I diritti di vittime e carnefici di Liana Milella La Repubblica, 6 ottobre 2019 I diritti contano, è fin troppo ovvio. Ma tra i diritti delle vittime e quelli dei carnefici quali contano di più? Non solo: chi, come scelta di vita, decide scientemente di perseguire lo stragismo, mafioso o terroristico che sia, può poi rivendicare per sé i medesimi diritti che spettano a ogni altro uomo che non abbia tenuto comportamenti così devastanti per la vita di tanti innocenti? Bisogna partire da qui per capire chi ha ragione sull’ergastolo “ostativo”. Locuzione difficile per i non addetti ai lavori, che vuol dire semplicemente questo: se hai commesso un delitto gravissimo e sei stato condannato all’ergastolo, cioè al cosiddetto “fine pena mai”, e appartieni a un’organizzazione mafiosa o a un gruppo terroristico, non potrai ottenere e godere dei benefici penitenziari come gli altri detenuti “normali” finché non avrai deciso di dimostrare una reale collaborazione con lo Stato. Un comportamento, cioè, che equivalga a una rottura definitiva con il passato, tale per cui un passo indietro non sarà mai più possibile, pena la vendetta dell’organizzazione di cui hai fatto parte. Norma “sacrosanta”, dicono magistrati antimafia come Nino Di Matteo e Federico Cafiero De Raho. Norma “inaccettabile” ribattono garantisti come Luigi Manconi. Norma che, se cancellata, produrrebbe “conseguenze gravissime” nella lotta alla mafia, come si affanna a dire da giorni il Guardasigilli Alfonso Bonafede che è in allarme per l’imminente decisione della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo proprio sull’ergastolo ostativo. E che, come dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, comporta “il serio rischio di far uscire dal carcere anche boss mafiosi e terroristi”. Di certo, se la norma dovesse cadere si aprirebbe un fronte favorevole ai 957 detenuti oggi trattenuti con l’ergastolo ostativo per i loro crimini da cui certo non si sono dissociati. E perché rappresenterebbe di fatto quel cedimento dello Stato che Totò Riina, indiscusso capo di Cosa nostra fino alla sua morte, chiese nel noto “papello” del 1993, nelle sue condizioni allo Stato per porre fine alle stragi di mafia, dagli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alle bombe di Roma, Firenze e Milano, alla programmata strage dell’Olimpico, alla bomba in un tombino per Piero Grasso. Eppure la Cedu a giugno ha già deciso contro l’ergastolo ostativo. L’Italia ha presentato ricorso. Domani la Grand Chambre, la Cassazione della Cedu, dovrà pronunciarsi. Scatta l’allarme di chi per una vita ha indagato sulla mafia. Perché non v’è dubbio che i mafiosi temono proprio l’isolamento dell’ergastolo, la negazione di quei benefici - permessi premio, lavoro esterno, misure alternative - che permetterebbero di proseguire i contatti con l’organizzazione, perfino di comandarla. Qui si torna ai diritti, che sicuramente spettano a ogni essere umano, anche detenuto, ma solo se non diventano un’offesa per le vittime. Chi ha visto cadere i propri cari per mano mafiosa ha diritto di veder scontare una pena rigorosa. Che si può interrompere, come prevede oggi la legge, ma solo dopo comportamenti che azzerano il passato criminale. Più ergastolo ostativo e carcere duro, più cultura mafiosa di Carmelo Musumeci osservatoriorepressione.info, 6 ottobre 2019 “L’ergastolo ostativo è questo: una morte a gocce che annienta la speranza di costruire un futuro, l’idea di poter scegliere una nuova strada - diversa - da intraprendere. La gente lo sa cosa accade dentro il carcere? Mi sono chiesto tante volte. La risposta è no. Ed è per questo che ho cominciato a scrivere, a raccontare cosa accadeva in quelle mura, alte, protette dalle sbarre. La speranza non andrebbe mai negata a nessuno: molti giovani ergastolani, entrati in carcere all’età di 18/19 anni senza poterne più uscire, potrebbero essere salvati”. (“Illuminato Fichera: la libertà nell’era del carcere”, di Daniel Monni e Carmelo Musumeci). Leggo che alcuni europarlamentari italiani hanno dichiarato: “Ci appelliamo al buon senso dei giudici affinché nessun passo venga fatto verso l’abrogazione dell’ergastolo ostativo, una norma che prevede il carcere a vita e il divieto di benefici detentivi per mafiosi, terroristi e stragisti che non abbiano compiuto un percorso di collaborazione”. Rimango sempre meravigliato dell’ignoranza di alcuni politici che invece di lottare per sconfiggere la cultura mafiosa la diffondono e la incrementano. Molti di loro non hanno ancora capito che certi fenomeni criminali non si estirpano solo militarmente ma dando speranza e perdono sociale, per tentare di sconfiggere, o limitare, certi fenomeni criminali. Queste dichiarazioni mi fanno sospettare che la pena dell’ergastolo serva più alla politica per fare finta di lottare contro la mafia che alle vittime delle organizzazioni mafiose. Io penso che nessuna persona dovrebbe essere condannata e maledetta ad essere cattiva e colpevole per sempre, perché la pena dell’ergastolo rende ingiusta e crudele la giustizia più della pena di morte. Credo che una società abbia diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma che sia altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di chi vuole punire. Purtroppo, con l’ergastolo ostativo, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena. Credo che la legalità e la fiducia prima di pretenderle bisogna darle, perché è difficile cambiare e migliorare con uno Stato che ti tortura con il regime del 41bis e ti dà una pena che non finisci mai da scontare. Posso dire che per me è molto più “doloroso” e rieducativo adesso fare il volontario in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da Don Oreste Benzi) che gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41bis. Trattato in quel modo dalle Istituzioni, mi sentivo innocente del male fatto; ora, invece, che sono trattato con umanità, mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo potrebbe accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale. Sono convinto che anche il peggiore criminale, mafioso o terrorista, potrebbe cambiare con una pena più umana e con un fine pena certo. Non può essere giusto il solo mezzo della collaborazione per uscire dal carcere. Molti non sanno che tanti capi delle organizzazioni mafiose hanno collaborato usando la giustizia per uscire dal carcere, mentre altri non possono farlo, o perché sanno poco o per non mettere a rischio i propri congiunti. Alcuni politici si permettono di parlare a nome delle vittime dei reati, io penso che molte di loro non si accontenterebbero di veder marcire i loro carnefici in carcere ma vorrebbero che uscisse loro il senso di colpa per il male fatto (forse per farli soffrire di più), ma questo può accadere solo se la pena dà una speranza e aiuta a cambiare. “Viola v. Italia”, la lotta alla mafia si fa con il reinserimento di Maria Brucale* Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2019 Il sette ottobre Strasburgo deciderà sulla ammissibilità della richiesta, formulata dal governo italiano, che sul ricorso “Viola v. Italia” decida la Grande Camera. Il governo ha, infatti, contestato la pronuncia del 13 giugno scorso con cui, in piena coerenza con la giurisprudenza ormai costante, la prima sezione della Cedu ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della convenzione da parte dell’Italia laddove non consente ai condannati all’ergastolo per i reati di cui all’art. 4bis O.P. di aspirare alla libertà se non collaborano utilmente con la giustizia. Ha chiarito, la Corte, che permane l’importanza e l’utilità della scelta collaborativa da parte della persona detenuta ma che, al contempo, non è legittimo ritenere la stessa unico strumento idoneo a dimostrare l’intervenuta dissociazione del ristretto dal contesto criminale di appartenenza, l’unico mezzo per comprovare il compimento di un percorso di rivisitazione critica del proprio vissuto e di un radicale cambiamento. Ha specificato che la persona in carcere deve potere conoscere a quali condizioni otterrà il rilascio e chiarito che a carico dello Stato esistono obblighi positivi di attivarsi perché ai reclusi siano offerti strumenti rieducativi e risocializzanti. Sì attende ora il pronunciamento del panel di Giudici sulla ammissibilità ed è, naturalmente, ripartita la macchina della paura, i noti venti di forca, quelli rassicuranti e ottusi che condannano senza conoscere, che alzano barriere anziché costruire ponti, che individuano i cattivi da abbattere e i buoni per bearsene e della Costituzione amano solo il tricolore. Ma cosa accadrà in concreto se la sentenza “Viola” diventerà definitiva e si porrà a guida interna imponendo la vigenza dei principi in essa contenuti? Nessun timore per le casse dello Stato. Assai raramente Strasburgo concede risarcimenti quando accoglie i ricorsi. Più frequente è che, come accaduto nel caso “Viola”, ritenga adeguata soddisfazione per il ricorrente, l’avere riconosciuto la fondatezza delle sue doglianze. Certo non ci saranno boss mafiosi e terroristi che usciranno dal carcere. Già, perché una persona condannata per mafia o terrorismo non è per sempre un mafioso o un terrorista. Se il carcere ha un senso (e su questo si dovrebbe davvero approfondire una riflessione), dalla reclusione può derivare il distacco del ristretto dal malaffare e la sua restituzione al consesso sociale. Restituzione che non contempla marchi indelebili ma che contiene in sé la cancellazione dell’errore e il diritto all’oblio: ho pagato, il debito è estinto e, dunque, non sono più un debitore. Ci sarà unicamente la possibilità per magistrati e tribunali di sorveglianza di valutare le richieste di benefici penitenziari formulate da qualunque persona, condannata per qualunque crimine. E la valutazione sarà rigorosa e capillare e si fonderà su una istruttoria approfondita che terrà conto dell’osservazione della condotta in carcere, del tenore di vita del richiedente, dei suoi rapporti con la famiglia e con il contesto di origine e delle informazioni fornite dalle Dda delle Procure competenti per territorio cui sarà demandato di documentare la eventuale permanenza di contatti significanti con le associazioni di appartenenza o l’esistenza di situazioni di pericolo attuale per l’ordine e la sicurezza pubblici. I giudici di sorveglianza, dunque, non dovranno decretare la morte in carcere del detenuto non collaborante in virtù di un ex ante normativo automatico (art. 4bis O.P.) svilendo la loro funzione a quella di meccanici passacarte, ma potranno, viva Dio, fare i giudici, valutare le persone, i loro percorsi, il loro cammino, il compimento di un recupero che è il senso costituzionale della pena. E si spera che abbraccino il recupero della loro preziosa funzione anche pretendendo che le informazioni a corredo della presunta pericolosità (una presunzione che si fa via via più labile in rapporto al tempo della partita carcerazione) siano attuali davvero e non si limitino, come troppo spesso accade, a riportare la fotografia in bianco e nero del detenuto al tempo in cui ha commesso il reato. *Avvocato Attenti a togliere l’ergastolo ai boss di Lirio Abbate L’Espresso, 6 ottobre 2019 Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima. La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia. Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riffia, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata. A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi. La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno. Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie. In attesa dell’Europa 250 ergastolani ricorrono all’Onu di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019 Domani i giudici di Strasburgo possono “condannare” il carcere a vita senza permessi per mafiosi e terroristi. Ma il fronte abolizionista guarda già oltre. È allarmato, il procuratore nazionale antimafia: “La nostra attuale legislazione sulla criminalità organizzata ha avuto risultati positivi e ha consentitole collaborazioni di giustizia”, dichiara Federico Cafiero De Raho. “Nel momento in cui dovesse venir meno, se l’ergastolo si trasformasse in una pena diversa, è certo che tutti i risultati positivi fino a ora conseguiti non si avrebbero più”. Il problema è il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè quello regolato dall’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che esclude dai benefici (lavoro fuori dal carcere, permessi premio, misure alternative alla detenzione) i condannati per reati di mafia e terrorismo, ma anche di traffico di droga, pedopornografia e prostituzione minorile, che non diano segnali di aver rotto davvero con l’ambiente criminale collaborando con la giustizia. Sono, al momento, 957. Tra domani e martedì, un’articolazione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) deciderà sul ricorso che l’Italia ha presentato contro una sentenza Cedu del 13 giugno 2019. Quel giorno la Corte ha dato ragione, a maggioranza, al boss mafioso Marcello Viola e condannato l’Italia, ritenendo che l’ergastolo “ostativo” sia contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani che vieta la tortura, i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. La sentenza mette in discussione che la collaborazione con la giustizia sia un indice efficace di avvenuto ravvedimento del detenuto: secondo i giudici, “l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al reale percorso rieducativo”. Lo Stato italiano ha fatto ricorso contro la sentenza Viola e domani o dopo un collegio di cinque giudici deciderà se è ammissibile. In questo caso, a pronunciarsi sarà, entro qualche mese, la Grande Camera, giudice di ultima istanza della Corte europea. Se la decisione finale dovesse essere contraria al cosiddetto “ergastolo ostativo”, l’Italia dovrà risarcire il danno ai singoli ergastolani esclusi dai benefici penitenziari che ne faranno richiesta. Già altri 12 condannati hanno depositato il loro ricorso, simile a quello di Viola, davanti alla Corte europea. Ma, più in generale, l’Italia sarà sollecitata - non obbligata - a modificare le sue leggi e a non considerare più la collaborazione con la giustizia condizione necessaria per i benefici carcerari. Anche i boss più irriducibili potrebbero così ottenerli. A questo si oppone il procuratore antimafia: “Per valutare l’esigenza di mantenere l’ergastolo nei confronti dei mafiosi e dei terroristi”, spiega, “bisogna rivivere quella che è stata la nostra storia e i meccanismi di funzionamento delle organizzazioni mafiose. Chi è mafioso non smette mai di esserlo e la sua pericolosità va calibrata rispetto ai ruoli che ha avuto”. Cafiero De Raho considera l’attuale disciplina italiana sull’ergastolo “un deterrente affinché i mafiosi possano ritornare sul territorio e operare anche dopo stragi e omicidi”, ma anche “l’unico strumento attraverso cui spingere alcuni mafiosi a trovare una condotta di vita diversa. Le collaborazioni spesso hanno trovato origine in condanne all’ergastolo: modificare questa disposizione finirebbe per affievolire l’esigenza degli stessi mafiosi di rinnegare l’ambiente di provenienza”. Durissima anche la Commissione parlamentare antimafia: “La Corte europea deve dichiarare da che parte sta nella lotta alla mafia. Siamo veramente perplessi di fronte alla possibilità che piuttosto di ragionare di una legislazione europea, efficace e severa, che non conceda tregua ai mafiosi, gli stessi abbiano la concreta possibilità di fare causa allo Stato. L’Italia ha una delle migliori e più efficaci legislazioni nel contrasto alla criminalità organizzata e l’Europa non può che apprendere da noi”. Sulla questione sono intervenuti Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio: “L’ergastolo ostativo - ribadisce il ministro della Giustizia - rappresenta un caposaldo della lotta alla mafia e al terrorismo. “Ne va della sicurezza di tutta l’Europa”, ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri e leader M5S. A pronunciarsi su questa materia sarà anche la Corte costituzionale italiana, il 22 ottobre: il caso è stato posto a proposito di un condannato per associazione mafiosa, Sebastiano Cannizzaro, e la Corte dovrà decidere se sia incostituzionale la carcerazione che esclude i permessi premio e dunque la possibilità di uscire. L’associazione Nessuno tocchi Caino, che si batte contro “l’ergastolo ostativo”, ha intanto promosso un ricorso collettivo sottoscritto da oltre 250 condannati con “Fine Pena Mai” - primo firmatario: Claudio Conte - e l’ha presentato al Comitato diritti umani delle Nazioni Unite. “Il Comitato Onu non emette sentenze vincolanti dal punto di vista giuridico” - spiega l’avvocato Andrea Saccucci - “ma il nostro ricorso dovrà essere preso sul serio perché l’articolo 117 della Costituzione impegna l’Italia a conformare la sua legislazione alle disposizioni internazionali”. Ergastolo ostativo. Di Maio avverte la Corte europea: serio rischio boss in libertà di Claudia Guasco Il Messaggero, 6 ottobre 2019 Domani la decisione sul ricorso del governo italiano a Strasburgo contro la pronuncia di giugno. La decisione prevista domani dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sull’ergastolo ostativo, pone “il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche boss mafiosi e terroristi” e la possibilità di “una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti”. Lo afferma il ministro degli Esteri e capo del M5S Luigi Di Maio su Facebook sottolineando che “è doveroso aprire una seria riflessione, lo dobbiamo alle troppe vittime di mafia e terrorismo che hanno perso la vita senza nessuna colpa”. A giugno la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che l’ergastolo ostativo rappresenterebbe una violazione dei principi della dignità umana. Se domani il verdetto sul ricorso presentato dal governo confermasse questa posizione “ovviamente - argomenta Di Maio - si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi ci permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. E non si tratta di un problema che interessa solo l’Italia, ma ne va della sicurezza di tutta l’Europa”. Di Maio sottolinea che “da sempre il Movimento si batte contro la mafia e i mafiosi” e che “ancora oggi siamo davanti a un fenomeno che, nonostante l’ottimo lavoro di magistratura e forze dell’ordine, continua a rimanere vivo nel nostro Paese”. “Uno degli strumenti a disposizione della giustizia italiana - conclude - è quello dell’ergastolo ostativo. Una delle tante intuizioni del magistrato Giovanni Falcone che ci ha permesso di contrastare con fermezza mafiosi e terroristi”. Contro l’abolizione della linea dura sui mafiosi anche il guardasigilli Alfonso Bonafede e la delegazione pentastellata in commissione Antimafia. “La posizione dell’Italia è chiara”, ricorda il ministro della Giustizia: “l’ergastolo ostativo rappresenta un caposaldo della lotta alla mafia e al terrorismo. La legislazione italiana si è dimostrata molto efficace nella lotta a questi fenomeni che, tra l’altro, non sono solo italiani ma anche europei”. Quelle regole spezzano la forza dei clan. Farne a meno significa armarli di nuovo di Gian Carlo Caselli* Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019 Il 13 giugno la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha accolto un ricorso contro l’ergastolo “ostativo”. Tutti gli ergastolani, anche i mafiosi al 41bis in quanto “irriducibili”, potrebbero così fruire di benefici come lavoro esterno, permessi premio o misure alternative. Di fatto sarebbero messi in condizione di poter facilmente fuggire, recuperando piena libertà di azione criminale. L’ultima parola spetta ancora alla Grande Chambre. Sinceramente, spero che gli autorevoli giuristi che la compongono decidano non in vitro, ma immergendosi nella realtà concreta della mafia. Calzando i mocassini delle persone interessate prima di giudicarle, come i pellerossa invocavano da Manitou. Emergerebbe così un primo dato, storicamente e culturalmente certo, confermato da tutte le esperienze giudiziarie (su Cosa nostra in particolare). La qualità di “uomo d’onore”, una volta acquisita, cessa soltanto con la morte. Anche se si trasferisce in luoghi lontani, e quindi non viene impiegato attivamente negli affari della sua “famiglia”, l’affiliato deve sempre essere disponibile a soddisfare qualunque richiesta dell’organizzazione. Ciò perché (come dimostrano studiosi tra i più qualificati) il modello culturale del comportamento mafioso si manifesta come dipendenza assoluta dell’individuo dal “clan”. Dipendenza che funziona come una “cintura di sicurezza” capace di fornire protezione; e come un apparato ideologico che dà un senso di “appartenenza” ed è garanzia di segretezza, coesione e forza. In sostanza, il mafioso viene educato a sentirsi e divenire un “suddito”, attraverso una duplice equazione: da un lato “individuo = debolezza-fragilità-soccombenza”; dall’altro: “gruppo = forza-potere-status” (così gli psicologi e psicoterapeuti che hanno analizzato la “identità mafiosa”). Questa duplice equazione ha storicamente trovato un preciso e concreto riscontro proprio negli effetti dell’articolo 41bis. La norma venne introdotta con la specifica finalità di interrompere le comunicazioni (prima scandalosamente facili) dei mafiosi detenuti fra loro e con l’esterno, e dunque la possibilità di decidere e organizzare ancora delitti, sia dentro che fuori del carcere. La sua applicazione ebbe però un importante effetto “aggiuntivo”: l’isolamento materiale e psicologico mediante la brusca privazione del sostegno informativo e assistenziale dell’organizzazione (la “forza del gruppo”). Col risultato che vi fu una massiccia “diserzione” da Cosa nostra di mafiosi detenuti che scelsero di collaborare con lo Stato. E la perniciosa interazione tra 41bis e pentitismo non sfuggì di certo al “capo dei capi”, Totò Riina, che la commentò dicendo che si sarebbe “giocato anche i denti” per far annullare la legge sui pentiti e l’articolo 41bis. Un riscontro della evidente peculiarità della “identità mafiosa” è dato poi da alcune costanti che si riscontrano nella psicologia dei killer. Da un lato, la totale immedesimazione con il collettivo Cosa Nostra, vissuto come l’unico mondo in cui vi siano individui degni di essere riconosciuti come “persone”. E nel contempo la rappresentazione del mondo esterno come una realtà “nemica”, oggetto di predazione, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, che non hanno dignità di persone, quasi fossero oggetti disumanizzati. Di qui la comprovata, assoluta mancanza di senso di colpa da parte dei killer, convinti di appartenere a una entità speciale, con un totale distacco emotivo che disattiva la sfera dei sentimenti. Un distacco che emerge dallo stesso linguaggio usato, dove - per fare un esempio - l’informazione giusta per localizzare la vittima si chiama “avere la battuta”, termine che richiama la caccia: caccia di persone considerate alla stregua di viventi non umani. Quanto meno con fortissime e tremende probabilità, stravolgere l’ergastolo ostativo, per i mafiosi che pentendosi non hanno spezzato le catene che li vincolano in perpetuo al clan, equivarrebbe quindi (ontologicamente!) ad armarli di nuovo, inceppando nel contempo lo schema che facilita le collaborazioni. Un pericolo concreto per l’Italia e un rischio che l’Europa (stante la penetrazione della mafia ovunque) non si può permettere. Se non a prezzo di una “dimissione dalla realtà” che causerebbe un pernicioso “summum ius, summa iniuria”. *Già procuratore di Torino e Palermo Ardita: “È la grande battaglia dei boss stragisti e della mafia silente” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019 Intervista a Sebastiano Ardita, ex dirigente dell’amministrazione penitenziaria. Sebastiano Ardita attualmente è consigliere del Csm, fino all’anno scorso era procuratore aggiunto di Catania. Pm antimafia e anti corruzione, è un conoscitore del mondo delle carceri: è stato direttore generale dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Quanto conta per Cosa Nostra, per la ‘ndrangheta e per le altre mafie ottenere la fine dell’ergastolo ostativo? Ne va della sopravvivenza del sistema mafioso tradizionale, che ha patito la crisi più grave in conseguenza della reazione dello Stato dopo le stragi del 1992-93. Ma sarebbe il successo più importante - non so quanto voluto in termini di risultato - della nuova mafia silente, impegnata a reinvestire nell’economia più che nelle azioni criminali visibili. Attenuatasi la paura di nuove stragi, l’effetto potrebbe essere quello del ritorno in libertà di alcuni boss irriducibili. È facile immaginare che tornerebbero a guidare compagini che avevano deciso di abbandonare i sistemi tradizionali, in qualche caso disinteressandosi di chi stava sepolto dagli ergastoli e dal carcere duro, il 41bis. Non è facile prevedere cosa potrebbe accadere sul territorio. Dall’osservatorio “privilegiato” del Dap cosa ha appreso rispetto al sentire dei capimafia ergastolani e al 41 bis? Che questi temi sono seguiti con grande interesse da coloro che rappresentano l’unico vero vertice di Cosa nostra e che attualmente sono pressoché tutti detenuti. E mi sembra evidente che, dal loro punto di vista, trent’anni senza stragi cominciano a provocare i primi effetti sulla sensibilità della opinione pubblica. Quindi sperano o credono che ora ci sia spazio per ottenere benefici. C’è chi pensa sia inaccettabile il “fine pena mai”... Ma stiamo riferendoci alle associazioni di tipo mafioso, dove i singoli operano nel quadro di compagini organizzate che pianificano delitti - anche se non necessariamente di sangue. È rischioso confondere questo tema con quello della rieducazione di condannati, anche a pene severe, che però non operano all’interno della criminalità organizzata. Il mafioso militante, una volta uscito dal carcere, dovrà tornare a servire l’organizzazione fino alla morte. Le risulta che i tentativi mafiosi di far rivedere l’ergastolo siano continuati anche dopo le stragi e non solo da parte di Cosa Nostra? Certo che mi risulta. Dal famoso “papello” di Riina in poi esiste una attenzione fondamentale a questo tema che sembra passo dopo passo avvicinarsi all’obiettivo finale del superamento dell’ergastolo anche per i boss. Quali sarebbero le conseguenze di un’abolizione dell’ergastolo ostativo? L’esclusione dai benefici ai mafiosi militanti, anche se filtrata da una legge, è prevista per chi nega alla radice ogni dialogo con lo Stato e dunque la possibilità di una risocializzazione. Qui parliamo della possibilità di far uscire dal carcere i mafiosi stragisti o coloro che ne hanno seguito le strategie. I boss hanno anche sperato nell’Europa che non conosce il sistema mafioso? Possono contare sulla buona fede di tutti coloro che non conoscono la capacità delle organizzazioni mafiose di rigenerarsi in pochissimo tempo con la sola presenza dei loro capi storici. Sono anni che assistiamo a cronache giudiziarie che ci rappresentano l’arresto di capi mafia un po’ da tutte le parti, ma si tratta di luogotenenti, sostituti dei sostituti dei veri capi che furono arrestati negli anni 90. Ci vogliono decine di anni perché nasca un nuovo Riina o Santapaola o Bagarella. Tutto quello che è venuto dopo è solo la copia sbiadita dei grandi boss. Quindi il loro rilascio sarebbe molto pericoloso. Contro il sovraffollamento si ricorre ai domiciliari: la misura più inutile. Peccato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019 Continuano a crescere i detenuti ristretti nelle carceri italiane, arrivati a 60.881, per un tasso ufficiale di affollamento pari al 120% che aumenta di vari punti se consideriamo i molti posti letto inutilizzabili. Erano in numero paragonabile nei primi mesi del 2009, e ben sappiamo che il 13 gennaio dell’anno successivo il governo dovette decretare lo “stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”. Un sistema costoso, sicuramente in termini sociali ma anche in termini strettamente economici. Sono di quasi 2,9 miliardi di euro i fondi destinati all’Amministrazione Penitenziaria nel 2019. Ciascun detenuto costa ogni giorno circa 130 euro, una cifra pro-capite che oscilla con l’affollamento e che dunque tende oggi a diminuire. La maggior parte dei costi, il 76,47% del totale, riguarda il personale, e in particolare quello di polizia penitenziaria (ben 68,03%). Solo il 10% è destinato a misure di accoglienza e reinserimento sociale, tra le quali si contano le spese per il vitto, per l’istruzione, per retribuire i detenuti che lavorano. Ma l’esecuzione penale non si ferma qui. Accanto al mondo del carcere ne esiste un altro, poco meno numeroso ma tanto meno conosciuto (il che è tutto dire, vista la poca attenzione pubblica che viene dedicata anche al mondo delle galere). Sto parlando del mondo dell’esecuzione penale esterna, quelle misure alternative alla detenzione che tanto sono state avversate negli ultimi tempi poiché confuse con una quasi totale libertà che avrebbe minato il principio della certezza della pena. Esse costano notevolmente meno del carcere (273 milioni di euro per il 2019) e hanno dimostrato di essere assai più efficaci in termini di abbattimento della recidiva. Alla fine del 2018 erano quasi 55mila i condannati in misura alternativa. Nel sistema italiano il carcere è la pena principale che i giudici possono comminare. Non è possibile venir condannati in sentenza alla detenzione domiciliare o alla semilibertà. Una volta avuta la condanna, tuttavia, se ci si comporta bene e se si rientra in alcuni parametri stabiliti dalla legge, il magistrato di sorveglianza può convertire parte della reclusione in una pena diversa, che consenta al condannato di affacciarsi con gradualità a quel contesto sociale nel quale andrebbe reinserito. Le principali misure alternative alla detenzione sono: l’affidamento in prova al servizio sociale, con rigidi programmi da seguire all’esterno del carcere e un controllo costante da parte degli assistenti sociali e del magistrato; la semilibertà, con la possibilità di uscire durante il giorno dall’istituto per recarsi al lavoro e tornare la sera a dormire in cella; la detenzione domiciliare, chiusi a casa senza fare nulla se non attendere i controlli della polizia. Nessuna di queste è una non-pena. Tutte hanno il loro carico di afflittività. La misura alternativa, seppur meno insensata dell’ozio carcerario, è sorvegliatissima e modulata entro percorsi estremamente stretti. Il condannato non ha alcuna libertà di fare quel che vuole, ma deve attenersi rigidamente alle disposizioni del magistrato. Se le prime due misure, tuttavia, hanno una valenza socializzante, necessitando di una presa in carico da parte dell’istituzione, la detenzione domiciliare è la più semplice da attuare (vai a casa tua e restaci) ma anche la più vuota di contenuti rilevanti. Per tanti anni in Italia il numero delle persone in misura alternativa è cresciuto assieme a quello dei detenuti. Semplicemente, c’erano più persone sotto controllo penale. Solo dal 2010, sotto la spinta dell’emergenza, le misure alternative hanno cominciato a essere usate come strumento di svuotamento del sistema penitenziario. Finalmente sono andate crescendo mentre la popolazione carceraria diminuiva. È proprio in quell’anno che si introdusse la possibilità di scontare a casa l’ultimo anno di detenzione, elevato poi all’ultimo anno e mezzo. Su quale misura si è fatto dunque affidamento per far fronte all’emergenza? Su quella meno protesa verso la reintegrazione sociale, su quella più vuota, su quella più inutile. Peccato. La quotidianità della detenzione domiciliare può essere soffocante. Se la dimensione affettiva può essere ben tutelata, tutto il resto però manca. Niente scuola, niente lavoro, niente attività ricreative e culturali, niente campo sportivo, persone con cui parlare, palestra, biblioteca. I parenti hanno una vita proiettata all’esterno della casa e la mancanza di stimoli è totale. Alla fine del 2018, erano quasi 15mila le persone che scontavano la pena dentro le proprie quattro mura o in altra dimora considerata adatta dal giudice. A queste vanno aggiunte coloro che dentro quelle mura sono in attesa di sapere se e come sconteranno una pena. Infatti, così come in carcere ci sono persone condannate e persone in custodia cautelare, allo stesso modo c’è chi sta scontando la detenzione domiciliare e chi si trova invece agli arresti domiciliari, che sono tutt’altro e costituiscono una misura cautelare applicata prima della sentenza. Da presunti innocenti, si vive prigionieri della propria casa. L’attesa diventa l’intero mondo, come bene ha raccontato Andrea Salonia nel suo recente romanzo “Domani, chiameranno domani”. Il protagonista, in passato direttore generale di una grande acciaieria, si trova ai domiciliari, accusato di aver provocato consapevolmente danni all’ambiente con la propria fabbrica. Nello spazio della casa allinea le ore, i minuti. Giorno dopo giorno spera che qualcuno gli chieda di ascoltare la sua versione dei fatti. Ma oggi, si scopre a sera, non è mai domani. Ci è capitato di ricevere, presso l’ufficio di Antigone, telefonate di persone agli arresti domiciliari che ci chiedevano aiuto. Qualcuno aveva un impiego che rischiava di perdere per la prolungata assenza (che senso ha sradicare una persona dal contesto sociale, per poi dover impiegare energie e risorse nel suo reinserimento?). Qualcun altro non voleva raccontare al datore di lavoro il proprio incidente con la giustizia, che avrebbe potuto risolversi in un’assoluzione. Qualcun altro ancora non aveva nessuno che potesse aiutarlo, fargli la spesa, assisterlo. Piccoli reati, vite difficili, dove una misura di welfare potrebbe garantire la sicurezza ben più che una misura cautelare. È lì che bisognerebbe investire. E, una volta dentro il sistema penale, bisognerebbe puntare su quelle alternative alla detenzione che non ripropongano quest’ultima nel chiuso di una civile abitazione. Le autentiche misure alternative sono uno strumento più efficace ed economico del carcere. E non coincidono minimamente con l’impunità. Questo messaggio dovrebbe essere lanciato con forza dalla politica. Il governo dovrebbe perseguire la strada di una decarcerizzazione utile tanto alla sicurezza quanto alle tasche dei cittadini. Di più: andrebbero inserite nel codice penale delle vere e proprie pene alternative alla reclusione che i giudici dovrebbero avere a disposizione già al momento della sentenza, così da togliere al carcere quella centralità che gli abbiamo regalato. A un carcere sempre più costoso, sempre più ingiusto, sempre più inutile. *Coordinatrice associazione Antigone Sebastiano Ardita: “Per rieducare serve la volontà del condannato” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 6 ottobre 2019 “La detenzione è per definizione una punizione, ma certamente non deve essere fine a se stessa. Il suo obiettivo costituzionale primario deve essere il rispetto di condizioni di civiltà perché - come dice la Costituzione - non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, spiega Sebastiano Ardita presidente della nuova “Commissione carceri ed esecuzione della pena” del Csm, a lungo direttore generale per i detenuti e il trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il Consiglio superiore della magistratura si pone obiettivi notevoli, che riguardano la tutela della salute e la rieducazione dei detenuti, il sostegno alla magistratura di sorveglianza e lo sviluppo delle misure alternative al carcere. Ma in che modo si dovrà intervenire? “Si tratta di argomenti strettamente connessi tra loro che richiamano la necessità di una visione di insieme nell’affrontare il tema della esperienza penitenziaria. La pena nasce da un processo e presuppone quindi il lavoro di un organo giudiziario; la sua espiazione avviene sotto la responsabilità del potere esecutivo e sotto il controllo della magistratura di sorveglianza; la rieducazione e la tutela della salute sono beni collettivi che comportano a loro volta l’intervento di altre istituzioni. Ecco perché è necessario che tutti i protagonisti di questa vicenda si parlino tra di loro. Ma questo non sempre accade, ed allora il Csm deve far si che almeno i magistrati, che a vario titolo sono chiamati ad intervenire, lo facciano”. L’Italia è oggi il terzo Paese europeo per sovraffollamento dopo la Macedonia del Nord e la Romania. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è pari a 10.276 unità e presenta un indice del 20,56 per cento, un dato che preoccupa e che emerge dalla conferenza nazionale dei garanti dei detenuti. Rispetto all’ultimo anno, l’aumento è stato di oltre il 5% e in Sicilia i detenuti sono 6498. Servirebbe collaborare di più per far conoscere la realtà del carcere e per riuscire a realizzare interventi concreti, “all’inizio di questo decennio, quando dirigevo l’ufficio detenuti, pur in situazioni di grave affollamento, con grandi sforzi si riusciva a mantenere il giusto equilibrio tra civiltà della pena e sicurezza all’interno degli istituti. Anche perché si tratta di finalità che, come detto, vanno perseguite insieme”. Nel nostro ordinamento la detenzione non deve avere carattere punitivo, al contrario, “deve tendere alla rieducazione - continua Ardita - ciò significa che deve essere propositiva rispetto a questo scopo. Ma per rieducare, nel senso indicato dalla Costituzione, ci vuole anche la volontà del condannato. E dunque la rieducazione è una opportunità, ma comporta anche dei sacrifici e un impegno”, ma spesso la gente sembra non voler accettare l’idea che un detenuto venga rieducato attraverso delle attività all’interno del carcere, “la società deve essere informata delle finalità della pena e dei vantaggi per la sicurezza che può comportare la rieducazione effettiva dei condannati. Non si deve colpevolizzare chi è scettico rispetto alle potenzialità rieducative del carcere, perché purtroppo vi sono molti casi nei quali questi obiettivi si sono trasformati in un fallimento. Ed anche perché qualcuno confonde la pena rieducativa con un carcere in cui i detenuti fanno ciò che vogliono. Mentre è esattamente il contrario. La pena rieducativa funziona dove vi è disciplina e osservanza di tutte le regole, dove il rispetto dei diritti umani dei detenuti si coniuga con altrettanto rispetto per il lavoro degli operatori penitenziari, in condizioni di sicurezza dettate dallo Stato. Occorre solo lavorare perché le cose migliorino. E per questo le misure alternative non funzionano e non incontrano la fiducia dei cittadini: non perché non siano utili, ma perché nel nostro paese non abbiamo previsto strumenti di controllo adeguati per farle funzionare”. Per i minori, invece, valgono altre regole perché “la loro personalità è in una fase evolutiva e spesso intervenendo in modo efficace è più facile operare miglioramenti importanti della personalità. Certo occorre separarli dall’ambiente criminogeno che potrebbe avere influenze devastanti. Penso ai minori inseriti nei contesti di criminalità organizzata, spesso costretti da bambini a svolgere compiti da criminali adulti. Qui occorrerebbe recidere ogni legame con ambienti che spingono alla assunzione di quei ruoli. Ma negli altri casi il lavoro ha più possibilità di successo e per questo motivo esistono istituti dedicati come la messa alla prova. È però sempre importante che i ragazzi, ai quali si dedicano progetti di rieducazione, vengano presi in carico e seguiti attentamente”. Rieducazione, risocializzazione, recupero, continueranno a essere delle utopie? “Il sistema della rieducazione, quando effettiva e non formale, può legittimamente aprire la strada alle misure alternative. Il problema è che anche le misure alternative dovrebbero essere percorsi effettivi, che prevedano la presa in carico reale ed il controllo sul territorio degli affidati. Invece spesso sono solo un mezzo per il condannato per ottenere in qualche modo la libertà, e per lo Stato una opportunità per liberare spazi detentivi. Se dovessi dirle che nel nostro Paese questo sistema funziona le direi una bugia. Funziona con chi prima di esservi ammesso aveva deciso di cambiare vita, ma non costituisce affatto un deterrente per chi, uscito dal carcere, non esclude la prospettiva di continuare a delinquere”. In carcere un detenuto su due è affetto da disturbi psichici di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 ottobre 2019 Malattia mentale e crimine. Molti sviluppano le patologie tra le mura, ma tanti vi arrivano già malati. O, peggio, perché malati. Fondine antiscippo, pistole taser, protezioni antiproiettile: molti giornali ieri davano spazio alle richieste di alcuni sindacati di polizia da sempre abituati a dare più peso agli armamenti che alle condizioni sociali nelle quali si trovano ad intervenire le forze dell’ordine. La terribile tragedia di Trieste nella quale due ragazzi hanno perso la vita mentre servivano lo Stato suggerisce invece una riflessione sulla malattia mentale e su quanto sia sottovalutata in questo Paese, fino a che non diventa oggetto di cronaca nera. Perfino nella città che ha fatto da laboratorio alla riforma Basaglia. E invece basta dare un’occhiata all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani per intuire una qualche relazione stretta (prevenibile e forse evitabile) tra patologie psichiche e crimine. Secondo i dati diffusi dalla Simspe, Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, in occasione del XX Congresso nazionale Agorà Penitenziaria che si è tenuto un paio di giorni fa Milano, il 50% delle persone detenute in carcere presenta una malattia o un disturbo mentale (e il 25% una dipendenza da sostanza psicoattiva, con conseguenze anche psichiche, naturalmente). Sicuramente, come spiegano gli stessi esperti Simspe, una parte di questi disturbi si genera proprio all’interno delle mura carcerarie, anche a causa delle pessime condizioni di vita detentiva. Ma c’è una percentuale di persone che in carcere arriva già malata o perfino proprio perché malata. Secondo il Rapporto 2019 del Comitato nazionale per la bioetica, le più diffuse patologie psichiche che affliggono la popolazione detenuta (giunta di nuovo alla scandalosa cifra di 60.882, su una capienza regolamentare di 50.472 posti disponibili) sono per il 17,3% disturbi nevrotici e reazioni di adattamento e per il 5,6% correlate all’abuso di alcol. Vengono poi registrate una serie di patologie meno diffuse ma che di solito hanno un tempo di “incubazione” molto lungo, dunque difficilmente correlate alla circostanza carceraria: disturbi affettivi psicotici (2,7%), disturbi della personalità e del comportamento (1,6%), disturbi depressivi non psicotici (0,9%), disturbi mentali organici senili e presenili (0,7%), disturbi da spettro schizofrenico (0,6%). Maschi e femmine soffrono in modo diverso: sono gli uomini ad essere maggiormente affetti da disturbi correlati alle sostanze (50,8% dei maschi, 32,5% delle femmine) e all’alcol (9,1% contro il 6,9% delle donne). Mentre per le detenute la diagnosi più comune è quella di “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento” (36,6% delle diagnosi femminili, 27,1% delle diagnosi maschili), seguita da disturbi affettivi psicotici (10,1%, 4,1% degli uomini). Meno comuni ma non per questo meno problematici, i disturbi della personalità e del comportamento (2,4% degli uomini, 3,4% delle donne) e quelli depressivi non psicotici (1,3% degli uomini, 2,8% delle donne). Per curare queste persone, i servizi di salute mentali operanti in carcere, e sul territorio, non sono sufficienti. Le risorse - umane ed economiche - sono talmente scarse da rendere poi impossibile qualsiasi tipo di prevenzione alle patologie croniche (e ad alcuni tipi di comportamenti criminosi). Una situazione che è peggiorata con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari perché troppo poche sono le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) disponibili. Secondo il presidente Simspe, Luciano Lucania, quello che continua a mancare è un Osservatorio epidemiologico nazionale. “Oggi sono assicurate certamente le cure farmacologiche più aggiornate - afferma. Tuttavia manca il raccordo fra “dentro” e “fuori”, manca l’interlocuzione diretta dei presidi con l’autorità giudiziaria, manca una rete territoriale di accoglienza. Le malattie mentali, il disagio esistenziale, la depressione, gli esiti devastanti della tossicodipendenza sulla persona non sono misurabili come le cardiopatie e le malattie infettive”. E, aggiunge Liliana Lorettu della Sipf, Società italiana psichiatria forense, “il comportamento violento sino al suicidio sono l’estrema risposta di chi non riesce ad uscire dal pantano”. “Un genitore che dà amore è sempre un buon genitore, anche se detenuto” di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 6 ottobre 2019 Intervista a Francesca Racco, membro dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza. Ci sono bambini che non sono mai andati a vedere una partita di pallone con il proprio papà, mai un giro in bici o una giornata al mare insieme. Un papà che non c’è neppure a tavola a Natale o per i compleanni. Ci sono bambini che il proprio papà lo vedono solo una manciata di ore al mese, dopo aver oltrepassato un grande cancello, superato i controlli di sicurezza, per potergli parlare da dietro un vetro. Per capire quale possa essere l’impatto che può avere la carcerazione di un genitore sullo sviluppo del bambino abbiamo intervistato Francesca Racco, psicologa e psicoterapeuta, membro dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza. È più traumatico assistere all’arresto di un genitore o accorgersi improvvisamente della sua scomparsa senza che nessuno gli spieghi nulla? La separazione forzata da una figura di riferimento è sempre un avvenimento impattante sulla psiche di un bambino, questo porta con sé vissuti di angoscia, disperazione e, talvolta, anche vero e proprio terrore. Allo stesso tempo vivere la scomparsa di un genitore senza capirne il motivo, ma sentendone solo la sua assenza, genera un senso di vuoto che non permette di dare un senso a ciò che accade e quindi genera confusione, incredulità, con conseguente senso di abbandono e possibili sensi di colpa. Mentire dicendo che il padre si trovi, ad esempio, all’estero cosa comporta per il bambino? Ai bambini bisogna sempre dire la verità e, considerato che questo sarebbe una bugia, non va bene. I bambini hanno bisogno di concretezza per poter dare significato a ciò che accade, anche se doloroso. Hanno diritto di mantenere i rapporti affettivi col genitore detenuto e dunque di vivere la relazione recandosi presso l’istituto penitenziario per gli incontri, cosa che non può avere luogo se il minore sa che il genitore è all’estero. Inoltre, il bambino potrebbe domandarsi il perché il genitore non viene a trovarlo e andare incontro al pensiero di non valere abbastanza tanto da non meritare il suo ritorno. Come spiegare a un bambino che il padre (o la madre) è in carcere perché ha commesso un crimine? È una comunicazione dura, quanto necessaria. Sempre meglio che i bambini sappiano come siano andate le cose da una persona di fiducia, piuttosto che dai compagnetti o dai media. L’importante è fargli capire che anche se un genitore ha commesso un’azione sbagliata non è necessariamente una persona sbagliata. Proclamarsi innocenti per vergogna è un buon modo per proteggere il bambino? Non è certamente facile dire certe verità ai figli, a volte quelle che vengono chiamate bugie a fin di bene, nascondono la difficoltà nel parlare di certi temi con i più piccoli, nonché il tentativo di difenderli da una realtà che può far molto male. In ogni caso quando ci si confronta con i bambini bisogna tenere sempre bene a mente che essi hanno prima di tutto bisogno di sperimentare sicurezza e amore. Quindi ancora una volta ribadisco che occorre dire sempre la verità, ma con un linguaggio a misura di bambino, corredato sempre dalla certezza che il legame affettivo è sopra ogni cosa. Spesso la situazione viene raccontata utilizzando il “noi”: “ce l’hanno con noi”, “ci perseguitano”, “ci vogliono fare del male”… cosa comporta questo stravolgimento della realtà per il bambino? I bambini più sono piccoli e più guardano il mondo con gli occhi dei genitori. Questo “noi” è ingiusto, perché rischia di intaccare la percezione del mondo esterno e in casi gravi porta a vivere il mondo come ostile e pericoloso. Nella nostra società il successo è diventato un valore fondamentale. Un genitore in carcere è avvertito come un perdente. Come far comprendere a un bambino che, sebbene il padre sia in carcere, rimane sempre il padre e deve aver fiducia in lui? È vero che il successo, come mai prima d’oggi, ha un ruolo elevato nella considerazione della società, ma non credo che il genitore in carcere sia sempre un perdente. Ho conosciuto detenuti che hanno davvero affrontato un percorso rieducativo e che, dopo aver scontato la pena, con il reinserimento nella vita quotidiana si sono dati un seconda possibilità e hanno vinto l’errore. Così facendo, peraltro, hanno potuto dare l’esempio che “chi sbaglia paga” e che le conseguenze sono dure e dolorose. Cos’è più sbagliato, trattare il figlio di un detenuto con compassione perché visto come un bambino che cresce circondato da criminali o trattarlo con sprezzo perché immaginato come futuro criminale? Probabilmente entrambe. Voglio fare un premessa, ogni bambino è sempre una creatura meravigliosa che non può e non deve espiare le eventuali colpe dei genitori. Partendo da questo presupposto, tutti i bambini hanno gli stessi diritti e a maggior ragione se intendiamo la detenzione del genitore come fattore di rischio, il contesto esterno dovrebbe costituire fattore di protezione. Quindi occorre capire il vissuto doloroso di questi bambini, non etichettandoli a priori, ma aiutandoli a costruire relazioni sociali sane. Si può essere buoni genitori incontrando i propri figli da dietro un vetro? Sicuramente la detenzione di un genitore intacca la serenità di un figlio, ancor più se è piccolo. I bambini non hanno le stesse risorse cognitive di un adulto e proprio per questo hanno bisogno di vedere il genitore e sentire la sua presenza. In caso di detenzione, cessa la libertà ma non l’essere genitore. Il genitore ha il diritto e il dovere di continuare a essere un buon genitore, garantendo l’affetto necessario atto a contenere la drammaticità della situazione. Un bambino ha sempre bisogno dell’amore dei genitori, qualunque cosa accada. Il genitore che dispensa amore è sempre un buon genitore, anche se detenuto. Ci sono, poi, quei bambini che si trovano dietro le sbarre da neonati, detenuti insieme alla madre. Che impronta lascia un’esperienza del genere? In questi casi il sostegno alla genitorialità e la possibilità di poter frequentare anche spazi esterni, rappresentano risorse fondamentali per evitare ripercussioni anche gravi sullo sviluppo di questi bambini. Quali potrebbero essere le azioni di sostegno ai rapporti bambini-genitori detenuti? Prima di tutto, bisogna capire che è un diritto fondamentale del bambino mantenere la relazione affettiva con il genitore anche se detenuto. Basterebbe applicare sempre la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, che evidenzia tutte le buone prassi per il mantenimento di relazioni familiari di qualità, incidendo così positivamente sullo sviluppo e sull’equilibrio psicofisico dei minori. Dovrebbe, ad esempio, essere sempre garantita una sede facilmente raggiungibile e i bambini non dovrebbero andare incontro a viaggi estenuanti per poter incontrare il proprio genitore. I contatti dovrebbero essere regolari e frequenti e importantissima sarebbe la presenza di personale esperto a sostegno dei più piccoli. Quando ci sono di mezzo i bambini, certamente vittime innocenti, niente dovrebbe essere considerato un privilegio. Purtroppo spesso accade il contrario, ed è così che sono pochi gli istituti dove le stanze sono accoglienti e belle, dove sono presenti spazi verdi in cui passeggiare e correre insieme o ambienti dove poter svolgere attività piacevoli e di crescita con i propri genitori. Nella mia attività da psicoterapeuta ho avuto modo di accogliere più volte storie strazianti di bambini che vivevano i colloqui con forti crisi di ansia, arrivando anche al rifiuto per il forte dolore percepito, interrompendo di fatto la relazione genitore-figlio. Dobbiamo mettere tutte le forze in campo affinché questo non accada, perché i figli dei genitori detenuti hanno gli stessi diritti di tutti gli altri bambini. Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà. La letteratura aiuta i detenuti a sentirsi vivi di Ettore Di Bartolomeo La Discussione , 6 ottobre 2019 Ormai manca davvero poco per la cerimonia di premiazione della dodicesima edizione del Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli. L’appuntamento è per venerdì 11 ottobre presso la Casa Circondariale di Matera. L’iniziativa gode del patrocinio di Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia, Università Europea di Roma, Fondazione Matera Basilicata 2019 e con il riconoscimento di una speciale medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Media Partner: L’Osservatore Romano. Il tema di questa edizione è: “Riconoscere l’Umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”. Scrivere libera la mente, aiuta a riflettere sui propri errori ed è un’occasione per aiutare “chi sta fuori” a non ripeterli. “Ogni anno - osserva Antonio Gianfico, Presidente della Federazione nazionale Società di San Vincenzo De Paoli - riceviamo centinaia di testi dai reclusi di tutte le carceri italiane. Il mondo carcerario è un condominio fatto di spazi angusti, di regole rigide, di relazioni forzate, di privazioni e di sofferenza. C’è quindi la necessità e la convenienza di condividere al meglio quel poco che si ha materialmente a disposizione, ma, soprattutto, di attingere a quelle risorse interiori che possono veramente segnare una svolta nella propria vita”. Imparando dagli errori del passato si può aprire un nuovo capitolo della propria esistenza e si può davvero fare qualcosa di buono ed utile non solo per se stessi, ma anche per gli altri. “Ed è per questo - dichiara Claudio Messina, delegato carceri della Società di San Vincenzo De Paoli ed anima ed organizzatore del Premio Carlo Castelli - che, anche nel premiare le opere scelte, abbiamo pensato di dare - una libertà in più - al candidato che, oltre a ricevere un riconoscimento per sé, sceglierà una buona causa nel sociale a cui destinare un’altra parte del premio in denaro. Ecco una buona possibilità, per chi ha sbagliato nella vita, di riscattarsi offrendo un contributo alla società”. La cerimonia di premiazione ed il convegno “In carcere con umanità. Nell’incontro la scoperta dei valori comuni” si terranno il prossimo venerdì 11 ottobre nella Casa circondariale di Matera, a partire dalle ore 10. Tra i relatori del convegno: Luigi Accattoli, Guido Traversa, Rita Barbera, Don Raffaele Sarno, Gabriella Feraboli, Carmelo Cantone. Ai tre vincitori di questa edizione vanno rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica a Lurhala (Congo); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane dell’Istituto Penale Minorile di Bari; 800 euro per l’adozione a distanza di un bambino della Bolivia per 5 anni. Queste le opere premiate: “Per chi muore, per chi rimane” di Carmelo Gallico (C.C. Tolmezzo - UD), “Riscoprire i rapporti di buon vicinato” di Alessandro Cozzi (C.R. Milano - Opera) e “Un padre” di Alessandro Crisafulli (C.R. Milano - Opera). Accanto a questi racconti la Giuria del Premio Carlo Castelli segnala le seguenti dieci opere meritevoli, che sono state raccolte, insieme ai testi dei primi tre classificati, nell’antologia: “Il bisogno di Umanità”: “Eroi” di Mario Musardo (C.R. Tempio Pausania - OT), “Muri paralleli” di Massimiliano Avesani (C.R. Tempio Pausania - OT), “La strada ritrovata” di Lucian Tarara (C.R. Volterra), “Il regalo di un sorriso” di Antonino Scarpulla (C.C. Palermo Pagliarelli); “Il castigo del diavolo” di Angelo Meneghetti (C.R. Padova) L’invisibile - “Il cavagliere” (C.C. Roma Rebibbia N.C.), “Gli altri siamo noi” di Roberto Cavicchia (C.C. Genova Marassi), “Umanità” di Simone Borgese (C.C. Rieti); “Misero et cordis” di Francesco Lori (C.C. Rieti) e “Il viaggio predestinato” di Domenico Auteritano (C.C. Roma Rebibbia N.C.). L’ebook “Il bisogno di Umanità” - Anthology Digital Publishing, che raccoglie le opere premiate della XII edizione del Premio Carlo Castelli per la solidarietà si può scaricare gratuitamente. Luciana Delle Donne: “Così il carcere è diventato la mia vita” di Licia Granello vanityfair.it, 6 ottobre 2019 Fondatrice dell’associazione “Made in Carcere”, coinvolge i detenuti dando loro un lavoro e un futuro: “Quando si raggiungono successi, la vita ti chiede di restituire”. La ragazza ha una cinquantina d’anni abbondanti, un sorriso smagliante e occhi intelligenti, vivissimi, impossibili da eludere. È vestita in modo allegramente improbabile: calzettoni colorati, lo scamiciato trapezoidale indossato col dietro davanti e una giacchetta bordata di volant assortiti e fluttuanti. Un insieme strabiliante, che la racconta benissimo. Ma soprattutto, ognuno dei pezzi indossati mostra la targhetta “Made in carcere”, ovvero creato e cucito dalle detenute del carcere di Lecce. Luciana Delle Donne, leccese doc, ex manager bancaria di successo, è anima, corpo e cervello dell’associazione “Made in Carcere” fondata tredici anni fa. Per lei, una quantità infinita di premi, culminati con l’inclusione nella rete Ashoka. Santo Versace le ha regalato cinquemila kg di tessuti, Chanel l’ha cercata per attivare una produzione delocalizzata, perfino Papa Bergoglio ha messo al polso il braccialettino con la scritta “Second Chance”. “Nella mia prima vita era tutto perfetto: casa in via dei Fiori Chiari a Milano, viaggi all’estero, fili di perle, camicie cifrate, serate nei posti che contano. Poi ho cominciato a sentire il disagio di guadagnare tanti soldi, sproporzionati, frutto delle bolle speculative. Era il 2004. Sono entrata in crisi con il mio compagno, con il mio corpo, con il mio lavoro. Avevo l’urgenza di restituire un pezzo della mia fortuna, di dimostrare che si può costruire bellezza anche in luoghi di degrado”. Luciana è cresciuta nella fatica di un padre morto quand’era piccola e di una mamma obbligata a lavorare a tempo pieno per mantenere i cinque figli. “Non so cosa sia un’infanzia felice, ma l’assenza mi ha dato voglia di costruire, di vivere e non di sopravvivere. La morte prematura di mio padre mi ha insegnato che bisogna cercare di realizzare i sogni, sempre”. Non ha trovato subito la strada, Luciana. “Volevo dedicarmi ai bambini disagiati, aprire un asilo. Ho studiato Montessori e Steiner. Ma ci volevano competenze specifiche per un’attività imprenditoriale così impegnativa. Non ero pronta. E allora ho deciso di occuparmi delle mamme, quelle in carcere”. Aiutare attraverso il lavoro. Il cucito, per esempio. “Ho brevettato un collo di camicia fighissimo, da indossare sotto le maglie, però troppo complesso nella sua costruzione. Ho formato quindici detenute per sei mesi. Il tempo di cominciare la produzione e sono uscite tutte per indulto. Ho capito che dovevo proporre cose più semplici, pezzi che in tre mesi una ragazza di buona volontà possa imparare a fare”. I numeri l’hanno premiata subito. “Il fallimento è del 2%, sono tutte disponibili. L’obbiettivo non è imparare a cucire, ma cambiare dentro… Quando chiedono di entrare nel gruppo, non vogliamo sapere del loro passato, perché sono dentro. La relazione parte dal momento in cui ci incontriamo. Rigeneriamo tessuti e vite, la famosa “seconda chance”. Le statistiche dicono che l’80% di chi lavora in carcere non reitera il reato. Made in Carcere è un’impresa che deve risultare competitiva sul mercato, senza invocare pena o solidarietà”. Dalla “Maison” di Lecce al carcere minorile di Nisida, il passo è stato complicato. “I detenuti hanno tra i 15 e i 25 anni: intercettarli, coinvolgerli, ha richiesto un lavoro infinito. Finiscono in carcere pensando che sia un riconoscimento: la vita non ha valore, hanno il destino segnato. Per il loro laboratorio di pasticceria ho ideato dei biscotti “senza” - senza uova, senza latte - ma anche “con”: vino, extravergine, semola, zucchero di canna, tutto biologico. Li ho fatti a forma di cuore e battezzati Scappatelle. Sono buonissimi! Li vendiamo bene. E vedere le facce quando leggono sulla prima busta paga il loro nome e cognome mi ripaga di tutte le fatiche”. Le sartorie sociali delle periferie sono il prossimo passo. Lecce, Bari, Taranto, Grosseto Sono pronte ad attivare luoghi di produzione ad alto valore etico. “Diamo i tessuti, formiamo i lavoratori, trasferiamo un modello d’impresa, dalla gestione al marketing, perché senza brand non si va da nessuna parte”. Poi c’è la vita personale. “Ho fatto una scelta totalizzante. Sono competitiva con me stessa: il desiderio di realizzare il sogno è così assoluto che mi spendo completamente. Ho cambiato amicizie, ribaltato il mio stile di vita, voglio sentire cosa si prova a pensarci due volte prima di spendere dieci euro. Non ho usato scudi o protezioni, vado sempre a mille”. Mancanze? Luciana fa uno dei suoi sorrisi stralunati e irresistibili. “Non ho rimpianti per la vita di prima, non tornerei mai indietro. Mi mancano le tre S: sonno, silenzio e sesso. I primi due dipendono dalla possibilità di cominciare finalmente a delegare. In quanto al sesso, è difficile trovare maschi con cui condividere questo pezzo di vita. Mia madre dice che dovrei almeno far finta di aver paura dei temporali. Dubito di riuscirci”. Il capo della polizia Gabrielli: “Senza integrazione si favorisce la criminalità” di Giacomo Galeazzi interris.it, 6 ottobre 2019 Gli stranieri in Italia sono il 12% della popolazione ma commettono il 32% dei reati. Su 60 mila detenuti in Italia, 20 mila sono stranieri. “Negli ultimi anni si registra un aumento degli stranieri coinvolti tra arrestati e denunciati”, afferma il capo della polizia Franco Gabrielli, sottolineando che “nel 2016, su 893mila persone denunciate e arrestate, avevamo il 29,2% degli stranieri coinvolti; nel 2017 il 29,8%, nel 2018 il 32% e in questo 2019 siamo quasi al 32%”. Tenendo conto che gli stranieri nel nostro paese, sono il 12%, tra legalmente in Italia e non, “questo dà la misura del problema”, aggiunge Gabrielli, quindi “per gli stranieri che restano in Italia è necessario costruire percorsi di integrazione altrimenti si creeranno condizioni favorevoli a illegalità, degrado, criminalità e terrorismo”. Il nodo della detenzione - Un detenuto su tre, quindi, non è italiano. “Secondo i dati più recenti del Ministero della Giustizia, i detenuti presenti negli istituti penitenziari in Italia sono in totale 58.569 (su una capienza regolare di 50.615 posti), distribuiti in 190 strutture- evidenzia l’Agi-.I detenuti stranieri sono 19.929: il 34 per cento sul totale, quasi un terzo esatto. I cittadini italiani sono 38.640”. Nei confronti degli stranieri si usa in misura maggiore la custodia cautelare, cioè il carcere prima della conclusione del processo. Tra i detenuti in attesa di giudizio, gli stranieri sono il 37,7 per cento (3.640 individui), mentre tra quelli condannati in via definitiva la percentuale scende al 31,6 per cento”. Chi è straniero ha insomma maggiore difficoltà ad accedere a misure alternative al carcere. su un totale di 5.433 individui soggetti a misure di sicurezza non detentive, solo il 9,5 per cento è composto da stranieri, comunitari e non. Discorso analogo vale per le sanzioni sostitutive e quelle non detentive, in cui le percentuali di stranieri coinvolti è rispettivamente del 14,6 per cento e del 12,6 per cento. I paesi di provenienza - Le nazionalità presenti nelle carceri italiane sono 140. In percentuale, i primi in classifica sono i cittadini marocchini (il 18,5 per cento dei detenuti stranieri), seguiti dai rumeni (12,9 per cento), gli albanesi (12,7 per cento) e i tunisini (10,8 per cento). Paesi come Nigeria e Senegal raggiungono percentuali più basse, rispettivamente del 6,2 per cento e del 2,4 per cento. I costi per lo Stato - Nel suo rapporto, l’Associazione Antigone ha calcolato che per l’anno in corso, sul budget preventivo di circa 2,9 miliardi di euro del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il costo giornaliero per detenuto è previsto essere di 137,02 euro, praticamente stabile rispetto ai 137,34 euro del 2017. Di questo budget, l’80 per cento è comunque destinato alle spese del personale civile e di polizia penitenziaria. “Lo Stato spende 9,26 euro al giorno per il mantenimento in senso stretto di ogni detenuto: un totale di 277,8 euro mensili- evidenzia l’Agi”. A fronte di 20 mila cittadini non italiani presenti negli istituti penitenziari, è esiguo il numero di irregolari espulsi. Il problema è di natura giuridica. I trasferimenti - La questione del trasferimento dei detenuti stranieri è regolamentata dalla convenzione di Strasburgo del 1983, entrata in vigore in Italia sei anni più tardi 1989 All’articolo 3, la convenzione, sottoscritta solo da alcuni Paesi, afferma che una persona può essere trasferita solo in specifiche condizioni. Per esempio, la sentenza di condanna deve essere per almeno sei mesi di reclusione e definitiva, e il condannato deve acconsentire al trasferimento. Inoltre, la legge sull’introduzione del delitto di tortura del 14 luglio 2017 impedisce di estradare una persona quando ci sono motivi fondati di ritenere che essa rischia di essere sottoposta a tortura. Come sottolineato dal rapporto dell’Associazione Antigone, almeno 806 detenuti non dovrebbero essere trasferiti nei loro Paesi di origine e hanno diritto a restare in Italia. 217 vengono dalla Libia, 37 dal Sudan e 642 dall’Egitto. “Un’ulteriore difficoltà nei rimpatri riguarda la necessità di trovare accordi con i Paesi di origine”, puntualizza l’Agi. Le misure cautelari - Il Regno Unito ha stretto accordi con alcuni Paesi per “svuotare” le proprie carceri, con scarsi risultati. Per esempio, l’accordo con la Nigeria sottoscritto da Londra ha un impatto stimato di riduzione dell’1 per cento sulla popolazione carceraria straniera nel Regno Unito. Gli altri accordi britannici con Paesi extra-Ue non hanno dato esiti migliori: il totale dei detenuti trasferiti all’estero dal Regno Unito, nella cornice di accordi di trasferimento obbligatorio, ammonta in un anno a 18 solo individui. Di questi, diciassette sono stati rimandati in Albania e uno in Nigeria. Un terzo della popolazione carceraria è composta da stranieri. “Ma per comprendere meglio la questione, è fondamentale fare delle distinzioni, per esempio, tra stranieri residenti e quelli irregolari, e sottolineare il maggiore ricorso alle misure cautelari per chi non è cittadino italiano. Mentre il costo giornaliero per singolo detenuto è stimato in circa 137 euro, la volontà di rimpatriare i detenuti stranieri e di “svuotare le carceri” si scontra almeno con due problemi. Uno giuridico, che potrebbe comportare la revisione di accordi internazionali e leggi nazionali; l’altro di efficacia. Il caso del Regno Unito, ad esempio, che ha preso alcune misure per effettuare rimpatri, non mostra risultati incoraggianti”. Il caso Mandara insegna: come battere la mafia senza distruggere le aziende? di Marco Demarco Corriere della Sera, 6 ottobre 2019 Ciò che è successo all’ultrasettantenne simbolo dell’industria casearia, scagionato in via definitiva, costituisce un caso limite ma attualizza, per contrasto, un tema molto più generale, quello della lotta al capitalismo mafioso nel mercato legale. Tre richieste di arresto, quattordici giorni in carcere all’indomani di un serio intervento al cuore, altri venti ai domiciliari, e oltre 150 mila citazioni negative su Google, senza contare le centinaia di foto con il “mostro” sbattuto online. L’ultrasettantenne Giuseppe Mandara, simbolo dell’impresa casearia, tra i più noti produttori di mozzarelle, è stato accusato di associazione camorristica e depistaggio, e solo ora è uscito da un incubo cominciato nel 2012. Per due volte, come riportato dal Corriere del Mezzogiorno, il Riesame ha bocciato l’arresto già avvenuto. E per due volte - anche quando è stato contestato il ricorso a un pentito “non credibile”, del quale sarebbe stato opportuno sospettare “ogni movimento labiale e ogni scritto” - la Procura di Napoli ha fatto inutilmente ricorso in Cassazione. La terza richiesta di arresto è stata invece respinta all’origine. Scagionato in via definitiva, l’ingiustamente accusato chiede mezzo milione di risarcimento: per i danni subiti, per l’espulsione dal consorzio di produttori, per l’immagine commerciale compromessa e per le vendite a picco. Ciò che è successo a Mandara costituisce un caso limite, ma attualizza, per contrasto, un tema molto più generale, quello della lotta al capitalismo mafioso nel mercato legale. Come estirpare il “male” (le mafie) senza distruggere il “bene” (le aziende)? Come definire politiche “programmanti” e non “moraleggianti”? Per evitare derive di questo tipo, Rocco Sciarrone e Luca Storti hanno scritto Le mafie nell’economia globale (il Mulino), un saggio aggiornato nell’analisi e provocatorio nella proposta. L’idea di fondo è di rilegittimare il rapporto tra politica ed economia; quella strategica è di non escludere “un calcolo costi-benefici, spesso ritenuto un tabù nell’ambito della lotta alla mafia”; quella specifica è di evitare misure interdittive che possano determinare una sorta di “ergastolo imprenditoriale”. Insomma, con la mafia “bisogna giocare a scacchi e costringerla all’abbandono; lo scacco matto è un’illusione”. Non serve una nuova legge sul “carcere per i grandi evasori” di Enrico Zanetti Il Foglio, 6 ottobre 2019 Quello della maggiore punibilità per chi evade il fisco è un tema ricorrente sin dal lontano 1982. Eppure la normativa attualmente in vigore è più che sufficiente. Archiviate insieme al precedente governo le generiche proposte di “pace fiscale”, il baricentro delle parole d’ordine della politica si sta spostando in queste ultime settimane verso la non meno generica promessa di “carcere per i grandi evasori”. È un tema ricorrente sin dal lontano 1982 che solitamente si accompagna non tanto al tipo di colore politico del governo e della sua maggioranza, quanto piuttosto alla crescente consapevolezza di quel governo e quella maggioranza politica della necessità di varare di lì a poco scelte impopolari sul versante fiscale. Accadde infatti anche nell’estate del 2011 con un governo e una maggioranza politica completamente diversi da quella attuale. In verità, risulta sempre difficile capire cosa si intenda davvero fare, dietro a questa dichiarazione d’intenti, posto che il “carcere per i grandi evasori” è già da molto tempo parte integrante del nostro ordinamento giuridico. Il decreto legislativo n. 74 del 2000 prevede pene da 1,5 a 6 anni di reclusione per frode fiscale e da 1 a 3 anni per dichiarazione infedele “non fraudolenta”, oltre ovviamente a sanzioni pecuniarie salatissime che vanno dal 135 al 270 per cento per la frode fiscale e dal 90 al 180 per cento per la “semplice” dichiarazione infedele. Nel caso di frode mediante fatture false, la reclusione non è nemmeno limitata ai “grandi evasori”, perché scatta anche per un euro, mentre nel caso di frode mediante altri artifici scatta oltre 30 mila euro ed in quello di dichiarazione infedele “non fraudolenta” scatta oltre 150 mila euro (quindi, se è di “grandi evasori” che si intende parlare, c’è già in ogni caso). A ciò si aggiunga che, a decorrere dal 2015, è stato introdotto anche il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter1 c.p.), tale per cui è prevista la pena della reclusione da 2 a 8 anni per chi impiega, sostituisce o trasferisce in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro proveniente, tra le altre cose, da reati di frode fiscale (se deriva da reati di dichiarazione infedele “non fraudolenta” la pena è da 1 a 4 anni). E d’altro canto, se così non fosse, sarebbe da chiedersi come mai capita sovente di leggere sui giornali di arresti, singoli o di più persone in concorso tra loro, compiuti meritoriamente dalla Finanza a fronte della scoperta di frodi fiscali più o meno complesse e ramificate, a dimostrazione di quanto sia privo di reale fondamento il luogo comune secondo cui in Italia “nessuno va in carcere per evasione fiscale”. Vero è, questo sì, che è più facile finire in carcere durante le indagini e prima dei processi che restarvi dopo la sentenza definitiva, ma questo è un tema di sistema che riguarda l’amministrazione della giustizia con riguardo alla generalità dei reati e che va affrontato su questo piano, più che un tema specifico di diritto penale tributario. Né invocare ulteriori inasprimenti “mirati” delle pene pare francamente condivisibile, al netto di ipotizzabili ritocchi “non stravolgenti”, in assenza di una eventuale volontà politica di più ampia revisione dei minimi e massimi edittali delle pene previste anche per altre tipologie di reato che destano non meno allarme sociale. Anche volendo considerare l’evasione alla stregua di un vero e proprio furto (pur nella oggettiva difficoltà della piena equiparazione concettuale tra un comportamento di sottrazione di cosa appartenente a patrimonio altrui con una di mancata estromissione di cosa appartenente a patrimonio proprio), non si può infatti prescindere dalla constatazione che le pene previste per il furto “semplice” vanno da un minimo di 0,5 a un massimo di 3 anni (art. 624 c.p.) e salgono da un minimo di 4 a un massimo di 7 anni nel caso più grave di furto che si consuma presso l’abitazione del derubato (art. 625 c.p.). Tenuto conto che, come è logico che sia, queste pene reclusive si accompagnano a sanzioni pecuniarie risibili rispetto a quelle enormemente più elevate che accompagnano le pene reclusive applicabili ai reati di frode ed evasione “semplice”, si fatica francamente a non vedere un ragionevole equilibrio tra le diverse fattispecie, al netto, naturalmente, di eventuali furori ideologici. Parma. Servizio Civile, un anno aiutando i detenuti e le loro famiglie di Raffaele Crispo parmadaily.it, 6 ottobre 2019 Giovedì 10 ottobre alle ore 14 si chiude definitivamente il bando per il Servizio Civile universale e per fare un anno di esperienza anche con una delle associazioni più singolari di Parma, ossia “Per Ricominciare” una realtà che da tanti anni accoglie gratuitamente le famiglie dei detenuti che sono in condizioni di difficoltà economica e che vengono a Parma per far visita ai loro cari reclusi negli Istituti Penitenziari di Parma. Inoltre, l’associazione è al fianco di quei detenuti che sono in licenza o in permesso premio permettendo loro di incontrare i famigliari in una casa d’ accoglienza. Chi dei giovani vorrà cogliere la sfida e vivere un’esperienza a contatto con una realtà spesso bistrattata e dimenticata avrà l’opportunità di trascorrere un anno ricco di emozioni altamente motivante e umanamente sconvolgente. Sono in tanti i ragazzi e le ragazze che negli scorsi anni hanno scelto di prestare un anno di Servizio Civile a favore dei detenuti e in principale modo delle loro famiglie. Ai giovani sarà chiesto di fare un servizio di accoglienza presso un’altra casa che l’associazione ha e che mette a disposizione proprio nel cuore della città a due passi dal Duomo. Per chi ha già fatto questa esperienza è stata l’occasione per mettersi in gioco, dare un senso alla propria vita e impegnarsi in una realtà che difende i diritti dei bambini attraverso la cura delle relazioni famigliari durante la detenzione di un genitore. Il volontario che sceglierà di prestare la propria opera presso “Per Ricominciare” potrà, all’interno del carcere di Via Burla, accogliere i bimbi e i ragazzi nel laboratorio denominato “ Il Gioco”, uno spazio ad hoc con finalità ludiche, e che offre anche stimoli alla creatività. Attraverso tale attività di animazione i nuovi volontari di “Per Ricominciare” potranno rendere meno traumatica l’esperienza di incontrare un famigliare detenuto, trauma che coinvolge tutta la famiglia e in particolar modo i minori. La Presidente dell’associazione Emilia Agostini Zacomer dall’alto della sua trentennale esperienza ritiene che tale attività sia altamente formativa ed educativa per i giovani volontari i quali maturano speditamente entrando concretamente in contatto con le tante storie e con i non facili vissuti delle famiglie coinvolte. Il progetto di coinvolgimento per tale Servizio Civile è denominato: “Gnam! Nuova vita nel piatto “e chi desidera ulteriori chiarimenti può rivolgersi direttamente a Forum Solidarietà in via Bandini 6. Per ulteriori informazioni si può contattare anche direttamente l’associazione all’indirizzo email efocolare@gmail.com oppure seguire su Facebook “Associazione Per Ricominciare”. Reggio Calabria. Contrasto alla violenza sulle donne: ripartire dalle scuole ildispaccio.it, 6 ottobre 2019 Iniziativa all’IIS Marconi di Siderno dell’Osservatorio sulla violenza di genere e della Questura. L’invito rivolto alle ragazze dal Questore Maurizio Vallone a essere selettivi nella scelta del partner, pretendendo rispetto e amore vero è stato uno dei messaggi lanciati nell’incontro tenutosi nell’aula Magna dell’IIS Marconi di Siderno (Rc) sul tema della violenza di genere. Gli studenti sono stati letteralmente catturati e affascinati dal suo intervento e della autorevolezza con la quale ha parlato del fenomeno, sottolineandone l’efficace contrasto attraverso gli interventi del Protocollo L.I.A.N.A. e che, al contempo, con doti di straordinaria sensibilità, è riuscito a trasmettere e far affiorare nei ragazzi legittimi sentimenti di sdegno e condanna verso ogni manifestazione di violenza. L’iniziativa promossa dall’Osservatorio regionale sulla violenza di genere attraverso i coordinatori Mario Nasone e Giovanna Cusumano, in collaborazione con la Dirigente scolastica Clelia Bruzzì ha consentito di realizzare obiettivi formativi, informativi e di riflessione grazie anche agli autorevoli relatori e rappresentanti delle Istituzioni hanno tracciato il fenomeno ripercorrendolo nella sua drammaticità ed evidenziando, nei diversi ambiti, le modalità di intervento, l’importanza di fare rete, dell’utilizzo di sistemi informatici di raccolta dati, del loro monitoraggio e del risultato conseguenziale immediatamente percepibile e spendibile della tempestività dell’intervento da parte delle Forze dell’ordine. Il profilo di maggior rilievo dell’iniziativa è stato senza dubbio quello della autentica “vicinanza” che le figure istituzionali hanno voluto dimostrare ai giovani presenti alla manifestazione, particolarmente attenti e partecipi all’ascolto rispetto alle testimonianze dei Sindaci dei Comuni, Giovanni Calabrese e Caterina Belcastro ai quali si è chiesto di promuovere l’attivazione di un centro anti violenza nella Locride, della referente dello sportello antiviolenza del Comune di Siderno Caterina Origlia e della psicologa dell’ASP. Daniela Diano che ha trattato il tema della violenza assistita dei minori Il Comandante del gruppo carabinieri di Locri Giovanni Capone ha sottolineato l’importanza della presenza capillare dell’Arma su tutto il territorio nazionale, dai grandi centri urbani alle località minori ed ha presentato il protocollo d’intervento adottato. Molto apprezzato e atteso è stato l’intervento del Presidente del Tribunale di Locri Rodolfo Palermo, al quale gli studenti del Marconi si sono rivolti auspicando che si rafforzi l’impegno comune di magistrati ed avvocati al fine di superare retaggi culturali che, in precedenza, consentivano ambigui tentativi di ribaltare il rapporto tra carnefice e vittima trasformando, spesso, in imputate le donne vittime di violenza. L’intervento del direttore di Fimmina tv, Raffaella Rinaldis ha consentito di presentare il canale che dal 2012 è punto di riferimento per ogni donna calabrese che voglia cambiare la realtà del proprio territorio, molto spazio anche agli studenti che hanno presentato il percorso di Cittadinanza e Costituzione, significativamente dal titolo “dignità, semplicità e umiltà del Sud”, che racchiude in sé tutta la voglia di riscatto dei giovani. A conclusione dei lavori la Dirigente Bruzzi anche nella sua veste di referente dell’osservatorio del percorso didattico formativo “adotta la storia di una vittima di femminicidio” ha comunicato che già 22 scuole del reggino hanno aderito alla proposta, tra queste il Marconi particolarmente coinvolto per avere tra i suoi allievi i figli di Mary Cirillo la giovane madre di Riace vittima di questo terribile male che può essere debellato solo avviando una rivoluzione delle coscienze. Ferrara. Incontro con i detenuti: “vogliamo ritrovare la nostra dignità” di Cecilia Gallotta estense.com, 6 ottobre 2019 La Casa circondariale apre i cancelli a “Internazionale” e i carcerati illustrano le loro opere in mostra. Una mano incatenata di fianco a un calamaio e a un foglio bianco. Un aquilone che col filo taglia le sbarre alla finestra. È difficile immaginare le stesse mani e le stesse menti che hanno commesso un reato, dipingere sentimenti. Ebbene è ciò che alcuni detenuti della Casa Circondariale hanno potuto mettere in mostra al pubblico sabato mattina, quando il carcere ha aperto i suoi cancelli in occasione del festival di Internazionale, radunando oltre una sessantina di persone incuriosite dal luogo che solitamente viene considerato “fuori dal mondo”. Un incontro, “dove già la parola stessa descrive il raggiungimento dell’obiettivo - esordisce Mauro Presini, curatore del giornale Astrolabio - perché il fatto che siete venuti qui, dà valore a ciò che facciamo insieme ai detenuti”. La connessione con il mondo esterno risulta infatti essere una costante nelle giornate dei detenuti in carcere, come afferma lo stesso detenuto Paride, ma come si può evincere anche da ciò che rappresentano nei quadri, mostrati e affiancati dal curatore del corso di pittura in carcere Raimondo Imbrò. “Sono dentro da due anni e poco dopo ho saputo che mia moglie era incinta - racconta il giovanissimo Josef, illustrando un dipinto con parco e una giostrina vuota-: il mio bimbo adesso ha un anno e mezzo, e io non ci sono a giocare con lui”. Il fatto che “chi ha sbagliato debba soltanto pagare” non tiene conto, secondo la garante dei detenuti Stefania Carnevale, di come la maggior parte delle persone rientreranno nella società dopo aver scontato la pena: “Se auspichiamo che si ‘marcisca in galera’, per citare uno dei tanti luoghi comuni, allora prima o poi riavremo fra noi persone marce”. Ma “la spinta di ogni essere umano è quella di riuscire a trovare la propria dignità - afferma il detenuto Luigi, che non risparmia qualche lacrima al pensiero di sua figlia -: io purtroppo ero molto ignorante, e alla fine siamo tutti qua per questo motivo. Non conoscevamo la giustizia, e ce ne siamo fregati. Ma quando uno viene condannato, il metro di giudizio dovrebbe essere diverso, più ampio, per ciascuno di noi, perché per lo stesso reato non è detto che servano gli stessi anni a tutti gli individui. E se c’è qualcuno che è davvero pronto a ricominciare a fare il padre, o il marito, o il figlio, dovrebbe esserci una legge che gliene dà diritto”. Un terreno delicato a cui risponde soltanto il detenuto Ben Harrat Lassad, citando Gesù Cristo: “In fondo, chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Ascoli. Detenuti sul campo di calcio contro i commercialisti di Simone Corradetti cronachepicene.it, 6 ottobre 2019 “Il mio campo libero” è un progetto che intende promuovere la salute e il benessere che porta in ognuno di noi l’attività fisica, specie se inquadrata in un processo di rieducazione. L’obiettivo è quello di sviluppare e aumentare la fiducia in ogni persona, ristretta nel corpo e nel movimento, consentendo quindi la crescita e la consapevolezza dei propri mezzi. Sono necessari programmi di qualità e accompagnamento, mettendo in campo le professionalità giuste per ottenere certi risultati. Sport come educazione alle regole, socializzazione e autostima, per un benessere mentale dei detenuti. È questo l’obiettivo che si prefigge il Centro Sportivo Italiano (Csi) di Ascoli. Attraverso l’attività fisica, in questo caso con il gioco del calcio, “si intende collaborare, con il carcere di Marino del Tronto e il Ministero di Grazia e Giustizia”. È stata una iniziativa davvero lodevole, con i giovani detenuti che questa mattina, sabato 5 ottobre, hanno affrontato la squadra dei commercialisti. Ad affiancare i detenuti, l’istruttore e allenatore Valentino D’Isidoro, il quale tiene a rimarcare “l’importanza di questo progetto solidale, per persone come noi che stanno scontando la pena. I ragazzi - prosegue - sono sempre molto corretti durante l’attività sportiva, rispettandosi a vicenda. Un ringraziamento particolare - conclude - va al presidente del Csi Antonio Benigni, promotore del progetto, insieme alla segretaria Eleonora Sacchini. Lo stesso Benigni aggiunge che “bisogna anche coinvolgere attori esterni al carcere, per proseguire un percorso rieducativo e in piena collaborazione con il Ministero”. Terminata la partita, tutti ij protagonisti nella sala ospiti, per un piccolo rinfresco. Il sindaco di Ascoli, Marco Fioravanti, sottolinea “l’importanza del progetto, con l’eventuale possibilità di rendersi utili con dei lavori a favore della città”. Alle parole del primo cittadino si sono aggiunte quelle della direttrice del carcere Eleonora Consoli e de presidente dell’Ordine dei commercialisti di Ascoli, Carlo Cantalamessa i quali sottolineano “la collaborazione con l’Amministrazione comunale e le associazioni sportive nella realizzazione di attività di gruppo, sport e aggregazione”. Un messaggio di conforto e di speranza è giunto ai detenuti anche dalle parole che ha pronunciato il vescovo Giovanni D’Ercole. Fine vita e ius soli, manca il coraggio di Roberto Saviano L’Espresso, 6 ottobre 2019 La politica ha paura di decidere su temi come questi, così come sulle adozioni gay. Ma i diritti civili non sono alternativi alle questioni sociali. Dicembre 2016, passeggiavo tra i viali fantasma di Cinecittà mentre mi raccontavano di Fabiano Antoniani, dj Fabo. Fabiano era un uomo pieno di vita fino a un incidente stradale che lo aveva reso tetraplegico e cieco. A febbraio 2017 avrebbe compiuto 40 anni, voleva dare una festa e salutare tutti gli amici. Voleva congedarsi da una vita che non riusciva più a considerare vita. Quando per la prima volta Fabiano Antoniani incontra Marco Cappato, gli dice: “Avevo una vita bellissima, la più bella del mondo, la più bella che potessi desiderare. Fino all’incidente. Ora ho dolori insopportabili e sono immobile e, siccome io la vita la misuro in qualità e non in quantità, ho deciso che così non voglio più viverla”. Quando mi spiegarono ciò che stavano vivendo Fabiano e le persone che gli erano accanto - la sua compagna Valeria e sua madre Carmen - mi chiesero di sostenere la sua battaglia, una battaglia che Fabiano stava ancora decidendo se combattere o meno. Immaginate i dubbi, i ripensamenti, le paure: per quanto una vita possa essere insopportabile, è sempre vita e non è facile decidere di separarsene. Non è facile per nessuno. Forse vale la pena partire da questo. per capire che tutto ciò che viene dopo la decisione è un atto di amore, di amore profondo. Fu un atto di amore quello tra Mina e Piergiorgio Welby. Fu un atto di amore profondo, paterno, immenso, quello di Beppino Englaro che decise di rispettare il desiderio di sua figlia Eluana, che mai avrebbe tollerato di vivere come un vegetale. Ha senso chiedersi come fossero le vite di Fabiano Antoniani e di Eluana Englaro prima dell’incidente? Come quelle di Piero Welby e Dominique Velati prima della malattia? Forse sì, ha senso, perché ci renderemmo conto che le loro vite erano uguali alle nostre, vite bellissime perché imperfette, reali, vite piene anche di sofferenza. Ma esiste un limite tra una vita che possiamo vivere e una vita che ci toglie tutto? Vita significa cercare un lavoro e trovarne uno che magari ti rende infelice, significa non trovare più il senso in una storia d’amore, significa provare rancore verso i propri genitori, rancore e amore insieme. Vita è uscire con gli amici per una birra, litigare, tradirsi e dimenticare. Vita è portare il cane giù a pisciare, vita è abbracciarsi sotto le coperte, vita è il silenzio, vita è la complicità, le battute, gli scherzi. Vita è dare una festa per i propri 40 anni per salutare tutti e congedarsi dalla vita. Su anni di disobbedienza civile e su un lavoro costante, titanico, eroico dell’Associazione Luca Coscioni e dei tanti amici che hanno sempre sostenuto Marco Cappato, Filomena Gallo, Mina Welby e tutti gli attivisti, si innesta la pronuncia della Corte Costituzionale che ha stabilito che chi si trova nella condizioni di dj Fabo ha diritto a essere aiutato, che l’aiuto a una morte dignitosa, in determinate condizioni, non è reato. L’Associazione Luca Coscioni, da quando è nata, non si è spesa solo per aiutare chi legittimamente decide di voler interrompere una vita di sofferenza e immobilità, tenuta in piedi artificialmente, ma si occupa di sostenere il progresso scientifico per la procreazione assistita che alle nostre latitudini resta incredibilmente ancora un tabù. L’Associazione Luca Coscioni è accanto alle migliaia di coppie che non riescono ad avere figli, quindi non morte ma vita, e vita dignitosa. E ora - qualcuno si chiederà - dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che cosa dovrebbe accadere? In un Paese dove la politica lavora davvero, ci si aspetterebbe una legge e ci si aspetterebbe coraggio. Il coraggio che è mancato, e manca ancora, nel votare lo ius soli/ius culturae, che è mancato nel varare i decreti attuativi che avrebbero dato concretezza alla riforma delle carceri, che è mancato sulle adozioni per coppie gay. Che manca ogni qual volta ci sono decisioni che si possono posticipare con la scusa che non si tratta di pane. lavoro e tasse. Sì, perché spero che una cosa sia chiara a voi che state leggendo queste mie righe e a chi ci governa: i diritti civili non sono alternativi ai diritti sociali. I governi si devono occupare di tasse e di lavoro ma tasse e lavoro non possono essere un paravento per smettere di occuparsi del resto. Ambiente, cosa si può fare di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 6 ottobre 2019 Le buone pratiche non mancano. Abbiamo tante eccellenze. Molte imprese e amministrazioni all’avanguardia. Ma tantissime aziende italiane non hanno un programma per la sostenibilità. Chi lo ha adottato ha una produttività superiore (in alcuni casi del 15 per cento). Crea più valore, occupazione, reddito. Se fossimo tutti preoccupati per le sorti del pianeta oggi dovremmo discutere e approfondire i risultati del rapporto ASviS, l’associazione per lo sviluppo sostenibile. È stato presentato venerdì scorso. Meritava un’eco maggiore. Immersi in un eterno presente ci dimentichiamo subito dei grandi temi. Sono schiacciati dalle polemiche di giornata. Spesso li rimuoviamo. Salvo poi parlare di Greta e lodare l’impegno dei giovani senza aver colto il loro drammatico e urgente messaggio di fondo. Tocca a tutti noi farcene carico. Perché solo una grande sensibilità pubblica, un ampio movimento di opinione e una migliore educazione civica orienteranno scelte di governo e strategie aziendali lungo il percorso della sostenibilità. Ovviamente l’esecutivo deve fare la propria parte e dimostrare che il cosiddetto green new deal non è solo uno slogan. Qualche esempio. Il premier Giuseppe Conte ha annunciato all’Onu che il nostro sarà tra i primi Paesi a raggiungere entro il 2050 la neutralità delle emissioni. Bene. Ma occorrerà adeguare, entro fine anno, il Piano nazionale integrato energia e clima approvato dal Conte 1, e ampiamente criticato da Bruxelles perché insufficiente, in particolare sulla decarbonizzazione. Nel febbraio scorso - si legge nel rapporto ASviS - il governo gialloverde ha presentato l’analisi di impatto della manovra economica del 2019 sui dodici indicatori di benessere equo e sostenibile. Ma si è fermato a quattro: reddito medio pro capite, disuguaglianza, non partecipazione al mercato del lavoro, emissioni di gas inquinanti. Le buone pratiche non mancano. Abbiamo tante eccellenze. Molte imprese e amministrazioni all’avanguardia. Ma tantissime aziende italiane non hanno un programma per la sostenibilità ambientale e sociale. Chi lo ha adottato ha una produttività superiore (in alcuni casi del 15 per cento). Crea più valore, occupazione, reddito. Anche il mondo delle banche e della finanza può fare molto di più. I fattori Esg (Environmental, social and governance) sono decisivi nelle scelte dei fondi di investimento. La Banca d’Italia ne ha aumentato il peso nella valutazione del merito di credito ma c’è un problema non indifferente di certificazione dei progressi per distinguerli dalle buone intenzioni o dalle promesse di facciata. Si parla tanto di green bond e l’Italia si appresta a emettere il primo bond sovrano. Ma l’interrogativo più scomodo che si possa rivolgere agli investitori è uno solo: vi accontentereste di guadagnare di meno pur di garantire un beneficio ambientale e sociale? Si attendono risposte. L’Italia, com’è emerso dal rapporto presentato dal portavoce di ASviS, Enrico Giovannini, ha ottenuto tra il 2016 e il 2017, qualche buon progresso in 9 delle 17 aree di intervento previste dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Ovvero: salute, parità di genere, condizioni economiche e occupazionali, innovazione, modelli sostenibili di produzione e consumo, sviluppo delle città, disuguaglianze, qualità della governance, pace, giustizia e istituzioni solide e, infine, cooperazione internazionale. In due campi, educazione e lotta al cambiamento climatico, siamo rimasti fermi. Peggiorati nei capitoli riguardanti povertà, alimentazione e agricoltura sostenibili, acqua e strutture igienico-sanitarie, sistema energetico, condizione dei mari ed ecosistemi terrestri. Le raccomandazioni per migliorare le nostre posizioni sono numerose, alcune di semplice buon senso. Andrebbero tutte esaminate e, se possibile, accolte senza tanti indugi. Non sfugge agli osservatori più attenti e meno ideologici che, sulla strada della riconversione produttiva, i soggetti più deboli possono essere ingiustamente colpiti. Questo è un pericolo da evitare, anche perché se vogliamo che cresca una diversa sensibilità dobbiamo scongiurare l’antipatica divisione tra chi la sostenibilità se la può permettere e chi no. Valgono più di 19 miliardi l’anno i sussidi ambientalmente dannosi. In agricoltura e nei trasporti sorreggono però anche attività al limite della sopravvivenza. Cancellarli con un tratto di penna può sembrare la soluzione migliore. Un beneficio per l’ambiente avrebbe una ricaduta sociale dannosa. Una legge che prevedesse lo stop al consumo di suolo probabilmente darebbe un fortissimo impulso alla riqualificazione edilizia con effetti positivi sull’intero settore e sull’occupazione. Ma in tutto il territorio nazionale? I dubbi sono legittimi. Il sentiero è stretto. Va percorso con decisione e senza cambiare idea ogni anno. Con poca coerenza e poca persistenza non si va lontani. Nell’ultimo rapporto Symbola, di cui è presidente Ermete Realacci, si segnala che sono 345 mila le imprese che negli ultimi 5 anni hanno puntato sulla green economy. Attraggono più capitali, vanno meglio all’estero, innovano e creano nuovi profili lavorativi e professionali. L’Italia viene poi definita una superpotenza nell’economia circolare. È il Paese europeo con la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti prodotti. Peccato non esista un sufficiente mercato del riuso e la burocrazia lasci indefinita, in diversi settori, la qualificazione di rifiuto (end of waste), con aggravio dei costi. L’incertezza normativa frena il riutilizzo delle materie prime riciclate e lo sviluppo di nuove imprese. Accanto a tutto questo ci sono i rifiuti urbani. Alcune regioni e città hanno indici di raccolta differenziata anche superiori ai livelli europei. Esempi virtuosi. Ma sotto gli occhi di tutti ci sono altri casi, Roma in testa, che fanno impallidire quel record, sudato, di superpotenza nell’economia circolare. Una vergogna. Ogni anno viaggiano sulle strade italiane, diretti in altre regioni o all’estero, 165 milioni di tonnellate di rifiuti urbani su 1,7 milioni di Tir. Uno spreco gigantesco. Poco sostenibile anche e soprattutto per la coscienza civile di un Paese. Lettera a Silvia, sequestrata in Kenya: “Noi volontari, gli italiani migliori” di Eva Pastorelli Corriere della Sera, 6 ottobre 2019 “Cara Silvia, sono Eva. Non ci conosciamo ma spero ne avremo la possibilità. In attesa di quel momento, che spero giunga presto, ti scrivo”. Comincia così la lettera aperta che Eva Pastorelli, volontaria internazionale oggi impegnata con Focsiv, ha pubblicamente letto e idealmente indirizzato a Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya il 20 novembre 2018. La lettura è avvenuta durante la conferenza nazionale del Csvnet che fino a domenica 6 ottobre riunisce a Trento 350 rappresentanti dei Centri servizio volontariato di tutta Italia e che quest’anno ha per tema “La follia dei volontari”. Ecco il testo integrale della lettera. Cara Silvia, sono Eva. Non ci conosciamo ma spero ne avremo la possibilità. In attesa di quel momento, che spero giunga presto, ti scrivo. È da un po’ che volevo farlo, ma in mezzo a tutte queste voci, dichiarazioni, opinioni più o meno autorevoli, mi ha fermato il pensiero sottile, la sensazione scomoda di apparire arrogante. Abbiamo qualcosa in comune, tu ed io? Ho deciso di andare oltre questa domanda, mettendo per iscritto quello che sento quando penso a te, al tuo trascorso e al tuo presente. Non voglio più chiedermi se sia il caso: mi sto buttando, e porto con me le riflessioni che mi hanno accompagnata in questi mesi. E in questo mare di parole, vorrei ti giungessero anche le mie, per darti conforto e alimentare quel coraggio che ti è, ci è, proprio. Sì, parlo al plurale perché tu ed io condividiamo molto, e come noi, migliaia di giovani in Italia. Quando penso a noi, vedo due giovani donne volitive, decise, che hanno preso una posizione. Abbiamo scelto. Sempre. Una sola cosa ci è toccata senza che la scegliessimo ed è stata la fortuna di nascere in Italia, in Europa, una delle regioni privilegiate di questo pianeta. Abbiamo potuto studiare, approfondire, viaggiare liberamente e ci sono stati garantiti quei diritti che altrove, nel mondo, sono lesi giornalmente. Siamo a tutti gli effetti delle privilegiate. E potevamo godere di questa situazione in modi diversi. Animate dal desiderio di vivere in una società più giusta e più equa, abbiamo scelto di dedicarci agli ultimi, ai più vulnerabili, aprendo la testa e il cuore e volgendo lo sguardo verso chi non è stato fortunato quanto noi. Perché, come hai scritto anche tu, (tutti) “Meritano di avere le nostre stesse opportunità perché siamo tutti esseri umani in cerca di libertà, realizzazione, felicità”. Abbiamo scelto di intraprendere un percorso di studi che ci dotasse di strumenti utili per comprendere la realtà, andando al di là dei confini, imparando che le periferie del mondo si assomigliano. Verso questi luoghi abbiamo indirizzato il nostro interesse e siamo partite per raggiungerli. Ci siamo, quindi, allontanate da tutto ciò che era quotidiano, routine, comfort. Lontane da casa, ma sentendoci nel posto giusto; distanti dal supporto dei cari, ma pronte a tessere nuove relazioni, utilizzando approcci sconosciuti fino a poco prima. Abbiamo scelto di prestare volontariato in paesi dilaniati dai conflitti sociali, nei quali la dignità umana è costantemente lesa da sfruttamento, discriminazioni, corruzione ed ingiustizie. E in questi luoghi abbiamo visto la determinazione di chi continua a lottare nonostante gli ostacoli appaiono insormontabili; abbiamo goduto della generosità di chi vive con poco e darebbe tutto ciò che ha pur di farti sentire a casa; grazie all’incontro con diverse culture e tradizioni abbiamo affrontato le nostre debolezze e scoperto nuovi punti di forza. Abbiamo smesso di dare per scontato ciò che tale ci sembrava: avere sempre a disposizione dell’acqua per potersi lavare, poter raggiungere una località percorrendo strade asfaltate; darsi un appuntamento e poter arrivare puntuali. Ci siamo arricchite interiormente, grazie all’incontro con una realtà diversa dalla nostra e alla condivisione di un percorso con chi quella realtà la vive. E non siamo delle “ingenue, un po’ folli, illuse di poter cambiare il mondo”. Siamo donne generose e tenaci, consapevoli che i piccoli gesti possono fare la differenza nel costruire un mondo migliore, per tutte e tutti. Siamo donne che hanno scelto consapevolmente, in autonomia e supportate da chi ci conosce da sempre. Silvia, tu ed io abbiamo scelto di partire per poi per offrire le nostre competenze al servizio dell’Altro. Ed ora che lo leggo nero su bianco ne sono convinta: noi due, cara, abbiamo tanto in comune. Solo una cosa ci fa divergere: io, al contrario di te, ho potuto scegliere di tornare. Augurandoti di poter continuare a scegliere, ti mando l’abbraccio della parte migliore di questo Paese. Quella come te. Tua. Quei migranti integrati che il decreto Salvini costringe a essere irregolari di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 ottobre 2019 Ci sono migliaia di richiedenti asilo che lavorano, fanno volontariato, riparano strade, restaurano scuole, aiutano disabili e malati. Ma con le nuove leggi a regime le commissioni hanno cominciato a respingere la quasi totalità delle domande di accoglienza. Il giovane Yoro non stacca gli occhi dal pezzo di ferro che sta trasformando nel braccio di una panchina rossa. Al suo fianco c’è Bruno, un artigiano in pensione, che ha scelto di tramandare 65 anni e passa di esperienza da fabbro a chi scappa da guerre, fame e persecuzioni. “I ragazzi italiani certi mestieri non vogliono più farli”, riflette Bruno, modenese di 81 anni, che lavora da quando ne aveva 14. Ha iniziato come aiutante, come Yoro nella sua officina. Poi da operaio si è messo in proprio conquistando commesse da grosse multinazionali della meccanica. Osservarli impegnati fianco a fianco ricordano una strofa di “Un vecchio e un bambino” della canzone di Francesco Guccini: “Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose mai viste”. E Yoro, che ormai non è più un bambino, ma un ragazzone, porta sul volto i segni del passaggio in Libia. Per Yoro il laboratorio di Bruno Ferrari rappresenta l’occasione della vita, la libertà dal bisogno, dalla miseria, dalla quale è fuggito ormai tre anni fa attraversando il deserto. Dal Senegal, a 19 anni, ha raggiunto la Libia dove è stato prigioniero in uno dei tanti lager. Oggi assembla panchine che verranno istallate nei parchi di Castelfranco Emilia, provincia di Modena, per ricordare le donne vittime di violenza. Quando gli chiediamo di raccontarci delle violenze subite in Libia, i suoi occhi si inumidiscono e abbassa lo sguardo. Capiamo che è inutile insistere. Yoro non ha intenzione di voltarsi indietro, desidera soltanto guardare avanti. E lì a pochi centimetri c’è la fiamma ossidrica con cui saldare il ferro a dargli una speranza concreta di salvarsi dall’abisso della clandestinità. Futuro certo finché non è arrivato Matteo Salvini al Viminale. I decreti sicurezza voluti dall’ex ministro, condivisi e rivendicati dai 5 Stelle, rischiano di mandare a monte un percorso di integrazione costruito a Modena e Castelfranco. Yoro, infatti, è uno dei quasi 1.500 richiedenti asilo che vivono nella provincia modenese. La metà di loro ha trovato un sistema di accoglienza differente dalla mera carità, dall’elemosina di Stato, i 2,50 euro al giorno che spettano per diritto a ogni ospite di un centro di accoglienza. Qui quasi 700 migranti sono inseriti in percorsi di volontariato sociale, fanno lavori e lavoretti per rendere più vivibili i quartieri, sistemare le scuole, ripristinare luoghi deturpati dal degrado e dall’incuria, si prendono cura della città. Attività durante le quali apprendono un mestiere, accumulano esperienze, che poi spendono per entrare nel mercato del lavoro. A Modena la collaborazione tra terzo settore, istituzioni e cittadini ha modellato un impianto dedicato all’integrazione dei nuovi arrivati nel tessuto economico, tra i più produttivi d’Italia: dalla ceramica alla meccanica, con indotti annessi, hanno fatto la fortuna di questa terra. “Arrivano decine di richieste dalle aziende del distretto ceramico, in particolare, pronte ad assumere questi ragazzi”, ci spiega il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, che aggiunge: “Il nostro obiettivo è l’integrazione, non la distruzione sociale. Che vuol dire offrire opportunità di inserimento nella società. Perché i modenesi, ma vale per tutte le altre città, quando vedono che questi ragazzi lavorano per strada, aiutano la comunità, cambiano atteggiamento. Si demoliscono i muri che spesso, a volte anche inconsapevolmente, costruiamo tra noi e loro”. C’è da chiedersi se il modello messo in piedi dal primo cittadino modenese insieme alla associazioni del Terzo settore e della Chiesa verrà compreso dagli emiliani che saranno chiamati al voto alla fine di gennaio 2020. La regione amministrata dal governatore Pd Stefano Bonaccini è nel mirino della Lega, che qui vorrebbe fare il colpaccio, aizzando le folle contro gli invasori e gli architetti della sostituzione etnica. E in questo i decreti sicurezza voluti dall’ex ministro rischiano di agevolare la propaganda leghista: le nuove norme hanno ristretto la platea di stranieri che possono ottenere lo status di rifugiato, eliminando, per esempio, il permesso per motivi umanitari. Perciò moltissimi richiedenti asilo che ricevono il diniego dalle commissioni territoriali entrano direttamente in clandestinità, che ha come primo corollario l’impossibilità di ottenere contratto regolare. Quale imprenditore o agenzia interinale si assume il rischio di assumere stranieri senza documenti, i “sans papiers”? Più che decreti sicurezza, dunque, si tratta di decreti “insicurezza”, che trasformano il Paese in una fabbrica di clandestini. “Il sospetto è che giovi agli interessi di molti”, dice don Giuliano Stenico, fondatore del Ceis (Centro di solidarietà) di Modena, “Con Salvini al Viminale abbiamo raggiunto un numero impressionante di risposte negative delle commissione che valutano la richiesta di asilo: 97 per cento”. A Modena sono attivi cinque Cas - centri di accoglienza straordinaria - e uno progetto Sprar, i simboli dell’accoglienza diffusa in stile Riace di Mimmo Lucano, contrapposti al modello dei Cara spesso al centro di scandali e mazzette. Per comprendere gli effetti dei decreti Salvini sul sistema di integrazione messo in moto nel Modenese affidiamoci ai numeri: dopo il 5 ottobre, con le nuove norme a regime, su un campione di 309 richiedenti asilo presenti in due strutture, 235 hanno ricevuto risposta negativa dalla commissione e 54 sono ancora in attesa di risposta, che in media arriva dopo 20 mesi, cioè un anno e mezzo di limbo e nella maggioranza dei casi sarà negativa. Solo in 17 hanno ricevuto la protezione. Tra questi c’è Federick Alexander Owona. Lo incontriamo sulla pista ciclabile che collega Modena a Vignola, sulla strada Gherbella, nel cuore della pianura modenese. Sta lavorando insieme ai volontari del gruppo verde della zona fondato dai pensionati del quartiere. Sistemano le staccionate, strappano le erbacce e puliscono la pista dalle foglie che con la pioggia rischiano di trasformarsi in un pericoloso scivolo per le bici. “Realizziamo manutenzioni utili alla collettività”, spiega Franco, pensionato a capo del gruppo di volontari, mentre indica i migranti con la pettorina gialla dei volontari. “Gli anziani insegnano, i ragazzi apprendono”, aggiunge. Dopo una breve pausa ci racconta i progetti futuri: “A breve inizieremo i lavori di sistemazione del cortile di un asilo nido, dove sono state trovare persino siringhe. In passato abbiamo, invece, riparato buche nelle quali erano cadute persone anziane. Non si tratta di lavoro e basta, c’è anche molta educazione civica” Federick ha un leone tatuato sull’avambraccio, il simbolo della sua terra d’origine: il Camerun, da dove è fuggito. Ha 38 anni, viveva nella capitale Yaoundé. È scappato per evitare il carcere, lì è reato amare persone dello stesso sesso. A Modena è arrivato due anni fa. È sbarcato ad Augusta, dopo due giorni di traversata. Salvato dalla guardia costiera italiana, quando salvare vite nel Mediterraneo non configurava il reato d’umanità. “È da folli ritenere la Libia un porto sicuro”, racconta Owona. In Libia ha vissuto in un “mezdra”, un magazzino che i trafficanti usano per stipare merce umana in attesa della traversata. Gli chiediamo delle torture subite. Con gli occhi lucidi esclama solo due parole: “Troppo orrore”. Preferisce parlare dell’oggi e del domani. “Mi trovo benissimo a Modena, lavoro con i volontari, imparano un mestiere e così aiuto anche chi mi ha accolto. C’è sempre una seconda possibilità”. Il Comune di Modena, che ha un assessorato all’integrazione, ha inventato il passaporto di cittadinanza attiva. È un libricino blu, con il quale il richiedente asilo si fa certificare le attività che svolge. Volontariato, ma anche corsi di italiano, lavori e altre attività, pure sportive. Una sorta di curriculum certificato. Un documento, seppure non obbligatorio, che si è rivelato utile in sede di valutazione della domanda di asilo politico. Almeno prima dell’arrivo di Salvini al Viminale. La rigidità è diventata tale da rendere pressoché inutile la presentazione del passaporto. Chi rischia di essere risucchiato nella clandestinità sono i richiedenti asilo che ogni giorno salgono sulle ambulanze della Croce blu per prestare assistenza agli anziani e ai disabili. Si tratta di un progetto nato un anno fa. Su proposta del centro per stranieri del Comune, coordinato da Yuri Costi. I migranti “seguono il corso obbligatorio e se lo superano entrano nella squadra”, ci spiega Francesca Romagnoli, coordinatrice dell’organizzazione. “All’inizio molti erano scettici, preoccupati. Pensi allo sforzo nel comprendersi l’uno con l’altro, c’è chi parlava solo dialetto modenese e chi solo inglese. I timori iniziali sono svaniti, si è creato un team affiatato. Oggi abbiamo equipaggi misti che fanno assistenza. Modenesi insieme ai ragazzi africani”, prosegue. E gli utenti? Che dicono? “Non hanno mai sollevato critiche né obiezioni”. Cinque volontari hanno, inoltre, avuto l’opportunità di partecipare al bando per servizio civile della Croce blu. Derrick è uno di loro. Tuttavia la commissione ha respinto la sua richiesta di protezione: se dovesse andare male il ricorso entrerebbe nella clandestinità. Spinto nel sommerso da quello stesso Stato che lo ha ritenuto idoneo per il servizio civile. Lo stesso vale per Kalifa, con cui riusciamo a scambiarci a stento un saluto. Inizia il turno e non può fare aspettare il suo partner di pattuglia, un signore modenese sulla sessantina. C’è anche Mercy, nigeriana di 28 anni, che a fine ottobre rischia di diventare un’irregolare. L’esperienza nel volontariato ha aperto varchi nel mercato del lavoro. “In 45 sono stati assunti in vari settori”, spiega Yuri Costi, “e abbiamo iniziato a collaborare con alcune agenzie interinali. Sta portando buoni frutti: otto ragazzi sono stati inseriti in aziende locali. Anche questo processo, però, rischia di fallire per chi ha avuto il diniego delle commissioni, a breve diventeranno irregolari e nessuno potrà assumerli”. La strada è in salita anche per Draken e Diamond. Il primo è un ventunenne del Ghana, il secondo è nigeriano e ha 24 anni. Diamond ha ricevuto la brutta notizia dalla commissione poche ore prima che lo incontrassimo. Con Draken hanno molte cose in comune. Giocano nella stessa squadra di calcio e hanno totalizzato il record di ore di volontariato, più di mille ore. Draken nel frattempo è riuscito a trovarsi un lavoretto col contratto. Fino a novembre sta smontando le tensostrutture della festa dell’Unità di Modena.”Noi siamo la testa della festa”, ride Draken, che vuole fare sfoggio del suo dialetto modenese e perciò aggiunge: “oggi non piov mènga”. In Libia è stato in carcere, “chi non paga il pizzo ai posti di blocco della polizia corrotta viene rinchiuso”. Lui ha sempre risposto alla chiamate di Boze Klapez, dirigente del Ceis in pensione che adesso dedica il suo tempo ai migranti dopo aver lavorato una vita nel contrasto alle tossicodipendenze. Draken con altri ospiti dei centri hanno seguito Boze nell’impresa di ritinteggiare lo stadio Braglia della città. E hanno risposto presente quando si è presentata l’occasione di rimettere in sesto una decina di scuole, elementari, medie e superiori. “Ecco, qui sulla sinistra”, Boze ci indica l’istituto Paoli su viale Reiter, “questo è il primo istituto in cui abbiamo lavorato con i ragazzi, è stata dura ma hanno imparato molto e da allora sanno usare il rullo e il pennello”. Un mestiere, come un altro, che per Draken, Yoro, Diamond, Federick e tutti gli altri non ha il sapore della fatica, ma dell’emancipazione. Nonostante le leggi. Nonostante il Capitano della paura. La debolezza dell’Italia nella questione libica di Alessandro Orsini Il Messaggero, 6 ottobre 2019 La Libia continua a essere la principale fonte di preoccupazione del governo Conte nel Mediterraneo. Il generale Haftar è sordo agli inviti di pace e continua ad assediare Tripoli da sei mesi. Le notizie che hanno segnato questa settimana sono pessime. L’l ottobre Haftar ha prima attaccato l’aeroporto di Mitiga e poi quello di Misurata. All’alba di giovedì 3 ottobre, ha bombardato la parte sud di Tripoli, a cui ha fatto seguire cinque raid aerei contro la periferia di Sirte. Secondo gli ultimi dati dell’Onu, l’avanzata di Haftar ha causato 1100 morti mentre le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case sono centoventimila. Durante l’amministrazione Obama, nonostante la Libia fosse divisa in due governi rivali, uno a Tobruk e l’altro a Tripoli, la situazione non era mai degenerata in uno scontro aperto, per ragioni di pudore più che per calcoli politici. Per quanto il pudore non conti niente in politica internazionale, sotto Obama, ebbe incredibilmente un ruolo. Obama riteneva che la Libia rappresentasse una grande vergogna per l’Occidente e non voleva che tale vergogna fosse accresciuta da una nuova guerra. In un’intervista a “The Atlantic”, nell’aprile 2016, Obama aveva accusato Francia e Inghilterra di avere voluto abbattere il regime di Gheddafi, ma di non avere poi fatto niente per risollevare il Paese dalle sue miserie. Distruzione sì, ricostruzione no: questa, in sintesi, era la critica di Obama alla fine del suo secondo mandato. Jeffrey Goldberg, l’intervistatore, rivelò che, in pubblico, Obama definiva la situazione in Libia “un casino”. In privato, invece, la sua rabbia per il fallimento occidentale si spogliava di ogni abbellimento diplomatico. Il comportamento dei Paesi europei in Libia, parola di Obama, aveva dato vita a “uno spettacolo di merda” (shit show). Obama si era fidato degli europei. A suo dire, sarebbe spettato a loro il compito della ricostruzione, data la vicinanza geografica con la Libia. Un anno dopo i bombardamenti, Sarkozy non fu rieletto, mentre Cameron fu distratto da altre faccende, referendum sulla brexit incluso, che avrebbe portato alle sue dimissioni. Con Trump, ogni pudore si è dissolto e la Libia è sprofondata nel caos della guerra. Trump ha annunciato il proprio disimpegno dalla Libia e, siccome non la reputa importante per gli interessi americani, ha utilizzato quel Paese martoriato per migliorare i rapporti con tre Paesi arabi che gli sono utili per combattere contro l’Iran. Stiamo parlando di Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, i quali vorrebbero imporre il proprio dominio sulla Libia utilizzando Haftar come testa d’ariete. Una volta conquistata Tripoli, ammesso che ci riesca, Haftar darebbe vita a un governo, i cui ministri verrebbero concordati con i governi da cui è armato e finanziato. Dal canto suo, l’Italia, che protegge il governo di Tripoli, non ha saputo bilanciare le forze di Tobruk per molte ragioni, di cui due sono evidenti. La prima è che i governi italiani sono cambiati troppo di frequente proprio mentre la Libia richiedeva un’Italia molto stabile. La seconda è che i rapporti tra l’Italia e i principali Paesi europei sono peggiorati precipitosamente durante il primo governo Conte che, soprattutto dopo la vittoria della Lega alle Europee, ha iniziato a essere percepito all’estero come il governo Salvini. Non a caso, l’assedio di Tripoli è iniziato il 4 aprile 2019, mentre Salvini cercava di costruire un’alleanza europea contro la Merkel e Macron ovvero la Germania e la Francia, i Paesi più potenti d’Europa. Nessuno dei quali aveva un interesse a stabilizzare la Libia in favore dell’Italia. La legge immutabile della politica stabilisce che nessun governo favorisce chi cerca di abbatterlo. In sintesi, Salvini ambiva alla caduta di Merkel e Macron, che ambivano alla caduta di Salvini. La conseguenza è che l’Italia si è trovata isolata in Libia. Pochi sanno che il governo di Tripoli sarebbe caduto da tempo, se non fosse intervenuto Erdogan in sua difesa. Se la Turchia si ritirasse, Tripoli cadrebbe. Oggi i rapporti tra l’Italia e l’Europa stanno migliorando ed è lecito nutrire la speranza che tale miglioramento si ripercuota anche sulla Libia. Questo però richiede un grande sforzo diplomatico che, finora, Luigi Di Maio non ha profuso. Egli è un ministro degli Esteri molto assorbito dalla politica interna, essendo il leader del Movimento 5 Stelle. Iraq. Cresce la protesta: 100 morti. Il partito di Moqtada Sadr chiede nuove elezioni di Vincenzo Nigro La Repubblica, 6 ottobre 2019 Anche l’ayatollah Sistani critica il governo: “Risponda alle esigenze del popolo”. Moqtada Sadr, il potente leader politico e clerico sciita, ha chiesto le dimissioni del governo iracheno del primo ministro Adel Abdel Mahdi. Dopo una settimana di violente proteste di piazza, in cui sono morti almeno 100 cittadini, Moqtada prima ha congelato la partecipazione dei suoi deputati ai lavori del parlamento e poche ore più tardi ha chiesto le dimissioni del governo e elezioni anticipate. “Per evitare ulteriori spargimenti di sangue iracheno, il governo deve dimettersi e le elezioni anticipate devono essere tenute sotto la supervisione delle Nazioni Unite”, ha scritto Moqtada Sadr in un messaggio che il suo ufficio ha fatto avere ai media. L’annuncio di Sadr arriva poche ore dopo l’intervento dell’ayatollah Alì Sistani. La massima autorità sciita dell’Iraq (che ha un profondo seguito anche fra gli sciiti dell’Iran) ha riconosciuto le ragioni dei manifestanti, e ha invitato il governo a scegliere la strada delle riforme politiche ed economiche invece di quella della repressione violenta. “Agite con la politica prima che sia troppo tardi”, ha fatto dire Sistani da un suo assistente al sermone del venerdì nella città santa sciita di Karbala. L’intervento di Sistani in qualche modo ha spinto Moqtada alla dichiarazione che di fatto mette in crisi il governo, che senza i voti del partito sadrista non ha la fiducia dell’Assemblea nazionale. Anche ieri Bagdad e le principali città dell’Iraq sono state infiammate da proteste a cui la polizia ha risposta sparando pesantemente sui civili. Testimoni hanno raccontato ai giornalisti della Reuters di aver visto manifestanti uccisi con colpi alla testa sparati dai cecchini dell’esercito appostati sui palazzi. A Diwaniya la polizia ha confermato di aver sparato e ucciso 3 dimostranti che stavano provando a dare l’assalto alla sede provinciale del governo. Ma perché l’Iraq è in rivolta? Perché a 2 anni dalla sconfitta dell’Isis, a 16 anni dalla disastrosa invasione americana del 2003, il paese è in condizioni politiche ed economiche miserevoli. Le proteste di piazza che hanno quasi 70 morti (fra cui una decina di poliziotti) sono innescate da questo: dalla povertà e dall’indignazione per la corruzione della leadership politica, sciita o sunnita che sia. Il primo ministro sciita Adel Abdul Mahdi, originario di Nassirya, ha detto in tv “non ho la bacchetta magica”; i suoi avversari politici ne approfittano per metterlo in difficoltà di fronte alla popolazione. Oggi sabato il parlamento avrebbe dovuto riunirsi in seduta d’emergenza per discutere il taglio del 5% degli stipendi dei funzionari delle istituzioni dello Stato a favore dei “disoccupati” e delle categorie più deboli. Burundi. Un Paese dove non c’è guerra ma la vita vale zero di Natale Salvo fronteampio.it, 6 ottobre 2019 “In Burundi siano stati commessi crimini contro l’umanità, quali definiti dallo Statuto di Roma, vale a dire omicidi, incarcerazioni o altre forme gravi di privazione della libertà fisica, torture, stupri e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità e persecuzioni a sfondo politico”. Persecuzioni che avvengono nell’impunità generale. È quanto scrive, nel proprio rapporto annuale 2019, presentato pochi giorni or sono all’Onu, la Commissione d’inchiesta sul Burundi presieduta dal camerunense Doudou Diène. Le azioni, sostiene la Commissione, mostrano “un obiettivo comune, vale a dire l’eliminazione di qualsiasi opposizione politica, reale o presunta, che potrebbe mettere in discussione l’attuale governo”. Nel Paese, nella primavera 2020, si svolgeranno tanto le elezioni presidenziali che quelle legislative. Elezioni alle quali il presidente Pierre Nkurunziza, nonostante le limitazioni costituzionali, ha annunciato di voler partecipare per ottenere il terzo mandato consecutivo. Tali violenze sono iniziate nel maggio 2018, all’indomani della vittoria del “No” al referendum costituzionale voluto dal governo. La maggior parte delle violenze sono state commesse dalle milizie dell’Imbonerakure, la lega giovanile del partito al potere Cndd-Fdd, che agiscono da sole o in collaborazione con i funzionari amministrativi locali, ma anche, come è stato notato in passato, con il sostegno dei funzionari di polizia e del Snr - i servizi segreti del Paese. In particolare, sono documentati numerosi casi di violenze sessuali di gruppo su donne e ragazze - spesso da parte delle milizie dell’Imbonerakure - ma anche violenze sugli organi genitali nei confronti degli uomini fermati dalla polizia, esecuzioni sommarie sia tramite insistenti percosse a bastonate che con l’ausilio di armi da fuoco o armi bianche. In questo contesto, appare superfluo parlare delle libertà di riunione o d’espressione; totalmente inesistenti. Oltre ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani, atti intimidatori non hanno risparmiato “i burundesi rimpatriati nell’ambito del programma di sostegno al ritorno volontario dalla Tanzania”. La Commissione, inoltre, esaminando le condizioni delle carceri locali, ha stabilito che in esse viene erogato un “trattamento crudele, disumano o degradante” considerata sia la sovrappopolazione nelle celle, sia la mancanza di cibo e l’insufficiente accesso all’acqua, ai servizi igienici e alle cure mediche. Il rapporto della Commissione, e le sue accuse, sono state contestate dall’ambasciatore all’Onu del Burundi, Rénovat Tabu, che, al contrario ha sostenuto che il suo Paese è “stabile” e vi vigono la “pace e sicurezza”. Per tale motivo, ha suggerito all’Onu di “porre fine al mandato della Commissione d’inchiesta”. Resta, tuttavia, il fatto che il Burundi - 12,2 milioni di abitanti - è uno dei Paesi più poveri al mondo, tanto da essere classificato al 185° posto tra i 189 paesi al mondo secondo l’indice di sviluppo umano calcolato dalla Banca Mondiale. Il 74,7% della popolazione vive nella povertà con un guadagno nazionale medio lordo pari a 704 dollari annui (circa 53 euro lordi al mese). Un Paese, dove, l’aspettativa di vita è appena di 57,9 anni e il 56% dei bambini tra i 6 mesi e i 5 anni d’età soffrono di malnutrizione cronica. In questo contesto, è difficile pensare ad ulteriori tentativi di far rientrare nel Paese i 320.000 rifugiati che vivono nei Paesi limitrofi (Tanzania. Uganda, Congo e Ruanda). Etiopia. Cinque giornalisti in carcere per accuse infondate di terrorismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 ottobre 2019 Dopo un mese di detenzione preventiva Bikila Amenu, Abdisa Gutata, Firomsa Bekele, Gadaa Bulti e Adugna Keso, cinque giornalisti arrestati nella capitale Addis Abeba il 5 settembre, sono comparsi di fronte a un giudice. Nella prima udienza del 3 ottobre non è stata presentata alcuna prova a sostegno dell’accusa di “incitamento al terrorismo”, mossa nei loro confronti ai sensi della Legge antiterrorismo proclamata a giugno. L’unico pezzo di carta esibito è una lettera in cui la polizia chiede ai servizi segreti assistenza nelle indagini. I cinque imputati, tutti giornalisti, appartengono a “La voce dei giovani per la libertà”. A partire dal 2011 hanno svolto un ruolo importante nella denuncia delle violazioni dei diritti umani e hanno seguito da vicino le proteste del 2015 nella regione di Oromia. Da allora il governo è cambiato, ma le vecchie abitudini repressive non sono evidentemente terminate.