Gherardo Colombo: “Il fine pena mai è incostituzionale. Il giudice decida sugli ergastolani” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 ottobre 2019 Oggi alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si comincerà a discutere del “Fine pena mai”: il carcere ostativo che esclude dai benefici carcerari chi si è macchiato di reati di mafia e terrorismo e non collabora con la giustizia. Gherardo Colombo, secondo lei non c’è il rischio che molti possano tornare liberi? “Il carcere ostativo, previsto dall’articolo 4 bis del nostro ordinamento penitenziario, impedisce al giudice di verificare caso per caso se il detenuto possa ottenere benefici. E di valutare se dopo un numero di anni (particolarmente elevato) di pena scontata possa accedere alla liberazione condizionale. Non vedo perché togliere al giudice questa funzione”. Si applica per reati di grave allarme sociale. Il detenuto può riottenere i benefici se collabora. Non basta? “C’è anche chi non può collaborare. Ad esempio chi è dentro da vent’anni, come fa? Oppure chi ha un figlio che vive accanto a un boss mafioso e teme vendette”. Non è una misura voluta da Falcone contro la mafia? “Non so quanto Falcone si sia interessato a questa legge del 1991. Ma il punto è un altro. Perché precludere al giudice la valutazione? E poi ci sono anche una serie di altri reati inclusi nell’elenco. Ad esempio la corruzione”. Che non prevede l’ergastolo… “Però per tutto il periodo della detenzione il condannato per corruzione non può avere permessi, né lavorare all’esterno”. Sorprende che lo dica lei, ex membro del pool Mani Pulite, accusato di essere una “toga rossa” giustizialista… “In realtà sono uscito dalla magistratura 12 anni fa proprio perché credo che il sistema “carcere e basta” non garantisca la sicurezza dei cittadini. Occorre un sistema complessivo che deve puntare al recupero, fondato sull’educazione e sulla prevenzione: è meglio che i reati non siano commessi piuttosto che punire la loro commissione. Invece lo sa quanti sono i detenuti all’ergastolo?”. Quanti? “1.790. E all’ergastolo ostativo, per quel che mi risulta, 1.255. Oltre il 70%. Tra questi ci sono i boss, ma anche i picciotti che, magari a vent’anni, hanno ucciso durante uno scontro a fuoco, e sono passati già trent’anni da allora. Potrà un giudice valutare se possono essere reinseriti nella società? Perché lo può fare per chi ha ucciso la moglie e per loro no? Bisogna far sapere come nasce questa discussione”. Dalla sentenza di Strasburgo in favore di Marcello Viola: condannato per associazione mafiosa, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi… “Esatto. Il 13 giugno la Corte europea dei diritti umani gli ha dato ragione. L’Italia ha impugnato di fronte alla Grande Camera. Se dovesse decidere che il ricorso non è ammissibile la sentenza diventerà definitiva. Peraltro anche la Corte Costituzionale a fine ottobre dovrà decidere sull’articolo 4 bis”. Pensa sia incostituzionale? “Secondo me sì. Le dico una cosa che può apparire scandalosa. Se escludiamo la pena di morte, che per fortuna non esiste più, per certi versi abbiamo reso la legge penale meno liberale di quella elaborata dai fascisti. La Costituzione afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Mi pare che l’ergastolo ostativo contrasti entrambe queste statuizioni”. Contro l’ergastolo. Con le ragioni di Aldo Moro di Franco Corleone L’Espresso, 7 ottobre 2019 La prossima decisione della Corte Europea dei diritti umani che potrebbe rendere definitiva la condanna dell’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione in relazione alle conseguenze dell’ergastolo ostativo ha gettato l’allarme tra le vestali della lotta alla mafia. Non vale la pena replicare alle giaculatorie di chi sostiene che grazie agli impedimenti previsti dall’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario, si favorisce la collaborazione dei mafiosi. Sono di scarso pregio culturale e giuridico. Il tema è chiaro. La legittimità dell’ergastolo per la Cedu è che non sia una pena senza fine e che non vi siano impedimenti assoluti a poter aspirare a una conclusione della detenzione. La norma contestata vieta, non solo per i reati di mafia, ma per molti reati che bulimicamente si sono dilatati nel corso del tempo, al magistrato di valutare persone e casi nella concreta situazione determinatasi negli anni. Solo poche settimane fa Papa Francesco ha affermato in una audizione con il personale che lavora nelle carceri che “l’ergastolo non è la soluzione, ma è il problema” e essere inteso bene ha ripetuto questa frase forte e chiara. L’Università di Ferrara pochi giorni fa ha ospitato un seminario di studiosi del diritto per approfondire le ragioni della civiltà giuridica; in quella occasione ho ricordato le parole di Aldo Moro che affermò che “l’ergastolo privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Ricordo che il Senato della Repubblica nel 1998 approvò un disegno di legge di abolizione della pena dell’ergastolo e mi piace ricordare che il relatore del provvedimento fu Salvatore Senese, fondatore di Magistratura Democratica, recentemente scomparso. Altri tempi? Certo. Più umani, più civili e più intelligenti. Il paradosso è che in Italia diminuiscono gli omicidi e aumentano le condanne all’ergastolo. Il 22 ottobre la Corte Costituzionale dovrà decidere su questo tema e la decisione di Strasburgo avrà un peso rilevante. Suggerisco di leggere il volume che dieci anni fa curai con Stefano Anastasia e pubblicato dalle edizioni Ediesse “Contro l’ergastolo”. Si trovano le ragioni dello stato di diritto contrapposte alle pretese dello stato etico. Oggi si decide se l’ergastolo è “umano” di Luca Rocca Il Tempo, 7 ottobre 2019 È attesa per oggi la sentenza con la quale la “Grande Camera” della Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncerà sull’ergastolo ostativo, più comunemente noto come “fine pena mai”, che prevede per chi è condannato al carcere a vita per reati di mafia o di terrorismo (ma non solo), e non collabora con la giustizia, l’esclusione dei benefìci penitenziari previsti, quali riduzioni di pena, libertà condizionale. Una decisione, quella a cui è chiamata la “Grande Chambre”, che è diretta conseguenza della sentenza con la quale nel giugno scorso la Cedu, pronunciandosi sul ricorso di un ergastolano mafioso e omicida mai pentitosi, Marcello Viola, ha chiesto all’Italia di rivedere il “fine pena mai” perché contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, quello che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Per la Corte europea, infatti, “la mancanza di collaborazione è equiparata ad una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società”, e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all’ergastolo ostativo. Affermazioni che non hanno lasciato indifferente il governo italiano, che ha presentato ricorso affermando che la mafia è una minaccia per la sicurezza italiana, europea ed internazionale, e che la conformità del carcere ostativo ai principi costituzionali è stata confermata più volte dalla Consulta. La preoccupazione è che colpendo giuridicamente il carcere ostativo, i 957 ergastolani condannati per crimini di mafia (ma non solo loro) possano non solo ottenere benefici di legge ma anche chiedere i risarcimenti. Una possibilità che ha indotto più di un magistrato a prendere posizione. Per Nino Di Matteo, oggi alla Procura nazionale antimafia, l’eliminazione del “fine pena mai” rischia “di far realizzare alle organizzazioni mafiose un obiettivo per loro fondamentale”, cioè “un passo indietro complessivo nel sistema di contrasto alle organizzazioni criminali”. Chi conosce “storicamente Cosa nostra”, ha aggiunto il pm, “sa bene che l’unica vera preoccupazione per i mafiosi è proprio l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici”. Ma la pronuncia della Cedu ha scatenato anche le reazioni del big del Movimento 5 Stelle. Per Luigi di Maio, ad esempio, “c’è il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche boss mafiosi e terroristi” e la possibilità di “una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti”, mentre per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, “l’ergastolo ostativo rappresenta un caposaldo della lotta alia mafia e ai terrorismo”, ragion per cui un mancato accoglimento del ricorso avrebbe conseguenze sulle “politiche antimafia e antiterrorismo italiane e sarebbe un errore gravissimo”. Sulla stessa linea Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia: “Se i boss sperano ora di uscire dal carcere, addirittura potendo far causa allo Stato italiano per ingiusta detenzione, è perché l’Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie, salvo poi sdegnarsi quando queste “eccedono” al di fuori dei confini italici, come avvenne per la strage di Duishurg operata dalla ‘ndrangheta in terra tedesca”. Posizione opposta quella dell’Associazione Antigone, che subito dopo la sentenza della Cedu ha dichiarato che “la dignità umana è un bene che non si perde mai”, spiegando che “la Corte ha ribadito un principio che i più grandi giuristi italiani avevano già espresso, ossia che sono inaccettabili gli automatismi (assenza di collaborazione) che precludono l’accesso ai benefici”, in quanto “una persona che dia prova di partecipazione all’opera di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà”. Infine, chiara anche la presa di posizione della Giunta dell’Unione camere penali, secondo cui la sentenza della Cedu ha demolito il sistema del “diritto penale del nemico”, e bene ha fatto, in quanto “in Italia esista una Costituzione che esprime principi, valori e diritti irrinunciabili come quello consacrato nell’articolo 27, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ergastolo, oggi il verdetto Ue: 957 criminali potrebbero uscire di Claudia Guasco Il Messaggero, 7 ottobre 2019 Al momento sono 957 i detenuti in regime di ergastolo ostativo. Mafiosi, ex brigatisti, ma anche condannati per traffico di droga, prostituzione minorile, pedopornografia. Se oggi la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) dovesse respingere il ricorso dell’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 con cui i giudici di Strasburgo hanno dato ragione al boss Marcello Viola - affermando che l’ergastolo ostativo sia contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani che vieta la tortura, i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti - la lotta alla mafia e al terrorismo verrebbe depotenziata. “L’Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie, salvo poi sdegnarsi per stragi al di fuori dei confini italiani come Duisburg”, è l’attacco del presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. “Si dovrebbe lavorare affinché la nostra legislazione antimafia venga recepita da altri ordinamenti nazionali in attesa di una normativa europea contro la mafia. Invece la Cedu vuole impedire che l’ergastolo, senza possibilità di alcun alleggerimento, di alcun beneficio, di alcuno sconto di pena, possa indurre mafiosi ad accettare la possibilità di collaborare con lo Stato, diventando fonti informative importanti per sconfiggere i sodalizi mafiosi”. Il timore concreto, sottolinea Morra, è che bocciando l’ergastolo ostativo “si delegittimi il 41bis, che è un regime carcerario che impedisce al detenuto di continuare a relazionarsi con l’organizzazione di cui era parte”. Insomma, per il presidente della Commissione antimafia bocciare l’ergastolo ostativo “sarebbe un colpo anche alla memoria di Falcone e Borsellino”. Intanto le prime conseguenze della sentenza di giugno si sono già verificate: altri dodici condannati hanno depositato il loro ricorso davanti alla Corte europea, sullo stampo di quello di Viola, mentre 250 ergastolani hanno presentato ricorso al Comitato delle Nazioni unite. Se l’azione dell’Italia venisse respinta, sarebbe un terremoto per l’intero sistema: dovranno essere risarciti tutti i detenuti che ne faranno richiesta e ripensato il sistema del 41bis, regime di carcere duro approvato nell’ambito della legge Gozzini il 10 ottobre 1986 e più volte criticato dalla Corte di Strasburgo. Oggi sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione, tra il 2017 e il 2018 sono stati 111 i membri di associazioni mafiose e 7 i testimoni che hanno scelto di collaborare. Per sperare di ottenere qualsiasi tipo di beneficio, dai permessi al lavoro esterno, i condannati devono non solo dimostrare di essersi incamminati sulla strada della riabilitazione, ma anche di aver tagliato i ponti con gli ambienti criminali di riferimento e collaborare fattivamente con la giustizia. Per la Cedu ciò costituisce un “trattamento inumano ai sensi dell’art. 3”, mentre la Consulta si è più volte pronunciata sul tema ribadendo la costituzionalità ma aprendo la strada a una rivisitazione, tant’è che vi sono stati casi di detenuti che hanno ottenuto la liberazione condizionale per effetto di un percorso rieducativo virtuoso. Adesso però la Corte europea potrebbe forzare la mano e per questo il governo italiano ha presentato il ricorso alla Grande Camera ricordando come il fenomeno mafioso sia la principale minaccia alla sicurezza non solo italiana, ma anche europea e internazionale. Ergastolo ostativo, ecco cosa significa - Il cosiddetto ergastolo ostativo è previsto sulla base della legge n. 356/1992 per l’omicidio volontario aggravato con l’associazione mafiosa in assenza di collaborazione con la giustizia (spesso in regime previsto dall’articolo 41bis). Questa pena è applicata solo per i delitti di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c. p.) e associazione finalizzata al traffico di droga (art. 74 D.P.R. n. 309/1990), sempreché non siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Sostanzialmente per chi è condannato all’ergastolo per reati di mafia e terrorismo non ci possono essere benefici penitenziari come la libertà condizionale senza collaborazione con la giustizia. Ergastolo ostativo: il nuovo cruccio di Di Maio di Giancarlo Guarino lindro.it, 7 ottobre 2019 Dice Di Maio che ora se quella Corte di incompetenti decide contro l’ergastolo ostativo, decine di criminali incalliti, in particolare mafiosi, gireranno liberi per le strade italiane (e forse non solo!) a commettere reati tremendi che più tremendi non si può. Colpisce, come sempre, in questi nostri politici, quello che loro stessi chiamerebbero - dato che parlano più l’inglese dell’italiano - understatement. Per rassicurare gli italiani, che già non hanno abbastanza problemi a cominciare da Renzi che spara addosso al proprio Governo un giorno sì e l’altro pure, si parla appunto di delinquenti incalliti in giro liberi per l’Italia. Cerco di spiegare in poche e, spero, semplici, parole. Da tempo (non è nemmeno colpa di Salvini e perfino nemmeno di Di Maio, ma solo della ignobile assurdità della nostra politica) vige in Italia un “istituto giuridico” che farebbe rivoltare nella tomba il povero Cesare Beccaria, e che fa venire a me, e non solo a me, i brividi nella schiena. La norma è semplice e chiara: se sei un delinquente passibile del cosiddetto 41bis (cioè di un regime carcerario particolarmente rigido (e già su ciò io avrei più di un dubbio, ma tant’è!) e non collabori, cioè se non denunci altri e roba simile, non potrai avere, mai e in nessun caso, né le agevolazioni che tutti i detenuti possono avere, né sconti di pena che i detenuti “collaborativi”, sia pure al 41bis, possono avere. Questa disposizione, rientra in quella categoria di disposizioni che in dottrina (cito ad esempio lo splendido libro di Ennio Amodio, uscito da poco) vanno (ormai si arriva anche a questo) sotto il nome di diritto penale vendicativo. Insomma quella cosa contro la quale si è battuto Beccaria, insegnando al mondo intero quei principi, che sono quelli di elementare umanità ma anche logica: la pena serve a redimere, a tutti i costi bisogna che sia così, non serve solo a punire, cioè a vendicarsi. Insomma, l’idea per cui un delinquente debba ‘marcirè in galera è l’esatto opposto di un sistema giuridico-penale civile. Certo, ci sono (pochi) ordinamenti in cui c’è la pena di morte, che certo riabilitativa non è, ma noi in Italia e in Europa, di queste cose, per fortuna abbiamo perso la memoria: dovremmo vantarcene. Anche quella “corrente” di pensiero giuridico penalistico, che qualche anno fa andava sotto il nome di diritto penale del nemico, è ormai caduta nell’oblio. In questo caso, per di più, il risultato non è soltanto che lo Stato si “vendica”, ma è che lo Stato fa… il delinquente: ricatta, sì, proprio così, ricatta il delinquente, magari un mafioso, dicendogli, badate bene che questo è il punto, non “ti do una pena minore se mi aiuti ad arrestare altri”, ma “ti allevio la pena (che già ti ho data) se mi aiuti a trovare altri delinquenti del tuo stampo”. La cosa non è nuova, e infatti è per questo che il grande giurista di cui sopra emette alti lai di timore, non è nuova perché la Corte europea se ne è occupata molte volte, e da ultimo nel caso Viola, e ha condannato l’Italia per… tortura. Eh sì, tortura, attenti, tortura non perché (come in altri casi dei quali dovremmo comunque vergognarci) i detenuti sono tenuti in celle piccole, umide, sporche, in condizioni inumane, ma perché il condannato è, come dicevo, ricattato e messo in una condizione di disparità rispetto ad altri condannati, magari per crimini molto maggiori, ma che “collaborano” con la Giustizia. Nel caso Viola, infatti, la Corte europea, lo fa notare molto chiaramente, quando ricorda che la non collaborazione può derivare anche da fatti molto seri di pericolo maggiore, e quindi non solo per la fedeltà alla mafia, per esempio. Pensate ai casi in cui il detenuto sa che se “parla” la sua famiglia potrebbe essere sterminata. Voi, parliamoci chiaramente, voi che fareste? Ho citato solo un’ipotesi, ma possono esservene altre e non è giusto, cioè non è equo, che una persona, certamente delinquente disgustoso, sia messo nella condizione di non poter ottenere dei vantaggi, magari minimi, che invece altri possono ottenere, pur avendo commesso delitti più gravi del suo. Non so cosa deciderà la Corte europea nella attesa sentenza definitiva, ma certo che la sentenza Viola andrebbe letta, perché è un piccolo manuale di civiltà e di civiltà giuridica. Non lo dirò mai abbastanza: le pene devono essere certe e certamente scontate, ma la dignità delle persone va sempre e comunque difesa e preservata e, come si dice, “la legge è uguale per tutti”. Permessi ai boss: sperano i Casalesi e Raffaele Cutolo di Mary Liguori Il Mattino, 7 ottobre 2019 Letteratura, cinema, televisione. Oltre gli schermi e le pagine dei best seller, c’erano le aule di giustizia dove, negli ultimi anni, i “super-detenuti” neanche hanno potuto metter piede, garantiti i loro diritti di imputati per mezzo della videoconferenza. Vivono, lontani dai riflettori di Gomorra e, prima ancora, della pellicola diventata un must, “Il camorrista”, in celle di tre metri per quattro, possono parlare coi loro parenti solo per un’ora al mese e sotto il controllo delle telecamere, dormono addirittura con l’obiettivo (a raggi infrarossi) puntato addosso. Azzerare le loro possibilità di comunicare con l’esterno e con altri detenuti; questo l’obiettivo. L’antesignano fu Raffaele Cutolo che, tra isolamento aggravato e 41bis, è con tutta probabilità il boss più isolato al mondo. E poi c’è l’intera cupola dei Casalesi, fatta di gente irriducibile da decenni al carcere duro senza batter ciglio né strizzare l’occhio alla giustizia. Oggi li accomuna un pensiero, un’idea, una speranza. Oggi la Grande Chambre della Corte di Strasburgo esaminerà l’ammissibilità del ricorso del governo italiano contro le concessioni e i permessi ai detenuti all’ergastolo ostativo dopo il caso di Marcello Viola, pluriomicida in cella dal 1990 cui la Cedu ha dato ragione. “Sperano” Francesco Bidognetti, Francesco Schiavone Sandokan e Michele Zagaria. Ché, se s’apre questa breccia, possono infilarci, nel ricorso, anni di istanze per regime detentivo “inumano”, per citare Zagaria, fare causa allo Stato e sperare di passare magari gli ultimi Natali con i loro cari. I diciassette giudici della Grande Camera della Cedu oggi decideranno se l’ergastolo ostativo va rivisto. Ma se anche dovessero sentenziare in questi termini, l’ultima parola su permessi e affini, spetterebbe comunque ai tribunali di Sorveglianza, italiani, cui toccherà di volta in volta pronunciarsi sulle istanze dei capiclan. Senza braccialetti elettronici niente domiciliari di Giacomo Galeazzi interris.it, 7 ottobre 2019 Dal Rapporto sulle condizioni di detenzione emergono i ritardi dell’Italia rispetto al resto d’Europa. Nel sistema carcerario ci sono anomalie che espongono l’Italia a reiterati richiami comunitari e internazionali: il sovraffollamento delle celle e l’elevato numero di persone in custodia cautelare dietro le sbarre. Ma la questione più clamorosa che emerge da “Il carcere secondo la Costituzione” (il 15° Rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia) è la cronica mancanza di braccialetti elettronici. Per la stesura dell’ultima edizione del Rapporto sono state visitate 85 carceri sull’intero territorio italiano prendendo in considerazione tutti i diversi aspetti della detenzione: popolazione detenuta, personale coinvolto, volontari, detenuti stranieri, tipologia di reato, istruzione, misure alternative. Soggetti deboli - Da trent’anni ad Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, aderiscono magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. “L’Italia resta tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva, soprattutto quando gli imputati sono stranieri - documenta Antigone -. In ritardo la fornitura dei braccialetti elettronici. La custodia cautelare in carcere colpisce maggiormente i soggetti socialmente più deboli che incorrono nelle maglie della giustizia”. In carcere da presunti innocenti, quindi. Al 31 dicembre 2018 i detenuti in custodia cautelare in carcere erano 19.565, per una percentuale di detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva pari al 32,8% del totale della popolazione carceraria. Suicidi dietro le sbarre - L’Italia si colloca al quinto posto dei Paesi dell’Unione Europea per tasso di detenuti presunti innocenti. Per i detenuti stranieri la percentuale di custodie cautelari si alza al 38% (tra le donne straniere addirittura al 40,3%). Per i soli detenuti italiani essa è pari al 30,2%. “In sofferenza l’utilizzo dei braccialetti elettronici per mancanza di dispositivi- attesta il rapporto. Ciò non permette così l’uscita di persone per le quali vi sarebbe la concessione da parte del giudice degli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere”. Nel 70 per cento dei suicidi dietro le sbarre, il detenuto era privo di una condanna definitiva, ovvero presunto innocente. Gare d’appalti e forniture - In sofferenza, quindi, l’utilizzo dei braccialetti elettronici per mancanza di dispositivi, che non permette così l’uscita di persone per le quali vi sarebbe la concessione da parte del giudice degli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere. Terminato il 31 dicembre 2018 il contratto con Telecom (che nell’ambito di una convenzione quadro con il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno ha garantito, a partire dal primo gennaio del 2012, la fornitura di fino a 2.000 braccialetti contemporaneamente attivi) non è “tuttavia ancora partita la fornitura di Fastweb, che nel 2017 si era aggiudicata il nuovo bando di gara per oltre 19 milioni di euro (più iva al 22%)”. Il servizio, specifica Antigone, “doveva partire nell’ottobre 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno della nomina della commissione di collaudo”. Cambiamenti legislativi - Negli ultimi dieci anni la percentuale dei detenuti presunti innocenti è stata tendenzialmente in continua diminuzione. All’inizio del decennio (quando le percentuali maggiori di custodia cautelare si riscontravano in Liguria, Campania, Lazio ed Emilia Romagna) aveva in ciò un grande peso il progressivo allontanamento temporale dall’indulto del luglio 2006, che aveva visto uscire dal carcere 26.000 detenuti. Il provvedimento di clemenza, avendo ovviamente riguardato i soli condannati, aveva infatti lasciato un numero percentualmente molto elevato di detenuti senza sentenza definitiva. A partire dal 2013, tra le motivazioni del calo vanno senz’altro annoverati anche i cambiamenti legislativi che hanno limitato le possibilità di ricorso alla custodia cautelare. La stragrande maggioranza degli ingressi negli istituti di pena riguarda persone in custodia cautelare. Riduzione degli ingressi - Su tutto questo si stende la progressiva riduzione degli ingressi in carcere che si avvia proprio dieci anni fa, segno di una diminuzione essenzialmente della quantità degli arresti e dunque della custodia cautelare in carcere. La stragrande maggioranza degli ingressi negli istituti di pena riguarda infatti persone in custodia cautelare. “Ben più raro è l’ingresso in carcere in esecuzione di una sentenza che è stata attesa a piede libero- ricostruisce il Rapporto. Dei 48.144 ingressi in carcere del 2017, ultimo dato disponibile in maniera disaggregata, ben 37.730, pari al 78,4% del totale, ha riguardato persone in custodia cautelare. Non accade questo in altri Paesi europei quali la Francia (dove la percentuale è stata del 57,5%), la Spagna (52,9%), i Paesi Bassi (42%) o la Svizzera (31,3%). Paesi dove è dunque percentualmente più frequente che si attenda la certezza della colpevolezza prima di procedere alla carcerazione”. A fronte di una percentuale tanto alta di ingressi in carcere per custodia cautelare, non si riscontra una corrispondente percentuale nelle uscite. Sempre nell’arco del 2017, solo il 36,1% di coloro che hanno visto aprirsi le porte delle carceri italiane era detenuto in custodia cautelare. Del 32,8% di detenuti non definitivi alla fine del 2018, il 16,5% era in attesa del primo giudizio mentre il rimanente 16,3% era composto da detenuti condannati senza sentenza definitiva, vale a dire appellanti, ricorrenti o detenuti presentanti una posizione mista senza sentenza definitiva. I due gruppi sono stati negli ultimi anni sempre più o meno equamente distribuiti. Consiglio d’Europa - “Se diamo uno sguardo agli ultimi dati pubblicati dal Consiglio d’Europa e riferiti al 31 gennaio 2018, quando la percentuale italiana di detenuti senza sentenza definitiva era pari al 34,5%, vediamo che essa si colloca decisamente al di sopra del valore medio europeo, che era pari al 26% (mentre il valore mediano era addirittura pari al 22,4%)”, puntualizza Antigone. Alla fine del 2017, dei 1.165.339 processi penali pendenti in primo grado il 19% aveva superato la durata di tre anni stabilita quale durata ragionevole massima (era il 18,9% a fine 2016 e il 21% a fine 2015). In 222.372 procedimenti i soggetti coinvolti potevano dunque attivare la cosiddetta Legge Pinto per chiedere allo Stato un risarcimento. Al 31 dicembre 2017, rispetto ai 271.247 processi pendenti in Corte d’Appello, il 39,4% superava la soglia stabilita dei due anni, mentre per la Cassazione (24.609 procedimenti pendenti) la soglia della ragionevole durata di un anno veniva superata nell’1,3% dei casi. Per quanto riguarda invece i 40.151 processi pendenti davanti al Tribunale per i minorenni, era il 14,9% a superare i tre anni di durata. Manconi: “Carcere ambiente patogeno, scatena smarrimento e suicidi” di Lorenzo De Cinque estense.com, 7 ottobre 2019 Di detenzione nel nostro e in altri Paesi ha parlato a Internazionale il sociologo assieme a Michael Flynn di “Global detenction project” e Rony Brauman di “Medici senza frontiere”. Quando una persona sbaglia deve essere punita o aiutata a capire l’errore per poi ritornare cambiata nella società? La coscienza probabilmente sceglierebbe la seconda opzione, l’istinto invece la prima. In un mondo dominato da classi politiche giustizialiste e da società animate da pulsioni di vendetta e discriminazione, il destino dei detenuti sembra essere segnato in partenza. Ancora peggio è quello di coloro che scappano dal proprio Paese in guerra. A parlare di questi temi delicati nella splendida cornice del Teatro comunale di Ferrara, sono stati il sociologo Luigi Manconi, Michael Flynn di “Global detenction project” e Rony Brauman di “Medici senza frontiere”. A coordinare l’iniziativa, invece, il giornalista Marco Damilano de “L’Espresso”. Partendo da un ambito puramente sociologico, Manconi ci spiega come la prigione prenda in possesso l’intero uomo. I detenuti, infatti, “sono anche nella condizione di stranieri e quindi doppiamente dietro le sbarre”. In particolare, il grado di civiltà di una democrazia “è direttamente proporzionale alle pene inflitte ai propri detenuti”. Ma il sociologo poi giunge a tremendi dati reali che riguardano in primo piano il nostro Paese: 60.000 persone recluse con una capienza massima di 50.000, 52 minori da 0 a 6 anni incarcerati insieme alle loro madri, 67 suicidi di carcerati nel 2018 (il più alto dato della nostra storia repubblicana) e 78 poliziotti penitenziari suicidi negli ultimi 10 anni. Questo - ribatte Manconi - “è la prova che il carcere sia un ambiente patogeno che scatena smarrimento e suicidi”. In questo contesto dai toni quasi surreali, si aggiungono i numerosi detenuti stranieri di cui i media deformano i numeri, che in realtà si attestano intorno al 30%. E sono proprio loro i protagonisti di uno strappo a livello giuridico dai livelli inauditi. “Con la legge Turco-Napolitano del 1998 - spiega il sociologo - vennero istituiti i cosiddetti Cpd (centri di permanenza temporanea), nei quali si concentravano esseri umani non responsabili di nessun reato, ma solo di irregolarità amministrativa. Quest’azione, quindi, andò contro i principi dell’articolo 13 (“Qualsiasi privazione di libertà deve essere motivata dalla violazione della legge…”) ma soprattutto fu un’azione che si concentrò esclusivamente su una categoria, ossia quella degli stranieri”. Con il tempo, i Cpd hanno cambiato nome, tempistiche e modalità, ma le funzioni sono rimaste le stesse. Un altro fenomeno che si sta verificando in Italia è la figura del carcere come sostitutiva di quella di welfare. Per Manconi, si è di fronte a “una crisi dello Stato sociale che non assicura più una tutela”. L’errore, in particolare, sta anche nell’affidarsi ad associazioni private che “non possono essere sostituite dalla mano pubblica che rimane imparziale”. Se ci rapportiamo, invece, al mondo intero ci appare una situazione ancora più drammatica. Se Michael Flynn si concentra sull’esternalizzazione della detenzione in cui non troviamo più un solo Stato a gestire i detenuti, Rony Brauman di “Medici senza frontiere” ci parla della sua esperienza sul campo. Per lui, la detenzione assume sfaccettature del tutto diverse a seconda di ogni parte del mondo. Si parla di un orfanotrofio in Sudan dove, leggendo i registri, vengono accolti più di 500 bambini all’anno e di questi il 75% muore. “Un vero e proprio campo di sterminio per bambini - commenta il medico - la cui unica colpa è essere nati fuori dal vincolo matrimoniale. A questi episodi non vanno dimenticati molti ospedali in Francia durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, in cui le persone rimanevano senza cibo per giorni e spesso le forze di polizia le maltrattavano”. A tali episodi vanno aggiunte le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versano molti luoghi di detenzione del mondo. “In alcune prigioni russe, ci sono stati casi di infezioni gravissime con conseguenza la tubercolosi. Per non parlare della Costa D’Avorio dove, in determinati periodi dell’anno, all’interno delle carceri scoppiano focolai di colera che colpiscono detenuti e personale”. “È proprio in questi luoghi - continua Brauman - che cerchiamo di agire per migliorare le condizioni di salute e il nostro grande sforzo è quello di far uscire le persone malate per ricoverarle in strutture adeguate. Non è semplice trattare con le autorità, bisogna sempre cercare un compromesso”. Per quanto riguarda, invece, la detenzione di immigrati, il medico propone ancora una strada diplomatica “che convinca lo Stato ad usare metodi alternativi alla detenzione per accogliere queste persone. Inizialmente sono anche d’accordo, lanciano slogan ma non si conclude mai nulla”. Siamo di fronte ad una situazione ricca di problematiche senza ancora soluzioni sufficienti. Probabilmente, la cosa più assurda - come sottolineato anche da Damilano - “sta nella privazione della libertà per quello che si è, e non per quello che si fa. Siamo di fronte al reato dell’essere”. Una constatazione alquanto amara, ma che racchiude in sè tutto il senso di questo incontro che probabilmente ha aperto gli occhi a molti su situazioni di cui si parla ancora troppo poco. La riforma che divide e il silenzio sui problemi delle carceri di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 7 ottobre 2019 La riforma della giustizia disegnata dal ministro Alfonso Bonafede (5 Stelle) sarà uno dei passaggi più delicati della vita del governo Conte bis, sia per l’oggetto che per punti di vista diversi già emersi in fase di discussione fra i due soci più rilevanti della maggioranza, i pentastellati e il Pd. La riforma era già stata pensata sotto il precedente governo. Il guardasigilli ha annunciato che sarà approvata entro fine anno, spacchettata in due disegni di legge: in uno ci sarà la materia penale e la legge elettorale del Csm, nell’altro le norme sul processo civile. I punti condivisi tra M5S, Pd, Leu e Italia viva per quanto riguarda il civile, sono la restrizione della durata dei processi, il miglioramento dei Tribunali fallimentari e il potenziamento delle infrastrutture attraverso l’uso delle nuove tecnologie e l’assunzione di personale. Per la riforma del processo penale, un punto di incontro sono le sanzioni per i pm che ritardano la chiusura delle indagini preliminari, come per i giudici che invece non rispettano i tempi massimi per le sentenze. Pieno accordo anche sul divieto di rientro in magistratura per i magistrati eletti in Parlamento. Le distanze riguardano la riforma del Csm (il Pd è contrario alla parte che prevede il sorteggio per l’individuazione dei magistrati eleggibili) e della prescrizione (entrerà in vigore il 1° gennaio 2020, i democratici non condividono lo stop alla prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio). Problemi anche sul decreto intercettazioni che i 5 Stelle vorrebbero modificare. Il ministro Bonafede in un eccesso di ottimismo ha detto che “con la riforma l’80% dei processi penali finirà entro 4 anni”, senza tener conto della cronica mancanza di personale ad ogni livello nei Tribunali, che rende illusoria perfino l’obbligatorietà dell’azione penale: invasi da faldoni, gli uffici devono fare una selezione dando precedenza ai reati più gravi. Intanto il guardasigilli incassa cinque giorni di sciopero (dal 21 al 25 ottobre prossimi) delle camere penali, contrarie all’abrogazione della prescrizione: “Una delle pagine più sciagurate - scrivono gli avvocati penalisti - della deriva populista e giustizialista del nostro Paese, giacché afferma il principio, manifestatamente incostituzionale, secondo il quale il cittadino, sia esso imputato che parte offesa del reato, possa e debba restare in balia della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda”. Le camere penali hanno criticato anche il Pd per aver formulato sul punto “riserve assai blande, indeterminate nei contenuti e non di rado contraddittorie. È manifestatamente inverosimile il proposito, - proseguono i penalisti - pure sorprendentemente avanzato dal ministro, di un intervento di riforma dei tempi del processo penale prima dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione. È chiaro a tutti gli addetti ai lavori, anche alla magistratura, che l’entrata a regime di un simile aberrante principio determinerebbe un disastroso allungamento dei tempi dei processi, giacché verrebbe a mancare la sola ragione che oggi ne sollecita la celebrazione (la prescrizione, ndr)”. Anche il Csm aveva espresso parere critico alla prescrizione bloccata dopo il primo grado di giudizio (“se ne potrà discutere solo dopo che effettivamente i processi saranno più celeri”) e idee chiare sulle intercettazioni (“andrebbero regolamentate nella loro diffusione a tutela delle persone coinvolte per caso”). Ma dietro le grisaglie governative, la pancia dei 5 Stelle è da sempre giustizialista e il ministro Bonafede non intende certo recedere dal pilastro della prescrizione. Intanto nel dibattito c’è un vuoto: la riforma del sistema penitenziario. I problemi non mancano: sovraffollamento (62 mila detenuti a fronte di 50 mila posti), 63 suicidi nel 2018 (20 volte in più rispetto a chi è nella vita libera), il disagio psichico (ne soffre la metà dei carcerati in Lombardia), il rilancio delle pene alternative che danno risultati molto migliori nel recupero umano del detenuto. Temi impopolari, che la politica affronta sempre con la preoccupazione di non perdere consensi. Il precedente governo aveva come unico progetto la riconversione in penitenziari delle ex caserme. Un gesto umano si potrebbe compiere subito: nelle carceri italiane sono reclusi 52 bambini tra gli zero e i sei anni con le loro 48 mamme. La legge Finocchiaro del 2001 prevedeva la detenzione domiciliare per le madri incarcerate. Basta applicare la norma, non serve un gran coraggio. Ingiusta detenzione. Petrilli scrive a Conte: “6 anni in cella da innocente, voglio 10 milioni” abruzzoweb.it, 7 ottobre 2019 “Spero che il presidente del consiglio Giuseppe Conte riconosca provveda a garantire un diritto fondamentale al risarcimento per l’errore giudiziario commesso dall’allora procuratore del tribunale di Milano Armando Spataro e della corte che mi giudicò”. Lo afferma l’aquilano Giulio Petrilli, ex segretario Rifondazione Comunista nel capoluogo, che ha inviato giorni fa una lettera al presidente del consiglio Conte, di vedersi riconosciuti dieci milioni di euro l’essere stato arrestato nel 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata ( Prima Linea) e poi rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione in giudizio d’appello presso il tribunale di Milano. La cassazione nel luglio 1989, ha poi confermato la sentenza di assoluzione. “Ciò è consentito - spiega Petrilli - in base alla legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati ( legge numero117, del 13 aprile 1988, nel primo comma dell’articolo 4, che prevede di inoltrare il ricorso e la richiesta di risarcimento anche al presidente del consiglio dei Ministri”. “Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria - ricorda Petrilli. Uscito innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa banda armata che prevedeva anche la detenzione nei carceri speciali e sotto regime dell’articolo 90, più duro dell’attuale 41bis. Anni di isolamento totale, blindati dentro celle insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. “Sempre soli con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti ma con i vetri divisori. Dodici carceri attraversati in questi lunghi anni. Ora faccio un’ulteriore richiesta di danni per l’errore giudiziario. Spero che il presidente del consiglio riconosca questo dato incontrovertibile e provveda a garantire un diritto fondamentale”, conclude Petrilli. È più conveniente trafficare in rifiuti che in droga: 690 roghi in 3 anni di Antonio Castaldo e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 7 ottobre 2019 Da pochi giorni si sono spente le ceneri dell’ultimo deposito di rifiuti andato a fuoco. Quello di Codogno, in provincia di Lodi, è il rogo di rifiuti numero 690 negli ultimi tre anni. L’emergenza è nazionale, e l’imperativo del governo è prevenire nuovi incendi. Si pongono però tre domande: 1) per evitare incendi occorre impedire lo stoccaggio nei capannoni e discariche abusive? 2) dove porti i rifiuti non riciclabili? 3) i danni prodotti dai roghi chi li paga? Chi paga i danni? - Il 14 ottobre dell’anno scorso prese fuoco un deposito alla periferia di Milano, e la puzza si sentì fino a piazza Duomo. La “terra dei fuochi” si era definitivamente estesa anche al Nord, con discariche e depositi ricolmi di scorie distrutti da autocombustione o incendi dolosi. La legge prevede che a far fronte alle spese di bonifica sia il proprietario dell’immobile. Ma se non lo fa, interviene la pubblica amministrazione, con i fondi di una fideiussione bancaria. Negli ultimi anni sono state queste garanzie obbligatorie a mitigare i danni. Anche nel caso milanese, la titolare dell’impianto di via Chiasserini aveva presentato una garanzia finanziaria di un milione di euro, ma poco prima del rogo era subentrata un’altra società, che non avendo presentato la fideiussione non aveva titolo ad operare. Quando la Città Metropolitana ha escusso la polizza, è arrivato il ricorso davanti al Tribunale Civile di Milano, che ha bloccato tutto. Ma la bonifica non può attendere i tempi dei tribunali, e per il momento deve pensarci la Città metropolitana di Milano che ha dato inizio ai lavori stanziando 2 milioni di euro. I responsabili irreperibili o falliti - La bonifica di roghi e rifiuti abbandonati sta diventando un corposo capitolo di spesa. Solo la Regione Lombardia negli ultimi anni ha sborsato 12,4 milioni per quattro siti dei quali non è stato possibile risalire al responsabile della contaminazione. Altri 13,5 milioni sono andati a coprire le spese di bonifica di 13 depositi pericolosi per la comunità: in questi casi i responsabili sono falliti o irreperibili, e sarà necessario affrontare un processo per il risarcimento delle spese. Secondo l’ Ispra, ogni tonnellata di rifiuti data alle fiamme produce 1,8 tonnellate di anidride carbonica. Il rogo di via Chiasserini ne ha bruciate oltre 5.000 tonnellate. Quasi tutti questi impianti contenevano scarto non riciclabile del trattamento dei rifiuti, definito in gergo “sovvallo”. Nel 2017 ne sono state prodotte 37,6 milioni di tonnellate. I volumi aumentano sempre di più così come i prezzi di conferimento all’inceneritore. Secondo Borsino dei rifiuti, società di servizi specializzata, ogni tonnellata smaltita costa in media 160 euro, con picchi di 240. Cinque anni fa il costo non superava gli 80 euro. È più conveniente trafficare in rifiuti che in droga - La filiera illegale nata nelle pieghe di quest’emergenza è descritta negli atti dell’inchiesta condotta dalla pm Donata Costa sul rogo milanese del 14 ottobre, il cui processo è alle battute finali: “I produttori di rifiuti li conferiscono ad aziende formalmente munite di autorizzazioni ma in realtà operanti in un regime di illegalità”. In questa fase entrano in gioco i broker specializzati in capannoni industriali dismessi che, come annotano gli investigatori, “vengono stipati di rifiuti senza alcuna precauzione per l’incolumità pubblica”. Secondo la legge se lo spacciatore di droga rischia non meno di 10 anni di carcere, per il trafficante di rifiuti la pena prevede da uno a sei anni. Per il gestore della discarica non autorizzata di via Chiasserini, accusato anche di calunnia, il pm non ha potuto chiederne più di 6 anni e 8 mesi. In sei mesi aveva fatturato 1,4 milioni di euro. Per gli altri imputati, accusati di aver trasportato illegalmente dalla Campania migliaia di tonnellate di scorie plastiche, le pene richieste si aggirano tra i 3 e i 4 anni. La miniera dei capannoni dismessi. I capannoni industriali dismessi sono le praterie su cui scorrazzano i trafficanti. In Veneto sono quasi 11mila, e il Veneto importa oltre 4,3 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno da altre regioni. La Lombardia 11,7. Insieme all’Emilia Romagna, attraggono il maggior numero di scorie prodotte in Italia, poiché qui si concentra il maggior numero di impianti di smaltimento, e di capannoni, dove abbondano roghi e abbandoni di enormi cumuli di rifiuti. Nel solo nord Italia, il Noe dei Carabinieri ne ha scoperti 34 in sei mesi. Quasi tutti erano stipati di materiale plastico. Il solito sovvallo. Un tipo di rifiuti non riutilizzabile, e che secondo le aziende di rigenerazione costituisce il 30% del totale. La paura degli inceneritori - L’unica possibile destinazione finale per questa tipologia di scorie è l’inceneritore, o il termovalorizzatore, che bruciando i rifiuti produce anche energia: Brescia alimenta così l’80% del riscaldamento di tutta la città. In Italia ne sono attivi complessivamente 40, contro i 96 della Germania e i 126 della Francia. Nel nostro Paese i timori legati alle emissioni ne ritardano la diffusione. Ma anche le paure andrebbero aggiornate ai nuovi traguardi della tecnologia. Sul tetto del nuovissimo inceneritore di Copenaghen, si potrà sciare: è alto 85 metri, con emissioni molto al di sotto dei limiti di legge. A Bolzano emissioni quasi a zero - Sulle emissioni in Italia abbiamo fatto di meglio con l’impianto di Bolzano, controllato al 100% da una società pubblica, la Eco-center. Utilizza una delle tecnologie più all’avanguardia nel mondo, e l’obiettivo è la copertura dei costi e gli eventuali utili interamente reinvestiti nel sistema. Produce energia elettrica e termica che viene immessa nella rete di teleriscaldamento, ed è in grado di riscaldare 10 mila alloggi e illuminarne 20 mila. Dal camino dell’impianto di Bolzano escono emissioni di gas, idrocarburi e metalli molto al di sotto dei limiti europei. La media dei valori delle polveri sottili totali sono di 0,05 milligrammi per metro cubo, a fronte di un limite europeo di 10. Ugualmente per la diossina: 0,00003 nanogrammi nel 2018, meglio dell’inarrivabile impianto di Copenaghen, che si ferma a 0,002. Il limite europeo è di 0,1. I roghi: diossine fino a 100 volte i limiti - Nei giorni successivi al rogo di via Chiasserini nell’aria si è diffusa una quantità di diossina fino a 100 volte il limite europeo, con un picco 22 volte superiore il valore guida fissato dall’Oms (0,3). “Andrebbe verificato l’impatto epidemiologico di una simile catastrofe”, dichiara Alberto Zolezzi, medico e deputato M5S. “Oltre ai problemi respiratori, a lunga scadenza ci potrebbe essere un picco di malformazioni congenite”. Quindi in attesa che si differenzi di più e meglio, e prima che l’economia circolare diventi una realtà, che si fa? È meglio che i territori sprovvisti adottino qualche impianto modello Bolzano, oppure dobbiamo continuare ad intossicarci di roghi, discariche abusive e camion che vanno su e già per l’Italia? Con buona pace per i trafficanti visto che a nessuno viene in mente di aumentare le pene. In caso di fatto risalente nel tempo esigenze cautelari giustificate con motivazione rafforzata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2019 Cassazione - Sezione II penale- Sentenza 26 luglio 2019 n. 34109. In tema di misure coercitive, l’attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l’attualità e la concretezza delle condotte criminose, onde il pericolo di reiterazione di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp può essere legittimamente desunto dalle modalità delle condotte contestate, anche nel caso in cui esse siano risalenti nel tempo, ove peraltro persistano atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato, con conseguente obbligo del giudice di motivare puntualmente a riguardo, su impulso di parte o d’ufficio. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 26 luglio n. 34109. In tema di misure cautelari, il riferimento in ordine al “tempo trascorso dalla commissione del reato” di cui all’articolo 292, comma 2, lettera c), del codice di procedura penale, impone al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché a una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (si veda la sentenza delle sezioni Unite della Cassazione, 24 settembre 2009, Lattanzi). Ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva - Per l’effetto, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, è necessario indicare gli elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’indagato/imputato, verificandosene l’occasione, potrà commettere reati della stessa specie, mentre non assolve a tale obbligo la motivazione che valorizzasse il tempo trascorso esclusivamente per scegliere una misura cautelare meno afflittiva (si veda sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino, nonché, sezione IV, 28 marzo 2013, Cerreto). Ergo, ne deriva che la necessità di uno specifico apprezzamento in punto di “attualità” impone una “motivazione rafforzata”, per giustificare positivamente l’esigenza di cautela, in caso di fatto risalente nel tempo. Ciò perché, esemplificando, nella normalità dei casi l’attualità del rischio di recidiva, pur in presenza di un pregiudicato e di un fatto grave, sarebbe difficilmente ipotizzabile nel caso di condotta risalente nel tempo (si veda sezione VI, 13 ottobre 2010, Brunella: in tema di esigenze cautelari, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, quanto più ci si distacca dal momento di consumazione del reato e dal contesto che lo ha caratterizzato, tanto più è stringente l’esigenza di una motivazione relativa alla permanenza di una concreta ed effettiva attualità del pericolo di reiterazione, idoneo a giustificare la misura cautelare, che consideri anche aspetti differenti e ulteriori rispetto a quelli propri del fatto in sé considerato e tenga conto, in particolare, delle condotte, dei comportamenti e degli eventi successivi). Il novum normativo della legge 16 aprile 2015 n. 47 - È in questa ottica che va letto il novum normativo introdotto dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove, quanto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga e a quella del pericolo di recidiva è stata prevista l’“attualità”, oltre che la concretezza del pericolo, non dissimilmente a quanto già previsto per l’esigenza cautelare correlata al pericolo di inquinamento probatorio. Infatti, se la concretezza significa esistenza di elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute “occasioni prossime favorevoli”, accreditanti o il rischio della fuga o quello della reiterazione del reato. È chiaro che tale sforzo di motivazione deve essere particolarmente stringente proprio rispetto a vicende risalenti nel tempo; e argomento importante a supporto può rinvenirsi proprio negli elementi qui valorizzati dalla sentenza massimata: acclarata persistenza di atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e/o dimostrata esistenza di collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato (si veda anche sezione VI, 29 novembre 2017, Desiderato e altri). Prescrizione reato: rilevanza della recidiva contestata ma implicitamente riconosciuta Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2019 Recidiva - In genere - Precedenti condanne - Valorizzazione ai fini della esclusione delle attenuanti generiche - Riconoscimento implicito della recidiva - Esclusione - Ragioni - Conseguenze in tema di prescrizione. In tema di recidiva, la valorizzazione da parte del giudice dei precedenti penali dell’imputato ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva contestata in assenza di aumento della pena a tale titolo o di confluenza della stessa nel giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee, attesa la diversità dei giudizi riguardanti i due istituti, sicché di essa non può tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 settembre 2019 n. 38548. Imputato - Recidiva - Riconoscimento - Diniego delle attenuanti generiche - Motivazione - Sufficienza - Esclusione - Effetti sulla prescrizione. La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento, neppure implicito, della recidiva, in assenza di aumento di pena o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee. Per l’effetto, in tal caso, la recidiva non rileva ai fini del calcolo del termine di prescrizione del reato. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 15 maggio 2019 n. 20808. Reato - Estinzione (cause di) - Prescrizione - Recidiva - Mancato aumento di pena - Valorizzazione dei precedenti penali per escludere la concessione delle attenuanti generiche - Rilevanza ai fini del calcolo della prescrizione - Sussistenza. La recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato. (In motivazione, la Suprema corte ha specificato che solo la recidiva contestata ma non valutata in alcun modo ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio, può ritenersi ininfluente sui termini prescrizionali). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 12 luglio 2017 n. 34137. Reato - Estinzione (cause di) - Prescrizione - Recidiva qualificata - Esclusione da parte del giudice - Rilevanza della recidiva nel computo dei termini prescrizionali - Rilevanza - Esclusione. In tema di prescrizione del reato, quando il giudice abbia escluso la circostanza aggravante facoltativa della recidiva qualificata ai sensi dell’art. 99, comma quarto e quinto, cod. pen(a seguito della sentenza della Corte costituzionale n.185 del 2015)., non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell’imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 marzo 2016 n. 9834. Reato - Estinzione (cause di) - Prescrizione - Recidiva - Ritenuta in sentenza per escludere la concessione delle attenuanti generiche - Mancato aumento di pena - Rilevanza ai fini del calcolo della prescrizione - Sussistenza. La recidiva contestata all’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito, mediante riferimento nella sentenza, per determinare il trattamento sanzionatorio, ai precedenti risultanti dal certificato penale, rileva, in quanto circostanza aggravante a effetto speciale, nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 settembre 2016 n. 38287. Calabria. Tre giornate di studi e confronto su ergastolo ostativo e 41bis di Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2019 La trattazione di temi spinosi quali il superamento dell’ergastolo ostativo e del regime di 41bis deve avvenire nella società prima ancora che nelle aule parlamentari ed in quelle dei tribunali. Con le tre, diverse, iniziative che si terranno a partire dal prossimo 9 ottobre e fino all’11 in Calabria, rispettivamente a Cosenza, Reggio Calabria e Catanzaro, in collaborazione con le camere penali, andremo ad approfondire i meccanismi dell’ostatività cercando di sfatare i tanti luoghi comuni allarmistici che stanno occupando il dibattito politico delle ultime ore, con il chiaro obiettivo di condizionare le decisioni che la Cedu (in merito al ricorso presentato dall’Italia avverso la “sentenza Viola”) e la Corte Costituzionale (sul caso Cannizzaro) sono chiamate a prendere. Negli ultimi anni già diverse sentenze emesse dalla Cassazione piuttosto che da singoli, coraggiosi, magistrati di sorveglianza, applicando quanto già contenuto nella stratificazione di norme relative al contrasto delle organizzazioni criminali e terroristiche, avevano riconosciuto la pretestuosità della preclusione automatica ai benefici per i condannati ai sensi del 4bis, riconoscendo il diritto a vedersi riconosciuti i benefici richiesti. Ma le sentenze emesse dai singoli magistrati di sorveglianza o dalla Cassazione pur costituendo importante letteratura giurisprudenziale sono vincolati esclusivamente per il caso specifico sul quale si pronunciano. Con la sentenza “Viola contro Italia”, il 13 giugno del 2019, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha sancito che il fine pena mai senza possibilità di revisione alcuna è un trattamento inumano e degradante. L’ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Convenzione sottolineando l’incompatibilità con la dignità umana che è poi la vera essenza della Convenzione stessa”. Sentenza e data storiche per chi, pur consapevole dei limiti costituzionali delle preclusioni dettate dal 4bis, negli ultimi 15 anni ha dovuto fare i conti con l’inammissibilità di qualsiasi richiesta perché “ostativo ai benefici”. E questa straordinaria sentenza chiarisce anche alcuni aspetti affatto scontati in merito ai capisaldi del 4 bis e della lotta ai fenomeni criminali: 1) non sempre la pretesa collaborazione può essere resa in sicurezza; 2) non sempre alla collaborazione con la giustizia corrisponde un ravvedimento interiore e ad un distaccamento reale dalle organizzazioni; 3) si deve tener conto dell’evoluzione e del cambiamento interiore intervenuti nella persona a distanza di tanti anni dal compimento del reato. E per il prossimo 22 ottobre è atteso anche il pronunciamento della Corte Costituzionale in merito ad un caso analogo il c.d. “Caso Cannizzaro”, seguito dall’avv. Vianello Accorretti, che potrebbe porre fine all’automatismo dell’ostatività e riportare il senso della pena in linea con le finalità costituzionali dettate dall’art. 27. Durante le tre giornate verranno presentati due preziosissimi volumi curati dalla giornalista Francesca de Carolis: “Cento giorni” di Claudio Conte, ergastolano ostativo laureatosi in giurisprudenza all’UniMG, discutendo una tesi sull’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo che gli è valsa la lode accademica; e “Diversamente vivo” di Davide Emmanuello, una raccolta di lettere dal 41bis che testimoniano l’arbitrarietà della proroga indeterminata del massimo regime penitenziario a cui è sottoposto ininterrottamente da oltre due decenni, “senza che vi siano elementi necessari a giustificarne l’applicazione”. Porto Azzurro (Li). “Una buona notizia… per tutti”, torna il teatro in carcere quinewselba.it, 7 ottobre 2019 Proseguono le attività del laboratorio teatrale nel carcere di Porto Azzurro che ha coinvolto anche il Centro diurno di salute mentale e gli studenti. Una mattinata diversa quella che ha visto protagonisti alcuni detenuti del carcere di Porto Azzurro, insieme ad alcune persone del Centro diurno di salute mentale di Portoferraio, gestito dalla cooperativa sociale Altamarea, e alcuni studenti dell’Istituto Pacinotti di Piombino ma che ha coinvolto anche le classi IV e V del Liceo classico dell’Isis Foresi di Portoferraio, che hanno assistito allo spettacolo accompagnate dai docenti Anna Rita Farina e Nunzio Marotti. A riunire insieme sotto un tendone, appositamente allestito all’interno del perimetro delle mura della Casa di reclusione “P. De Santis,” è stata la rappresentazione teatrale dal titolo “Una buona notizia... per tutti”, realizzata anche con il supporto dell’associazione di volontariato Dialogo, attiva da molti anni nel carcere elbano. Come ha spiegato Manola Scali, responsabile del laboratorio di teatro nel carcere elbano “Il carro di Tespi”, la rappresentazione è nata sulla base di testi di scrittura teatrale, che sono stati pubblicati nella primavera 2019 che avevano come tema le riflessioni sulla pena detentiva, testi che hanno vinto il Premio Siae 2018 e che sono poi stati raccolti in una pubblicazione. Lo spettacolo messo in scena venerdì scorso è stato realizzato partendo da La Buona Novella di De André per poi essere rielaborato con l’aggiunta di testi dei partecipanti con la collaborazione dei musicisti Daniele Pistocchi e Valentina Cantini che collaborano con il laboratorio teatrale del carcere. Pistocchi e Cantini hanno anche scritto e musicato una canzone dedicata ai detenuti del carcere elbano dal titolo Dal fondo del pozzo. Durante lo spettacolo i protagonisti hanno letto alcuni dei loro pensieri sul tema “Il mio giardino segreto”, in molti casi, raccontando anche spaccati importanti e privati della loro vita e della loro condizione. La realtà carceraria di Porto Azzurro da molti anni è all’avanguardia per le numerose attività di collaborazione con il mondo esterno, delle scuole e del lavoro, anche grazie al supporto del volontariato. Sono già iniziate le attività del laboratorio teatrale dell’anno 2019-2020 e il gruppo lavorerà sulla figura di Caino e le figure di Caino e Abele nella storia, preparando un altra rappresentazione teatrale. Il laboratorio teatrale nel carcere di Porto Azzurro è sostenuto dalla Regione Toscana. Manola Scali alla fine dello spettacolo ha sottolineato che tutto ciò è stato possibile grazie al sostegno ricevuto dalla direzione del carcere, dalla comandante e dagli agenti delle polizia penitenziaria e dalle educatrici. Civitavecchia (Rm). Le pigotte sono “made in carcere” di Milena Castigli interris.it, 7 ottobre 2019 Il Comitato Unicef Civitavecchia per le donne nelle case di reclusione cittadine. Nella mattinata di venerdì l’evento “Made in carcere - New Philosophy and Life Stile” svoltosi presso la casa circondariale di via Aurelia Nord degli Istituti Penitenziari “G. Passerini”, è intervenuto come relatore il noto stilista a livello internazionale Santo Versace sul tema “Nuove prospettive per il lavoro detentivo presso la Casa Circondariale di Civitavecchia”. Le detenute della struttura penitenziaria hanno realizzato le splendide pigotte dell’Unicef che sono state consegnate alla responsabile del Comitato Unicef di Civitavecchia Pina Tarantino, a conclusione del progetto che da anni coinvolge le due realtà carcerarie civitavecchiesi. “Questo evento - ha commentato Tarantino - rappresenta un profondo significato educativo e personale per tutti, in particolare per le ospiti della struttura penitenziaria che hanno la possibilità di interloquire con il mondo esterno recependo appieno l’importanza e la vicinanza al prossimo, di cui si sentono parte integrante”. La storia della pigotta - La pigotta in varie zone della Lombardia, indicava una bambola di pezza fatta in casa, con materiali poveri (avanzi di tessuto e lana). Oggi è un gioco registrato dall’Unicef per sostenere l’infanzia nei paesi in via di sviluppo. Nel 1988 Jo Garçeau, membro del Comitato Unicef di Cinisello Balsamo, creò la prima Pigotta a scopo umanitario. Da allora chiunque può creare una di queste bambole in modo autonomo (l’Unicef fornisce un cartamodello utilizzabile per la forma del corpo ma tutto il resto è lasciato alla creatività di chi la confeziona). Ogni Pigotta è corredata da una cartolina identificativa e viene adottata. Chi adotta una Pigotta contribuisce a tutte le attività che l’Unicef svolge a favore dell’infanzia (vaccinazioni, alimenti terapeutici contro la malnutrizione infantile). Nei primi 18 anni l’Unicef ha raccolto, attraverso la vendita delle Pigotte, 27 milioni di Euro. Porto Azzurro (Li). Sarà possibile sposarsi nella chiesa del carcere di Paolo Biagioni quotidiano.net, 7 ottobre 2019 Il direttore D’Anselmo: “Il catering sarà curato dai detenuti”. Aprire all’esterno la seicentesca chiesa di San Giacomo, situata nell’omonimo forte che ospita il carcere, della quale riprenderanno a giorni i lavori di restauro. Il tutto ripristinando la vecchia tradizione della messa domenicale alla quale, insieme ai detenuti, può assistere anche la popolazione, e, soprattutto, offrendo la possibilità di celebrarvi i matrimoni con l’offerta di un ‘pacchetto’ comprensivo del catering a cura dei detenuti. È questo il progetto al quale sta lavorando il direttore dell’istituto di pena Francesco D’Anselmo che ha accettato di illustrarlo al nostro giornale facendo il punto della situazione anche sui lavori di restauro della chiesa, splendido esempio di arte barocca, unico sull’isola. Direttore, come è nata l’idea dei matrimoni in carcere? “È nata pensando a come aprire ulteriormente l’istituto all’esterno e a dare ai reclusi ulteriori possibilità di lavoro facendo realizzare ad essi il banchetto dopo la cerimonia nella chiesa. Ed anche per offrire un’ulteriore opportunità di fare turismo al paese di Porto Azzurro nei mesi di media e bassa stagione perché i matrimoni di solito vengono celebrati in periodi diversi dall’estate”. C’è già un’idea sull’allestimento del ‘pacchetto’ da offrire agli sposi? “Cerimonia nella chiesa a parte, abbiamo già localizzato le possibili location per il catering che sono l’area verde nella cittadella che ha spazi che si prestano bene allo scopo e la zona del ‘Belvederè, solitamente utilizzata dal personale per cene ed altri eventi conviviali”. I lavori di restauro della chiesa come procedono? “I lavori erano iniziati 5 mesi fa dopo il reperimento della copertura finanziaria messa a disposizione per il 70% dalla Fondazione Terzo Pilastro di Roma attraverso una donazione voluta dal professor Emmanuele Emanuele e per il 30% dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Si erano pero fermati dopo una ventina di giorni perché mancavano alcune indicazioni della soprintendenza, dato che si tratta di un bene vincolato. Adesso è tutto a posto ed a breve ripartiranno”. È possibile anticipare una loro tempistica? “Contiamo di finire le opere esterne entro dicembre. Per fare il tetto ci vorrà circa un mese. Ed anche la realizzazione degli intonaci esterni, con i ponteggi già montati, dovrebbe richiedere un tempo limitato. Dopo bisognerà intervenire all’interno della chiesa per riprendere i punti danneggiati dalle infiltrazioni dal tetto, rifare la tinteggiatura ed altre opere di abbellimento. Dovranno essere posizionati i nuovi infissi che verranno realizzati dalla falegnameria del carcere. È probabile che per Pasqua si riesca a celebrare la prima messa”. Via libera dagli Usa, le truppe turche entreranno a breve nel Nord-Est della Siria di giordano stabile La Stampa, 7 ottobre 2019 Operazione contro i curdi delle Ypg. Washington: ritirati i nostri soldati dalla zona. Recep Tayyip Erdogan ha lanciato un’operazione nel Nord-Est della Siria contro i guerriglieri curdi delle Ypg. L’invasione di terra, annunciata più volte negli scorsi mesi e con più insistenza negli ultimi giorni, è di fatto cominciata questa mattina, quando l’esercito turco ha spostato truppe, tank e veicoli corazzati verso il confine e la Casa Bianca ha reso noto che la Turchia “lancerà presto un’operazione militare nel Nord-Est della Siria da tempo programmata” e che le truppe americane non saranno più “nell’area circostante”, cioè verranno ritirate. Verso il ritiro Usa dalla Siria - “Le forze armate degli Stati Uniti non sosteranno questa operazione e, avendo sconfitto il califfato territoriale dello Stato Islamico, non saranno più nell’area circostante”, ha precisato la dichiarazione della portavoce Stephanie Grisham. La decisione è arrivata dopo di una telefonata tra Donald Trump ed Erdogan. I due leader hanno discusso del conflitto in Siria e stabilito di incontrarsi a novembre a Washington. Nella dichiarazione Grisham ha aggiunto che da ora non poi sarà laTurchia, e non gli Stati Uniti, “a essere responsabile per tutti i combattenti dell’Isis” provenienti da “Francia, Germania ed altre nazioni europee” che sono stati “catturati negli ultimi due anni dopo la sconfitta del califfato territoriale a opera degli Stati Uniti”. Il destino dei jihadisti dell’Isis - Il Nord-Est della Siria, un’area di circa 50 mila chilometri quadrati, un quarto del Paese, è passato nel 2013-2014 sotto il controllo dello Stato Islamico. L’intervento degli Usa al fianco dei guerriglieri curdi delle Ypg ha permesso di sconfiggere i jihadisti e liberare Raqqan nell’ottobre del 2017 e poi tutta la regione. Migliaia di terroristi e loro famigliari sono detenuti in prigioni e soprattutto nel campo profughi di Al-Hol, controllato dai combattenti curdi. Erdogan però considera le Ypg l’estensione in Siria del Pkk e quindi una “organizzazione terroristica”. Dopo aver minacciato un intervento più volte il leader turco ha raggiunto un accordo con Washington per istituire una “zona cuscinetto” profonda 30 chilometri senza presenza di guerriglieri curdi. Ieri ha dichiarato che un intervento militare sarebbe potuto arrivare “già oggi o domani” e ha che la Turchia è costretta ad intervenire per tutelare la propria sicurezza e far tornare al più presto a casa i profughi siriani. I curdi: pronti alla guerra totale - I curdi delle Ypg hanno replicato che se le truppe turche entrano “sarà guerra totale”. Venerdì scorso funzionari anonimi del Pentagono e del Dipartimento di Stato hanno rivelato al Wall Street Journal che “ci sono segnali evidenti” che l’operazione è prossima: “È una tempesta perfetta, davvero brutta: non avremmo altra scelta che ritirarci”. Gli Usa hanno ancora 1.100 militari nella zona ma a questo punto è chiaro che Trump ha scelto di cedere il controllo dell’area alla Turchia e per i guerriglieri curdi le prospettive sono preoccupanti. Erdogan ha anche annunciato la creazione di nuove città e villaggi dove reinsediare un milione di rifugiati siriani arabo-sunniti per trasformare i curdi in una minoranza lungo la frontiera. La politica di arabizzazione dei territori curdi e annessione strisciante alla Turchia marcia già a pieno regime nel Nord-Ovest della Siria, dove apriranno tre facoltà dell’università di Gaziantep e da dove i curdi vengono espulsi. Egitto. Oltre 2mila arresti dal 20 settembre. E intanto il mondo tace di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2019 Nei 12 giorni successivi al 20 settembre, inizio delle proteste che hanno nuovamente scosso l’Egitto, sono state arrestate oltre 2,3mila persone: manifestanti fermati in piazza, persone prese a caso ai posti di blocco istituiti nelle principali città del paese, ma anche “bersagli” più specifici quali avvocati per i diritti umani, giornalisti, attivisti ed esponenti politici. Pochi da allora sono stati i rilasci. Secondo il Centro egiziano per i diritti economici e sociali, almeno 2285 arrestati sono oggetto di sei separate inchieste ma ben 2268 di loro sono indagati nell’ambito del caso 1338/2019 per “assistenza a un gruppo terrorista” e “diffusione di notizie false”: ciò vuol dire che, se si arriverà a giudizio, il mondo assisterà al più grande procedimento penale della storia egiziana per fatti relativi a manifestazioni di piazza. Tra gli arrestati, ci sono oltre 110 minorenni di età compresa tra 11 e 17 anni. Almeno 69 di loro rischiano di essere incriminati per “appartenenza a un gruppo terrorista” e “uso inappropriato dei social media”, anche se è emerso che molti di loro non hanno neanche un telefono cellulare. Quanto agli arresti “mirati”, sono finiti in carcere 10 giornalisti e 16 avvocati. Uno di questi ultimi è Mohamed el-Baqer, avvocato e direttore del Centro “Adalah” per i diritti e le libertà. Il 29 settembre è entrato nel palazzo della procura suprema per la sicurezza dello stato per assumere la difesa dell’attivista Alaa Abdel Fattah ed è stato raggiunto dalle stesse infondate accuse mosse al suo cliente: “appartenenza a un gruppo illegale” e “diffusione di notizie false”. Proprio la situazione di Alaa Abdel Fattah rappresenta uno degli aspetti più crudeli e inquietanti della repressione in corso: l’arresto di ex prigionieri sottoposti alla misura cautelare della permanenza notturna nelle stazioni di polizia. Alaa Abdel Fattah, attivista politico e ingegnere informatico salito alla ribalta durante la rivolta del 2011 che depose Hosni Mubarak, è stato arrestato il 29 settembre. Aveva già scontato un’ingiusta condanna a 5 anni per aver preso parte, nel 2013, a una protesta pacifica. Al momento dell’arresto era sottoposto all’obbligo di permanenza notturna di 12 ore per cinque anni nella stazione di polizia di Dokki, al Cairo. Mohamed Ibrahim, fondatore del noto blog “Ossigeno Egitto”, è stato nuovamente arrestato il 21 settembre per aver postato video delle proteste mentre era sottoposto alla medesima misura cautelare in una stazione di polizia del Cairo. Dall’inizio delle proteste il presidente Abdel Fattah al-Sisi, il procuratore generale, il Servizio statale per le informazioni e svariati organi di stampa filo-governativi hanno cercato di screditare manifestanti ed esponenti politici definendoli “islamisti” o “terroristi”. Comunicati stampa di organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani, tra cui la stessa Amnesty International, sono stati definiti “politicizzati” e infondati rispetto alle denunce di violazioni dei diritti umani ai danni di centinaia di cittadini egiziani. Il mondo, nel frattempo, tace. E dunque approva. *Portavoce di Amnesty International Italia Gli eritrei: “L’Onu liberi i nostri connazionali in Libia” africarivista.it, 7 ottobre 2019 Centinaia di eritrei hanno manifestato fuori dal quartier generale delle Nazioni Unite chiedendo il rilascio dei loro connazionali ancora rinchiusi nelle carceri libiche. Migliaia di africani, compresi molti eritrei che continuano a fuggire dal loro Paese, si trovano imbottigliati in Libia. Dopo aver percorso centinaia di chilometri a piedi o con mezzi di fortuna, vengono imprigionati in terribili campi di detenzione sotto il controllo delle milizie che rispondono ai governi di Tripoli o di Bengasi. Molti di essi inviano chiamate di aiuto sui telefoni cellulari ai loro familiari rifugiati in Europa. E le famiglie, quando possono, inviano loro i fondi per pagare il riscatto e farli fuggire. “Ho parlato con alcuni migranti eritrei tre settimane fa. Erano stati catturati dalle milizie. Non ho idea di cosa sia stato fatto loro successivamente”, afferma ai microfoni di Rfi, Tewodros Eyasu. Questo ex rifugiato eritreo, ora in Svizzera, deplora l’inazione della comunità internazionale. A suo parere non esiste la volontà di evacuare i migranti dalla Libia pur sapendo che gran parte di essi vengono torturati dalle milizie. Questa posizione è condivisa da Zewdi Tesfa Mariam. Anche lei di origine eritrea, afferma di aver ricevuto decine di terribili video inviati dai compatrioti prigionieri. “Ci sentiamo impotenti. Che cosa possiamo fare quando vediamo immagini di connazionali imprigionati e torturati? Che cosa possiamo dire di fronte a questa tragedia? L’Europa vive con campi di concentramenti a poche centinaia di chilometri dalle sue coste. Come può accettarlo?”, dice Zewdi. Simone è tra quelli che sono riusciti a fuggire dalla morsa delle milizie libiche in cambio di un riscatto. “Siamo stati nelle loro mani per quasi un mese e mezzo. Eravamo nel mezzo del Sahara, senza nulla. Un bicchiere d’acqua al giorno. Non ho parole per spiegare la situazione che si vive in quei luoghi”, osserva. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), gli eritrei sono tra quelli che hanno le maggiori probabilità di morire durante la traversata del Mediterraneo anche perché, a causa della loro fede e della loro storia, sono quelli che subiscono il maggior numero di abusi rispetto agli altri migranti.