I Garanti dei detenuti “Il carcere sia l’extrema ratio” fuoriluogo.it, 5 ottobre 2019 L’Assemblea dei Garanti dei detenuti riunita a Milano lancia l’allarme carcere. Anastasia: “si cambi rotta”, il tasso di sovraffollamento è al 120%. Si è aperta ieri mattina a Palazzo Pirelli, a Milano, l’Assemblea nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private delle libertà. “La popolazione detenuta nell’ultimo anno è aumentata di 1.600 unità. Il tasso di affollamento carcerario medio è del 120%, con istituti che sono quasi al doppio della loro capienza.Vuol dire che ogni sei detenuti ce n’è uno di troppo”, ha sottolineato nel suo intervento il coordinatore e portavoce della Conferenza, Stefano Anastasia. A fronte di risorse economiche, di spazi e di personale “sempre più insufficienti” per le necessità, “ad oggi questa assemblea lancia un grido d’allarme e chiede al Governo un cambio di rotta, che possa invertire la tendenza e portare il carcere come extrema ratio”, è stato l’appello di Anastasia. “La prima sfida culturale - ha aggiunto - è spezzare l’equazione tra esecuzione della pena e carcere. Solo così si potranno più facilmente proporre percorsi di sostegno e di reinserimento sociale”. Il portavoce dei Garanti ha anche citato il caso del carcere toscano di San Gimignano, dove 15 poliziotti penitenziari sono indagati per il presunto episodio di pestaggio ai danni di un detenuto, con accuse che arrivano fino alla tortura. “Noi siamo garantisti al 100%. C’è però preoccupazione per il clima di tensione che serpeggia nelle nostre carceri e che va fatto cambiare. Se trattiamo i detenuti come nemici pericolosi, avremo nemici e pericolosità” è stato l’avvertimento di Anastasia. Il tema dei maltrattamenti in carcere è stato toccato anche dal Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma: “Questa estate - ha detto Palma - in alcuni istituti ci sono stati casi di maltrattamenti degni di attenzione. Potremmo limitare il nostro compito allo stupore” ma “l’essenza del nostro ruolo è garantire una vigilanza che abbia anche capacità di prevenzione”. All’assemblea è intervenuto anche il Capo del Dap, Francesco Basentini. “La realtà del mondo penitenziario - ha detto Basentini - è molto più difficile di ciò che si riesce a immaginare. Assistiamo negli ultimi tempi a situazioni che non fanno onore all’Amministrazione e alla Polizia penitenziaria. Ma i comportamenti dei singoli non devono macchiare il lavoro di tutti”. La prima Assemblea nazionale dei Garanti dei detenuti (askanews.it) In crescita in Italia il numero dei detenuti con il nostro Paese terzo peggiore d’Europa per indice di sovraffollamento. Collaborare di più. Per far conoscere la realtà del carcere e per riuscire a realizzare interventi concreti che possano tutelare sempre meglio i diritti e favorire il reinserimento dei detenuti. Un impegno comune nel quale i garanti territoriali possono e devono giocare un ruolo di primo piano. Questi i temi e gli obiettivi sui quali c’è stata unità di intenti e vedute tra i relatori della prima sessione di lavori della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà che si è aperta ieri mattina a Palazzo Pirelli. Dopo l’apertura affidata a Carlo Lio, Difensore civico della Regione Lombardia, è stato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini a porre l’accento sul fatto che “il primo dei problemi, quello più difficile da affrontare, è di tipo culturale”. Bisogna, ha sostenuto, “uscire dalla logica del carcere come mondo isolato. Tutti - ha sostenuto - dobbiamo iniziare a cercare di immaginare, e non è facile da uomini liberi, quanto difficile sia la condizione di un detenuto. Più riusciamo in questo intento, più semplice sarà, anche sotto il profilo etico, morale e sociale, incidere sui problemi che riguardano il mondo penitenziario”. “L’essenza del nostro compito - ha aggiunto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà - è garantire una vigilanza che abbia anche capacità di prevenzione. Dobbiamo capire le situazioni e il loro evolversi per intervenire quando si intravedono possibilità di fenomeni negativi. Non siamo perciò più definibili semplicemente come garanti dei detenuti perché in un contesto in continuo cambiamento, dove vanno estendendosi le forme di limitazione della libertà, dovremmo avere sempre più competenze”. Palma ha anche approfondito problematiche riguardanti gli aspetti della sanità e degli spazi di detenzione, sottolineando che attualmente sono ben circa 1700 le persone con una pena inferiore a un anno: “non possiamo considerare nello stesso modo - ha sottolineato - chi ha una detenzione lunga e chi ne ha una breve”. Nel suo intervento Stefano Anastasia, Coordinatore della Conferenza dei Garanti, ha evidenziato infine la necessità di “mettere all’ordine del giorno del nuovo Governo la richiesta che il carcere sia considerato extrema ratio e superare l’equazione tra pena e carcere. Siamo e dobbiamo essere garantisti a 360° e non possiamo ammettere che il carcere sia l’unica soluzione. Non possiamo, poi, trattare i detenuti come nemici pericolosi. Altrimenti avremmo di ritorno inimicizia e ulteriore, nuova pericolosità”. In Italia alla data di ieri 4 ottobre sono detenute 60.848 persone, a fronte di una capienza regolamentare nelle carceri italiane stabilita in 50.472 posti. Il sovraffollamento, pari a 10.276 unità, presenta quindi un indice del 20,56%, significativamente aumentato nell’ultimo anno di oltre 5 punti percentuali: l’Italia oggi per sovraffollamento carcerario è pertanto il terzo peggiore Paese europeo dopo la Macedonia del Nord e la Romania, ed è entrata nel mirino delle istituzioni comunitarie preposte a comminare richiami e sanzioni in materia. La media europea di reclusi nelle carceri è attualmente di 91,4 detenuti ogni 100 posti. Se si esamina la situazione regione per regione, la Lombardia si conferma quella con il maggior numero di detenuti pari a 8.619, seguita dalla Campania con 6.157, dal Lazio con 6.569 e dalla Sicilia con 6.498. La regione con il minor numero di detenuti è la Valle D’Aosta con solo 204 persone. Guardando all’indice di sovraffollamento, la Puglia presenta la percentuale più alta con il 65,3%, ospitando attualmente 3.834 detenuti a fronte di una capienza di 2.319 (+ 1.515). Seguono la Lombardia con un indice di sovraffollamento pari al 39,1% (+ 2.400 detenuti), la Liguria con il 37,4% (413 detenuti in più rispetto a una capienza di 1.104 posti) e l’Emilia Romagna con il 34,3% (3.751 detenuti rispetto ai 2.793 previsti). Sono solo due le regioni italiane a rispettare i limiti di capienza: la Sardegna, che ospita 2.302 detenuti a fronte di una disponibilità di 2.714, e il Trentino Alto Adige con 444 detenuti a fronte di una capienza di 506. Quasi in linea con i parametri la Sicilia, dove sono recluse 6.498 persone a fronte di 6.476 posti. Gli altri interventi istituzionali della mattinata - Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, ha fatto presente che “uno dei temi che riguardano l’inclusione sociale, è la scarsa conoscenza dell’effettiva realtà del mondo del carcere. Un universo parallelo conosciuto solo attraverso le rappresentazioni mediatiche e le loro distorsioni, che creano suggestione e notizia”. Secondo la magistrata, “su questo aspetto si deve lavorare di più e il ruolo dei garanti è importante. Avete - ha detto rivolgendosi ai numerosi rappresentanti di tutta Italia - una grande voce, perché quanto fate, viene raccolto dalla stampa”. L’isolamento della persona all’interno degli istituti di pena, ha ricordato Di Rosa, “rende più difficile il suo reinserimento”. Un tema che si lega, ha proseguito, “a quello dei diritti. Una volta la loro tutela spettava solo ai magistrati di sorveglianza, oggi dobbiamo lavorare tutti insieme. Quello che a tutti noi interessa è la pratica dei diritti e dell’inclusione sociale per il carcere e le persone private della libertà”. Sulla stessa linea Monica Lazzaroni, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Brescia. “Abbiamo attraversato un’epoca - ha osservato - più di contrapposizione che di collaborazione. Non si può e non si deve proseguire su questo schema. La figura del garante è nata in modo un po’ turbolento, non ben vista dalla magistratura di sorveglianza, probabilmente perché ritenuta ‘invasiva’ rispetto alle nostre competenze. Al contrario - ha affermato - dobbiamo collaborare, l’attività deve essere sinergica e penso che le competenze siano complementari quanto diverse. Se vogliamo dare credibilità e affidabilità alle misure alternative dobbiamo riempirle di contenuti. E questa a mio modo di vedere, è l’attività principale del garante: cercare di costruire con il territorio opportunità di reinserimento sociale per le persone”. Portando il saluto del Presidente Alessandro Fermi e di tutto l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, infine, è intervenuto il Consigliere Gian Antonio Girelli, Presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia. “Quando abbiamo voluto riconfermare la Commissione speciale sulla situazione carceraria - ha affermato - ci siamo assunti l’impegno di valorizzare il ruolo che Regione Lombardia può portare avanti, non solo attraverso momenti di riflessione, ma con decisioni e azioni che possano essere portatrici di qualche miglioramento della situazione. Perché di una cosa sono convinto: oggi la situazione non è dignitosa. Il quadro, ricordato anche oggi, mette in risalto una serie di difficoltà, di inadeguatezze strutturali, di mancanza di personale. Ma ancora di più, e questa è la prima sfida da affrontare, un contesto culturale che poco comprende quello che stiamo dicendo. Anzi, molte volte è fortemente contrario. Un atteggiamento culturale - ha ribadito - che è delle persone, ma troppo spesso si ritrova anche all’interno delle assemblee istituzionali. E qui entra in gioco in maniera forte il ruolo dei garanti, che devono diventare e essere sempre più di grande scomodità nei confronti delle istituzioni, richiamadole a svolgere fino in fondo il loro ruolo”. Sono intervenuti tra gli altri anche Pietro Buffa, direttore Provveditorato regionale Amministrazioni penitenziarie, e Franco Maisto Garante dei detenuti di Milano. Era presente Maria Laura Fadda (Corte d’Appello di Milano). Il programma dei lavori Oggi, sabato 5, a partire dalle ore 9, l’Assemblea si riunirà presso la Casa della Cultura di Milano, in via Borgogna 3, per la sessione conclusiva. Presiederà i lavori Franco Maisto, Garante dei Detenuti di Milano: sono previsti gli interventi dell’Assessore ai Servizi sociali del Comune di Milano Gabriele Rabaiotti, del Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia Pietro Buffa, del Presidente della Cassa delle Ammende Gherardo Colombo, della Presidente del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza Antonietta Fiorillo, del Presidente del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza Riccardo De Facci, della Presidente del della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia Ornella Favero e di Gian Domenico Pisapia in rappresentanza della Camera Penale di Milano. Al termine l’intervento conclusivo di Franco Corleone, Garante della Regione Toscana e decano dei garanti territoriali. Nelle carceri malattia o disturbo mentale per un detenuto su due askanews.it, 5 ottobre 2019 Il 25% ha una dipendenza da sostanza psicoattiva. In Italia il 50% dei detenuti presenta una malattia o un disturbo mentale: il 25% ha una dipendenza da sostanza psicoattiva. Osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei detenuti presenti, al primo posto troviamo la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%), disturbi affettivi psicotici (2,7%), disturbi della personalità e del comportamento (1,6%). Sono i dati su cui si confrontano circa 200 specialisti da tutta Italia in occasione del XX Congresso Nazionale Simspe-Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, Agorà Penitenziaria 2019, intitolato “Il carcere è territorio”, che si conclude questa sera a Milano. L’appuntamento, organizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Simit - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, è presieduto da Roberto Ranieri, Coordinatore Sanità Penitenziaria Regione Lombardia, rappresenta un momento di confronto fra tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di sanità e di salute all’interno degli Istituti Penitenziari e che intende fornire spunti per una riflessione approfondita del fare Salute in carcere. Analizzando le diagnosi per genere, prevale tra gli uomini la diagnosi di dipendenza da sostanze psicoattive (50, 8% degli uomini e 32,5% delle donne), e tra le donne la diagnosi di “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento” (36,6% delle diagnosi femminili e 27,1% delle diagnosi maschili). Arrivano dopo, fra gli uomini, i “disturbi alcol correlati (9,1 % degli uomini e 6,9% delle donne), e fra le donne i disturbi affettivi psicotici (10,1% delle donne e 4,1% degli uomini), i disturbi della personalità e del comportamento (2,4% degli uomini e 3,4% delle donne), disturbi depressivi non psicotici (1,3% degli uomini e 2,8% delle donne). “C’è tanto, troppo, disagio mentale dentro le mura - spiega il presidente Simspe, Luciano Lucania - c’è l’uomo recluso, c’è la cognizione del reato, ci sono condizioni detentive troppo spesso ai limiti, ci sono tante espressioni rivendicative di istanze, anche legittime, non soddisfatte. Ma tutto ciò che non piace, dentro le mura viene medicalizzato. Quindi si chiedono i numeri, i dati. Ma continua a mancare un Osservatorio Epidemiologico nazionale. Oggi sono assicurate certamente le cure farmacologiche più aggiornate. Tuttavia manca il raccordo fra “dentro” e “fuori”, manca l’interlocuzione diretta dei Presìdi con l’Autorità Giudiziaria, manca una rete territoriale di accoglienza. Ci sono aspetti di sistema, aspetti integrati, che devono essere ripensati e ridefiniti”. Strasburgo, ultima sentenza: ora i boss sperano di uscire di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2019 La Corte europea dei diritti dell’uomo fra 48 ore si pronuncerà sull’ergastolo ostativo: a rischio il sistema italiano anti-mafia e anti-terrorismo. È attesa infatti per lunedì la decisione degli organi giudicanti della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che potrebbe aprire la strada all’eliminazione del cosiddetto “ergastolo ostativo” per mafiosi e terroristi, porre fine all’esperienza dei collaboratori di giustizia e far saltare di fatto il 41bis, cioè il carcere duro per i mafiosi. I boss condannati all’ergastolo potrebbero uscire dal carcere e sarebbero messe a rischio le norme antimafia volute da Giovanni Falcone. La vicenda ha una data d’inizio: 13 giugno 2019. Quel giorno la Cedu - a maggioranza, con l’opinione contraria di un giudice - ha dato ragione al ricorso di un boss mafioso, Marcello Viola, e torto allo Stato italiano. Viola è il capo di una ‘ndrina calabrese di Taurianova, condannato a quattro ergastoli per omicidi plurimi, occultamento di cadavere, sequestro di persona e detenzione di armi. La sentenza Cedu censura come “trattamento inumano e degradante” l’istituto giuridico del cosiddetto “ergastolo ostativo”. È la prassi italiana che esclude dai benefici penitenziari (lavoro fuori dal carcere, permessi premio, misure alternative alla detenzione) alcuni condannati all’ergastolo: 957 persone, condannate per reati di mafia, terrorismo, traffico di droga, pedopornografia, prostituzione minorile. Anche i condannati all’”ergastolo ostativo” hanno un modo per tornare a godere, come gli altri, dei benefici penitenziari: dimostrare di essersi incamminati sulla strada della riabilitazione a cui ogni pena deve puntare, avendo tagliato i ponti con l’ambiente criminale e collaborando con la giustizia. La sentenza Viola, se confermata, provocherebbe invece la fine delle collaborazioni. Contro quella decisione, ha fatto ricorso il governo italiano, che l’ha ritenuta dirompente rispetto a un sistema di contrasto alla criminalità che si è dimostrato collaudato ed efficace. Al ricorso italiano dovrà rispondere la Grande Camera, una sorta di Cassazione della Corte europea. Per accedervi, il ricorso deve prima essere dichiarato ammissibile da un collegio di cinque giudici: lunedì questi si riuniranno per esaminare la questione. Se riterranno inammissibile la richiesta del governo italiano, varrà la sentenza del giugno scorso. Se la riterranno invece ammissibile, la Grande Camera la esaminerà e darà il suo verdetto, finale e inappellabile, prevedibilmente entro qualche mese. Intanto altri 12 condannati hanno già depositato il loro ricorso, simile a quello di Viola, davanti alla Corte europea. E ben 250 ergastolani lo hanno presentato a un altro organismo internazionale, il Comitato delle Nazioni Unite. Si è detto preoccupato della situazione il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. In un incontro con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, Bonafede ha espresso la sua preoccupazione “per il possibile impatto che la decisione di Strasburgo potrebbe avere sulla lotta alla mafia e al terrorismo”. Il non accoglimento del ricorso dell’Italia “avrebbe conseguenze sulle politiche antimafia e antiterrorismo italiane”. Se infatti, tra qualche mese, la Grande Camera respingerà il ricorso italiano e dunque confermerà il giudizio Cedu espresso a giugno, l’Italia sarà obbligata a risarcire il danno ai singoli che ne faranno richiesta. Ma più in generale, sarà sollecitata a modificare le sue leggi smontando il “sistema Falcone” e riconoscendo i benefici carcerari (compresi i permessi per uscire) anche ai boss che non hanno alcuna intenzione di collaborare. La decisione europea di lunedì potrebbe avere influenza anche sulla Corte costituzionale italiana, che il 22 ottobre si dovrà pronunciare su una questione simile: dopo aver già dichiarato costituzionale il cosiddetto “ergastolo ostativo”, la Consulta a fine mese deciderà sul caso di Sebastiano Cannizzaro, condannato per associazione mafiosa. La questione sollevata davanti alla Corte: è incostituzionale privarlo dei permessi premio? “Falcone aveva ben compreso che solo con l’ergastolo ostativo e il carcere duro fosse possibile per lo Stato ottenere risultati significativi nel contrasto alle mafie”, sostiene una nota degli europarlamentari del M5S Fabio Massimo Castaldo e Sabrina Pignedoli. “Rimosse queste limitazioni, nessun mafioso avrebbe più interesse a collaborare. La Cedu rischia di esaudire, inconsapevolmente, le richieste dei boss nella Trattativa Stato-mafia e rendere vano il sacrificio di Falcone e Borsellino e di tutti i magistrati e forze dell’ordine che rischiano la vita per combattere le mafie”. Giustizia riparativa: piazza Fontana e l’esempio di Milani di Alberto Mapelli Corriere del Trentino, 5 ottobre 2019 Strage di piazza Fontana, l’esempio di Milani: “La giustizia riparativa aiuta a riconoscersi”. “La violenza produce uno strappo nella società e nelle persone. Il processo giudiziario è importante ma non aiuta a riparare queste fratture. Il confronto volontario che sta alla base della giustizia riparativa si pone questo obiettivo”. Manlio Milani, classe 1938, ha vissuto sulla propria pelle quello che vuol dire essere vittima di un reato. Il 28 maggio 1974 era in piazza della Loggia a Brescia. Tra le 8 vittime è presente il nome di sua moglie, Livia. Presidente dell’Associazione Familiari Caduti della strage, ieri Milani è intervenuto a Trento per parlare di giustizia riparativa. Milani, perché è importante promuovere la giustizia riparativa? “L’uomo è immutabile negli atti che compie. Senza giustizia riparativa vivremmo in una società con fratture non risolvibili tramite i soli processi giudiziari. Credo che ponendo al centro l’incontro volontario tra chi ha subito una violenza e chi l’ha compiuta, si esalta la capacità di riconoscerci come persone, di guardarci negli occhi. Questo confronto faccia a faccia umanizza le figure di vittima e colpevole l’uno all’altro e le aiuta a capirsi”. In Italia quanto peso viene dato a un tipo di giustizia così innovativo rispetto alla tradizionale visione del carcere? “Siamo notevolmente in ritardo. C’è ancora la convinzione che la pena carceraria debba avere un carattere puramente punitivo. “Buttiamo via la chiave” è il sentimento comune. Serve far capire alle persone che se si riesce a far recuperare il valore di cittadinanza ad un colpevole di reato, egli potrà reinserirsi nella società”. È fondamentale il dialogo tra vittime e colpevoli? “Sì, perché con l’incontro diretto si libera la vittima di parte del dolore subito, aiutandolo a comprendere le ragioni che stavano dietro al torto subito. La violenza subita non si dimentica. Anche il “carnefice”, però, avrà un’esperienza diretta delle conseguenze che il suo gesto ha avuto. Il suo senso di colpa non viene annullato con questo incontro, però non significa che egli non possa essere riconosciuto di nuovo come cittadino”. Nella sua esperienza come vittima della strage di piazza della Loggia, in cui ha perso sua moglie Livia, ha avuto la possibilità di incontrare Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, condannati all’ergastolo per l’attentato? “Maggi è stato impossibile, perché pochissimo tempo dopo la condanna è deceduto. Con Tramonte non c’è ancora stata la possibilità, ma non per volontà mia. Lui sa che io sono disponibile ad incontrarlo in ogni momento”. Secondo lei è possibile parlare di giustizia per una sentenza arrivata 43 anni dopo lo scoppio della bomba? “Se parliamo in termini temporali è difficile definirla giustizia, perché per essere tale dovrebbe arrivare immediatamente. Vittime, società e lo stesso responsabile potrebbero rendersi conto delle conseguenze e intervenire per porvi rimedio. 43 anni dopo ti porti dietro le delusioni subite, soprattutto i processi finiti nel nulla per interferenze da parte di uomini legati alle istituzioni stesse. Allo stesso tempo si sono fissati dei punti fondamentali da trasferire nella storia”. Per lei, quindi, i responsabili sono stati individuati? “Diciamo che Maggi e Tramonte sono sicuramente colpevoli. Il primo era responsabile di Ordine nuovo in Veneto, il secondo era uomo dei servizi segreti. Simbolicamente abbiamo coloro che hanno permesso che accadesse la strage di Brescia. Innegabile che ci sia ancora tanta strada da fare: non sappiamo ancora chi ha messo la bomba o in che modi si sono realizzati i depistaggi. La verità storica è una costante ricerca. Però la sentenza fissa alcune responsabilità. Da lì si deve partire per continuare a ricercare la verità”. Al Csm non servono purghe né sorteggi, bastano regole chiare su correnti e candidati di Michele Vietti* Il Dubbio, 5 ottobre 2019 I recenti scandali che, con vasta eco mediatica, hanno coinvolto componenti passati e presenti del Consiglio Superiore della Magistratura hanno innescato la tipica reazione “all’italiana”, consistente nel proporre soluzioni estemporanee a problemi cronici sull’onda dell’emotività indotta dai fatti di cronaca. Ecco che si annunciano “purghe” contro la “politicizzazione” dell’organo di governo autonomo della magistratura, per quanto riguarda la componente laica, e contro il “correntismo”, per quanto riguarda la componente togata. Le soluzioni contenute nel Disegno di Legge del Ministro della Giustizia ipotizzano l’ineleggibilità per i componenti votati dal Parlamento che abbiano ricoperto negli ultimi 5 anni incarichi politici e l’estrazione a sorte, seppure in seconda battuta, dei componenti eletti dai magistrati. La prima è una sciocchezza rispetto alla storia prima che rispetto al diritto. Chi scrive è, sul punto, in conflitto di interessi, dal momento che all’atto della sua elezione al Csm, prima di diventarne Vicepresidente, era parlamentare in carica. Ma ciò non mi impedisce di ricordare che le figure più autorevoli di questo organo di rilievo costituzionale, da De Carolis a Galloni, da Rognoni a Mancino, per tacere degli ultimi tre Vicepresidenti tutti parlamentari, sono stati esponenti di spicco del Parlamento e del Governo nazionali. Peraltro il Costituente, nel disporre una quota di riserva di un terzo dei componenti eletta dalle Camere in seduta comune, non solo non ha voluto escluderne la provenienza “politica” ma anzi ha inteso che l’estrazione dei rappresentanti popolari potesse costituire un utile contrappeso rispetto alla maggioranza della componente magistratuale. Ovviamente chi approda per questa via al Csm deve recidere i suoi legami di provenienza partitica, ma certo non deve e non può prescindere dall’apportare all’organo collegiale le sue visioni ideali, la sua estrazione culturale, la sua connotazione valoriale, che diventano l’elemento di arricchimento del pluralismo che in quella sede deve essere garantito. Quanto all’elezione dei togati non c’è dubbio che l’ultima riforma (legge 44 del 28 marzo 2002), nata con il dichiarato intento di ridimensionare le correnti, ne ha viceversa esasperato il ruolo e soprattutto i difetti. Premetto che non sono affatto contrario alle “correnti”, nella misura in cui rappresentano aggregazioni culturali che accomunano sensibilità di “politica giudiziaria”, intesa nel senso di visioni del ruolo della giustizia e delle sue concrete declinazioni. Ovviamente se questo aspetto passa in ombra rispetto a pure logiche di potere e di occupazione dei posti nascono le degenerazioni correntizie che nessuno può difendere. Il sistema attuale di tre collegi unici nazionali in cui eleggere rispettivamente i magistrati di Cassazione, i pubblici ministeri e i giudici (rispetto ai quattro collegi territoriali previsti in precedenza, formati con aggregazioni casuali dei distretti) ed un meccanismo di maggioritario puro (mentre in precedenza era proporzionale con liste concorrenti), esalta il ruolo delle correnti, che diventano l’imprescindibile veicolo per raccogliere un numero di voti sufficiente ad assicurare al candidato l’elezione. Solo le correnti possono convogliare sul proprio esponente i voti di una gran parte di colleghi che non lo conoscono neppure e si limitano perciò a seguire l’indicazione dell’appartenenza. Occorre quindi andare in direzione opposta, restringendo i collegi elettorali in modo da garantire la conoscenza e il rapporto diretto tra eletto ed elettore che, meglio di ogni altro rimedio, vale a superare le pregiudiziali indicazioni correntizie. Peraltro collegi più piccoli garantiscono anche una migliore rappresentanza territoriale. Occorre poi allargare l’ambito dei potenziali candidati, superando le difficoltà legate alla presentazione delle candidature ed evitando manovre correntizie dissuasive. Viceversa immaginare una prima fase elettiva di una platea più vasta tra cui poi sorteggiare i componenti, a parte i profili di incostituzionalità rispetto all’articolo 104 della Costituzione che prescrive l’elezione dei componenti togati, finirebbe per penalizzare eccessivamente la rappresentatività delle legittime diverse sensibilità della magistratura, affidando sostanzialmente al caso la composizione dell’Organo di governo autonomo. Si potrebbe utilmente innalzare la valutazione di professionalità richiesta per l’elettorato passivo, a garanzia dell’esperienza del magistrato, ed escludere dall’eleggibilità chi ha già ricoperto ruoli a qualunque titolo al Csm e chi ricopre incarichi di vertice nell’associazionismo. Viceversa della proposta del Ministro è condivisibile la introduzione della incompatibilità tra attività disciplinare e amministrativa e il ripristino del divieto per chi cessa dal Consiglio di ottenere incarichi direttivi per un congruo periodo. *Professore, avvocato, già vicepresidente del Csm Imputabilità, il monito dell’Onu: “Una follia abbassare l’età minima” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 ottobre 2019 Per il Comitato sui diritti del fanciullo la soglia deve essere quella dei 14 anni. Nel governo precedente, la Lega aveva lanciato una proposta di legge - firmata da tutti i deputati del Carroccio che erano della Commissione Giustizia alla Camera - nella quale si prevede, tra le altre misure, l’abbassamento del limite dell’imputabilità dei minori da 14 a 12 anni. Inoltre la Lega suggeriva, nel testo, di escludere le premialità previste per i reati compiuti dai minori se c’è l’aggravante dell’associazione. “Un minore di 12 anni di oggi - aveva spiegato uno dei firmatari del progetto di legge - è diverso rispetto a quello di qualche anno fa. Bisogna aggiornare il codice e considerare la realtà”. In realtà, anche nel programma originario dei 5stelle, precisamente nel capitolo dedicato alla giustizia, i grillini hanno proposto nero su bianco proprio l’abbassamento della soglia di punibilità a 12 anni, “visto l’aumento della capacità - si legge nel testo - e della maturità dei ragazzini che alle volte commettono consapevolmente reati molto gravi”. Il pericolo, per ora, è scampato. Il tema è stato affrontato ora dal Comitato Onu sui diritti del fanciullo, l’organo che si occupa del monitoraggio dell’attuazione della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991 numero 176. Recentemente ha presentato le Osservazioni generali sui diritti dei minori nel sistema giudiziario minorile. Il testo approvato a settembre sostituisce il numero 10 del 2007 e tiene conto degli sviluppi, anche giurisprudenziali, sul tema. Nello specifico, suscita allarme nel Comitato proprio l’abbassamento dell’età per la responsabilità penale. Nel testo approvato si legge che ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 3, della Convenzione, gli Stati sono tenuti a stabilire l’età minima di responsabilità penale, ma l’articolo non specifica l’età. Spiega che oltre 50 nazioni hanno aumentato l’età minima dopo la ratifica della Convenzione e che l’età minima più comune di responsabilità penale a livello internazionale è 14 anni. Tuttavia, le relazioni presentate dagli Stati indicano che alcuni di essi mantengono un livello inaccettabile a proposito dell’età minima di responsabilità penale. Il Comitato dell’Onu sottolinea che diversi studi sullo sviluppo del bambino e delle neuroscienze indicano che la maturità e la capacità di ragionamento astratto sono ancora in evoluzione nei bambini dai 12 ai 13 anni, a causa del fatto che la loro corteccia frontale è ancora in via di sviluppo. Pertanto, non possono essere ancora in grado di percepire l’impatto delle loro azioni o comprendere i procedimenti penali. Gli Stati, quindi, sono incoraggiati a prendere nota delle recenti scoperte scientifiche e aumentare l’età minima di punibilità ad almeno 14 anni. Inoltre, gli studi dello sviluppo e delle neuroscienze indicano che il cervello degli adolescenti continua a maturare, influenzando alcuni tipi di processi decisionali. Per questo motivo, il Comitato dell’Onu loda quei Paesi che hanno un’età minima di punibilità a 15 o 16 anni. Ampio spazio, dopo un esame della situazione dell’età di imputabilità dei minorenni, è dedicato alle garanzie processuali, alla formazione del personale giudiziario chiamato ad occuparsi dei minori, alle modalità di applicazione delle pene. Un principio generale - ha osservato il Comitato - è lo svolgimento dei processi a porte chiuse, con la previsione di eccezioni in pochi casi, fissati per legge. Questo vale anche nel momento in cui si pronuncia il verdetto che, se reso in pubblico, non deve mai condurre a svelare l’identità del minore. Attualmente, in Italia, il minore di anni 14 non è imputabile penalmente. Tuttavia, se viene riconosciuto socialmente pericoloso possono essere previste delle misure di sicurezza che non costituiscono una pena e quindi si applica l’istituto della libertà vigilata o il ricovero in riformatorio. Prima del compimento di tale età, è possibile sottoporre il bambino o ragazzino al cosiddetto processo di sicurezza, finalizzato all’applicazione di una misura di sicurezza, vale a dire una misura applicata dal giudice minorile che è limitativa della libertà personale e che può essere di due tipi: libertà vigilata e collocamento in comunità. “Mio padre boss della ‘ndrangheta. Così l’ho convinto a pentirsi” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 5 ottobre 2019 Milano, la scelta di Emanuele De Castro, detto “il siciliano”. Il figlio Salvatore, 29 anni: “Ero stanco del suo stile di vita”. “Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta”. La prime ore della mattina del 13 settembre. Nell’ufficio al quinto piano della Procura di Milano, davanti ai pm Alessandra Cerreti e Cecilia Vassena, c’è un ragazzo di 29 anni cresciuto nel lembo di terra tra le province di Milano, Varese e Novara che circonda l’aeroporto di Malpensa. Salvatore De Castro è il figlio di Emanuele, 51 anni, nato a Palermo ma affiliato alla ‘ndrangheta lombarda. Vicino al clan di Villagrazia di Cosa nostra, “il siciliano”, come veniva chiamato, è stato “battezzato” a ridosso della Pasqua del ‘97. Nella ‘ndrangheta ha scalato le gerarchie al fianco del capo locale di Legnano Vincenzo Rispoli. Prima del suo nuovo arresto il 4 luglio nell’operazione “Krimisa” dei carabinieri e della Dda di Milano, De Castro era arrivato al ruolo di “capo società”, vice reggente della cellula calabrese di Legnano. Oggi anche lui, come il figlio Salvatore, è un collaboratore di giustizia. Una scelta indotta proprio dal figlio, arrestato nella stessa indagine, stanco di nascondersi, di fuggire, di una vita fatta di arresti e condanne. E dettata dalla consapevolezza che dalla ‘ndrangheta si esce soltanto in due modi: da morti o arrendendosi allo Stato. Una decisione capace di vincere il vincolo più grande che regola i clan calabresi, quel legame familiare che impedisce di testimoniare contro i congiunti, i padri, i propri figli. Una scelta “di famiglia”, come la racconta lo stesso Emanuele De Castro: “Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di.... vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina”. La decisione di collaborare era stata preannunciata con due lettere spedite dal carcere dal boss direttamente al procuratore aggiunto Alessandra Dolci, il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Nell’ultima comunicazione il “siciliano” ha chiesto di incontrare i magistrati “senza il mio difensore”. In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali. Hanno raccontato ai pm Cecilia Vassena e Alessandra Cerreti, che per molti anni ha combattuto la ‘ndrangheta in Calabria, gli assetti delle cosche al Nord e parlato delle connessioni con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione. La loro collaborazione è la prima dopo quella del pentito Antonino Belnome, arrivata dopo il maxi blitz Infinito-Crimine del 2010, che ha svelato mandanti ed esecutori di una serie di delitti di mafia in Lombardia. Nell’ordinanza del gip Alessandra Simion si racconta anche di come altri affiliati stessero progettando di uccidere Emanuele De Castro. Una circostanza che forse ha indotto, ancora di più, padre e figlio a scegliere la via della giustizia. Il boss 51enne di Lonate Pozzolo (Varese) ha permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano di recuperare due candelotti di esplosivo nascosti in una buca. L’affiliazione alla cosca del “siciliano” è avvenuta in un bar di Legnano: “Ci siamo messi in circolo, è stata fatta la tipica “pungitura”. Poi abbiamo brindato insieme”. Padre e figlio gestivano un parking vicino a Malpensa sequestrato dagli investigatori. “Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per “loro” - ha raccontato Salvatore De Castro. Mi diceva di starne fuori”. Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: “Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta”. Calabria. Tar respinge il ricorso contro la nomina del Garante regionale dei detenuti ildispaccio.it, 5 ottobre 2019 “Il Tar, sezione staccata di Reggio Calabria, respinge la domanda cautelare relativa all’impugnazione del provvedimento di nomina del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, avv. Agostino Siviglia. È quanto comunica l’avv. Francesco Fabbricatore, del Foro di Reggio Calabria, difensore costituito in giudizio nell’interesse dell’avv. Agostino Siviglia, di recente nominato Garante regionale dei diritti delle persone detenute della Regione Calabria, con decreto del Presidente del Consiglio regionale, n. 5 del 30 luglio 2019. In particolare, si legge nella nota dell’avv. Fabbricatore, il Tribunale Amministrativo reggino ha ritenuto di condividere le argomentazioni rappresentate dallo stesso avv. Fabbricatore, nell’interesse del neo Garante regionale Agostino Siviglia, durante l’udienza camerale dello scorso 2 ottobre, nonché dalla Regione Calabria formalmente costituita in giudizio. In specie, il Tar ha ritenuto del tutto insussistente il ritenuto pregiudizio lamentato dal ricorrente e, conseguentemente, l’impossibilità che per lo stesso potesse discendere “alcun concreto ed attuale vantaggio”, dalla sospensione del provvedimento impugnato. Agostino Siviglia, dunque, prosegue la sua attività istituzionale di Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, nella pienezza delle funzioni attribuitegli dalla legge regionale n. 1/2018 che, dopo un pluriennale ritardo rispetto alle altre Regioni italiane, ha istituto ed in seguito alla quale è stata nominata una così importante Figura di Garanzia. Per vero, il neo Garante regionale Siviglia, già dal mese di settembre, ha cominciato il suo “viaggio nelle carceri” calabresi, recandosi in visita istituzionale presso gli istituti penitenziari di Castrovillari, Paola, Cosenza, Rossano e Palmi, al fine di verificare, personalmente, le condizioni di vita dei detenuti ristrettì nei diversi istituti penitenziari calabresi e lo stato attuale degli stessi luoghi di detenzione. Il neo Garante regionale continuerà, pertanto, l’analisi approfondita del complesso mondo del sistema penitenziario calabrese, al fine di avere la più piena contezza delle problematiche che affliggono il carcere ed i detenuti della Regione Calabria, ma anche per individuare le buone prassi e gli interventi prospettici da valorizzare ed implementare, nell’ottica della doverosa salvaguardia dei diritti dei detenuti ed in ossequio al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena e del più positivo reinserimento nella società di chi ha delinquito”. Sardegna. In carcere col processo ancora in corso, va così per il 20% dei detenuti sardiniapost.it, 5 ottobre 2019 “In Sardegna il 20,17 per cento dei detenuti è in attesa del giudizio definitivo”. In numeri assoluti sono 463, su un totale di 2.295, i detenuti in cella ancora sotto processo. A diffondere i dati è l’associazione “Socialismo diritti riforme (Sdr)”. “Il resoconto ministeriale aggiornato al 30 settembre - sottolinea la presidente Maria Grazia Caligaris - evidenzia ancora lentezze e ritardi che si traducono nel sovraffollamento degli istituti penitenziari, anche nella nostra Isola”. Nel dettaglio dei numeri, rispetto ai 463 detenuti per i quali la sentenza non è ancora passata in giudicato, sono 285 (12,4%) quelli che attendono ancora la chiusura del processo di primo grado; per 178 (7,7%) il giudizio è in appello o approdato in Cassazione ma senza che la Coprte si sia ancora espressa. “I definitivi - sottolinea la Caligaris - sono quindi 1.808”. Quanto al sovraffollamento, “nella Casa di reclusione di Oristano, a Massama, sono occupati tutti i 265 posti disponibili - prosegue la nota dell’associazione Sdr. La situazione più difficile si registra all’Ettore Scalas di Cagliari-Uta (nella foto): 584 reclusi (di cui 140 stranieri e 23 donne) per 561 posti regolamentari. Nel carcere Giovanni Bacchiddu di Sassari, a Bancali, ci sono 461 ristretti (di cui 167 stranieri e 14 donne) per 454 posti. Non va meglio nel penitenziario di Nuoro dove sono presenti 277 detenuti (di cui 19 stranieri) per circa 285 posti (una sezione è in ristrutturazione). Al San Daniele di Lanusei ci sono 34 detenuti per 33 posti. Prossime alla saturazione anche le case circondariali di Alghero e Tempio dove i detenuti sono rispettivamente 149 (su 156) e Tempio 156 (su 168)”. Genova. Carcere di Marassi, un detenuto di 29 anni muore in cella Il Secolo XIX, 5 ottobre 2019 Nelle prossime ore il pm di turno deciderà se disporre l’autopsia per chiarire le cause del decesso. Un detenuto di 29 anni di origini magrebine è morto la scorsa notte nel carcere di Marassi a Genova. Secondo le prime informazioni si tratterebbe di un infarto. La salma è stata trasferito all’obitorio ed è a disposizione dell’autorità giudiziaria. “Sarebbe un errore derubricare a morte per malattia il decesso di quest’uomo - sottolinea Fabio Pagani di Uil-Pa - perché il problema è il contesto in cui è avvenuta: un carcere sovraffollato”. A Marassi ci sono 750 detenuti a fronte di una capienza di 430. L’auspicio, conclude il segretario ligure della Uil-Pa, è che “il Governo giallorosso, Bonafede in testa, lavori per sostenere lo sforzo organizzativo e innovativo posto in campo dall’amministrazione penitenziaria (sulla carta) garantendo mezzi e risorse idonee oltre a mettere in campo misure concrete (strutturali, giuridiche e organizzative) per garantire un trattamento dignitoso e rispettoso della persona in regime carcerario”. Pisa. Sciopero per il clima, i detenuti rinunciano ai pasti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 ottobre 2019 All’iniziativa hanno partecipato 87 persone ristrette nel reparto penale. Sciopero della fame a sostegno della battaglia per l’ambiente anche in carcere. A farlo è stata una delegazione di detenuti della Casa circondariale di Pisa, che tramite il garante Alberto Marchesi, ha reso nota l’iniziativa. “Intendiamo sostenere, con la nostra solidarietà, la manifestazione degli studenti in favore della salvaguardia del clima del nostro pianeta, attraverso lo sciopero della fame avvenuto il giorno 27 settembre. La nostra azione pacifica ci rende partecipi di questa importante battaglia civile - si legge in una nota - e se fosse possibile far uscire la nostra iniziativa attraversi i mezzi di stampa ed i media ciò avrebbe un impatto positivo, attirando l’attenzione sul gravissimo problema del cambiamento climatico in atto”. All’iniziativa hanno partecipato 87 persone ristrette nel reparto penale e lo sciopero della fame si è protratto per l’intero arco della giornata, pranzo e cena inclusi. È stata un’idea nata in maniera spontanea a seguito del clamore mediatico che l’evento in questione ha suscitato, al quale le persone detenute hanno inteso aderire con l’unica forma di partecipazione che la loro personale condizione ha consentito. Un’iniziativa nei confronti della quale Marchesi ha espresso “il senso del più vivo apprezzamento”. La rinuncia al cibo per sostenere un ideale da parte chi è privato della libertà personale e si trova quindi in condizione di particolare vulnerabilità e di disagio, ha sottolineato il garante, “rappresenta una delle più alte testimonianze di partecipazione attiva e di adesione a tematiche di straordinario interesse per tutta la collettività. Il segnale lanciato dall’interno di un istituto di pena, non senza sacrificio, ha un significato di grandissimo spessore morale ed etico”. Un messaggio di speranza, “che si unisce a quello indirizzato in tutto il mondo dalle giovani generazioni, affinché siano realizzate politiche di sviluppo e di progresso che rispettino, oltre alla dignità delle popolazioni, anche l’ambiente in cui viviamo, che è patrimonio di tutti gli esseri umani. La scelta di perseguire politiche di sviluppo sostenibili impone dei sacrifici che le persone che vivono nella Casa circondariale di Pisa non hanno esitato a fare, adoperandosi in maniera spontanea alla condivisione dei temi che hanno ispirato, a Pisa come altrove, movimenti di protesta e di sensibilizzazione collettiva. Questo esempio merita di essere conosciuto, incoraggiato ed apprezzato nello stesso modo in cui tutti devono essere informati sulle condizioni della vita penitenziaria, della quale molto si parla ma poco si sa - ha proseguito - Il diritto ad un’esistenza dignitosa deve rappresentare un patrimonio di tutti gli esseri umani, purtroppo non sempre assicurato soprattutto negli istituti di pena, dove anche la più piccola rinuncia aggiunge ulteriore sofferenza ai molti sacrifici, di per sé inevitabili in ragione delle condizioni detentive. Al carcere di Pisa si è rinunciato al cibo in silenzio, senza clamore ma con sofferenza, solo per sostenere un modello di società più equo e solidale, nel quale non ci sia alcuna differenza tra gli ultimi ed i privilegiati per censo, cultura, razza o condizioni personali La diffusione pubblica di questa straordinaria esperienza - ha concluso - aiuta a far comprendere che all’interno di quelle mura, che rappresentano un quartiere della nostra città, di certo poco conosciuto ma non per questo secondario, vivono persone che intendono contribuire, con entusiasmo e trasporto, al dibattito pubblico inerente a temi di globale importanza”. San Gimignano (Si). Carcere Ranza, Cenni (Pd): “Governo si impegna, vigileremo” gonews.it, 5 ottobre 2019 “Ho perso il conto delle iniziative parlamentari di questi anni, nei confronti di qualsiasi Governo. Oggi, di fronte alla mia richiesta di impegni veri, il Governo ha annunciato una serie di iniziative concrete per migliorare la situazione del Carcere di Ranza. Accogliamo positivamente questo impegno sul quale vigileremo con attenzione, giorno dopo giorno, affinché possano essere superate le criticità della casa circondariale”. Con queste parole Susanna Cenni, deputata del Partito democratico interviene dopo la risposta del sottosegretario Vittorio Ferraresi alla sua interpellanza urgente sul carcere di San Gimignano. Il direttore del carcere. “Ho ricordato che per anni siamo passati da un incarico temporale, o a scavalco con altre strutture, all’altro, ed il sottosegretario ha ricordato che Il 26 settembre scorso è stato conferito un incarico di reggenza per quattro giorni a settimana al dottor Giuseppe Renna, già direttore della casa circondariale di Arezzo, che peraltro ho già sentito telefonicamente e che incontrerò presto. Con una nota del giorno successivo, ha annunciato Ferraresi, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha comunicato che con un bando di prossima emanazione sarà messo a concorso il posto di direttore dell’istituto”. Il personale. Un altro dei problemi di Ranza è legato alla mancanza di personale. Ferraresi ha precisato che a fronte di un organico previsto di 229 unità, la forza amministrata è pari a 216 unità. Le maggiori scoperture, riscontrabili nel ruolo dei sovrintendenti, quantomeno dal punto di vista numerico, sono controbilanciate dall’esubero degli agenti/assistenti, in numero di 195 sui 170 previsti in pianta organica, anche per effetto dell’incremento di 12 unità di cui l’istituto ha recentemente fruito lo scorso mese di luglio. Il sottosegretario ha dichiarato che sono già state attivate le procedure per il concorso interno a complessivi 2.851 posti per la nomina alla qualifica di vice sovrintendente del ruolo sia maschile che femminile del Corpo. Si tratta di una misura che si innesta a pieno titolo nel più ampio alveo delle mirate politiche di assunzioni anche nel comparto penitenziario. In tale direzione si confida, a breve, di poter disporre di un ampio bacino di risorse umane a cui attingere per sanare le varie scoperture di cui risentono gli istituti di tutto il territorio e rispetto a cui saranno tenute in debita considerazione anche le esigenze, ovviamente, della casa di reclusione di San Gimignano. Investimenti. Sul fronte delle criticità infrastrutturali, Ferraresi ha sottolineato che la struttura di San Gimignano è oggetto di un finanziamento complessivo di circa 1milione e 500mila euro, per l’esecuzione sia di efficientamento energetico che di adeguamento delle centrali termica e idrica e delle relative sotto-centrali, per la produzione e distribuzione dell’acqua calda sanitaria per le camere detentive, con previsione di recupero delle acque piovane e depurate. Tra gli interventi da eseguire sono stati contemplati anche quelli di manutenzione straordinaria per il miglioramento dell’approvvigionamento idrico con integrazione dell’impianto di osmosi inversa, di quelli di deferrizzazione e dei filtri. Prosegue Cenni “mi auguro che tutto questo non si perda nelle procedure burocratiche”. Inchiesta giudiziaria. Nell’interrogazione Cenni chiedeva notizie anche sull’inchiesta giudiziaria in atto e il Governo ha confermato che la magistratura sta procedendo nell’indagine. “A differenza di chi, in questi giorni, ha solo cercato di strumentalizzare la vicenda per il proprio tornaconto politico. Spero che tutto si concluda in tempi brevi per il bene di tutti e per la tranquillità di Ranza e dei tanti che da anni lavorano con grande responsabilità dentro l’Istituto”. Cenni ha ricordato il grande impegno locale in questi anni di Comune, Provincia, dei Garanti dei detenuti, del personale che dentro il carcere lavora in differenti funzioni “Tutti questi soggetti hanno bisogno di sapere che lo Stato c’è. Vigileremo su tutti gli impegni da Lei annunciati - ha risposto Cenni - che da anni segue le vicende legate alla casa circondariale di Ranza - chiedendo al Governo di affiancare il lavoro prezioso che in questi anni hanno portato avanti le istituzioni locali, alcuni soggetti del mondo economico e cooperativo. C’è un impegno complessivo del territorio che mi auguro possa contare su risposte certe e concrete del governo centrale e del Dipartimento di amministrazione penitenziaria”. Salerno. Ecco la pizzeria per detenuti “aperta” anche all’esterno di Luca Imperatore gnewsonline.it, 5 ottobre 2019 Era un deposito dove si accantonavano scatoloni inutilizzati e ora è diventata una pizzeria. È stata inaugurata questa mattina nella Casa Circondariale Antonio Caputo di Salerno, la pizzeria sociale “La pizza buona dentro e fuori”, alla presenza di Rita Romano, direttrice della Casa Circondariale di Salerno, Carmen Guarino, presidente della Fondazione Casamica, Antonia Autuori, presidente della Fondazione Comunità Salernitana e Paola De Roberto, consigliere Comunale di Salerno. Si sono accesi per la prima volta i forni del locale dedicato alla realizzazione di pizze destinate ai detenuti, ma anche al pubblico esterno dove con soli 3 euro si potranno acquistare una pizza margherita o una pizza marinara. L’inaugurazione segna il punto di arrivo di un protocollo di intesa, siglato il 5 novembre dello scorso anno tra le varie istituzioni, che ha come obiettivo il fine rieducativo della pena e l’inserimento lavorativo dei detenuti. Alla fine del mese di ottobre infatti, partirà anche un corso di formazione, finanziato dalla Regione Campania, per dieci detenuti che avranno la possibilità di conseguire la qualifica professionale di pizzaiolo, un titolo spendibile una volta fuori dal carcere. Venti i detenuti hanno partecipato al progetto realizzato con il contributo della Camera di Commercio di Salerno e della fondazione Cassa di Risparmio Salernitana e con il supporto del Comune di Salerno, delle fondazioni Comunità Salernitana, che ha destinato il 5×1000 di tre anni fa a questa iniziativa, e Casamica. “La pizzeria sociale all’interno del carcere di Salerno - ha spiegato Carmen Guarino - prende vita anche grazie all’aiuto di tanti cittadini che hanno partecipato alle nostre serate per la raccolta fondi”. Sono stati infatti raccolti 25mila euro, tutti spesi per ristrutturare e allestire quello che un tempo era un vecchio magazzino. “È per noi una giornata importantissima - spiega la direttrice del carcere Rita Romano - perché segna l’apertura di questo posto verso l’esterno. Il carcere è un luogo che si deve aprire e diventare parte integrante della società”. Massa Marittima (Gr). Percorsi in carcere: un miele dal forte retrogusto “sociale” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 5 ottobre 2019 Nella casa circondariale di Massa Marittima grazie al programma “Percorsi in carcere” due detenuti, formati per un anno da un giovane apicoltore, con esperienza decennale, appartenente alla Cooperativa sociale Together let’s help the Community, si occupano dell’allevamento delle api e della realizzazione del miele. I lavori si svolgono all’interno dell’istituto penitenziario, dove è stato ubicato un apiario (come un condominio di api), nel quale sono state collocate 22 arnie con famiglie di ape Ligusta. Ciò vuol dire che le arnie non vengono spostate in base alle coltivazioni presenti sul territorio, ma rimangono sempre nello stesso posto all’interno del carcere, in un luogo tranquillo e distante da fattori inquinanti. Il prodotto ottenuto è un miele millefiori delle Colline Metallifere che non avrà sempre lo stesso gusto e lo stesso colore ma cambierà al cambiare delle fioriture e del periodo di raccolta. Nella zona, prevalentemente collinare, sono presenti infatti corbezzoli, querce, carpini, castagni e boschi di conifere, ma ci sono anche campi coltivati a grano. Tutto concorre quindi a fare di questo miele un prodotto dalle mille (appunto) fragranze e dal gusto mai uguale. Il miele millefiori realizzato non è trattato, non viene filtrato dopo la sua estrazione né viene sottoposto a trattamenti termici: il risultato è che passerà nel breve periodo dallo stato fluido a quello solido, cristallizzandosi ma conservando tutte le sue caratteristiche antibiotiche e salutari naturali. Le api non vengono private completamente di tutto il frutto del loro lavoro, ma i detenuti che lo preleveranno, faranno attenzione a lasciarne parte nei telaini, in modo che possano averne una buona scorta per l’inverno. Le api, da sempre sono simbolo di laboriosità e cooperazione, con un’organizzazione sociale complessa dove tutte tendono allo stesso risultato. Per noi uomini un esempio da studiare e replicare. Una comunicazione di servizio: il miele millefiori delle Colline metallifere può essere acquistato a Torino e a Roma, presso “L’erba prediletta”. Sulmona (Aq). Trasloco di api da un albero ad un’arnia del carcere report-age.com, 5 ottobre 2019 Produrranno miele per detenuti e agenti. A vigilare sul trasloco delle api e la rimozione del favo, formato a pochi passi dagli uffici della direzione nel super carcere di Sulmona (Aq), sono stati gli agenti della Polizia Penitenziaria che questa mattina, su segnalazione di un detenuto, ammesso al lavoro all’esterno (S. S. le iniziali), si sono attrezzati di tutto punto per la delicata operazione. Con l’aiuto dell’Apicoltore Francesco Merolli e i consigli di Roberto Venti, medico veterinario e apicoltore, la famiglia di api è stata spostata da mani esperte, trasferendo la Regina dall’albero attiguo alla palazzina della direzione ad una delle 25 arnie dell’istituto gestite da 3 detenuti (M.V., D.P. e E.C.). Tutte le operaie hanno seguito la prima. Per la produzione di miele, il direttore del carcere Sergio Romice fa sapere che quest’anno sono stati garantiti 63 kg di Millefiori di ottima qualità tutto destinato all’autoconsumo interno e del personale in forza all’istituto. Prato. Gruppo Barnaba, tre incontri per conoscere il volontariato nel carcere tvprato.it, 5 ottobre 2019 Il Gruppo Barnaba, che da oltre trent’anni compie un prezioso servizio a favore dei detenuti della Dogaia, ha promosso una serie di incontri di approfondimento della realtà carceraria. Si tratta di un corso aperto a tutte le persone interessate ad avvicinarsi al volontariato all’interno del carcere. I volontari del Gruppo Barnaba operano all’interno della casa circondariale di Prato svolgendo servizi come: insegnamento, sostegno agli indigenti, accompagnamento all’esterno dei detenuti, disbrigo di pratiche burocratiche ma anche organizzazione di corsi formativi come quelli di panificazione, meccanica, cucito, musica e fotografia. Gli incontri in programma sono tre e si tengono in piazza Mercatale 149, dove hanno sede i Gruppi di Volontariato Vincenziano che hanno dato vita all’esperienza del Gruppo Barnaba. Il primo è in programma sabato 5 ottobre a partire dalle 9,30. Insieme alla dottoressa Ione Toccafondi, garante dei diritti dei detenuti del carcere di Prato, si farà una prima presentazione del mondo del carcere. Sabato 19 ottobre si parlerà di “vita nel carcere e psicologia del detenuto” con Gesumino Dessì, dirigente del provveditorato Toscana del Ministero di Giustizia. Sabato 26 ottobre Maria Gabriela Lai racconterà l’esperienza del volontariato in carcere. Gli incontri iniziano alle 9,30 e sono previste testimonianze dal carcere. La partecipazione al corso è gratuita ed aperta a tutti. Per informazioni: Sito web: www.gruppobarnaba.it. E-mail: info@gruppobarnaba.it. Telefono: 3276344386. Spoleto (Pg). Entra nel vivo il progetto “Fuori dalle Gabbie”, coinvolti i detenuti tuttoggi.info, 5 ottobre 2019 Prosegue il progetto “Fuori dalla Gabbie” realizzato dal Comune di Spoleto, la Casa di Reclusione di Spoleto, la Fondazione CaveCanem e grazie al contributo dei professionisti del Centro Studio Cani e di Cassazione.net. Da fine agosto ad oggi, sono dieci le giornate di formazione teorico pratica svoltesi nella Casa di Reclusione a cui hanno partecipato i detenuti precedentemente selezionati da un’apposita commissione presieduta dalla psicologa dottoressa Roberta Costagliola, che ha lavorato in equipe con il Comandante della polizia penitenziaria Marco Piersigilli e il coordinatore dell’Area Trattamentale dott. Pietro Carraresi. Dieci in totale i professionisti che, in questa prima fase di lezioni, si sono alternati per far acquisire ai detenuti competenze, conoscenze e capacità: il prof. Pasquale Bronzo (Professore Associato di diritto processuale penale, docente di diritto penitenziario della Università “Sapienza” di Roma e supervisore scientifico del progetto - ambito di riferimento finalità rieducativa/espiazione penitenziaria), il dott. Pierpaolo Angelici (medico veterinario chirurgo), Andrea Biagi (educatore cinofilo e responsabile operativo del Parco degli animali di Ugnano - Fi), Claudio Giammatteo (operatore del Parco degli animali di Ugnano - Fi), Livio Odorizzi (Responsabile del canile “La Fattoria di Tobia” e del “Leishmania Center” - Roma), Andrea Cristofori (educatore cinofilo e responsabile del Centro Studio Cani - Roma), Mirko Zuccari (educatore cinofilo della Fondazione CaveCanem), la dottoressa Federica Andreini (funzionaria dell’Ufficio Tutela Animali del Comune di Spoleto), l’avv. Federica Faiella (vicepresidente Fondazione CaveCanem e responsabile del progetto), Anastasiya Bondar (assistente alla direzione scientifica). Le lezioni proseguiranno nel mese di ottobre con il coinvolgimento dei primi 15 cani del canile rifugio: i detenuti, grazie alle competenze acquisite fino ad ora, potranno, insieme ai professionisti coinvolti nel progetto, far vivere loro momenti di gioco e socializzazione e prepararli alla vita in famiglia. A settembre i detenuti sono stati impegnati anche nei lavori di manutenzione del Canile comunale (il termine è previsto per il mese di dicembre). L’avvio è stato seguito dal Responsabile operativo del Parco degli animali di Ugnano (Fi) Andrea Biagi, grazie alla collaborazione accordata al Comune di Spoleto dalla Direzione Ambiente del Comune di Firenze, che ha coadiuvato gli agenti di Polizia Penitenziaria, insieme ad uno operatore esperto del canile fiorentino, nell’azione di coordinamento dei soggetti detenuti che stanno effettuando la manutenzione straordinaria del canile. Nei giorni scorsi sono stati consegnati i box (i detenuti hanno provveduto al montaggio) per la realizzazione dell’area che accoglierà i cani del rifugio di Spoleto con problemi comportamentali e massima necessità di cure (anziani e cuccioli). “Sono state settimane di lavoro intenso - afferma Federica Faiella - che hanno visto la direzione della Casa di Reclusione, gli agenti di polizia penitenziaria, i detenuti, i rappresentanti del Comune, i medici veterinari dell’Unità Sanitaria Locale di Spoleto i docenti lavorare senza sosta e in sinergia per i cani del Comune di Spoleto. I detenuti, con la supervisione dell’Ispettore Edoardo Cardinali e degli agenti di polizia penitenziaria, hanno lavorato con impegno ed entusiasmo mostrando sensibilità e attenzione nell’interazione con i cani presenti durante le lezioni. Instancabili anche i detenuti impegnati nella manutenzione del canile comunale i quali stanno lavorando per donare ai cani ospitati un rifugio più accogliente e funzionale a soddisfare la finalità del canile quale luogo di transito. Il primo ciclo di lezioni si è concluso con l’intervento del prof. Pasquale Bronzo, che ha illustrato ai detenuti che hanno aderito all’iniziativa il senso della partecipazione ad un progetto di questo tipo nel loro percorso trattamentale”. “Ci siamo trovati di fronte a persone - con trascorsi anche molti diversi - tutte motivate, e animate da un desiderio abbastanza evidente di riempire di cose positive il tempo della loro pena” dichiara il prof. Bronzo. Il progetto beneficerà anche del contributo della dottoressa Manuela Michelazzi (medico veterinario esperto in comportamento, direttore sanitario del Parco Canile di Milano e supervisore scientifico del progetto - ambito di riferimento recupero comportamentale e interazione uomo - cane). L’amministrazione comunale desidera ringraziare la fondatrice e presidente della Fondazione CaveCanem, il Comune di Firenze, il magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Spoleto dott.sa Grazia Manganaro, il Direttore della Casa di reclusione Giuseppe Mazzini, il Comandate dell’Istituto di Spoleto Marco Piersigilli, gli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori coordinati dal dott. Pietro Carraresi e tutti i professionisti coinvolti che stanno seguendo il progetto “Fuori dalle gabbie” con entusiasmo, competenza e serietà. Al termine del progetto verrà realizzato un documentario sull’esperienza, grazie al lavoro del film-maker regista Andrea Parente che ne sta documentando tutte le fasi. Migranti. “Rimpatri veloci e poche chiacchiere”. Ecco il dl Di Maio di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 ottobre 2019 Obiettivo: far dimenticare una volta per tutte il verde del precedente governo, a partire dalla sua misura più controversa e nello stesso tempo mediatizzata. Così la task force 5 Stelle, composta dai ministri degli Esteri, Luidi Di Maio e della Giustizia, Alfondo Bonafede, hanno scritto e firmato il decreto interministeriale sulla gestione dei migranti. Il testo, presentato ieri mattina, punta a rendere più snelle e veloci le operazioni di rimpatrio dei migranti verso 13 paesi (Algeria, Marocco, Tunisia, Albania, Bosnia, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Senegal, Serbia e Ucraina). In questo modo, secondo i due ministri, si ridurranno a “quattro mesi” le procedure per valutare le richieste d’asilo che arrivano dopo gli sbarchi, rispetto ai circa due anni attuali. Da questi paesi, infatti, è sbarcato il 30% dei circa 7000 migranti arrivati in Italia nel 2019 e, rendendo più veloce la procedura di gestione di questa quota, si toglierà una buona fetta di lavoro ai tribunali. Attualmente, infatti, l’Italia ha accordi per i rimpatri con pochissimi paesi (Nigeria, Marocco, Tunisia, Egitto) e questo ha fatto sì che i rimpatriati nel 2019 siano poco più di 5mila. Briciole, rispetto alle 70mila richieste di asilo pendenti e difficilmente smaltibili dalle corti sotto organico. Più cauta negli entusiasmi è stata la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha messo in guardia su come “Il problema immigrazione è complesso e strutturale, nessuno ha la bacchetta magica che nel giro di un mese risolve il problema”. Tuttavia, “questo provvedimento può essere utile, può abbreviare i tempi”. Ma “dire un mese, due mesi, non do numeri senza avere delle prove ma comunque inciderà sui tempi degli esami” delle richieste di asilo. Da tecnica, infatti, non ha voluto sbilanciarsi sui numeri: “Possiamo parlarne tra 6 mesi e vi posso dire quanto ha inciso. Ritengo ci sarà una riduzione dei tempi”. Il meccanismo di funzionamento del nuovo rimpatrio prevede una serie di step: il primo, l’individuazione di porti sicuri nei 13 paesi previsti; il secondo, il fatto che un migrante proveniente da uno di questi paesi debba presentare, in allegato alla richiesta di asilo, prove specifiche del fatto di essere stato sottoposto a violenze o persecuzioni; il terzo, una valutazione della domanda di protezione che, in mancanza di questi allegati, viene automaticamente respinta e avviata la procedura di rimpatrio. Il ministro Bonafede ha spiegato come, in questo modo, ci sia una “inversione dell’onere della prova” : verranno rifiutate le richieste di chi proviene da paesi considerati sicuri dall’Italia, a meno che il singolo richiedente non dimostri che la sua situazione specifica è degna di tutela. “Negli ultimi 14 mesi non si è fatto nulla su questo fronte”, ha attaccato Luigi Di Maio, mirando in modo esplicito alla gestione dei migranti condotta da Salvini. Sottinteso: il nuovo governo ha subito preso in mano la questione. Questo, secondo il ministro degli Esteri, è un primo passo. La lista dei paesi “può essere allargata” e bisogna continuare a lavorare per la stabilizzazione di altri paesi, uno su tutti la Libia. Questa, dunque, la ricetta del Conte bis per governare i flussi: non solo redistribuzione in Europa, ma rimpatri e limitazione delle partenze. In quest’ottica, ha osservato Di Maio, la cooperazione allo sviluppo rappresenta una “leva per fare sì che da questi paesi non si parta più”. Sul fronte degli accordi per l’accoglienza, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha spiegato che il pre-accordo raggiunto nel corso del vertice a cinque tra Malta, Italia, Francia, Germania e Finlandia, sarà esaminato a Lussemburgo martedì 8 ottobre. Per ora è “un work in progress” : “Noi lo presenteremo e poi ogni Stato dovrà verificarlo, non è prevista una firma il giorno dopo. Raggiungeremo un risultato se si arriverà a un numero di Stati aderenti tale da garantire una gestione complessiva del fenomeno a livello europeo”. Sul fronte dell’opposizione, l’ex ministro Matteo Salvini non ha accettato di buon grado la mossa degli ex alleati. “Intanto sono triplicati gli sbarchi”, ha fatto notare. “Se Di Maio, Conte, Lamorgese, qualcuno si sveglia fanno un servizio agli italiani. Poi quello che accadrà tra 4 mesi sarà interessante vederlo. Intanto questo governo ha calato le braghe e riaperto i porti”, è stato il commento. Nel merito del decreto sui rimpatri, ha invece sottolineato che “L’unico risultato di questo governo mi sembra demenziale. Non solo non vietiamo più l’ingresso delle navi - ha aggiunto Salvini - andiamo noi a prenderli. In merito, ho fatto una interrogazione, per capire quale è il criterio con cui fanno lavorare donne e uomini italiani in mare”. La battaglia politica sul tema dei migranti, dunque, è lontano dall’essere chiusa. Migranti. Rimpatri, le spine del decreto: mancano accordi e centri d’espulsione di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 ottobre 2019 Solo con Tunisia e Algeria c’è una vera intesa. Il peso dei costi per l’Italia. È la promessa di ogni governo, l’impegno che però nessuno è finora mai riuscito a mantenere. Perché per rimpatriare i migranti irregolari è necessario ottenere il “nulla osta” da parte dei Paesi d’origine, quindi ci devono essere in vigore accordi di riammissione. Ma dei tredici Stati che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha inserito nel decreto come “sicuri” soltanto con due, Tunisia e Algeria, abbiamo un’intesa mentre con il Marocco c’è un protocollo ma non è mai stato ratificato, siamo affidati alla disponibilità del governo a collaborare su ogni singola richiesta. E dunque non si comprende come si farà a rendere più veloci le procedure e soprattutto dove saranno tenuti gli stranieri in attesa di espulsione. Del resto per comprendere quali siano le difficoltà basta ricordare che Matteo Salvini aveva promesso 500 mila rimpatri in campagna elettorale, diventati 90 mila quando è arrivato al ministero dell’Interno, ma nella realtà è riuscito a far tornare in patria appena 5.261 persone. In tutto il 2018 i rimpatri sono stati 6.820 e 6.514 nel 2017. Cifre basse a fronte di almeno 600 mila persone che vivono nel nostro Paese senza avere i requisiti, anzi nella maggior parte sono destinatari di un provvedimento di espulsione che però non viene eseguito proprio perché non c’è il via libera a riportarli a casa. Niente asilo - L’obiettivo del decreto firmato da Di Maio è dichiarato: ridurre il numero di persone che richiedono asilo. Chi proviene da uno Stato “sicuro” non ha infatti diritto allo status di rifugiato a meno che non si trovi in una grave situazione personale di pericolo. Quindi deve tornare nel Paese di origine. E qui sorge il primo ostacolo: gli accordi. Per effettuare il rimpatrio bisogna accertare l’identità dello straniero, trasmettere i dati al consolato e attendere il “nulla osta”. L’intesa con la Tunisia consente due charter a settimana da 40 persone. Il Marocco collabora ma a precise condizioni: niente charter, solo voli di linea e ogni migrante deve essere scortato da almeno due agenti. I costi sono elevati, però sono circa mille le persone accettate ogni anno. L’Egitto si fa carico di identificare gli irregolari e accetta in tempi rapidi i trasferimenti così come Gambia e Nigeria. Con gli altri Stati inseriti nell’elenco del ministero degli Esteri non c’è stata invece finora alcun trattato e non è affatto escluso che questa volontà dell’Italia di intensificare i rimpatri faccia alzare il prezzo richiesto per la cooperazione. Voli e costi - Certamente l’Italia sostiene costi altissimi per i rimpatri e per questo è stato più volte chiesto all’Unione Europea di farsi carico delle procedure. Per i rimpatri verso Bangladesh e Pakistan, ma anche per Ecuador, Perù e altri Paesi sudamericani la procedura è però ulteriormente complessa, perché si devono utilizzare i voli intercontinentali con la scorta dei poliziotti che al ritorno devono viaggiare per contratto in prima classe. Il costo non è mai inferiore ai 10 mila euro, una cifra considerevole anche se le risorse vengono in gran parte compensate con i fondi europei. Centri di permanenza - E qui sorge il primo ostacolo: dove tenere chi non ha i requisiti. Attualmente i Centri di permanenza sono solo sei: Palazzo San Gervasio (Potenza), Ponte Galeria (Roma), Torino, Caltanissetta, Brindisi e Bari. Possono ospitare circa 2.200 persone, se il decreto aumenterà il numero di persone in attesa di rimpatrio bisognerà aprire altre strutture, scontrandosi con sindaci e governatori da sempre contrari ad ospitare i Centri di permanenza sul proprio territorio. Migranti. Rimpatri, è ancora solo propaganda di Mario Morcone* Il Manifesto, 5 ottobre 2019 In continuità con la politica di Salvini. I rimpatri che si possono fare in misura consistente sono quelli volontari sostenuti dai fondi europei, quelli forzati sono solo una bandiera ideologica. Il decreto firmato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio di concerto con i colleghi dell’Interno Luciana Lamorgese e della Giustizia Alfonso Bonafede si colloca esattamente nella tradizione recente sul restringimento del campo dei diritti. Eppure, avevamo sperato in una nuova politica della ragionevolezza, concreta e rispettosa delle persone, senza fughe in avanti umanitarie o terzomondiste. Ma, da un’aspettativa della discontinuità che per opportunità politica aveva rinviato nel tempo una revisione dei decreti legge sicurezza uno e due, siamo passati a misure per la loro concreta attuazione. Un decreto che non serve a nulla, se non alla propaganda in feroce continuità con il precedente ministro dell’Interno. Dev’essere chiaro a tutti che in mancanza di accordi di riammissione non cambierà nulla, ma si aggraverà ulteriormente la posizione di chi avrebbe potuto sperare in un onesto esame della propria sfortunata storia personale. E invece no! Continuiamo a costruire l’incertezza sul futuro delle persone, così come si è fatto con la soppressione della protezione umanitaria. Non si tratta di essere buoni o cattivi, ma di volersi fermare un attimo per capire: i rimpatri che si possono fare in misura consistente sono quelli volontari sostenuti dai fondi europei, quelli forzati sono solo una bandiera ideologica perché la riammissione nei paesi di origine determina fibrillazione nei paesi stessi e quindi una resistenza forte ad accettare politiche di rimpatrio. Va quindi riservata ai numeri limitati dei casi essenziali. Allo stesso modo è illusorio, e ci proviamo dal 2016, chiedere a paesi come Libia e Tunisia e lo stesso Marocco di rendersi disponibili a realizzare centri di accoglienza per impedire il transito verso l’Unione europea; le sole politiche che possono consentire una corretta gestione del fenomeno migratorio sono l’apertura anche se limitata nei numeri di ingressi legali per lavoro, i canali umanitari per le persone vulnerabili e in condizioni di ottenere la protezione internazionale, il sostegno a politiche di sviluppo e occupazionali nei paesi del nord Africa per ridurre la forbice di diseguaglianza che è ormai diventata insopportabile. E tutto questo va fatto assieme in un percorso condiviso che la casa comune europea deve saperci offrire. *Direttore Cir Prigioni segrete, la sporca guerra di Gustavo Ottolenghi Il Dubbio, 5 ottobre 2019 Dall’Est Europa all’Afghanistan la Cia ha catturato, torturato e a volte ucciso migliaia di sospetti terroristi insultando lo stato di diritto. Nelle guerre, ufficialmente dichiarate o meno, che si svolgono oggi giorno in numerose parti del mondo, per i vari contendenti è essenziale poter conoscere il più possibile del potenziale, delle sedi e delle relazioni occulte del nemico. Queste notizie raramente possono essere ricevute da prigionieri catturati nei vari teatri di guerra e lo sono estorcendole loro con particolari sistemi di tortura. Questi metodi non sono però ammessi dalle leggi di diritto internazionale e neppure da quelle degli Stati in conflitto: ecco allora che, per sfuggire a queste leggi, gli Usa ricorrono a una operazione - la “Extraordinary rendition”, “consegna straordinaria” - per mezzo della quale i prigionieri da loro catturati e ritenuti in possesso di notizie interessanti vengono sottratti alla Giustizia ordinaria e consegnati segretamente a Paesi terzi che li accolgono (a fronte di benefici economici o politici) senza registrazione alcuna in prigioni segrete. Così i prigionieri diventano “Ghost detained”, detenuti fantasma, privati di ogni protezione legale, in quanto giudicati - secondo una definizione del Segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld (Presidente George W. Bush) “combattenti nemici illegali” e quindi non protetti, come ‘ prigionieri di guerra’, dalle Convenzioni di Ginevra. In questo modo le istituzioni governative e militari di intelligence possono agire su tali prigionieri usando anche metodi che in patria non sarebbero loro concessi. Occorre però disporre di Nazioni disposte a favorire l’operazione ed esse vennero facilmente trovate: quali sono? la Lituania ove, nel 2001, con la operazione “Amber Rebuff”, furono inviati nelle prigioni (“violet sites” di Rudnikai e di Antavillarí) individui catturati dagli Usa in Afghanistan; la Romania, che accolse prigionieri degli Usa nella base dello Esercito a Míchail Kogalniceanu vicino a Costanza e nelle prigioni dello Ufficio governativo Orniss a Bucarestt (“red sites”); la Polonia, che offrì le prigioni delle basi aeree di Szymany e di Stare Krejkute (“blu sites”); la Tailandia, che fornì il vecchio aeroporto di Don Muong vicino a Bangkok e una prigione nella provincia di Udon Tani (“green sítes”; l’Irak che concesse agli Usa di installare prigioni a Abu-Ghraib oltre che lo stesso Afghanistan ove furono installati le basi aeree di Bagram e di Kabul (“Salt Pít”) oltre a altri 4 luoghi di prigioni contrassegnati come “cobalt”, “grey”, “orange” e “brown” sites. Altri Paesi (Ucraina, Kosovo, Macedonia, Bulgaria, Pakistan e Lahore) sono sospettati di fornire “black sites” agli Usa e ben 54 sono quelli che permettono l’utilizzo dei loro aeroporti per gli scali degli aerei Usa che trasportano “Ghost deteined” nelle varie destinazioni. Si sospetta inoltre che anche a Sanava nello Yemen e a Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, individui sospettati di terrorismo vengano sottoposti a torture con la supervisione di personale americano. In tutti questi luoghi i detenuti sono posti a condizioni di vita, inumane e sottoposti a torture crudeli per ottenerne informazioni o per punizione. Ma a questo proposito non si può tacere che punizioni durissime sono praticate dagli americani anche a carico dei loro concittadini delinquenti o sospetti di connivenze con nemici nei loro penitenziari metropolitani (Marion nell’Illinois, Florence nel Colorado, Mariane in Florida, Terre Haute in Indiana, Mac Alister in Oklahoma) ove i detenuti (per lo più musulmani) definiti “displa ced persons’ sono sottoposti ad opera delle “Communications Menagement Units” create da George W. Bush nel 2010 a trattamenti indegni di una nazione civile. I più famosi di questi luoghi “black sites” sono Abu Ghraib in Irak, Bagram in Afghanistan e Guantanamo nell’isola di Cuba. Abuu Ghraib è la prigione centrale di Baghdad, capitale dell’Iraq, e si estende per 14 ettari, ha una quarantina di celle in acciaio, ciascuna delle quali misura m 4 x 4, ed è sorvegliata da 24 torrette di guardia lungo il suo perimetro. Divisa in due parti, di cui una è rimasta sotto il governo iracheno per la detenzione di delinquenti civili, e l’altra concessa totalmente, dal 2006, agli Usa. Una inchiesta della rete televisiva newyorkese CBS denunciò pubblicamente che, nella prigione, venivano praticate sistematicamente torture sui sospetti terrori- sci detenuti, per cui il Segretario alla Difesa di George W. Bush, Donald Rumsfeld, fu costretto a una ufficiale ammenda per l’accaduto e alla chiusura della prigione nel 2008. Essa fu riaperta con gli stessi scopi nel febbraio 2009 dal Presidente Barak Obama e richiusa definitivamente dallo stesso Obama (aprile, 2014). Bagram è una base aerea militare degli Usa concessa nell’aeroporto situato a 60 km a nord- est di Kabul, capitale dell’Afghanistan, nella quale si trovava, negli anni Ottanta, all’epoca della loro invasione del Paese, una struttura costruita dai sovietici. Al momento del loro abbandono del Paese, gli americani vi subentrarono e trasformarono l’edificio sovietico in un centro per detenervi i sospetti terroristi islamici talebani catturati (“Parwan Detention Center”). Esso venne aperto alla fine del 2001, ed era costituito da 8 celle di isolamento in legno compensato, pavimento di cemento e tetti di lamiera, recintate da cinque cordoni di filo spinato. Torture e vessazioni vi furono praticate non solo a carico di sospetti terroristi adulti, ma anche - secondo una inchiesta-scoop del New York Times - su adolescenti, e che, nella prigione, vi sarebbero stati detenuti nelle celle degli adulti anche circa 200 bambini. Il Parwan Center venne chiuso nel dicembre 2014 per ordine del Presidente Obama e, negli anni in cui fu attivo, vi furono detenuti 65 sospetti terroristi di cui due deceduti sotto interrogatorio. Guantánamo è una baia di 116 km larga 7 metri e lunga 23, ottimo porto naturale, che si trova nella punta sud- est dell’isola di Cuba, a 20 km dall’omonima città, della quale, dal 1903, in base al Trattato stipulato dai Presidenti Theodore Roosevelt, americano e Thomas Palma, cubano (“Cuban American Treaty”), gli Usa hanno ottenuto la concessione perpetua al suo uso, a fronte del pagamento di 2.000 dollari oro all’anno (la baia restava tuttavia proprietà del Governo cubano). Dal 1920 gli Usa vi hanno installato una base militare aeronavale della Us Navy e del Us Marine - Corp (nota anche con l’acronimo di Gtmo) ed è oggi presidiata da circa 10.000 tra marinai e marines al comando dell’Amm. John Ring. Fornita di scuole, chiese protestanti e cattoliche, cinema, palestre, supermercati, nonché, dal 2002, di una prigione nella quale sono detenuti i “combattenti nemici illegali” di Rumsfeld, connessi al terrorismo di matrice islamica. La prigione è formata da tre campi. I detenuti sono costretti in celle d’acciaio, senza luce né aria fresca e caldo soffocante per 22 ore al giorno, con scarso cibo costituito da grassi animali vietati ai musulmani, spesso incatenati mani e piedi per gli spostamenti e periodicamente sottoposti a interrogatori. Diventato noto nel mondo per le sistematiche violazioni delle Convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra nel 2009 - a seguito di denunce pubbliche di Amnesty International - il Presidente Barak Obama ordinò la chiusura del carcere, ma il Senato respinse tale decisione con 86 voti contrari contro 6. Nel frattempo, 673 prigionieri erano stati rilasciati sui 780 presenti nelle carceri nel 2003: oggi ne restano ancora 107, il cui destino è sempre più precario poiché l’attua le Presidente Donald Trump ha recentemente dichiarato l’abbandono del progetto di chiusura della prigione. I “trattamenti di interrogatorio avanzati” che vengono praticati vengono effettuati sulla base di quanto descritto in un libro a titolo “Enhanced Interrogation Techniques”. Con precisione le tecniche di tortura da applicare ai prigionieri e soprattutto i limiti che i torturatori non devono superare al fine di procurare dolore ma non la morte: e queste tecniche furono da loro personalmente seguite nel carcere “Salt Pit” di Kabul, e prevedono l’esecuzione di una o più di 13 metodiche: la manipolazione nutrizionale, la deprivazione sensoriale, la privazione del sonno, l’isolamento assoluto, la nudità costante con obbligo di ripetute masturbazioni di fronte a personale militare femminile; “attention grasp” (testa del prigioniero bloccata da due mani e poi mossa velocemente e ripetutamente dai due lati dal torturatore); la sodomizzazione obbligata fra prigionieri e con guardie carcerarie; “Wall standing” (prigioniero appoggiato a mani aperte contro un muro coi piedi distanti da esso, costretto a restarvi in modo che tutto il peso del corpo gravasse sulle dita delle mani); getti di acqua bollente e ghiacciata; bendaggio degli occhi per lungi periodi; aizzamento di cani feroci a dilaniare gli arti dei prigionieri; “colpi peronieri”, cioè lesioni dei nervi peroneali con conseguente definitiva claudicazione; e soprattutto “Waterboarding” (soffocamento del prigioniero posto a testa all’ingiù con un telo sul viso sul quale viene versata acqua in quantità). Gli esecutori di tali trattamenti sono appartenenti alle Forze di Polizia militare e dell’Esercito degli Usa e pare che, in talune circostanze, vi abbiano preso parte anche elementi del Regno Unito. Le condizioni dei detenuti nelle prigioni segrete degli Usa sono documentate ampiamente da fotografie scattate dai militari nei vari penitenziari e in svariate condizioni; sono state rappresentate dal pittore Fernando Botero in alcune terrificanti tele presentate anche in una Mostra a Roma nel 2005; e in alcuni film (The road to Guantanámo di M. Winterbottom e M. Whítecross; Taxi to the dark di Alex Gigney e il drammatico X Ray di Peter Sattler). Medio Oriente. Sciopero dei palestinesi d’Israele contro l’ondata di omicidi di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 ottobre 2019 Sciopero generale della minoranza araba per il disinteresse delle autorità verso l’ondata di omicidi che quest’anno è già costata la vita a 70 persone. “Nel 2017 i morti sono stati 72, nel 2018 75, quest’anno siamo già a 70, di cui 16 tra settembre e i primi tre giorni di ottobre. I morti 1.380 dal 2000”. Ha la voce rotta dall’emozione la portavoce di Aman, il centro arabo per la lotta alla violenza, mentre ci riferisce questi numeri drammatici. Non sono le stragi di una guerra. Sono le cifre di un’ondata di violenza che da anni attraversa la minoranza palestinese, un quinto della popolazione di Israele. Le ultime vittime sono i fratelli Ahmad e Khalil Manna, di 30 e 23 anni, uccisi a fucilate a Majd al Krum, in Galilea. Un loro parente, gravemente ferito nella sparatoria, è spirato ieri. Appena qualche giorno fa i palestinesi d’Israele, gli arabo israeliani, avevano commemorato le 13 vittime degli spari della polizia alle manifestazioni in Galilea, ai primi di ottobre del 2000, in sostegno della seconda Intifada nei Territori occupati. Invece mercoledì a migliaia hanno sepolto i fratelli Manna morti nell’ennesima faida tra famiglie. E ieri in massa hanno percorso le strade di Majd al Krum durante lo sciopero generale che ha fermato scuole, uffici pubblici, negozi e quasi ogni attività lavorativa nei centri abitati arabi. A Majd al Krum c’erano anche i 13 deputati della Lista araba unita. Hanno boicottato l’inaugurazione della nuova Knesset, il parlamento, in segno di protesta per il disinteresse che il governo e le forze di polizia mostrano nei confronti della criminalità, del traffico di armi e droghe pesanti nei centri abitati palestinesi. Il ministro per la sicurezza interna, Gilad Erdan, ha promesso l’adozione di “provvedimenti eccezionali”. Ma i palestinesi non credono che il ministro, e stretto collaboratore del premier Netanyahu, punti con serietà a neutralizzare i clan malavitosi e le loro risorse finanziarie, e più di tutto a trovare e confiscare con operazioni di polizia a tappetto le migliaia di armi illegali che abbondano nelle cittadine e nei villaggi arabi. E non si tratta solo di pistole. Sono anche armi automatiche dell’ultima generazione, mitragliatori pesanti, fucili a pompa, M-16, granate. In gran parte provengono da basi delle forze armate. Un video che gira in rete mostra un uomo con il volto coperto che, dal tetto di una casa, nel villaggio beduino di Tuba Zangariya, imbraccia un mitra pesante e spara in aria decine di raffiche. Come questo arsenale sia potuto finire nelle mani dei trafficanti e poi nei centri abitati arabi è a dir poco incomprensibile in Israele dove i servizi di sicurezza conoscono tutto, oltre a vita, morte e miracoli dei cittadini palestinesi. La spiegazione del giornalista Nasser Atta è cruda, non fa sconti. “Polizia e servizi non intervengono perché ad ammazzarsi tra di loro sono gli arabi e alla maggioranza ebraica, al governo, alle forze di sicurezza non importa mettere fine al bagno di sangue” ci dice, aggiungendo che il suo punto di vita è quello della maggioranza dei palestinesi. “Non sto minimizzando fattori sociali e culturali - aggiunge - ma in Israele i controlli sulle armi sono capillari ed è ben nota la collaborazione dei trafficanti ebrei ed arabi. Più armi ci sono in giro e più le persone si ammazzano tra di loro, lo prova ciò che accade in altri paesi, a cominciare dagli Usa”. Atta non crede che il ministro Erdan attuerà i provvedimenti eccezionali di cui ha parlato ieri. “Fino a quando le violenze e il traffico delle armi rimarranno circoscritte ai centri arabi si muoverà ben poco - prevede - Le operazioni di polizia si faranno serie solo se l’ondata di violenza coinvolgerà le città ebraiche”. Hong Kong. Pechino sfida i manifestanti in maschera: scontri nella notte di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 5 ottobre 2019 La sfida dei manifestanti al divieto in vigore con “le leggi speciali” imposte dalla Cina sull’ex colonia britannica. Ferito un 14enne, agente rischia il rogo. Il primo passo delle leggi speciali a Hong Kong è l’ordine esecutivo di togliersi la maschera. E la prima risposta di migliaia di persone è stata di indossarla e scendere in strada. Quella di venerdì 4 ottobre sarà ricordata come una notte di fuoco, un altro passo verso la catastrofe. Il governo ha utilizzato i poteri d’emergenza per introdurre “nuove regole mirate” a spegnere la rivolta: proibizione di coprirsi il volto in pubblico; incriminazione per chi insiste a nasconderlo; per i trasgressori fino a un anno di carcere e 25 mila dollari hongkonghesi di multa (2.700 euro circa). Il divieto di usare maschere vale anche per le manifestazioni pacifiche e autorizzate a cui partecipano cittadini, non militanti ribelli. Al grido “Combattere per la libertà! Hong Kong resiste!” migliaia di hongkonghesi hanno invaso i punti strategici della City: ci sono i colletti bianchi, studenti, insegnanti, lavoratori comuni, professionisti in camicia e cravatta (senza giacca solo perché fa ancora caldo) ma con la maschera della sfida. E al tramonto i “duri” hanno montato e incendiato barricate per battersi con gli agenti. Si sono lasciati dietro una scia di vandalismo, e lacrimogeni. La guerriglia urbana ha fatto un nuovo salto nella violenza incontrollabile: verso mezzanotte un poliziotto in borghese è stato identificato dai ragazzi mentre passava in auto, bloccato, trascinato fuori e picchiato, ha estratto la pistola; l’ha persa per pochi istanti e un assalitore l’ha raccolta, l’agente si è rialzato e gli è stata lanciata contro una bottiglia molotov, è sfuggito al fuoco che gli si stava attaccando ai capelli ed è riuscito a riprendere l’arma. Poco dopo si è saputo di un ragazzo di 14 anni colpito a una gamba dal proiettile di un poliziotto, in un altro episodio drammatico. Il ferito è grave ma non in pericolo di vita, dicono fonti ospedaliere. Questa volta i ribelli si sono dedicati anche a colpire simboli del potere economico cinese in città, dalle agenzie della Bank of China ai negozi di catene commerciali riconducibili a Pechino. E ancora roghi alle fermate della metropolitana, orgoglio della città. Questa mattina il servizio di trasporti pubblici era ancora bloccato, non si sa se per i danni o per cercare di evitare i movimenti di manifestanti in attesa di un altro sabato di battaglia. I provvedimenti sono stati annunciati dalla governatrice Carrie Lam, la quale ha affermato che “è dovere del governo aiutare la polizia”, ma ha negato che siano state introdotte “leggi speciali”. La signora sostiene che si tratta solo di “misure deterrenti per evitare la violenza e ristabilire l’ordine” e che “Hong Kong non è in stato d’emergenza”. Equilibrismo politico-legale della burocrate formata dai britannici e transitata nelle file della nomenklatura filo-cinese. Il decreto anti-maschere ha diversi obiettivi: il governo spera di dissuadere i pacifisti dal partecipare, perché chi lavora nelle istituzioni finanziarie o pubbliche rischierebbe il posto, chi riceve sussidi pubblici li perderebbe; identificare e arrestare in seguito e senza clamore i ribelli più duri; potrebbe servire anche a tenere a distanza la stampa, perché senza maschera antigas i reporter e i fotografi sarebbero intossicati dai lacrimogeni (come abbiamo sperimentato questa settimana seguendo gli eventi a Hong Kong). Il segretario alla Giustizia risponde che i reporter saranno esentati, ma resta un problema: la polizia riconoscerà come tali i giornalisti con maschera antigas? E i semplici passanti possono proteggersi o dovranno chiudersi in casa? Prossimo passo sarà il coprifuoco. La governatrice si è presentata nel pomeriggio, dopo essere stata “latitante” dal 30 settembre: ufficialmente era andata a Pechino per assistere alla festa dell’1 ottobre per i 70 anni della Repubblica popolare cinese, mentre nella sua città per la prima volta ragazzo veniva colpito da una pallottola della polizia. Della “Emergency Regulations Ordinance” si era cominciato a parlare a fine agosto. Si tratta di una normativa risalente al 1922 quando l’isola era colonia britannica ed ereditata dall’amministrazione cinese nel 1997: nel suo insieme permette censura, retate, detenzioni amministrative e deportazione di “elementi facinorosi”. Secondo i giuristi locali si tratta di “un’opzione nucleare che introdurrebbe un regime dittatoriale, sospendendo la maggior parte dei diritti civili”. Le Emergency Rules erano state applicate l’ultima volta nel 1967 per sedare i moti comunisti orchestrati da Pechino nell’allora colonia di Sua Maestà britannica. Si contarono 50 morti in quell’anno terribile. Una mossa alla volta, le previsioni di sventura per HongKong Kong si stanno verificando. Prima si era temuto l’incattivimento della protesta democratica e anti-cinese, con l’ala dura del movimento all’attacco in modo sempre più violento; poi l’uso delle pistole da parte della polizia. Tutto questo è successo, in una drammatica accelerazione. Manca ancora la legge marziale e il coinvolgimento diretto della forza cinese: secondo fonti diplomatiche raccolte dall’agenzia Reuters nelle ultime settimane l’Esercito di liberazione popolare cinese ha raddoppiato a 10 mila soldati la sua guarnigione a Hong Kong, inviando anche plotoni di polizia armata, che potrebbero aiutare i colleghi della City nella repressione, magari indossando divise locali per non essere riconosciuti. Di questi sviluppi, i cinesi di Pechino sanno ben poco: la capitale è addormentata in una settimana di vacanze per la festa nazionale. E tutti i canali della tv statale ritrasmettono in replica incessante la grande parata dell’1 ottobre. Venerdì notte il “Liaison office” cinese a Hong Kong ha ammonito: “Il governo centrale non tollererà atti che sfidino la sovranità nazionale e la sicurezza”. Filippine. New Bilibid Prison, il formicaio umano italiastarmagazine.it, 5 ottobre 2019 La media di morti fra i detenuti della New Bilibid Prison delle Filippine è di 5.000 persone ogni anno. Una realtà in cui sopravvive soltanto chi ha i soldi per pagarsi la libertà anticipata o una detenzione a cinque stelle. La chiamano tutti “Nbp”, ma è uno degli acronimi che nelle Filippine mette i brividi solo a nominarlo. La “New Bilibid Prison” di Muntinlupa, a sud di Manila, è una succursale dell’inferno: lo sanno tutti. Finita di costruire nel 1940 per sostituire la vecchia prigione e fare spazio ad un numero crescente di detenuti, NBP ha una capienza regolamentare di 17.000 posti, ma quelli chiusi dentro sono sempre più del doppio. A fare spazio ci pensano le malattie, come denunciano da tempo le organizzazioni umanitarie, che parlano di 5.000 morti ogni anno, un detenuto su cinque. Un sovraffollamento disumano che porta in dote violenza e malattie che si trasformano in epidemie nel giro di poco. “L’ultimo, un focolaio ingestibile di tubercolosi polmonare”, denuncia Ernesto Tamayo, medico capo dell’ospedale interno. Da mesi, nelle Filippine, la Nbp è finita anche al centro di uno scandalo di corruzione che ha svelato un meccanismo vecchio quanto il mondo: chi ha i soldi dentro ci sta poco o comunque ci sta come a casa, e chi non ne ha sa che probabilmente uscirà solo in un sacco nero per cadaveri. Lo scorso agosto un ex sindaco finito in galera per uno stupro condito da omicidio commessi nel 1993, era pronto a uscire per “buona condotta”. Ad agire sottovento era la moglie, che per 50.000 pesos filippini, 800 euro circa, aveva pattuito con le autorità carcerarie di abbreviare la pena del marito. L’accordo alla fine è fallito, anche se lei afferma di aver pagato quanto richiesto. Altre polemiche freschissime, dello scorso settembre, quando alcuni senatori hanno affermato che per una somma non meglio quantificata, i detenuti di Nbp “vivono come dei re” all’interno delle loro celle, con cuochi, infermieri personali e prostitute al loro servizio. Per la direzione del carcere gli affari non si limitano a quello: il contrabbando di sigarette, droga, telefoni cellulari e persino televisori è gestito dall’interno. Paga, e avrai quello che ti serve. L’alto numero di morti è scioccante, ma è un problema che tutte le prigioni del paese affrontano: nel carcere di Quezon City, più di 4.000 detenuti vivono in un sovraffollamento da formicaio in condizioni terribili. In celle nate per ospitare 30 persone, ne vengono stipate fino a 130, e chi non riesce a conquistarsi una brandina per dormire si sdraia insieme ad altre centinaia di detenuti sul terreno di quello che un tempo era un campo da basket. Secondo i media, il sovraffollamento è l’effetto più visibile della guerra del presidente Duterte alla droga: una repressione sanguinosa e brutale del commercio di metanfetamina che ha fatto migliaia di vittime, scatenando le ire della comunità internazionale. Lo scorso luglio, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha votato per aprire un’indagine sulle migliaia di uccisioni legate alla repressione, una decisione che il ministro degli esteri filippino ha bollato come “ingiusta e ingiustificata”. Brasile. Sempre più legami fra Bolsonaro e l’assassinio di Marielle Franco di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 5 ottobre 2019 Altri quattro arresti per l’omicidio della nota parlamentare e attivista dei diritti civili a favore delle donne e delle favela, assassinata da un commando nel 2018. Spunta una nuova foto: il selfie del presidente brasiliano con Djaca, maestro di arti marziali sospettato di aver gettato in mare la mitraglietta dell’agguato. Ci sono altri quattro arresti nell’inchiesta sull’omicidio di Marielle Franco, la nota parlamentare e attivista dei diritti civili a favore delle donne e delle favela, assassinata con il suo autista Anderson Gomes da un commando il 14 marzo del 2018 in un quartiere del centro di Rio. Si tratta di Eliane de Figueirero Lessa, moglie dell’ufficiale della Polizia Militare in pensione, Ronnie Lessa, considerato il killer che ha premuto il grilletto della mitraglietta, in carcere da sei mesi con un complice, Elcio Vieira de Queiroz, espulso dalla Polizia militare, che guidava l’auto degli assassini. Assieme a lei, accusata di occultamento di prove, sono finiti in manette altre tre persone: il fratello Bruno e due amici. La donna, secondo gli investigatori, il giorno dopo l’arresto del marito, avvenuto il 13 marzo di quest’anno, si sarebbe recata nella casa del fratello nella zona ovest della città carioca e insieme avrebbe portato via una grossa scatola e altre due borse che contenevano armi e munizioni, tra cui la famosa mitraglietta HK MP5 usata dai sicari durante l’agguato a Marielle e Anderson. Poche ore dopo Bruno si sarebbe recato in un supermercato di Barra de Tijuca, a sud di Rio, e qui avrebbe consegnato a un complice, Josinaldo Freitas, detto Djaca, istruttore di arti marziali, sia lo scatolone sia le due borse. Le telecamere di sorveglianza del palazzo dove sorge l’appartamento e quelle del supermercato immortalano la scena. Djaca, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, si sarebbe poi recato nel borgo di pescatori Quedra-Que, che sorge a sud di Barra, dove avrebbe noleggiato una barca. Avrebbe preso il largo e si sarebbe fermato vicino a un gruppo di isolotti dove si sarebbe liberato, gettandoli in mare, dei tre oggetti. I pescatori hanno confermato la circostanza. La polizia federale ha scandagliato i fondali di quel tratto di Atlantico, anche con l’aiuto dei sommozzatori della Marina. Ma la profondità e la scarsa visibilità delle acque torbide non hanno consentito di recuperare il carico. Probabilmente è sommerso da fango e alghe oppure è stato portato via delle correnti. Manca la pistola fumante. E questo rende difficili le indagini anche se su questa mitraglietta si sa tutto. Grazie ai 13 proiettili recuperati nella testa e il corpo di Marielle e Anderson sono stati stabiliti i calibri, le filettature e la loro origine: farebbero parte di uno stock acquistato dalla Polizia Militare ma poi rubato. I nuovi arresti confermano la pista delle milizie, le bande di ex agenti, pompieri e soldati, alcuni ancora in servizio, presenti in numerose favela della città. Gang che si spartiscono il territorio con gli altri Cartelli più o meno forti a suon di incursioni e sparatorie. Il controllo di certe aree significa estorsioni, taglieggi, traffico di droga in cambio di protezione. Ronnie Lessa, che ovviamente si proclama innocente, viveva vicino alla casa del presidente Jair Bolsonaro a Tijuca anche se tra i due non c’è alcun rapporto o relazione. Amicizia invece dimostrata e ostentata in diverse foto con il figlio Carlos che avevano messo in imbarazzo il leader dell’estrema destra. Adesso una nuova foto, tirata fuori dal settimanale Veja, mostra Jair Bolsonaro che si fa un selfie con Djaca, il maestro di arti marziali, sospettato di aver gettato in mare la mitraglietta dell’agguato e probabilmente altre armi usate in altre operazioni. Nessun commento da parte di Bolsonaro che liquida la faccenda come ha fatto in passato: tanti chiedono una foto a cui il presidente non si sottrae. L’immagine, postata su Twitter, non dimostra nulla. Tanto meno un coinvolgimento di Bolsonaro con l’attentato a Marielle. Ma il cerchio si stringe: si sa che l’omicidio è stato appaltato all’Ufficio del Crimine, un network delle milizie attivo a Rio a cui ci si rivolge per gli assassinii su commissione. Un piccolo passo in avanti in un’inchiesta che procede a rilento. Ci sono gli autori dell’agguato in carcere, adesso amici e familiari che si sono sbarazzati delle armi. Ma senza la prova regina, l’arma del delitto, è difficile restituire giustizia alla parlamentare che aveva denunciato l’irruzione delle milizie nelle favela di Rio.