In concreto cosa suggerisce? “La regola italiana è fondata su una “presunzione assoluta” di pericolosità sociale del mafioso detenuto che abbia scelto di non collaborare con la magistratura. La Cedu ci chiede di superare questa assolutezza: si potrebbe pensare di farlo seguendo la Consulta. Al mafioso che non collabora non si possono concedere i benefici penitenziari, ma si può derogare nei casi specifici e rigorosi in cui il giudice ritenga di poter escludere la pericolosità sociale del detenuto anche in assenza di collaborazione”. Gratteri: “Contro il crimine organizzato la Ue batta un colpo” di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 “Un capo mafia rimane tale fino a quando non muore o non diventa collaboratore di giustizia”. Neanche un ergastolo può far venire meno quel legame con la struttura associativa. Per questo il verdetto della Cedu, che boccia l’Italia sull’ergastolo ostativo, “sicuramente influisce negativamente sul contrasto alla criminalità organizzata”. Ne è convinto il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i massimi esperti in materia di mafie, che al Sole 24 Ore ha voluto sottolineare, implicitamente, la necessità di un adeguamento a livello europeo della normativa in tema di criminalità organizzata. Procuratore, la decisione della Cedu può essere un pericolo per la lotta alla mafia in Italia? Con il passare degli anni in carcere non si smette di essere mafiosi. Un capo mafia è sempre una persona in grado di dare ordini, i suoi desiderata vanno eseguiti. Nel momento in cui questa persona potrà lasciare il carcere, allora gli altri componenti del clan inevitabilmente ne terranno conto. C’è un contrasto con l’evoluzione normativa italiana sulle mafie? Il problema è che in Europa non c’è consapevolezza di quello che sono le mafie, perché nel cuore dell’Unione c’è la convinzione che siano un problema italiano. Anche dopo la strage di Duisburg (il 15 agosto 2007 sei affiliati alla ndrangheta furono uccisi davanti a un ristorante italiano, ndr), i politici tedeschi hanno detto “qui la mafia non c’è”. Eppure in Italia sono stati proprio i gravi fatti di sangue a dare impulso alle leggi antimafia... In Europa questo è avvenuto con gli attentati terroristici. È stata la paura a portare interventi importanti in materia di sicurezza, così da creare una azione comune. La stagione delle stragi mafiose in Italia ha portato all’introduzione di importanti misure, come il 416 bis (associazione mafiosa, approvata a seguito dell’omicidio di Pio La Torre, ndr), il 41bis (carcere duro, divenuto legge a ridosso delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, ndr). Possibile che la storia e il tempo ha cancellato il terrore di quel periodo? È una questione culturale? Si può dire che le mafie fanno meno paura, perché uccidono meno, ma le mafie con il traffico di droga e il riciclaggio comprano tutto quello che c’è sul mercato, quindi fanno saltare l’economia pulita. Questo avviene in Germania, ma anche nel cuore dell’Europa. Sono reati non immediatamente percepiti, quindi si crea l’erronea convinzione che non ci sia la mafia. Ma si tratta di una convinzione sbagliata, che può portare a una errata valutazione del pericolo da parte dei giudici. Antigone: “Non ci sarà l’uscita di decine o centinaia di mafiosi: è un inutile allarme” di Anna Maria De Luca La Repubblica, 9 ottobre 2019 La sentenza non si è pronunciata sull’ergastolo in generale, ma solo su quello ostativo. L’ergastolo ostativo viola i diritti umani. Lo dice la Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) respingendo il ricorso dell’Italia. Cosa è successo? Il 13 giugno la Cedu diede ragione ad un detenuto, Marcello Viola, che ricorreva contro lo Stato italiano per la condanna all’ergastolo con due anni e due mesi di isolamento diurno, senza alcun tipo di beneficio per il detenuto. L’Italia si è opposta a tale sentenza, sostenendo la legittimità dell’ergastolo ostativo per alcuni reati molto gravi, tra cui mafia, terrorismo e pedo-pornografia. Oggi la Grande Chambre ha convalidato la sentenza del 13 giugno, affermando che l’ergastolo ostativo viola i diritti umani. Cosa significa lottare contro l’ergastolo ostativo. Gli ergastolani in Italia lo scorso 30 giugno erano 1.776 di cui, quasi i due terzi, all’ergastolo ostativo. “Lottare contro l’ergastolo, e in particolare contro l’ergastolo ostativo - commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e firmatario di un amicus curie a sostegno del ricorso presentato, contro l’ergastolo ostativo, dal Prof. Davide Galliani dell’Università di Milano - non significa non avere a cuore la sicurezza del Paese o non credere nella lotta contro le mafie. Del resto - ha aggiunto Gonnella - nessuno potrebbe accusare Papa Francesco, che ha abolito l’ergastolo dall’ordinamento vaticano, di non aver a cuore la lotta alla mafia”. Il rigetto della Cedu. “Il rigetto del ricorso dell’Italia da parte della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - ha detto ancora Gonnella - fa si che la decisione presa dai giudici della stessa Corte di Strasburgo lo scorso giugno, in merito all’ergastolo ostativo, sia definitiva. D’altronde - ha aggiunto - già in altri casi e per altri paesi la Corte aveva sostenuto, legittimamente, che l’ergastolo senza prospettiva di rilascio violasse l’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani, nella parte in cui proibisce i trattamenti crudeli, inumani e degradanti”. Il rischio uscita dei mafiosi non c’è. Spiega Gonnella: “Chiunque oggi paventa l’uscita di decine o centinaia di mafiosi crea un inutile allarme. La sentenza non produrrà infatti un risultato di questo genere, non essendosi pronunciata sul tema dell’ergastolo in generale, ma solo dell’ergastolo ostativo. Si tratta di una decisione di civiltà giuridica che ci riporta al pari di molti altri paesi europei. Viene così restituita finalmente ai giudici la possibilità di una valutazione discrezionale, cancellando quell’automatismo che trasformava questo tipo di ergastolo in una pena senza alcuna speranza di reintegrazione sociale, come invece la Costituzione impone”. Cosa accadrà. Ora non resta che attendere la decisione della Corte Costituzionale, la quale entro il mese di ottobre si pronuncerà sullo stesso tema, “affinché anche questa decisione - conclude il presidente di Antigone - possa restituire al nostro sistema penale e penitenziario quella flessibilità necessaria ad una valutazione individuale dei casi a tanti anni di distanza dalla commissione dei reati. Uno stato forte non teme se stesso e i propri giudici né la rimessione in libertà di persone che hanno scontato in carcere decenni di pena”. La Cedu e l’Italia delle emergenze. Alle radici della cultura della forca di Sergio Segio dirittiglobali.it, 9 ottobre 2019 Le reazioni alla sentenza della Corte Europea sui diritti umani riguardo il cosiddetto “ergastolo ostativo”, che, respingendo il ricorso presentato dal governo italiano, ribadisce la disumanità di un ergastolo senza alcuna possibilità di benefici e di liberazione condizionale, invece prevista per l’ergastolo “normale” (dopo 26 anni di pena scontata, è bene ricordare a coloro, dell’antimafia dell’ “occhio per occhio”, che si stracciano oggi le vesti) mostrano ancora una volta quella innaturale convergenza bipartisan tra sinistra, destra, centro che ormai da decenni esiste sul carcere duro, sulla cosiddetta sicurezza, sul populismo penale. Era successo lo stesso al tempo della sentenza con la quale il medesimo organismo aveva condannato l’Italia per la morte in 41bis di Bernardo Provenzano, tenuto in carcere sino al decesso. Al (ex) capo mafioso era stato nuovamente prorogato il regime di cui all’art. 41bis (il cosiddetto carcere duro) il 23 marzo 2016, ossia poco prima della sua morte, avvenuta il 13 luglio 2016; ciò nonostante da tempo fosse ridotto a uno stato puramente vegetativo. Anche in quel caso vi era stata la reazione pavloviana degli “addetti ai lavori” delle procure e dei loro supporter mediatici e politici: “il 41bis non si tocca”. Come ora ripetono: “il 4bis non si tocca”, pena, addirittura, “uccidere nuovamente Falcone e Borsellino”. Proprio la vicenda Provenzano, però, mostra a chiunque non sia accecato da furore vendicativo, che la ratio - prevalente, se non assoluta - di tali norme non è quella dichiarata, ovvero rendere impossibile o almeno difficile la comunicazione tra mafiosi in carcere e quelli in libertà, di interrompere sodalizi criminali, di assicurare legalità e giustizia al livello che la particolare pericolosità mafiosa necessita, bensì quella di costringere alla “collaborazione giudiziaria” attraverso forme di pressione che alcuni qualificano invece come tortura. Insomma, contro la mafia e il terrorismo il fine giustifica i mezzi. Anche nei confronti di quanti sono in carcere, quello dell’isolamento del 41bis, da decenni. Anche rispetto a ex appartenenti a organizzazioni criminali da tempo scomparse. Tali misure finiscono dunque per avere una semplice, e terribile, funzione simbolica, per dire: “chi attacca lo Stato deve morire in carcere”. Niente più che una vendetta con funzione deterrente e rassicurativa nei confronti di opinioni pubbliche disinformate e sapientemente manipolate con dosi quotidiane di giustizialismo. Anche oggi media e commentatori confondono l’ergastolo ostativo con l’ergastolo tout court o assicurano che quest’ultimo in realtà non esiste. In effetti, degli oltre 1700 ergastolani attuali, i due terzi sono “ostativi”, ma il rimanente terzo non gode certo di alcun automatismo di benefici, sottoposti invece a costante osservazione e progressione e alla valutazione dei magistrati. Le radici di questo irrigidimento o imbarbarimento non solo dei sentimenti pubblici, ma prima e assieme degli apparati normativi e delle prassi che a livello giudiziario e carcerario si sono progressivamente instaurate, sono da ricercare nella logica di emergenza e Stato dell’eccezione. Emergenza ed eccezione che poi, sempre, divengono stabili e “nuova normalità”. In quella visione, che data dai tempi della “madre di tutte le emergenze”, quella contro le forme di ribellione armata negli anni Settanta, il deviante, il reo, viene trasformato in un nemico da annichilire e distruggere a tutti i costi, anche al prezzo di rinunciare allo Stato di diritto, o comunque a sue parti fondamentali, e di imporre ripetute e progressive lacerazioni all’ordinamento penale e a quello penitenziario. Parafrasando il famoso sermone del pastore Martin Niemöller: “Prima colpirono i terroristi: erano nemici dello Stato e del sistema dei partiti. Allora li torturarono, fecero leggi d’eccezione e tribunali speciali, li misero in carceri speciali, li assoggettarono all’articolo 90 (l’antesignano del 41bis), li sottoposero a condanne esemplari. (si era a cavallo tra gli anni 70 e gli anni Ottanta). Poi si accanirono contro i tossicodipendenti, importando dagli Stati Uniti le logiche della “Tolleranza zero”, con cui stigmatizzarono i consumatori di sostanze e di cui riempirono le carceri, trasformando la “guerra alla droga” in lotta a oltranza contro le vittime delle droghe, che intanto morivano a migliaia. (dal 1973, allorché è iniziato questo tipo di rilevazione, i morti per overdose in Italia sono stati 25.069). Anche in quel caso si fecero nuove leggi, improntate alla massima severità, trasformando un problema sociale e sanitario in una questione penale. (si era alla fine degli anni Ottanta). Poi fu la volta dei mafiosi: erano fuoriusciti dallo spazio e dal ruolo ancillare del potere politico che storicamente avevano avuto: avevano osato mordere la mano che li aveva sempre nutriti e spesso protetti. E furono di nuovo leggi speciali, l’ergastolo ostativo e il 41bis. (e siamo all’inizio degli anni Novanta). Poi nel mirino finirono i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i malati psichici: disturbavano, e allora vennero criminalizzati a colpi di decreti-sicurezza e di leggi sul “decoro urbano”. Il carcere, del resto, è un business che tende a incrementare sé stesso (oltre 10 milioni di detenuti a livello mondiale; il record lo hanno gli Stati Uniti, con 2.121.300, vale a dire 710 detenuti ogni 100 mila abitanti). È insomma avvenuta “la trasformazione del povero da figura economicamente inutile se in libertà, a soggetto economicamente redditizio quando prigioniero” (Elisabetta Grande, Il terzo strike - la prigione in America, Sellerio, 2007) (e si è arrivati agli anni Novanta e Duemila). Poi venne il turno degli immigrati: erano troppi, un flusso continuo che faceva paura e che facilmente poteva essere strumentalizzato da forze politiche sempre più ciniche. Vennero varate apposite norme: la legge Martelli del 1990 che cercava di governare i flussi, programmandoli sulla base delle necessità produttive del Paese: riducendo così gli uomini a braccia; assieme, sanzionava penalmente, anche con il carcere, l’immigrazione clandestina e fissava i meccanismi di espulsione. La successiva legge Turco-Napolitano del 1998 istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanei, vale a dire luoghi in cui detenere persone colpevoli solo di essere straniere, sottoponendole a un “diritto penale del nemico”. Su questi impianti normativi, inasprendoli ulteriormente, interverrà poi la legge Bossi-Fini del 2002. Poi arrivarono Minniti e Salvini. E siamo all’oggi. Lo Stato d’eccezione aveva individuato il nuovo nemico nello straniero; più di recente, ha iniziato a criminalizzare anche quelli che considera suoi complici, vale a dire le Organizzazioni Non Governative, le ONG. Intanto, migranti e rifugiati continuano a morire a decine di migliaia nel tentativo di entrare in Europa; a finire in Centri di identificazione ed espulsione o, ora, nei CPR, spesso peggiori delle carceri; a essere sfruttati bestialmente nelle campagne del Mezzogiorno; a essere quotidianamente discriminati e sempre più spesso aggrediti nelle città. Doppiamente perseguitati, in quanto stranieri e in quanto poveri (ed è storia che dura da oltre 30 anni, ma che oggi vede un drastico peggioramento perché il razzismo promana direttamente dall’alto, dalla politica, dalle politiche dei governi, dagli imprenditori dell’odio e dai professionisti della paura). Per i rom, infine, non c’è stata una stagione, per quanto lunga: la loro persecuzione comincia nella notte dei secoli e non ha mai avuto fine. Grazie a tutto ciò il sistema penale e penitenziario si è irrigidito, dall’alto verso il basso. La riforma e le misure alternative si sono inceppate e svuotate. Gli ergastolani crescono anno dopo anno, in controtendenza rispetto le statistiche sulla criminalità. Nel 1981, l’anno in cui si tenne il referendum per l’abrogazione della pena perpetua promosso dal Partito Radicale (che ottenne, pare incredibile, il 22,63% dei consensi, oltre 7 milioni di voti), gli ergastolani erano 318. Nel 1989, allorché la Camera approvò (anche questo pare ora incredibile) un ordine del giorno per l’abolizione del carcere a vita, erano circa 400. A fine 2018 gli ergastolani in carcere erano 1.748. Nel 2017 erano 1.735; un anno prima erano 1.687. Nel 2015 erano 1.633, nel 2014 1.584. Nel 2005 erano 1.224. E così via. I reati più gravi, invece, gli omicidi sono in forte calo rispetto dagli anni Novanta (da 1.916 omicidi volontari nel 1991 a 368 nel 2017). In particolare, mostrano una consistente diminuzione gli omicidi compiuti dalla criminalità organizzata (da 342 a 55) e ancor più quelli commessi dalla criminalità comune (da 879 a 144). Questi i dati, questo il quadro. Il resto è propaganda e sentimento di vendetta. Legittimo e anche comprensibile se riguarda il singolo, barbaro e ingiustificabile se promana dalle istituzioni. La vita incostituzionale dell’ergastolo ostativo col peccato originale di favorire il “pentitificio” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 9 ottobre 2019 L’ergastolo ostativo è nato l’otto giugno del 1992 con il decreto “Scotti- Martelli”, a cavallo tra l’ultimo governo Andreotti e il governo Amato, negli stessi giorni in cui il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiedeva azioni radicali per risanare la finanza pubblica (con una manovra da 30.000 miliardi di lire nel 1992 e una da 100.000 nel 1993) e la mafia aveva alzato il tiro fino a uccidere il magistrato Giovanni Falcone. L’incostituzionalità del provvedimento fu denunciata in modo quasi unanime, dentro e fuori il Parlamento. Gli avvocati scioperarono. Protestarono i membri della Commissione Pisapia. Perché il decreto era prima di tutto un attacco palese al nuovo processo penale entrato in vigore nel 1989 per il quale la prova si forma nell’aula e non nelle segrete stanze dove la pubblica accusa stipula il patto, spesso indecoroso, con il collaboratore di giustizia. Il decreto, emanato da un governo che non aveva la forza di arrestare Totò Riina e gli altri boss latitanti, fu un atto di impotenza e di vendetta più che di giustizia. La finalità fu esplicitamente quella di creare il “pentitificio” per smantellare le organizzazioni criminali e mafiose colpendole dall’interno. Furono costituiti i “ colloqui investigativi”, incontri riservati tra corpi speciali di polizia e singoli detenuti, che sfuggivano al controllo dello stesso magistrato. E il ricorso alle normali misure alternative al carcere o ai benefici penitenziari previste dalla riforma fin dal 1975, fu vietato per i condannati dei reati più gravi di mafia e terrorismo, tranne che per i “pentiti”. La prima conseguenza fu che diventò, nei fatti, vietato essere o dichiararsi innocenti. La seconda che, essendo la legge retroattiva (altro motivo di incostituzionalità), obbligava persone in carcere da anni e che magari usufruivano già per esempio di permessi esterni, a inventarsi qualcosa, magari mettendo a repentaglio la propria o altrui vita, per dimostrare la propria volontà di collaborazione e poter godere di nuovo dei propri diritti. In Parlamento scoppiò un putiferio. I liberali, i radicali, Rifondazione comunista e gran parte del Pds erano contrari. Anche tra i socialisti c’erano molte perplessità. Il decreto, in discussione al Senato per la conversione in legge, veniva criticato soprattutto per la palese violazione dell’articolo 27 terzo comma della Costituzione, che stabilisce le pene non possano “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Come puoi rieducare con il “fine pena mai”? Le critiche erano così diffuse, anche tra i banchi della maggioranza di pentapartito, che si pensò a un certo punto di archiviare il decreto, di non convertirlo e lasciarlo al suo destino nel cestino della carta straccia. quel punto provvide però la mafia a dettare l’agenda alla politica. Il 19 luglio saltò in aria l’auto del giudice Paolo Borsellino. E il decreto “Scotti-Martelli” riprese vita fino a essere approvato con una corsa frenetica del Parlamento prima della scadenza dei sessanta giorni. Con il voto contrario di due liberali (Alfredo Biondi e Vittorio Sgarbi) e di Rifondazione comunista e l’astensione del Pds. In quegli anni esisteva ancora il garantismo della sinistra. Dell’incostituzionalità di quella legge non si parlerà più fino al 2003, quando sarà proprio l’Alta Corte a sancirne la costituzionalità con un argomento che non verrà più messo in discussione nella sostanza (se pure in seguito ammorbidito) fino all’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo del giugno scorso. Il punto centrale è proprio quello che, in senso negativo, era stato denunciato in Parlamento nel 1992, il “pentitificio”. Poiché il detenuto, dice in sostanza la Corte Costituzionale, è libero se collaborare o meno, l’applicazione dei benefici penitenziari è solo nelle sue mani. Non c’è dunque coartazione né trattamento disumano nei suoi confronti. Ma non si è tenuto conto, nella sentenza, dei fatto che esistono anche gli innocenti o coloro che non possono raccontare ciò che non sanno o che non vogliono far correre rischi a persone innocenti come i parenti propri o di altri. Argomenti che evidentemente sono stati considerati rilevanti per la Cedu. Ergastolo, benefici penitenziari anche al mafioso che non collabora di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 La Corte dei diritti dell’uomo affonda l’ergastolo ostativo. Con la decisione presa ieri i giudici di Strasburgo hanno negato l’ammissibilità del ricorso presentato dal governo italiano contro la sentenza del 13 giugno scorso con la quale la Corte aveva stabilito che la disciplina italiana, in particolare l’automatismo che condiziona la concessione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario alla collaborazione con l’autorità giudiziaria per chi è stato condannato all’ergastolo, contrasta con il diritto a non essere sottoposti trattamenti inumani o degradanti. Per effetto della pronuncia di ieri, presa dalla Grande Camera, sorta di Corte d’appello, viene negata la possibilità di un nuovo giudizio sul caso di Marcello Viola, in carcere dall’inizio degli anni ‘90 anni per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione d’armi. L’uomo si è finora rifiutato di collaborare e gli sono stati quindi negati due permessi premio e la libertà condizionale. Nella sentenza di giugno la Corte spiega che lo Stato non può imporre il carcere a vita ai condannati solo sulla base della loro decisione di non collaborare con la giustizia. I giudici di Strasburgo ritengono che la scelta di non collaborare non sta a significare necessariamente assenza di un pentimento, tanto meno testimonia la persistenza di un contatto con le organizzazioni criminali e quindi l’esistenza di un pericolo per la società. Nella sentenza la Corte non afferma peraltro che Viola deve essere liberato, ma che l’Italia deve cambiare la norma sull’ergastolo ostativo in modo che la collaborazione con la giustizia del condannato non sia l’unico elemento che gli impedisce di non avere sconti di pena. Alla magistratura di sorveglianza, cioè, deve essere lasciata la possibilità di valutare il percorso del detenuto lasciando aperta la possibilità di una mitigazione del trattamento punitivo, anche limitando la detenzione. Il governo però non pare intenzionato a fare marcia indietro, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, commentando ieri alla Camera il verdetto ha ribadito: “Non condividiamo nella maniera più assoluta questa decisione della Cedu, ne prendiamo atto e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e di una scelta che lo Stato ha fatto tanti anni fa: una persona può accedere ai benefici a condizione che collabori con la giustizia”. E la decisone della Grande Camera compatta le forze politiche da Matteo Salvini, “ennesima follia della Corte dei diritti umani”, a Piero Grasso, “la pronuncia testimonia una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano”. Mentre per Giandomenico Caiazza, presidente delle Camere penali, si tratta di “una pagina fondamentale nel recupero di valori che sono nella Convenzione europea e nella nostra Costituzione”. Quanto a quest’ultima, peraltro, tra pochi giorni, il 22 ottobre è fissata l’udienza davanti alla Corte costituzionale chiamata dal tribunale di sorveglianza di Perugia a giudicare della legittimità dell’ergastolo ostativo: possibile il contrasto con gli articoli 3, parità di trattamento, e 27, funzione rieducativa della pena, della Costituzione. Ergastolo, la parola passa al legislatore per evitare condanne seriali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 Con il no della Grande Camera la parola passa al legislatore. La pronuncia di condanna è definitiva e, quindi, l’Italia è obbligata ad eseguire il verdetto. Lo impone l’articolo 46 della Convenzione dei diritti dell’uomo e l’obbligo di rispettare gli accordi per non incorrere in un illecito internazionale. Tra l’altro, la scelta delle misure da adottare è circoscritta perché Strasburgo, nel condannare l’Italia, ha accertato l’esistenza di un problema strutturale - provato anche dall’alto numero di ricorsi simili pendenti dinanzi alla Corte - e ha chiesto l’adozione di misure di carattere generale. In caso contrario, infatti, la Corte di Strasburgo dovrebbe pronunciarsi su casi analoghi con sicura condanna dell’Italia. Così, per evitare condanne seriali, il legislatore deve mettere mano all’ordinamento penitenziario modificando le regole sull’ergastolo ostativo. La riforma dovrebbe permettere un accertamento effettivo dei progressi nel senso del reinserimento nella società compiuti dal condannato in carcere, con l’eliminazione di forme di automatismo che portano alla permanenza della detenzione in caso di mancata collaborazione. La Corte non ha mai detto che chi è condannato all’ergastolo deve essere rimesso in libertà, ma ha solo chiesto allo Stato, per garantire il rispetto dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti, di eliminare la presunzione automatica e non confutabile di pericolosità in assenza di collaborazione. Così come in passato, la Corte è intervenuta chiedendo alcune modifiche del 41bis (attuate dal legislatore) senza chiederne l’eliminazione. Un mancato intervento del legislatore, oltre a portare a nuove condanne, impedirebbe al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, competente a vigilare sull’esecuzione delle sentenze di Strasburgo da parte degli Stati, di chiudere il monitoraggio sull’effettiva attuazione della pronuncia. Con la conseguenza che la mancata esecuzione potrebbe portare a un ricorso del Comitato contro l’Italia. E l’intervento del legislatore è l’unico mezzo di attuazione effettiva della sentenza anche per garantire che il detenuto sappia quali comportamenti possono permettergli alcuni benefici. Inutile un intervento del singolo giudice che non può disapplicare la legge interna, ma solo procedere all’interpretazione conforme o sollevare (da oggi in poi è tenuto a farlo) la questione di costituzionalità delle norme interne per contrasto con l’articolo 117 della Costituzione. E anche un intervento della Consulta, che si pronuncerà a breve, non sarà sufficiente per garantire il rispetto della sentenza di Strasburgo. Ma il giudice decide già caso per caso. Equivoci da sfatare di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 9 ottobre 2019 Si poteva attendere questa decisione della Grande Camera della Corte europea dei diritti del l’uomo di Strasburgo che sostanzialmente conferma quanto già stabilito da una Sezione della stessa corte con una sentenza del giugno scorso. penitenziario nella situazione del cosiddetto ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità di godere dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario per coloro che hanno commesso determinati reati di particolare gravità, in materia di terrorismo, criminalità organizzata e mafiosa. In questi casi, l’articolo 4 dell’ordinamento penitenziario prevede la non concessione dei benefici se non vi sia stata una collaborazione con la giustizia. In questi casi, vi è una presunzione di pericolosità che non può essere superata. La Corte di Strasburgo giudica su singoli casi, su una violazione che si è verificata in concreto, e dunque non direttamente sulle norme. Bisogna tenere presente che non vi è un conflitto tra l’impostazione costituzionale italiana e i principi della Corte di Strasburgo che, tra l’altro, integrano in qualche modo la nostra Carta dal momento che sono richiamati in via indiretta dall’articolo 117. La nostra Costituzione, anzi, prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e uno degli strumenti è anche quello di consentire, a determinate condizioni, di essere in contatto con l’esterno, svolgere anche un’attività lavorativa esterna dopo un determinato tempo e godere della semi libertà quando vi è una valutazione positiva da parte del giudice dell’esecuzione. C’è quindi una specie di individualizzazione del pena. Anche l’ordinamento penitenziario, con molta chiarezza, afferma che il trattamento deve essere conforme a umanità, assicurare il rispetto della dignità della persona e deve tendere al reinserimento sociale anche attraverso contatti con l’ambiente esterno. Questo, tuttavia, è escluso per coloro che si sono resi colpevoli di gravi reati che fanno ritenere che vi sia ancora un rapporto con l’organizzazione criminale, sia per terrorismo o, come nel caso specifico, con un’organizzazione mafiosa. Qual è il punto che diventa critico e per il quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato che vi è stata violazione della carta dei diritti dell’uomo? La previsione è che l’assenza di collaborazione con la giustizia determina una presunzione di pericolosità che non consente una diversa prova, e cioè il condannato si trova nell’impossibilità di dimostrare che non esiste alcun rapporto con l’organizzazione criminale, che il percorso rieducativo è progredito e, di fatto, il giudice non può esaminare la domanda potendo constatare soltanto che si è verificata la condizione della mancata collaborazione. Non è però uno sconvolgimento del sistema perché dovrà essere sempre il condannato a provare pur diversamente, attraverso modalità che una nuova disciplina legislativa potrà determinare, che è venuta meno quella pericolosità che era data per presunta. Sarà poi il giudice dell’esecuzione a dover valutare. È un’apertura, un allargamento della disciplina, ma va detto che già la Corte costituzionale aveva in qualche modo rettificato l’ampiezza del divieto consentendo che i benefici fossero concessi quando la collaborazione era minima o i fatti erano ormai accertati e nessuna collaborazione era possibile. Restrizioni all’appello e più riti alternativi, così si può riformare la giustizia penale di Giuseppe Pignatone La Stampa, 9 ottobre 2019 È necessario ridurre il numero dei reati e non riversare tutto il carico dell’azione sui giudici. Il nostro sistema processuale è estremamente complesso. Prevede, com’è noto, tre gradi di giudizio (primo grado e appello, che esaminano la causa nel merito, la Cassazione che rivaluta l’operato dei primi giudici). È quindi inutile ogni paragone tra i tempi della giustizia italiana e quelli di sistemi anche simili al nostro, ma nei quali le impugnazioni sono assai meno frequenti e limitate nell’oggetto. Basti pensare che la nostra Corte di Cassazione pronuncia oltre 50 mila sentenze l’anno, mentre le Corti Supreme di Francia e Germania si fermano rispettivamente a circa 3 mila e 8.500 pronunce. Nessuno pensa di abolire la possibilità del ricorso per Cassazione, previsto dalla Costituzione, e nemmeno il grado di appello. Si dovrebbe, però, avviare una seria riflessione sulla eventuale esclusione dell’appello per un numero significativo di reati meno gravi o meno complessi. Lo stesso valga per le impugnazioni volte solo a guadagnare tempo, prevedendo la possibilità per il giudice di infliggere in questi casi una condanna più grave (la cosiddetta reformatio in pejus). Sono strumenti che in Italia destano proteste indignate, ma che sono adottati in Paesi di indiscutibile civiltà giuridica come la Francia. Il nuovo Codice Altra questione decisiva è la definizione del maggior numero di processi con i cosiddetti riti alternativi, quale il giudizio abbreviato e il patteggiamento, riducendo al minimo il numero di quelli che arrivano al dibattimento. Sin dalla emanazione del nuovo Codice nel 1989, era chiaro come questa fosse una condizione indispensabile per evitare il fallimento della riforma. Ma le cose non sono andate così. In questo senso si muove la recente proposta - su cui concordano magistrati e avvocati penalisti - di ammettere il patteggiamento concordando una pena fino a dieci anni di reclusione, anziché cinque com’è attualmente. In questo modo, un numero significativo di processi verrebbe definito fuori dal percorso lungo, dispendioso (per lo Stato e i cittadini) e spesso tortuoso dei tre gradi di giudizio e si darebbe una risposta certa e in tempi brevi alla richiesta di giustizia che ogni fatto criminoso fa sorgere. Sui tempi dei processi incide inoltre la necessità di rinnovare l’esame di testimoni, periti e consulenti quando anche uno solo dei giudici debba essere sostituito, per malattia, trasferimento o qualsiasi altro impedimento. Si deve in sostanza ricominciare da capo, senza poter dare lettura - come è invece previsto per i reati di mafia (articolo 190 bis C.p.p.) - dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone già esaminate, neanche se videoregistrate. Si è quindi proposto di ampliare, con le opportune cautele, i casi di lettura dei precedenti verbali. Gli avvocati penalisti sono però assolutamente contrari e ribadiscono la necessità che la prova si formi davanti al giudice, inteso come persona fisica, che poi dovrà decidere. Questo era nella sua originaria ispirazione accusatoria, uno dei principi fondamentali del Codice, che però immaginava che il processo si potesse concludere in una sola udienza o in poche udienze tenute a brevi intervalli di tempo. L’esperienza di trent’anni ha dimostrato invece che la realtà è ben diversa. Spesso i testimoni vengono chiamati a ripetere le loro dichiarazioni a distanza di anni dai fatti, cosicché i loro ricordi sono inevitabilmente affievoliti se non annullati, tanto che in concreto si finisce per rileggere loro quello che hanno dichiarato anni prima, perché lo confermino o lo ripetano. La macchina in affanno Nel contrasto tra le due tesi, una indicazione preziosa è venuta da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (la numero 132/2019) che, richiamando anche la giurisprudenza europea, invita il legislatore a “introdurre ragionevoli eccezioni” al principio dell’identità tra il giudice che raccoglie la prova e il giudice che decide “in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza della giustizia penale”, e di tutelare proprio la ragionevole durata dei processi. Queste (e molte altre) modifiche normative possibili per alleviare l’affanno del sistema processuale, non incidono tuttavia su un ulteriore elemento decisivo: l’enorme numero di nuovi procedimenti - oltre un milione contro autori noti e molti di più contro ignoti - che gli uffici di Procura devono iniziare ogni anno. Questo semplice dato ci dice chiaramente che nessun progresso significativo potrà essere conseguito se non si riduce il numero dei reati, cioè delle condotte che prevedono la sanzione penale la quale dovrebbe, al contrario, costituire l’extrema ratio cui ricorrere solo quando le sanzioni civili o amministrative, si rivelano inadeguate e insufficienti. Invece il nostro legislatore, specie negli ultimi tempi, si affanna a introdurre sempre nuove figure di reato, magari sull’onda delle mutevoli sensibilità dell’opinione pubblica. Nel 2016 sono stati depenalizzati alcuni reati, ma molto resta ancora da fare, e non dovrebbe essere impossibile immaginare per fatti come quelli citati all’inizio soluzioni di contrasto diverse, che non comportino una sanzione penale. Ma nemmeno una nuova depenalizzazione che si limitasse ai casi eclatanti sarebbe sufficiente; bisognerebbe incidere su un numero molto più ampio di casi, superando le proteste di parte dell’opinione pubblica e dei tanti che, per motivi diversi, hanno interesse a che nulla cambi. Bisognerebbe, soprattutto, abbandonare il convincimento - meglio: l’illusione - di poter risolvere qualsivoglia problema con l’intervento, quasi miracolistico, del giudice penale e affermare, invece, le responsabilità di altri protagonisti della vita economica e sociale: in primo luogo della politica, cui competono le scelte di carattere generale. Nella situazione attuale, e non da oggi, il sistema penale viene chiamato a compiti non suoi, che vanno oltre i suoi limiti strutturali, correndo il rischio costante - al di là di episodici successi e della gratificazione di singoli protagonisti - di dover rispondere degli inevitabili insuccessi, giacché mancano i provvedimenti necessari a risolvere i problemi in radice. Intanto, però, nello sforzo di rispondere a tali improprie sollecitazioni, tutti noi rischiamo di pagare prezzi assai alti in termini di tutela della libertà e dei diritti delle persone, di proporzionalità delle pene rispetto alla effettiva gravità del reato, di considerazione del carcere come unica risposta possibile ed efficace, con la progressiva esclusione del ricorso alle pene alternative. È così che prende corpo quel “populismo penale” che - per la verità - non è un fenomeno solo italiano. Lo stesso Papa Francesco ne ha denunciato i rischi, nel discorso tenuto il 23 ottobre 2014 all’Associazione internazionale di diritto penale. Un’analisi puntuale, con la quale il Santo Padre evidenziava anche la difficoltà per molti giudici e operatori del sistema penale di contrastare tali tendenze, dovendo svolgere il loro compito “sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”. Parole rivolte cinque anni fa ai giuristi di tutto il mondo, ma che credo conservano la loro validità anche per noi, ancora oggi. No ai benefici anche se l’aggravante del metodo mafioso non è formalmente contestata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 8 ottobre 2019 n. 41235. Il no ai benefici penitenziari, con la condanna all’ergastolo ostativo, scatta anche quando l’aggravante del metodo mafioso per agevolare il clan non è stata formalmente contestata, ma verificata come sussistente dal Tribunale di sorveglianza, attraverso l’esame del contenuto della sentenza di condanna. Pesa, infatti, la qualificazione sostanziale dei delitti giudicati. La Corte di cassazione, con la sentenza 41235, respinge il ricorso contro la decisione del tribunale di sorveglianza di negare, una volta accertata la collaborazione impossibile, la concessione della liberazione condizionale, dell’affidamento in prova al servizio sociale, della semilibertà o della detenzione domiciliare. Diversi i retati contestati al ricorrente: dalla detenzione di armi, con l’aggravante del metodo mafioso, ad un duplice omicidio. Le misure alternative erano state negate in considerazione dell’ostatività derivante da reati, i due omicidi in particolare, commessi per favorire le famiglie della ‘ndrangheta locale. Inutilmente la difesa aveva depositato una memoria in cui eccepiva l’incostituzionalità dell’articolo 4bis della legge 354/1975, per la parte in cui escludeva che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dalla norma, o per agevolare l’associazione mafiosa, potesse essere ammesso a misure alternative, in assenza di una collaborazione con la giustizia. I giudici negano anche che nello specifico si potesse parlare di collaborazione impossibile, perché il ricorrente, latitante per otto anni grazie alla copertura della ‘ndrangheta, avrebbe potuto offrire un contributo non marginale nella ricostruzione di fatti, anche in ragione del ruolo rivestito nel gruppo e grazie alle informazioni apprese in carcere. Per la difesa dell’imputato la preclusione, in assenza di collaborazione, renderebbe vano il trattamento penitenziario e la regola della flessibilità della pena in funzione della rieducazione del condannato. Inoltre la decisione di non “pentirsi” poteva essere dettata, non solo dalla volontà di mantenere buoni rapporti con i clan, ma dal timore per la propria incolumità, per quella dei familiari o dalla scelta di non accusare i prossimi congiunti. Infine il ricorrente invoca la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sulla pena perpetua, considerata strutturalmente “riducibile” e oggetto di periodica verifica, per accertare se il detenuto abbia fatto progressi che rendano possibile il suo inserimento nel contesto della vita sociale. Ma la Cassazione conferma il no del tribunale, ricordando che, nel caso in esame, l’ergastolo ostativo, non consente alcuna rivalutazione, in assenza di una collaborazione con la giustizia. Nelle specifico inoltre la Suprema corte sottolinea che non erano ancora stati scontati i 26 anni che, pur cadendo i reati ostativi, avrebbero in teoria aperto alla possibilità della liberazione condizionale. Nulla da fare anche per la semilibertà, possibile in genere per i condannati all’ergastolo ma solo se c’è la certezza di un lavoro. Fatture false, concorso nel reato per il potenziale utilizzatore di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 ottobre 2019 n. 41124. L’esclusione del concorso nel reato tra utilizzatore ed emittente le false fatture, opera soltanto se il destinatario non risponde del delitto di dichiarazione fraudolenta. Ne consegue che se ha ricevuto i documenti e non li ha utilizzati concorre nel reato commesso da chi ha emesso le fatture fittizie. A fornire questa precisazione è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 41124 depositata ieri. Alla legale rappresentante di una società veniva contestato il concorso nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Più precisamente, la società era stata destinataria di fatture emesse da un terzo soggetto considerate fittizie, ma che non erano confluite nella relativa dichiarazione presentata. La difesa evidenziava così che nessun illecito era stato commesso. Nelle more del giudizio di appello, interveniva la prescrizione per tale reato, ma venivano comunque confermate le statuizioni civili. L’imputata ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, anche la violazione della norma disciplinata dall’articolo 9 del Dlgs 74/00. In particolare, è previsto che non può sussistere il concorso tra l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi le utilizza. La Suprema corte, rigettando l’eccezione sul punto, ha fornito alcune importanti precisazioni. Innanzitutto, nella sentenza è stato evidenziato che il legislatore con tale norma ha inteso evitare che l’utilizzazione di fatture false da parte del destinatario (punita dall’articolo 2 del Dlgs 74/00) possa integrare anche il concorso nell’emissione delle stesse (punita dall’articolo 8 dello stesso decreto). E viceversa, ossia che la mera emissione possa integrare il concorso con il relativo utilizzo, cosi come avveniva con la precedente normativa penale tributaria (cosiddette manette agli evasori). Si tratta dello stesso fatto poiché l’emissione della fattura, trova la sua naturale conseguenza nell’utilizzazione e l’utilizzazione trova il suo naturale antecedente nell’emissione. Con l’articolo 9, quindi, è stato escluso che un soggetto possa essere colpito per due volte da sanzione penale per la medesima vicenda illecita. La Cassazione ha però precisato che l’esclusione del concorso, non opera se il destinatario delle fatture non le abbia utilizzate. L’articolo 2 del Dlgs 74/00 punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’Iva indica in una delle dichiarazioni fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Tuttavia, in assenza dell’utilizzo, ossia della presentazione di una dichiarazione contenente i citati documenti falsi, l’imprenditore non commette alcun reato. Va da sé quindi che se non esiste il delitto in capo all’utilizzatore, non sussiste la necessità di evitare la doppia sanzione tutelata dal legislatore. Pertanto, secondo i giudici di legittimità, solo il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, con l’emittente non essendo applicabile l’esclusione prevista dalla norma. Basta l’emissione e non l’utilizzazione delle fatture false per la responsabilità penale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 ottobre 2019 n. 41124. Definitiva la condanna per fatture false per la moglie dell’ex numero uno di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini. La Cassazione - con la sentenza dell’8 ottobre n. 41124 - ha rilevato la responsabilità per aver emesso fatture per operazioni inesistenti. La ricorrente aveva eccepito come ci fosse stato violazione dell’articolo 9 del Dlgs 74/2000. Secondo la manager la violazione non avrebbe operato quando - come nel caso di specie - il destinatario delle fatture non le avesse utilizzate. La ricorrente, peraltro, ha continuato i motivi di appello arrivando chiedere che nei suoi confronti i giudici avessero agito in maniera illegittima per aver violato il ne bis in idem (pena per l’emissione e quella per l’utilizzazione). Secondo la Cassazione, però, l’emissione c’è stata ed è sufficiente per l’imputazione penale, a prescindere che poi non ci sia stata l’utilizzazione. Infatti secondo quanto dichiarato da una teste i pagamenti effettuati dalla società Selex nei confronti della emittente Print Sistem srl per prestazioni non eseguite erano stati autorizzati dall’amministratore delegato Marina Grossi. Rileva la Cassazione che se si desse ragione all’appellante si arriverebbe a una situazione di irrilevanza penale nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti riconducibili alla previsione concorsuale in relazione alla emissione della documentazione fittizia per il solo fatto di non avere utilizzato poi quella stessa documentazione. No Tav, sindacato di polizia non legittimato al processo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 8 ottobre 2019 n. 41246. La rappresentanza sindacale delle forze dell’ordine non era legittimata a costituirsi parte civile contro i manifestanti “No Tav”, per le lesioni riportate dagli agenti in occasione delle violente proteste contro l’apertura del cantiere dei lavori per la galleria ferroviaria della tratta Torino-Lione. La vicenda degli scontri tra Polizia e No Tav del 3 luglio 2011 si arricchisce delle motivazioni della Cassazione riportate nella sentenza n. 41246 di ieri, che decide - annullando con rinvio la decisione della Corte di appello di Torino - il ricorso di legittimità di 4 manifestanti imputati per i reati violenza e lesioni commessi in concorso contro le forze di polizia. Annullate le statuizioni legate alla costituzione del sindacato come parte civile, per il resto la Cassazione rinvia la causa affinché venga meglio motivata l’esclusione della causa di non punibilità e l’aggravante dell’aver agito in concorso per i manifestanti. Il sindacato - Spiega la Cassazione che, la partecipazione al processo del sindacato di polizia è giustificata solo nel caso di violazioni alla condizione lavorativa dei poliziotti: sicurezza sul luogo di lavoro, tutela della salute e dell’integrità fisica del poliziotto, in quanto lavoratore. E, di conseguenza, il giudizio della Cassazione è sul punto netto, quando afferma che quanto avvenuto, cioè uno scontro anche fisico e violento tra manifestanti e agenti rappresenta in realtà un rischio connesso al lavoro di quest’ultimi. Quindi lo scontro di piazza non rappresenta quell’attentato alle condizioni di lavoro degli agenti, che giustifica la tutela e l’azione del sindacato di appartenenza. Escluso anche che il sindacato in tal caso potesse agire a tutela della generica onorabilità della categoria di lavoratori che rappresenta. Gli atti violenti - La sentenza è molto interessante nei rilievi sui criteri utilizzabili per poter attribuire un gesto criminoso a una persona di cui viene rilevata, ad esempio fotograficamente, la presenza sulla scena di una manifestazione collettiva. Si chiarisce che, per l’attribuzione di specifiche condotte penalmente rilevanti, va raggiunta una prova piena e che non basta l’accertata presenza sui luoghi per essere ritenuti responsabili di tutti gli accadimenti registrati in una data situazione. Non poteva quindi essere sufficiente ai giudici di merito - per condannare i manifestanti ricorrenti per le violenze fisiche e i danni contro la polizia o per i danneggiamenti al cantiere - far constatare l’esistenza di rilievi fotografici della loro presenza in una data ora del giorno della protesta. Infatti, la Cassazione precisa che, i reati di cui si vuole attribuire la responsabilità penale, che è personale, a chi partecipa a una manifestazione collettiva non possono essere accertati solo sulla base di una rilevazione temporalmente troppo distante dallo specifico fatto. Il concorso - Lo stesso rilievo di legittimità è stato fatto sul punto del concorso materiale o morale ai fatti violenti: va dimostrato il contributo materiale o morale senza necessità di un previo accordo. Ma è aggravante che non può essere desunta de plano dalla compresenza degli imputati. La reazione scusabile -Infine, andrà ripetuto anche il giudizio di merito sulla negata applicazione dell’invocata causa di non punibilità, prevista per chi reagisce all’uso abusivo della violenza da parte della polizia. In questo caso si dibatte sul come i lacrimogeni siano stati impiegati, ad esempio se ad altezza uomo, e se ciò avvenne prima o dopo il lancio degli oggetti da parte dei manifestanti. Sul punto la Cassazione è chiara nell’affermare che sussiste la non punibilità quando l’atto dell’agente sia oggettivamente illegittimo e non viene meno se manchi la consapevolezza di tale illegittimità. Agrigento. I detenuti denunciano maltrattamenti stile Guantánamo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2019 Le testimonianze raccolte a Ferragosto dalla delegazione del Partito Radicale. Una relazione dettagliata sulle presunte violenza inviata al Dap e al Garante. Rita Bernardini confida in una opportuna e urgente ispezione. Indossa soltanto un paio di mutande di carta e riferisce di essere stato vittima di violenze da parte della polizia penitenziaria. Lo avrebbero lasciato in cella liscia per 3 giorni, ha mangiato due viti, da 20 giorni le ha dentro nella pancia e ha provato anche ad impiccarsi. Un altro detenuto ancora riferisce che l’avrebbero lasciato, ammanettato, nel passeggio per una giornata e una nottata intera senza mangiare né bere e l’avrebbero preso a schiaffi e pedate. Altri ancora hanno riferito di essere stati testimoni di detenuti ammanettati e strisciati per terra. Sembra la descrizione di Guantánamo, ma parliamo del carcere siciliano di Agrigento e sono tutte testimonianze raccolte dalla delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini. Parliamo della visita effettuata il 17 agosto scorso nell’ambito della terza edizione straordinaria del ferragosto in carcere promosso dal Partito Radicale. La relazione, ben dettagliata con nome e cognome dei detenuti che hanno esternato i presunti comportamenti violenti da parte di taluni agenti penitenziari, è stata inviata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, esortandoli nell’effettuare - con la prudenza del caso - una visita ispettiva per fare chiarezza. Presunti abusi che sarebbero stati commessi nella sezione isolamento. Parliamo di un piccolo reparto ubicato al piano terra, in prossimità dell’area sanitaria, dove confluiscono detenuti di alta sicurezza, di media sicurezza e detenuti protetti, nonché i nuovi giunti che vengono temporaneamente sistemati in una camera di accettazione. Nella relazione stilata dal Partito Radicale si legge che nelle finestre di molte camere detentive, oltre alle sbarre, sono applicate reti a maglia stretta che limitano l’ingresso di aria e luce naturale. In molte celle, al momento della visita, il blindo della porta risultava chiuso. Oltre a ciò, i sei piccoli cortili passeggio di cui dispone il reparto isolamento “sono spazi squallidi - si legge sempre nella relazione - con il wc alla turca, sprovvisti di panchine”. Diversi detenuti, come detto, hanno denunciato presunti abusi. Racconti che sono concordanti. “Gli agenti ti stuzzicano per farti sbagliare e poi ti alzano le mani, qui c’è la squadretta che alza le mani con i manganelli, qui ti lasciano notti e notti all’aria con le manette”, riferisce un detenuto. Un altro ancora riferisce la stessa identica situazione. Altri ancora chiedono di andare via. “Quello che io ho visto qua non l’ho visto da nessuna parte, e ne ho girati istituti in tanti anni di carcere; ho visto detenuti ammanettati e strisciati per terra; io da qui voglio andare via”, riferisce un detenuto che avrebbe assistito a presunti atti di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria. In altre testimonianze ancora, riaffiora il termine di “squadretta”, che evoca i tempi passati dei forti abusi della polizia penitenziaria denunciati per la prima volta da uomini delle istituzioni come Franco Corleone, l’attuale garante dei detenuti della regione Toscana, quando era sottosegretario del ministero della Giustizia. La “squadretta” non è uno strumento di disegno, come verrebbe facilmente in mente a chi ne ha usato uno, ma un corpo speciale pronto ad entrare in azione alla bisogna. Un corpo che non è contemplato dall’ordinamento penitenziario e tanto meno dalla nostra Costituzione. Ma sono testimonianze che dovranno essere riscontrare. Non mancano altre testimonianze legate all’utilizzo non propriamente ordinario dell’isolamento. “Sono in isolamento da 7 mesi; mi trovo qui perché protesto, vorrei essere trasferito in un carcere della Puglia; qui il blindo della porta è stato chiuso per una settimana; io faccio solo un’ora e mezza d’aria perché nel passeggio non c’è il wc e se torno in cella per andare in bagno poi non mi fanno ritornare al passeggio”, riferisce un altro detenuto che ha affermato di aver già scontato il reato ostativo. La relazione del Partito Radicale è da settembre sul tavolo del Dap ed è stato inviato anche all’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà. Per ora, il Dap non ha risposto, ma Rita Bernardini confida per una sua opportuna e urgente ispezione per far luce sui fatti denunciati dai detenuti della Casa circondariale di Agrigento “Pasquale Di Lorenzo”. Lauro (Av). Otto madri e 11 bimbi, l’Icam tra le carceri con più presenze in Italia irpinianews.it, 9 ottobre 2019 Otto madri e 11 bimbi: l’Icam di Lauro tra le carceri con più presenze in Italia. Sono gli ultimi dati disponibili, aggiornati al 31 agosto 2019. Se ne discuterà nel seminario “Il cuore oltre le sbarre”, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati a Roma. In generale, quarantotto le madri detenute nelle carceri italiane con 52 figli al seguito. L’istituto Le vallette di Torino, con 10 recluse e 13 bambini, peraltro istituto di custodia attenuata (Icam), guida la classifica del maggior numero di presenze, seguito da Rebibbia Femminile (11 donne e 11 bimbi), dall’Icam San Vittore di Milano (9 donne e 9 bambini) e dall’Icam Lauro in Campania (8 madri e 8 figli). “Troppo spesso il carcere viene inteso come un tappeto sotto il quale nascondere la polvere della società civile- il commento del Presidente del Coa Roma, Antonino Galletti- mentre è bene, anche attraverso questi eventi e queste giornate di studio, accendere un riflettore su realtà dure come la genitorialità nelle carceri”. Un tema che riguarda non solo i figli che convivono con la madre dietro le sbarre, ma anche quell’enorme numero di bambini che ogni giorno entrano in carcere per incontrare il detenuto, circa 100 mila. “La Costituzione tutela il diritto all’affettività e quando il genitore è detenuto, questo diritto deve essere preso in considerazione e tutelato sotto un duplice aspetto - spiega il consigliere Saveria Mobrici, moderatore del convegno - precisamente il diritto per l’internato di esercitare la propria genitorialità ed il diritto del figlio minore di veder riconosciuto la continuità del legame affettivo con il proprio genitore con una tutela massima anche sotto il profilo psicologico salvaguardando la dignità di questi bambini, come il non subire la perquisizione, la spoliazione degli oggetti personali e non subire i rimproveri da parte dei soggetti che sono adibiti al controllo del detenuto”. Venezia. Venticinque anni di attività in carcere, la cooperativa festeggia “Al femminile” veneziatoday.it, 9 ottobre 2019 È il libro di Rio Terà dei Pensieri, che sarà presentato giovedì al Fondaco dei Tedeschi, per celebrare l’impegno lavorativo, formativo e sociale alla casa di reclusione della Giudecca. Rio Terà dei Pensieri festeggia venticinque anni. È la cooperativa, costituita nel 1994, che svolge attività lavorative, formative e sociali, nella casa di reclusione femminile della Giudecca, per offrire un’alternativa alla cella, in un’ottica di risocializzazione, attingendo alle risorse del volontariato. L’anniversario verrà celebrato con la presentazione del libro Al femminile, giovedì 10 ottobre all’Event Pavilion del Fondaco dei Tedeschi alle 19. Lo presenteranno gli autori e promotori: Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri, Ivan Carlot, analista filosofo, counselor e formatore, Giorgio Bombieri, fotografo e Bali Lawal, modella. Il nuovo progetto - Un testo nato e realizzato per valorizzare il percorso della cooperativa nella casa di reclusione femminile veneziana. I ricavi della vendita finanzieranno un nuovo progetto rivolto alla cura della bellezza interiore: un centro d’ascolto per detenuti e detenute, ed ex detenuti e detenute, in memoria di Raffaele Levorato, fondatore della cooperativa. Il lavoro e la produzione - L’attività di Rio Terà dei Pensieri si è sviluppata attorno a due fulcri principali, la formazione professionale e il lavoro, considerati gli strumenti principali per avviare percorsi di responsabilizzazione e inclusione sociale. I detenuti e le detenute, anch’essi soci lavoratori della cooperativa, coadiuvati da docenti, collaboratori e volontari, producono articoli serigrafati, borse e accessori in Pvc riciclato, creano linee di cosmetici e coltivano ortaggi biologici. Il loro lavoro viene commercializzato sia attraverso la vendita al dettaglio che tramite commissioni pubbliche e private. Piacenza. Un corso di teatro per ridare futuro a giovani carcerati piacenzaonline.info, 9 ottobre 2019 Si concretizza un’idea nata dall’incontro tra il Prefetto Maurizio Falco ed il Presidente del Rotary Piacenza Pietro Coppelli. A coordinare il corso sarà Mino Manni, attore e regista. Un corso di teatro in carcere ed un protocollo (ancora da siglare) con le associazioni professionali piacentine, per una possibile integrazione socio-lavorativa di giovani detenuti, a fine pena. Un’idea nata dall’incontro tra il Prefetto Maurizio Falco ed il Presidente del Rotary Piacenza Pietro Coppelli, nel luglio scorso, parlando di disagio giovanile e di possibili service del Rotary Piacenza in questa direzione. Detto e fatto. Il percorso, già definito, potrà contare sul coordinamento complessivo della Prefettura, il sostegno del Rotary Piacenza, la professionalità della Direttrice della Casa circondariale “Le Novate”, Maria Gabriella Lusi, oltre che sul talento e l’esperienza di Mino Manni, attore e regista. Se ne è parlato per la prima volta in modo ufficiale nel corso di una conviviale rotariana presso l’Albergo Roma a cui, oltre al Prefetto Falco, al Presidente Coppelli e a tutti i protagonisti del progetto, ha partecipato anche il Presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani. Saranno circa quindici, con età inferiore ai 25 anni, scelti in modo mirato, i detenuti che parteciperanno al corso di teatro; lavoreranno con Manni per 4 mesi, tutti i lunedì pomeriggio, da gennaio 2020. L’artista piacentino, che già lo scorso anno aveva curato un progetto simile, sempre in carcere, e incentrato su “Giulio Cesare” di Shakespeare, questa volta ha scelto Iliade. “Lavoreremo sul testo di Omero - ha precisato Manni - ma anche sulla riscrittura di Baricco, con un linguaggio adatto e facendo leva sui valori che quest’opera trasmette. Useremo il teatro come veicolo di comunicazione, come esempio raro di corrispondenza universale, terreno efficace per un recupero e una nuova consapevolezza, senza paura di essere giudicati”. Il service rotariano, come rimarcato all’unisono dal Prefetto Falco, dal Presidente Coppelli e dalla Direttrice Lusi, punta a mettere insieme il dentro e il fuori dal carcere nel modo più efficace possibile, perché prepara i ragazzi per un futuro reinserimento, dando loro la certezza di poter tornare ad essere una risorsa per la società. Un gesto di valenza sociale, che contribuirà a migliorare la sicurezza del territorio, ma non un atto di buonismo gratuito. Applicato secondo regole di civiltà, premierà chi lo merita. Il laboratorio teatrale si chiuderà con una rappresentazione finale, in spazi dedicati. “In collaborazione con la Scuola edile di Piacenza, stiamo riqualificando alcuni spazi perché l’esperienza del teatro possa avere un set adeguato all’interno dell’Istituto delle Novate - ha annunciato la Direttrice Lusi durante la serata Rotariana - stiamo predisponendo un percorso di formazione professionale per allestire un locale che si presti ad ospitare spettacoli teatrali ed eventi simili”. Un segnale di apertura, un gesto di coraggio, un’azione concreta oltre facili slogan. Il progetto di teatro in carcere firmato Prefettura e Rotary Piacenza è in linea con lo spirito della nostra città. “A Piacenza sono riuscito a fare cose che non avrei mai immaginato - ha affermato il Prefetto Falco riferendosi proprio a questo aspetto - anche in questo caso, la comunità piacentina, conferma di essere improntata al valore del fare, seguendo una tradizione di positività e concretezza”. Matera. La San Vincenzo de Paoli assegna ai detenuti il premio letterario Castelli di Francesco Ricupero osservatoreromano.va, 9 ottobre 2019 Scrivere libera la mente, aiuta a riflettere sui propri errori ed è un’occasione per aiutare “chi sta fuori” a non ripeterli. Partendo da questa convinzione la Società San Vincenzo dè Paoli, anche quest’anno, assegnerà il prossimo 11 ottobre, presso la Casa Circondariale di Matera, il premio “Carlo Castelli” per la solidarietà destinato ai detenuti delle carceri italiane che vogliono cambiare vita. E sì, perché cambiare vita è possibile. “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla rassegnazione. Dio è più grande di ogni problema e vi attende per amarvi”, ha detto Papa Francesco il 14 settembre scorso, in occasione dell’udienza ai cappellani delle carceri italiane, alla polizia e al personale dell’amministrazione penitenziaria, esortando i detenuti ad avere coraggio perché si è nel cuore di Dio anche se ci si sente smarriti e indegni. Quello promosso dalla San Vincenzo de Paoli è senza dubbio uno dei concorsi letterari rivolto ai detenuti più ambito d’Italia. Giunto alla sua dodicesima edizione, il premio si ispira alla testimonianza di Carlo Castelli (1924-1998) volontario vincenziano nelle carceri e pioniere nell’opera di recupero sociale dei detenuti. Con il tema “Riconoscere l’Umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”, il concorso di quest’anno è patrocinato da Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, ministero della Giustizia, Università Europea di Roma, Fondazione Matera-Basilicata 2019 e ha ottenuto il riconoscimento di una speciale medaglia del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. “Ogni anno - spiega all’”Osservatore Romano” Antonio Gianfico, presidente della Federazione nazionale Società di San Vincenzo de Paoli - riceviamo centinaia di testi dai reclusi di tutte le carceri italiane. Il mondo carcerario è un condominio fatto di spazi angusti, di regole rigide, di relazioni forzate, di privazioni e di sofferenza. C’è quindi la necessità e la convenienza di condividere al meglio quel poco che si ha materialmente a disposizione, ma, soprattutto, di attingere a quelle risorse interiori che possono veramente segnare una svolta nella propria vita. Dagli scritti pervenuti - prosegue Gianfico - emerge un’umanità soffocata dalla sofferenza, un’umanità che si confronta con quella del vicino, che cerca di abbattere il muro del pregiudizio, di comprendere e valorizzare le differenze. Una convivenza di prossimità”. Imparando dagli errori del passato si può aprire un nuovo capitolo della propria esistenza e si può davvero fare qualcosa di buono ed utile non solo per se stessi, ma anche per gli altri. “Ed è per questa ragione - spiega al nostro giornale Claudio Messina, delegato per le carceri della Società di San Vincenzo de Paoli e organizzatore del premio Castelli - che, anche nel premiare le opere scelte, abbiamo pensato di dare una libertà in più al candidato, il quale oltre a ricevere un riconoscimento per sé, sceglierà una buona causa nel sociale a cui destinare un’altra parte del premio in denaro. Ecco una buona possibilità, per chi ha sbagliato nella vita, di riscattarsi offrendo un contributo alla società”. La cerimonia di premiazione sarà preceduta dal convegno dal titolo: “In carcere con umanità. Nell’incontro la scoperta dei valori comuni”. Tra i relatori: Luigi Accattoli, Guido Traversa, Rita Barbera, don Raffaele Sarno, Gabriella Feraboli, Carmelo Cantone. Ai tre vincitori di questa edizione vanno assegnati rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori, saranno devoluti nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica a Lurhala (Repubblica Democratica del Congo); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane dell’Istituto penale minorile di Bari; 800 euro per l’adozione a distanza di un bambino della Bolivia per i prossimi 5 anni. Le tre opere, scritte dai detenuti, che saranno premiate a Matera sono: Per chi muore, per chi rimane di Carmelo Gallico del carcere circondariale di Tolmezzo (Udine); Riscoprire i rapporti di buon vicinato di Alessandro Cozzi della casa di reclusione Opera di Milano e Un padre di Alessandro Crisafulli, sempre del carcere Opera di Milano. Rovereto (Tn). Arriva “Liberi da dentro”, il carcere raccontato da chi lo vive ladige.it, 9 ottobre 2019 Arriva alla biblioteca civica di Rovereto il progetto “Liberi da dentro”, un’occasione davvero più unica che rara per conoscere, dalla viva voce di chi l’ha vissuta, l’esperienza di vita della detenzione in carcere. Undici fra detenuti ed ex detenuti, con i loro accompagnatori, il prossimo 25 ottobre si metteranno a disposizione di chi vorrà ascoltare la loro storia nella piazza del Mart, a partire dalle 15.30. Come testimoni e “libri viventi”, pronti a raccontarsi e rispondere alle domande delle persone che decideranno di sceglierli - proprio come quando si sfoglia un libro per il prestito - e ascoltarli. Il progetto arriva per la prima volta a Rovereto, ma è già stato proposto in altri ambiti e ha per obiettivo la lotta agli stereotipi che, alimentati anche da una mancanza di informazioni concrete sulla quotidianità delle carceri, le pene e il loro effetto sulle persone, sull’umanità variegata che le abita, sono ampiamente diffusi. Undici persone, undici storie da scoprire in una conversazione a tu per tu con uomini e donne che, altrimenti, difficilmente si potrebbero incontrare. Undici testimonianze per conoscere senza mediazione, dalla voce di chi l’ha vissuta, la vita in prigione e capire come si è finiti a dover scontare un debito con la legge. D’altronde celebre è la frase di Albert Einstein “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. A trovare un buon modo per riuscire nella difficile impresa di andare oltre gli stereotipi sono stati i danesi, negli anni Cinquanta, quando inventarono appunto il metodo della “biblioteca vivente” per promuovere il dialogo e favorire la comprensione reciproca, basandosi sul fatto che nella realtà le categorie non esistono, esistono solo le persone con le loro storie personali, le loro scelte e i motivi che le hanno determinate. Ascoltare le persone, riconoscere la stessa umanità che ci caratterizza anche nell’altro è il primo passo, e forse anche l’unico che serve, per librarsi oltre il pregiudizio che, nel caso del carcere di Spini di Gardolo, molto spesso si riduce a ritenerlo un “albergo a 5 stelle”, pieno solo di “qualcun’altro”: gli stranieri, non certo i locali. L’appuntamento alla biblioteca civica Tartarotti di Rovereto è un modo per conoscere le storie vere, stabilire una connessione emotiva con altri esseri umani, ascoltare le loro ragioni e i loro vissuti. In Italia con questo metodo si sono affrontati fino ad oggi molti temi diversi: dall’immigrazione alla disabilità, dall’orientamento sessuale alle fedi religiose, perfino il veganesimo. In Trentino l’esperienza con i detenuti del carcere di Spini si è già ripetuta nel capoluogo, a Riva del Garda e a Lavis, con soddisfazione alla fine di tutti i partecipanti. A promuovere l’iniziativa sociale di Rovereto è una cordata di associazioni sostenute da Fondazione Caritro che dallo scorso anno, per un percorso inteso fin dall’inizio come biennale, hanno messo in campo tante iniziative diverse - convegni, lezioni, “libri viventi”, film e recital - per ampliare la conoscenza del mondo carcerario. Voghera (Pv). La campanella della scuola ha suonato anche in carcere vogheranews.it, 9 ottobre 2019 Iniziate ieri le lezioni. Inaugurate anche delle nuove aule. 100 gli studenti. Anche nel carcere di Voghera suona la campanella della scuola. Ieri, mercoledì 8 ottobre, si è aperto l’anno scolastico alla Casa Circondariale di Voghera. E per l’occasione sono state anche inaugurate le nuove aule e l’Aula Magna. A tagliare il nastro, la direttrice Stefania Mussio, che, sin dal suo arrivo a capo della struttura penitenziaria di via Prati Nuovi, credendo la scuola la più importante attività di recupero di chi sta dietro le sbarre, ha investito risorse ed energie per la riqualificazione degli spazi, cominciando proprio dall’area che ospita i corsi scolastici realizzati in rete con l’IIS Maserati-Baratta e il Cpia di Voghera. Alla casa circondariale sono presenti tre classi per l’indirizzo Geometri (1^, 2^ e 3^) e altrettante per l’indirizzo Ragionieri (1^, 4^, 5^), nonché due classi per la Licenza Media. Dopo il taglio del nastro in Aula Magna, il direttore, il dirigente dell’Istituto Maserati-Baratta, il Comandante di Reparto e il Capo-Area Giuridico-Pedagogica, hanno dato il loro benvenuto ai circa 100 alunni e ai docenti. “Grazie alle donazioni pervenute e al lavoro accurato delle persone detenute, è stato possibile recuperare le aule per renderle più accoglienti e adeguate alla missione educativa della scuola, vero fondamento su cui basare nuovi progetti di vita”, ha detto la direttrice. “La presenza di più etnie - ha precisato il Comandante di Reparto Michela Morello - permetterà inoltre di facilitare l’integrazione sociale e culturale per un arricchimento reciproco”. “L’obiettivo da porsi all’avvio di questo nuovo anno scolastico non sia solo il conseguimento di un titolo di studio, ma il saper cogliere quegli stimoli che portano a un autentico desiderio di apprendere” ha aggiunto l’educatrice Di Tullio. A sua volta, il Dirigente Scolastico Filippo Dezza ha sottolineato come per le persone detenute la scuola abbia una valenza del tutto positiva, poiché non è un obbligo, ma una scelta libera e consapevole. Una particolare parola di gratitudine il preside l’ha rivolta agli insegnanti, che con dedizione e passione svolgono il loro lavoro in un contesto difficile e complicato. Dezza ha anche incoraggiato i detenuti a cogliere tutte le positive proposte che sono rivolte loro e ad avviare un cammino di autentica ricerca. Un ringraziamento è stato infine poi rivolto agli operatori di polizia penitenziaria, agli educatori e alle persone detenute che hanno collaborato alla realizzazione dei nuovi spazi. Pistoia. L’attore Alessio Boni entra in carcere per girare un “corto” con i detenuti di Stefano Di Cecio reportcult.it, 9 ottobre 2019 Un progetto non solo artistico e cinematografico, ma anche sociale e culturale. L’associazione Teatro Electra di Pistoia, diretta da Giuseppe Tesi, ha organizzato l’incontro che si è tenuto fra i detenuti della Casa Circondariale di Pistoia e Alessio Boni, noto attore di cinema, teatro e televisione. L’iniziativa nasce all’interno di un progetto di Electra Teatro che intende portare le testimonianze dei detenuti, le loro esperienze e il loro vissuto all’esterno del carcere grazie alla realizzazione di un cortometraggio che possa arrivare a un pubblico vasto. Durante un briefing che si è svolto prima dell’incontro con i detenuti emerge che il “dentro” e il “fuori” sono realtà molto diverse fra loro. Il “fuori” ha una naturale predisposizione a dimenticarsi di quelli che sono “dentro” quasi fossero “rifiuti speciali” da dimenticare, un “contenitore di disagio” dice il Commissario Capo Mario Salzano. Ben diversa invece è la realtà: ferma restando la condanna per il reato e la sua espiazione, rimane la difficoltà del reinserimento in una vita “normale” che per gli ex detenuti spesso non esiste più. Si arriva così al paradosso che la “rieducazione” demandata al periodo di detenzione si rivela quindi inefficace col rischio che la persona, perché di persone si tratta, torni di nuovo a commettere reati. “Il problema è fuori” dice Alessio Boni, “è lì che devono essere trovate soluzioni. Le risorse sono poche, il lavoro è complesso, il tempo durante la detenzione si dilata e ciò che deve essere fatto non può limitarsi ad un mero riempitivo o passatempo. Bisogna puntare ad un cambiamento reale attraverso una riflessione su se stessi ma poi il “fuori” deve essere capace di lasciare più spazi per la reintegrazione, pena il rischio di far ripiombare le persone in condizioni di ripetere gli errori fatti”. Nell’incontro che si è svolto subito dopo nella palestra della Casa Circondariale Alessio Boni ha stimolato i detenuti con domande e affermazioni precise e puntuali, dimostrando interesse e sensibilità. Anche le domande dei detenuti sono state molte e interessanti, come “quale sia stata la lezione imparata in Africa in Malawi, Mozambico, nelle scuole negli ospedali” o “la differenza tra il carcere visto come attore nei film ed entrando in prima persona in un vero carcere”. Il cortometraggio che verrà realizzato da Electra Teatro avrà come “cornice” il testo di una poesia che consentirà di estrapolare alcuni argomenti sviluppati poi con le testimonianze dei detenuti. Si conta molto sulla sua visibilità e sulla sua diffusione sì da aumentare la sensibilità del “fuori” e renderlo partecipe di questo “mondo a parte”. Il carcere marchia le persone a vita ma, come diceva De André, “se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”. Migranti. Solo tre Paesi aderiscono all’accordo di Malta di Carlo Lania Il Manifesto, 9 ottobre 2019 E la Germania avverte: “Se aumentano gli sbarchi ci ritiriamo”. La variabile che potrebbe far saltare tutto è il numero degli sbarchi: finché rimarrà basso, mantenendosi sui livelli dell’ultimo anno, allora l’accordo sulla distribuzione dei migranti siglato a Malta lo scorso 23 settembre potrà continuare a esistere e funzionare. Ma se gli arrivi dovessero aumentare allora l’intesa, già fragile, salterebbe e i primi a tirarsi indietro sarebbero proprio quei Paesi, come la Germania, che finora l’hanno sponsorizzata. Parlando ieri al termine del consiglio dei ministri dell’Interno di Lussemburgo Horst Seehofer è stato chiaro: Berlino è pronta a fare marcia indietro e “dichiarare che il meccanismo di emergenza è finito se il numero degli arrivi passasse da centinaia a migliaia”. E il ministro tedesco, un ex falco anti-migranti convertitosi all’accoglienza, è uno di quelli che più si è speso per trovare una soluzione che consenta di dividere in Europa quanti sbarcano sulle coste italiane e maltesi. Come sa bene la ministra Luciana Lamorgese che ieri ha incrociato le dita: “Speriamo che non ci siano numeri alti”, si è augurata. “Adesso sono abbastanza limitati, quindi possiamo ancora ragionarci”. Era scontato che non si sarebbe raggiunta un’intesa sulla distribuzione dei migranti, ma il risultato ottenuto ieri a Lussemburgo sembra davvero poca cosa: solo tre Paesi - Lussemburgo, Portogallo e Irlanda - vanno a unirsi a Francia, Malta, Italia e Germania ed entrano così a far parte del gruppo di “volenterosi” disposti ad accogliere i migranti. Per adesso dunque appena sette Stati su 28 (anche se si vocifera di una possibile adesione di Romania, Croazia ed Estonia), meno della metà auspicata dal ministro per l’immigrazione lussemburghese Jean Asselborn, che alla fine non ha nascosto la delusione per le conclusioni del vertice. Dietro il no della maggior parte delle capitali c’è più di un motivo e va oltre lo scarso entusiasmo da sempre mostrato da molti Paesi verso i disperati che cercano rifugio in Europa. Alla scontata opposizione dei quattro di Visegrad - Ungheria, Polonia, repubblica Ceca e Slovacchia (che però potrebbero fornire soldi e funzionari in aiuto ai Paesi di primo arrivo) - si è aggiunta quella di quei Paesi come Grecia, Spagna, Cipro e Bulgaria che pur condividendo il principio di solidarietà alla base dell’accordo, non capiscono perché riguardi solo Italia e Malta visto che il grosso dei migranti arriva sulle loro coste. E per questo vorrebbero che l’intesa venisse estesa a tutto il Mediterraneo. Lo stesso commissario Ue Dimitris Avramopoulos, al suo ultimo vertice visto che dal primo novembre subentrerà la nuova commissione europea, riferendosi alla Grecia ha parlato di una “situazione preoccupante, con 11.500 migranti arrivati a settembre, il dato più alto dall’entrata in vigore dell’accordo con la Turchia”. E a proposito di Turchia, c’è da registrare la richiesta a Bruxelles di un miliardo di euro in più per contenere le partenza dei migranti nel 2020, ma anche l’annuncio fatto da Ankara di una prossima invasione della Siria, che ha risvegliato i timori di una nuova fuga in massa di profughi verso l’Europa, timori che sicuramente hanno condizionato la scelta di alcune capitali. Tra in contrari all’accordo, infine, anche Austria, Slovenia e Svezia e Danimarca. “Bisogna lavorare perché l’accordo abbia una valenza più ampia”, ha proseguito Lamorgese facendo sfoggio di una buona dose di ottimismo su possibili nuove adesioni. Per venerdì a Bruxelles è fissata una riunione tecnica per mettere a punto il meccanismo della distribuzione. Non si parla di quote finché non si avrà il numero esatto dei Paesi aderenti, anche se Francia e Germania si sono impegnate a prendere il 25% di quanti sbarcano. “L’attuazione dell’intesa c’è già, perché i migranti che sbarcano dalla navi delle ong vengono ripartiti”, ha spiegato la titolare del Viminale. Per Lamorgese, infine hanno diritto al ricollocamento tutto i migranti che presentano una richiesta di asilo. Sarà poi il Paese ospitante ad esaminare le richieste e, in caso di risposta negativa, provvedere ai rimpatri. Altro punto di discussione, visto che la Francia vorrebbe ancora accogliere solo quanti hanno un’alta possibilità di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.