Prima Assemblea nazionale dei Garanti dei detenuti lombardiaquotidiano.com, 4 ottobre 2019 Si terrà oggi e domani, a Milano, l’Assemblea nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà eletti dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni italiani. Venerdì 4 l’Assemblea si riunirà alle 11 presso la sede del Consiglio regionale della Lombardia, in via Fabio Filzi 22, dove - dopo i saluti del Presidente del Consiglio regionale, Alessandro Fermi e con la presidenza di Carlo Lio, Difensore civico regionale - prenderanno la parola il Portavoce della Conferenza, Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, delegato a parteciparvi dal Ministro della Giustizia, e il Presidente dell’Autorità Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Nel pomeriggio l’Assemblea si articolerà in gruppi tematici di approfondimento delle questioni più rilevanti, dalle condizioni di vita ai regimi detentivi, dall’assistenza sanitaria e sociale, all’istruzione, alla formazione professionale, all’inserimento lavorativo e alla condizione degli stranieri in carcere e nei centri di permanenza per il rimpatrio. Ai gruppi di lavoro contribuiranno esperti e operatori, come il delegato ai poli penitenziari della Conferenza dei Rettori delle università italiane Franco Prina e il Presidente della Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria Luciano Lucanìa. Sabato 5, a partire dalle ore 9, l’assemblea si riunirà presso la Casa della cultura di Milano, in via Borgogna 3, per la sessione conclusiva. Presiederà i lavori Franco Maisto, Garante dei detenuti di Milano, e interverranno, tra gli altri, l’Assessore ai servizi sociali del Comune di Milano Gabriele Rabaiotti, il Presidente della Cassa delle Ammende Gherardo Colombo, la Presidente del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza Antonietta Fiorillo, il Presidente del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza Riccardo De Facci, la Presidente del della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia Ornella Favero. Al termine l’intervento conclusivo di Franco Corleone, Garante della Regione Toscana e decano dei garanti territoriali. Sanità e carceri: in diminuzione il numero dei detenuti positivi all’Hiv di Raul Leoni gnewsonline.it, 4 ottobre 2019 I numeri lo confermano, non è l’Aids l’infezione più diffusa nella popolazione carceraria: in percentuale, i casi di detenuti Hiv-positivi sono scesi dall’8,1 del 2003 all’1,9 attuale. L’inversione di tendenza, piuttosto netta, è emersa dal XX Congresso nazionale della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) iniziato oggi a Milano. “Questi dati - spiega Sergio Babudieri, direttore scientifico dell’ente e presidente del Congresso - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringhe e i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di Hiv non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale”. La chiave di lettura risulta quindi la cura in funzione di prevenzione, in quanto l’assunzione di farmaci antiretrovirali nei soggetti consapevoli ha di fatto ridotto la trasmissione del virus. Nel frattempo il livello di attenzione si è alzato nei confronti di altri agenti patogeni presenti nelle carceri in percentuali più consistenti rispetto alla media generale della popolazione: l’infezione più frequente tra i detenuti è ora l’epatite C, mentre la prevenzione riguarda anche chi è portatore sano di tubercolosi. Peraltro, con particolare riferimento ai casi di epatite, l’analisi di Babudieri evoca un andamento ugualmente favorevole: “Il dato che sta emergendo dai nostri studi è che, tra tutti i detenuti Hcv-positivi, solo poco più del 50% è realmente viremico e quindi da sottoporre a terapie, rispetto al 70-80% atteso. Per molti di questi, già guariti, è anche ipotizzabile che abbiano sconfitto il virus in maniera spontanea”. Quanto al rischio di contagio per tubercolosi, a fronte di un dato nella popolazione generale pari all’1-2% per portatori latenti - ossia non malati - il direttore della Simspe fornisce anche un dato sociologico: “Nelle strutture penitenziarie la quota sale tra il 25 e il 30%, che aumenta oltre il 50% se si considera solo la popolazione straniera. In ogni caso stiamo parlando non di malattia attiva, ma solo di contatti con il patogeno: un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito”. Troppi casi di radicalizzazione dietro le sbarre di Clemente Pistilli La Notizia, 4 ottobre 2019 Bonafede: vanno condivise le informazioni. Il pericolo jihadista cresce a causa della mafia nigeriana che fa infiltrare i combattenti tra i flussi di migranti. Nelle carceri italiane si entra delinquenti e si esce terroristi. Attualmente sono ben 459 i detenuti a rischio radicalizzazione, 37 dei quali finiti dietro le sbarre con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e 196 per il reato di tratta di persone. Un fenomeno pericoloso, da arginare con interventi rapidi ed energici, quello descritto dal ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, davanti al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen. Il guardasigilli ha precisato che al 24 settembre scorso, “su una popolazione carceraria composta da 60.865 detenuti, 20.292 sono stranieri”. Si tratta di 3.211 comunitari e i restanti provenienti principalmente dal Marocco, dall’Albania, dall’Egitto, dalla Tunisia, dal Senegal e dall’Algeria. Un dato che ha spinto il ministro a progettare un tavolo insieme alla Farnesina e al Viminale, “per accelerare le procedure di rimpatrio dei detenuti stranieri”. La presenza di così tanti stranieri nei penitenziari ha infatti visto aumentare il rischio terrorismo, reso ancor più forte dalla mafia nigeriana che, come sostenuto sempre da Bonafede, invia “parte dei proventi delle attività illecite in Nigeria per finanziare anche foreign fighters, che sfruttano i flussi migratori cercando di infiltrarsi in Italia”. Ancora brucia del resto la ferita di Anis Amri. Il tunisino autore, il 19 dicembre 2016, della strage ai mercatini di Natale a Berlino, si era radicalizzato in carcere, quando era detenuto in Sicilia. E come lui troppi altri. L’intelligence negli ultimi anni batte su tale fenomeno. I detenuti accusati di legami con il terrorismo islamico internazionale sono sottoposti al cosiddetto “circuito Alta sicurezza 2” e sono rinchiusi nei penitenziari di Rossano, in Calabria, e in quelli sardi di Nuoro e Sassari. Come evidenziato a più riprese dal Dap, i veri rischi sono però legati soprattutto agli insospettabili. Per evitare che in libertà tornino terroristi pronti a colpire, la polizia penitenziaria è stata formata, puntando a far cogliere agli agenti anche i primi segnali di radicalizzazione, e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria si avvale della collaborazione di alcuni imam. Ma non basta. Bonafede ha sostenuto davanti al Comitato Schengen che vi è una “necessità stringente della condivisione delle informazioni acquisiste attraverso il monitoraggio della polizia penitenziaria”. Fondamentale poi proseguire nell’analisi e nel contrasto di “quella zona grigia di proselitismo dei terroristi di matrice jihadista, che fa presa soprattutto sulla seconda generazione di migranti”. La proposta di legge sulla prevenzione della radicalizzazione jihadista, presentata nella scorsa legislatura da Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso, passata alla Camera nonostante l’opposizione di M5S, Lega e FI, non ha però mai ottenuto il via libera del Senato. Un’occasione mancata. Bonafede: “Voglio liberare la giustizia dalla polemica ideologica” di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2019 L’intervento del Guardasigilli. Il Ministro definisce “essenziale” il dialogo col Cnf, indica il patrocinio a spese dello stato come “presidio dello stato di diritto” e ricorda le distanze sulla prescrizione: “ma riaprirò il tavolo sulla riforma”. In passato riunioni estese all’intero sistema ordinistico hanno assunto la definizione di agorà. Stavolta è diverso per il numero di avvocati, oltre cinquecento, accorsi all’incontro voluto dal Cnf. Ma la platea così ampia che ha accolto ieri il guardasigilli Alfonso Bonafede all’Università della Santa Croce, a pochi metri dal Senato, è ispirata comunque da quell’idea dell’avvocatura come luogo di confronto, piazza ideale dove la dialettica sostituisce i conflitti. E proprio a una simile vocazione fa appello un ministro nello stesso tempo “orgoglioso di essere avvocato” e consapevole del “disaccordo su alcuni argomenti”, in particolare sul “processo penale” e “la prescrizione”. C’è un pilastro che resta sempre condiviso, “lo stato di diritto”, di cui Bonafede parla in particolare a proposito del patrocinio a spese dello Stato: “Il ddl che ho presentato sarà discusso nelle prossime ore in commissione Giustizia alla Camera”, spiega, “ma è giusto non considerarlo semplicemente un testo a favore degli avvocati: sono norme a tutela di chi non potrebbe permettersi l’accesso alla difesa, che invece è essenziale perché uno Stato di diritto possa dirsi tale”. Applausi, convinti e tra i più calorosi rivolti dagli avvocati al ministro della Giustizia durante il suo lungo intervento. Non a caso, perché in quelle considerazioni di Bonafede si riflette l’aspettativa della stessa professione forense: essere tutelata, sì, ma in quanto garante dei diritti, di “valori essenziali per l’esistenza stessa di una democrazia che possa dirsi evoluta”, scandirà pochi minuti dopo, il guardasigilli, a proposito dell’avvocato in Costituzione. Sulla imprescindibilità del difensore la sintonia tra Bonafede e l’avvocatura è profonda. “Voglio liberare la giustizia dalla polemica ideologica”, dice il ministro. Che comunque non manca di ricordare come nel ddl sul patrocinio si intervenga “anche su alcune criticità della normativa rispetto all’ammissione e alla liquidazione del compenso”. Precisa che tale compenso “sarà vincolato ai parametri”. Ne parla proprio mentre da Montecitorio arriva notizia che la legge è formalmente incardinata con tanto di indicazione del relatore, individuato nel dem Carmelo Miceli. Già fissato a venerdì 12 il termine per proporre audizioni, mentre ieri sera Bonafede si è immerso, sempre alla Camera, nella riunione con tutte le forze di maggioranza sulla riforma del penale e del Csm. “Il Consiglio dei ministri darà via libera ai ddl sicuramente entro il mese di ottobre, considerato che a dicembre la legge delega dovrà essere definitivamente approvata dalle Camere”. Confermato che “i testi saranno due, uno dedicato solo al civile, e partiranno in contemporanea ciascuno in un ramo del Parlamento. Non si tratta di opprimere voi avvocati con nuove norme ma di intervenire chirurgicamente per ridurre i tempi morti. Con una rivoluzione culturale”, rivendica il ministro, “giacché anche la magistratura viene fortemente responsabilizzata sulla durata dei processi”. Alcuni elementi sul civile: “Si semplifica il processo monocratico con un rito unico, adottato avanti al giudice di pace così come, almeno per le fasi introduttiva e decisoria, al Tribunale in composizione collegiale e in appello”, ricorda Bonafede. Che chiarisce: “Abbiamo preservato un punto posto dall’avvocatura come invalicabile: un momento dedicato alla possibilità, per l’avvocato, di presentare istanze istruttorie, diversamente dal primo progetto di ddl e in linea con quanto emerso al tavolo aperto al ministero”. Ecco: il tavolo sul processo è il crocevia. “L’avvocatura è stata ampiamente rappresentata: la riforma è stata discussa con l’Anm e con Cnf, Ocf, Aiga e, a seconda del tema, con le Camere civili e le Camere penali”. Un confronto che il guardasigilli assicura di voler replicare “nei prossimi dieci giorni, per discutere i due distinti ddl in cui viene articolata la riforma”. Ma in generale “il dialogo con il Cnf è stato per me, e continuerà ad essere, essenziale: si tratta non di un’associazione di categoria ma di un’istituzione che va coinvolta quando le decisioni vengono prese”, è il riconoscimento con cui Bonafede introduce il suo discorso. Ci tornerà ancora. Anche a proposito dell’equo compenso: “In questo caso il tavolo è aperto a tutte le categorie professionali. L’obiettivo è rendere inderogabili i minimi fissati dai parametri di legge”, assicura, “anche per la pubblica amministrazione, e in particolare gli enti territoriali, e per l’agenzia delle entrate”. Le norme sull’equo compenso “verranno estese a ogni forma giuridica di accordo tra il professionista e il committente, con l’inclusione delle medie imprese tra i soggetti a cui sono applicabili”. Sull’avvocato in Costituzione “c’è sintonia nella nuova maggioranza, ma anche la necessità di lasciare l’iniziativa al Parlamento”. Nessun passo indietro sulle intercettazioni, nonostante l’astensione proclamata dall’Unione Camere penali: “Sul punto ero stato chiaro già in campagna elettorale”. Il presidente del Cnf Mascherin gli ricorda quanto grande sia la “distanza” sul tema, e lo invita a vietare non solo l’utilizzo ma anche l’ascolto delle intercettazioni del difensore: “Ne parleremo presto”, risponde il ministro, “insieme con i rischi contenuti, nel decreto Orlando, per il diritto di difesa, compromesso dall’impossibilita di trarre copia del materiale intercettato”. Bonafede evoca il confronto col Cnf che si estende anche a “liquidazioni dei ricorsi ex legge Pinto, specializzazioni e accesso alla professione”. Ma un altro applauso caloroso arriva quando assicura di “seguire la vicenda dell’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh, perché chi spende la propria vita per difendere i diritti altrui non debba sacrificare i propri”. Altro valore su cui la sintonia con gli avvocati è assoluta, in coerenza con l’idea che la professione forense rivendica tutela per lo stato di diritto prima che per se stessa. Maggioranza ancora divisa sulla prescrizione, ma la riforma va avanti di Luigi Frasca Il Tempo, 4 ottobre 2019 La maggioranza va avanti sulla riforma della giustizia ma tra i giallorossi restano le distanze sullo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Alla Camera il ministro Alfonso Bonafede ha riunito i capigruppo dei partiti che sostengono il Governo. Il guardasigilli ha esposto la riforma e aperto al contributo di tutti. Con ogni probabilità il pacchetto sarà diviso in due disegni di legge: uno riguarderà la riforma del processo penale e le nuove regole per il Csm, l’altro la riforma del processo civile. I testi dovrebbero partire, contestualmente, nei due rami del Parlamento anche per garantire tempi celeri all’approvazione. Non tutti i nodi, però, sono sciolti. In coda al vertice viene affrontato anche il tema prescrizione che aveva diviso la maggioranza già nel passato faccia a faccia di fronte al premier Conte a palazzo Chigi. La distanza rimane. Per i Dem sarebbe difficile “digerire” un eventuale ok alla riforma entro il 31 dicembre, su questa data insiste Bonafede, senza modificare lo stop delle lancette dei processi. Comunque il clima, ancora, viene definito “positivo” da tutti i protagonisti. “Era un primo incontro nel quale io ho esposto i contenuti. Tutti i gruppi parlamentari manderanno il proprio contributo nei prossimi giorni - spiega il Guardasigilli - Il clima è stato estremamente positivo e molto costruttivo con l’unico obiettivo di arrivare al dimezzamento dei processi. Siamo al lavoro. I cittadini sappiano che il Governo e la maggioranza considerano questa riforma una priorità. L’obiettivo sarà raggiunto, speriamo nei tempi più celeri possibile”. “Sappiamo che ci sono divergenze sulla prescrizione quello che ci siamo detti è di andare avanti per dimezzare i tempi del processo”, sottolinea. “Il clima all’interno della maggioranza è stato cordiale - gli fa eco il vicecapogruppo Pd alla Camera Michele Bordo - Condividiamo la necessità che si intervenga drasticamente per ridurre i tempi dei processi. Abbiamo posto il tema di come affrontare la prescrizione. Su questo storicamente le posizioni sono state differenti e le differenze permangono ma questo non significa che non si possa andare avanti sul percorso di riforma della giustizia”. Anche per Pietro Grasso “il clima dell’incontro è stato positivo, c’è stata grande disponibilità del ministro Bonafede a discutere dalla delega”. Csm, un’idea per le nomine: prima merito, poi sorteggio di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 ottobre 2019 La proposta sta riscuotendo un qualche successo fra le toghe, soprattutto quelle fortemente critiche nei confronti della deriva correntizia che ha contagiato ormai da tempo il Csm. Raggiunta una certa rosa candidati potenzialmente spendibili, si potrà poi scegliere il vincitore mediante il sorteggio”. La proposta è stata avanza dal gip di Milano Guido Salvini durante un incontro organizzato questa settimana dall’associazione radicale Sixweeks sulle vicende che hanno recentemente interessato il Consiglio superiore della magistratura. “Per certi posti - ha precisato Salvini - dopo aver scremato le candidature di bandiera o quelle fatte per avere un titolo in vista di candidature successive, i candidati che effettivamente possono concorrere sono due o tre. Sono magistrati che hanno profili professionali sostanzialmente equivalenti”. “A quel punto la scelta finale potrà avvenire mediante sorteggio, ben sapendo che chi sarà sorteggiato non sfigurerà nell’incarico”, ha concluso il magistrato milanese. La proposta sta riscuotendo un qualche successo fra le toghe, soprattutto quelle fortemente critiche nei confronti della deriva correntizia che ha contagiato ormai da tempo il Csm. La proposta di Salvini cade a ridosso della nomina del nuovo procuratore della Repubblica di Roma. Il Csm ha deciso di azzerare la decisione di maggio dove il più votato in Commissione, come successore di Giuseppe Pignatone, era stato il procuratore generale di Firenze Marcello Viola: per lui si erano espressi i togati di Magistratura indipendente e Autonomia& Indipendenza, Antonio Lepre e Piercamillo Davigo, ed i laici in quota Lega e M5s, Emanuele Basile e Fulvio Gigliotti. Un voto a testa per il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, e per quello di Firenze, Giuseppe Creazzo, da parte, rispettivamente, dei togati Mario Suriano (Area) e Gianluigi Morlini (Unicost). Lepre e Morlini erano poi stati costretti alle dimissioni dopo la pubblicazione delle intercettazioni effettuate a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. In una intervista ieri a La Repubblica, il vice presidente del Csm David Ermini ha affermato che si procederà ora con le “audizioni”. Ogni aspirante, sono tredici, dovrà convincere la Commissione di essere il migliore per quell’incarico, illustrando il proprio progetto per gestire al meglio l’ufficio, e rispondendo alle varie domande che i consiglieri di Palazzo dei Marescialli vorranno fare. La scelta, comunque, non sarà facile considerato l’elevato livello dei vari partecipanti, Tutti magistrati con solide esperienze di gestione di uffici di Procura particolarmente impegnati sotto il profilo della criminalità, organizzata o di tipo comune. La possibilità di ricorsi davanti al giudice amministrativo da parte degli esclusi non è una ipotesi peregrina. “Tra le toghe c’è aria nuova il sorteggio le punirebbe” di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2019 Intervista a David Ermini, vicepresidente del Csm. “È l’espressione adatta: sottovalutazione. È come se i gruppi della magistratura associata avessero perso, a un certo punto, la misura della loro funzione. Prima luoghi di confronto sui diritti, sugli orientamenti della giurisprudenza, sull’organizzazione della giustizia. Poi non si è avuta consapevolezza di una tramutazione delle correnti in centri di potere, o nella loro brutta copia”. Al vicepresidente del Csm David Ermini va riconosciuto di saper tenere insieme serenità e fermezza. Perché la sua analisi sulla degenerazione del correntismo - emersa con fragore, ma forse senza novità, nel caso Palamara - non ridimensiona nulla. Anzi, le sue parole in plenum, nel plenum più difficile seguito alle intercettazioni di Perugia, furono di una durezza impressionante. Ma va appunto colta la sua attenzione a non far mai impennare il termometro dei discorsi. “Va detto che mi ha dato grande gioia il riconoscimento, sul modo in cui ho condotto l’attività del Consiglio, arrivato dai gruppi che non avevano contribuito alla mia elezione e dal mio stesso competitor alla vicepresidenza, Alberto Benedetti”. D’accordo, ma dopo lo tsunami vede una magistratura associata consapevole della necessità di cambiare? Sì, a me è sembrato subito di cogliere un cambio di passo. Ho visto negli stessi consiglieri una riflessione nuova sulle correnti, come se si fossero trovati di fronte a un’impietosa realtà: l’associazionismo giudiziario uscito dai binari del confronto sulle idee ed esposto in maniera gravissima al rischio di essere ben altro. Una brutta copia dei centri di potere. Una sottovalutazione, appunto... Si era arrivati a non comprendere più il rischio che si correva. Invece le correnti sono nate per altre ragioni... Pensi solo a quanto è importante e prezioso il dibattito sul fine vita, solo per citare un tema divenuto centrale negli ultimi giorni. È giusto che le sensibilità diverse presenti nella magistratura vi trovino un’occasione di confronto. Ma per ritrovare fiducia ora i magistrati dovrebbero un po’ defilarsi dal dibattito pubblico? E crede che i giornali parlerebbero meno della magistratura? Pare evidente che giudici e inquirenti siano destinati a essere oggetto di attenzione a prescindere dalla loro diretta presenza nel dibattito. E poi, visto che la loro funzione è applicare la legge, è inevitabile che sul modo di applicarla si articolino discussioni. C’è una proposta assai gettonata, in queste ore, sulle mailing list riservate della magistratura... Le mailing list: vorrei fare una considerazione sul tema. Prego. Credo che sull’uso dei social andrebbe adottata una certa maggiore prudenza da parte dei magistrati, e credo anche che tale cautela andrebbe estesa alle mailing list, considerato che proprio la sua domanda conferma come siano diventate di fatto pubbliche. Vi si è discusso della possibilità di attribuire gli incarichi direttivi per sorteggio, una volta che il Csm abbia individuato una rosa ristretta e qualificatissima di candidati... Posso dire che sarebbe ben accetta qualunque ipotesi utile ad assicurare trasparenza. Il percorso per conferire le nomine deve essere lineare, trasparente, approfondito, aperto, coronato da un’adeguata motivazione in grado di scongiurare il più possibile i rischi di intervento della magistratura amministrativa. Credo anche che lo scrupolo nel seguire in modo rigoroso simili criteri possa essere sufficiente. Se si procede in modo ordinato, con approfondite audizioni, è più difficile che una pronuncia del Tar censuri la decisione. Mi piacerebbe essere il meno possibile sui giornali per via delle nomine, certo. Anche perché il Csm si occupa di molto altro. Lei è perplesso sul sorteggio per l’elezione dei togati perché vi vede un atto di sfiducia nella capacità di rappresentanza dei magistrati? È il punto centrale della mia valutazione. Dietro il sorteggio si spalanca un orizzonte incerto, oscurato dall’ombra della normalizzazione. Come se il Csm dovesse rassegnarsi a essere al massimo un organo burocratico. E come se la legge elettorale per i consiglieri togati fosse stata scritta dallo stesso Csm anziché in Parlamento. Credo sarebbe opportuno correggerla, in particolare per rendere il più possibile effettivo il principio di rappresentanza. Come? Innanzitutto con una ridefinizione dei collegi in modo da favorire quei magistrati particolarmente conosciuti dai colleghi per le loro capacità, per la loro attenzione. Non condivido il sorteggio anche per una ragione di metodo. Andrebbe cambiata la Costituzione? Mi riferisco anche a un altro aspetto. Se c’è una perdita di misura da parte delle correnti bisogna eliminare quell’anomalia, non punire i magistrati con norme che diffidino della loro capacità di rappresentanza. Con le suppletive previste per questo fine settimana e per dicembre, il Csm, oltre a tornare a ranghi completi, allontanerà anche lo spettro dello scioglimento? Innanzitutto i poteri di scioglimento costituiscono una prerogativa assoluta del Capo dello Stato. Si può solo osservare che nei mesi successivi all’apertura dell’indagine di Perugia i consiglieri, tutti, si sono impegnati a lavorare con grande assiduità. Non s’è persa una seduta, non ci si è concessi un rinvio. Ora, con le due elezioni suppletive si colmano i vuoti nella composizione del Csm ma, vede, per ritrovare autorevolezza questo non basta. Piuttosto bisogna considerare un prima e un dopo, e fare in modo che non si torni mai più a quanto avvenuto prima che si avessero notizie sull’indagine di Perugia. Con il riconoscimento costituzionale dell’avvocato crede si possa anche rafforzare l’autonomia della giurisdizione, al punto da scacciare lo spettro di una magistratura sotto controllo politico? Sono convinto di sì. Con l’avvocato in Costituzione sarebbe davvero rafforzata l’autonomia dell’intera giurisdizione. Aggiungo: è proprio alla tutela della giurisdizione e non solo dei magistrati che ho sempre richiamato l’attenzione, da quando sono vicepresidente del Csm. La giurisdizione è costituita dai magistrati, dagli avvocati e anche dagli accademici. Rispettarla significa comprendere il contributo che tutte le sue componenti offrono all’evoluzione della giurisprudenza. E ancora: rispetto non vuol dire che un esponente politico non possa criticare le sentenze, ma ricordare che la giurisdizione può fare a meno di molte cose, anche del consenso, tranne che della fiducia. E potrebbe esserci una giurisdizione equilibrata con un avvocato debole? L’avvocato ne è parte irrinunciabile. La giurisdizione va tutelata per non compromettere un pilastro sul quale poggia la democrazia liberale: spero se ne abbia un’idea chiara. Nel ddl Bonafede dovrebbe esserci il diritto di voto per gli avvocati nei Consigli giudiziari anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati: è d’accordo? Parlo davvero a titolo personale, giacché si tratta di norme che competono al Parlamento, ma sono convinto che la valutazione dell’avvocatura sulla professionalità dei magistrati sia molto importante. Senta, ma il suo contributo di serenità, in questi mesi spaventosi, le è stato riconosciuto o no dai magistrati del Csm? La mia gioia forse più grande, in questi mesi, è stata ascoltare le parole spese nei miei riguardi da tutti i consiglieri, da chi aveva sostenuto la mia elezione e da chi non l’aveva sostenuta. Sono agli atti del plenum e rappresentano un riconoscimento che non potrò dimenticare. Stefano Cucchi, al processo bis il pm chiede 18 anni per due carabinieri di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 4 ottobre 2019 Oltre alla pena per gli autori del pestaggio per l’accusa è da assolvere Francesco Tedesco per l’omicidio preterintenzionale: per lui “una condanna a 3 anni e 6 mesi”. “Vi chiedo di condannare per omicidio preterintenzionale Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a 18 anni di carcere e per il falso e calunnia Roberto Mandolini a 8 anni e Vincenzo Nicolardi, e di assolvere Francesco Tedesco per l’omicidio preterintenzionale ma di condannarlo a 3 anni e 6 mesi per falso nei confronti della polizia penitenziaria”: le richieste del pubblico ministero Giovanni Musarò chiudono la requisitoria del processo Cucchi bis, durante la quale sono stati ripercorsi i passaggi più importanti dal punto di vista processuale (ascolta qui il podcast di Giovanni Bianconi che ricostruisce l’intera vicenda). Secondo il pm “questo non è un processo all’Arma, ma è un processo contro cinque carabinieri che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’Istituzione di cui facevano e fanno parte”. E Musarò aggiunge: “Per sgombrare definitivamente il campo da strumentali insinuazioni, non si può sottacere che straordinaria importanza ha assunto la costituzione di parte civile del Comando generale dei carabinieri nel cosiddetto processo dei depistaggi. Depistaggi che in alcuni passaggi hanno toccato picchi da film dell’orrore. La responsabilità è stata scientificamente indirizzata verso tre agenti della polizia penitenziaria. Ma il depistaggio ha riguardato anche un ministro della Repubblica che è andato in Senato e ha dichiarato il falso davanti a tutto il Paese, basandosi su falsi documenti. Parliamo del fatto che è stato costruito un atto falso in una caserma dei carabinieri”. Dopo due anni di dibattimento la discussione si avvia verso la conclusione. Il momento più significativo era venuto dalle rivelazioni in aula dell’imputato Francesco Tedesco il quale aveva ricostruito i momenti successivi all’arresto di Stefano Cucchi: “Cucchi e Di Bernardo (il carabiniere Raffaele Di Bernardo ndr) cominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano... fu un’azione combinata” aveva rivelato l’imputato l’11 ottobre 2018. In seguito alla morte di Stefano Cucchi era scomparsa una relazione dello stesso Tedesco sul pestaggio, ha raccontato Tedesco assistito dal suo avvocato Eugenio Pini: “Pensavo - ha detto - che di lì a breve mi avrebbe convocato il maresciallo Mandolini per chiedermi conto dell’annotazione ma io ero determinato ad attestare quanto era accaduto. Qualche giorno dopo, invece, mi resi conto che, sulla copertina del fascicolo, era stato cancellato con un tratto di penna quello che avevo scritto e che le due annotazioni erano scomparse”. La testimonianza è importante anche ai fini della ricostruzione del depistaggio che sarà affrontato al processo ter (inizierà il 12 novembre prossimo). Infine ci sono le dichiarazioni del collegio dei periti presieduto dal professor Francesco Introna che per la prima volta, a giugno, ha ammesso l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi. “Nessuno può avere certezze - ha detto Introna - però, se non ci fosse stata la frattura trasversale del bacino (causata dalle botte, ndr), Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni”. La sentenza potrebbe arrivare già il 6 novembre. Cucchi, “depistaggi horror”. Il pm: “Processo non all’Arma” di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 ottobre 2019 Nella requisitoria il pm Giovanni Musarò chiede 18 anni per i due carabinieri autori del pestaggio. “Impossibile dire che non c’è nesso di causalità tra le violenze e la morte”. “È impossibile dire che non ci sia un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte” di Stefano Cucchi. È la prima tessera del puzzle che il pm Giovanni Musarò ricostruisce a dieci anni di distanza dalla morte del giovane geometra romano pronunciando, nell’aula bunker di Rebibbia, l’ultima parte della sua requisitoria del processo bis. Perciò alla Corte d’Assise di Roma il magistrato chiede di condannare a 18 anni di reclusione Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, due dei tre carabinieri che lo arrestarono la notte del 15 ottobre 2009, per omicidio preterintenzionale. Reato che, secondo la pubblica accusa, vede estraneo il testimone chiave Francesco Tedesco, il militare che ha rivelato i dettagli del pestaggio e per il quale la procura chiede la condanna per falso a 3 anni e 6 mesi. Ma è il maresciallo Roberto Mandolini (all’epoca comandante della Stazione Appia) colui che si prende la maggiore responsabilità delle falsificazioni e dei depistaggi. Per lui Musarò chiede 8 anni di carcere. Mentre cade per prescrizione il reato di calunnia nei confronti degli agenti penitenziari, assolti in via definitiva; motivo per il quale il pm invita al “non luogo a procedere” per il carabiniere Vincenzo Nicolardi, e per gli stessi Tedesco e Mandolini. “I periti parlano di multifattorialità per la morte di Cucchi. Ma tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, al trauma subito”, ricorda il pubblico ministero. “Un pestaggio violentissimo”, lo definisce. “Sono due le persone che aggrediscono l’arrestato, colpito quando era già a terra con calci in faccia”, e per di più “in uno stato di minorata difesa” dovuta alla magrezza del ragazzo morto sei giorni dopo l’arresto. Però, si badi bene, la condizione fisica del 31enne romano era voluta, perché Stefano si allenava quasi tutti i giorni in palestra per poter partecipare a incontri di pugilato della categoria peso più bassa. E in ospedale, al Pertini, Cucchi rifiutò cibo e cure perché fu colpito da “un chiarissimo sintomo da “disturbo post traumatico da stress” a causa del pestaggio subito, come dichiarato dal professore Vigevano”. “Si è speculato sulla sua magrezza”, tanto da farla diventare “il cavallo di battaglia di tutte le difese, pure in questo processo”. Ma “il capolavoro dei capolavori”, come lo chiama Musarò, è il depistaggio architettato nel giro di quattro giorni e poi spacciato al Paese addirittura tramite una informativa al Parlamento dell’allora ministro Angelino Alfano, inconsapevole, che leggerà “l’appunto del 30 ottobre 2009 del comando del gruppo di Roma”, partorito appena quattro giorni dopo che Patrizio Gonnella e Luigi Manconi avevano denunciato il caso. “Cucchi aveva detto che soffriva di celiachia, anemia ed epilessia. La registrazione di quella deposizione l’abbiamo sentita cento volte, ma nella trascrizione diventano epilessia, anoressia, e sieropositività. Fino a due anni fa, tutti, compreso me - continua il magistrato - pensavamo che Cucchi fosse “tossicodipendente in fase avanzata”, perché questa verità è stata spacciata in tutto il Paese. Il ministro ha letto proprio questa frase. Cucchi invece era uscito dalla tossicodipendenza da un anno, stava bene, lavorava e si allenava tutti i giorni”. “Ma se il ministro va in aula a riferire su una questione che interessa tutto il Paese e dichiara il falso, è di una gravità inaudita”. Depistaggi che hanno “toccato picchi da film dell’orrore”. Ecco perché il magistrato dell’antimafia chiede alla giuria non pene esemplari, ma pene giuste”, specificando che “questo non è un processo all’Arma dei Carabinieri, ma è un processo contro cinque esponenti dell’Arma che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’Istituzione di cui facevano e fanno parte”. Musarò infatti definisce di “straordinaria importanza la costituzione di parte civile del Comando Generale dei Carabinieri nel cosiddetto processo dei depistaggi” che è scaturito da questo dibattimento e si aprirà il 12 novembre. Eppure una cosa va detta, anche se scomoda, lampante agli occhi di tutti, forse anche del pm: in quell’aula di giustizia, a processo c’è anche l’impunità pretesa da una certa sottocultura ancora viva e vegeta all’interno delle nostre forze dell’ordine. Forse per questo Ilaria Cucchi (che ha raccontato questi dieci anni in un libro a quattro mani con l’avvocato Fabio Anselmo, Il coraggio e l’amore, in uscita per Rizzoli il 22 ottobre) commenta: “Questo processo riavvicina i cittadini e lo Stato. Io non avrei mai creduto di trovarmi in un’aula di giustizia e respirare un’aria così diversa. Se ci fossero magistrati come il dottor Musarò non ci sarebbe bisogno di cosiddetti eroi o della sorella della vittima che sacrifica dieci anni della sua vita per portare avanti sulle sue spalle quella che è diventata la battaglia della vita”. Caso Cucchi. Bugie, veleni, poi la svolta che ha riunito Arma e Procura di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 ottobre 2019 “Non ci provate a dire che noi vogliamo processare l’Arma, perché l’Arma è accanto a noi”, intima il pubblico ministero Giovanni Musarò, mentre si appresta a chiedere pene pesantissime per i carabinieri imputati di omicidio e falso per la morte di Stefano Cucchi. E parlando si accalora, deciso a bloccare l’ennesimo tentativo di depistaggio: l’insinuazione “sterile e strumentale” di alcuni avvocati difensori secondo cui la Procura ha inteso mettere sotto accusa un’intera istituzione per coprire altre responsabilità. Non è vero, ribatte Musarò: “Questo è solo un processo a cinque rappresentanti dell’Arma che nel 2009, come altri oggi imputati in un altro procedimento, hanno violato il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’istituzione di cui fanno parte”. La prova? La costituzione di parte civile del comando generale, per il “gravissimo discredito dell’immagine istituzionale”, contro cinque altri ufficiali, nel dibattimento per i depistaggi fissato a metà novembre. “Un atto di fortissima rilevanza simbolica”, spiega il pm, che aggiunge un altro punto di svolta che ha segnato il riscatto dell’Arma: “La leale collaborazione alle indagini offerta nel 2018 e nel 2019 dal Comando provinciale dei carabinieri di Roma, dal Reparto operativo e dal Nucleo investigativo”. Il resto - lascia intendere il magistrato - sono insinuazioni e veleni che si aggiungono agli inquinamenti di cui è costellato il “caso Cucchi”, fabbricati o avallati dai carabinieri alla sbarra. “Depistaggi inimmaginabili, che hanno raggiunto picchi da film dell’orrore”, cominciati la sera stessa del fermo e del “violentissimo e vile pestaggio” di Stefano Cucchi. Con meticolosità e precisione Musarò sgrana il rosario di falsi e bugie scoperte grazie a un’indagine nella quale è dovuto ricorrere alle tecniche antimafia per rompere “il muro di omertà”: dal verbale d’arresto al registro del fotosegnalamento sbianchettato, dalle relazioni di servizio modificate alla nota in cui si sosteneva che Cucchi era affetto da “tossicodipendenza in fase avanzata, epilessia, anoressia e sieropositività”. Tutte bugie che si sono ripetute e alimentate nel tempo, costruite e diffuse ad arte grazie a “una regia unitaria”. Ma soprattutto, accusa il pm, giunte al livello più alto delle istituzioni democratiche: il Parlamento. Le bugie erano infatti destinate al ministro della Giustizia chiamato a rispondere in Senato sulle cause della morte di Stefano Cucchi, e gli sono arrivate seguendo una catena che dalle stazioni è arrivata fino al ministero della Difesa, passando per i comandi dell’Arma, e poi trasmesse ai vertici dei ministeri. “Hanno fatto mentire il Guardasigilli, e per quanto si voglia minimizzare è un fatto gravissimo - scandisce Musarò - in una Repubblica parlamentare dove il governo è chiamato a rendere conto, un ministro ha dichiarato il falso sulla base di atti falsi costruiti dai carabinieri”. Falsi dai quali scaturì il processo a tre agenti penitenziari innocenti - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici - che dovevano essere testimoni, invece divennero imputati (assolti) e oggi sono parte lesa delle calunnie contestate ai carabinieri. In aula, i tre ascoltano e annuiscono mentre il pm ricorda che “il movente” dei depistaggi sta nelle prime denunce politiche e di stampa, dove si affermava che il destino di Cucchi si era consumato nelle caserme dei carabinieri in cui trascorse la notte del fermo: “II re era nudo fin dall’inizio, ma con quelle menzogne la storia è stata capovolta”. E dopo dieci anni arrivano le richieste di pena per chi partecipò all’arresto. Concessi, finalmente, i domiciliari a Mario Trudu: potrà farsi operare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2019 L’ergastolano, in cella da 41 anni, è affetto da una grave sclerodermia polmonare. Finalmente disposta, in via provvisoria, la misura domiciliare per gravi motivi di salute all’ergastolano Mario Trudu. Dopo 41 anni di carcerazione e dopo ormai anni di tribolazione, una piccola, ma importante battaglia è stata vinta dal suo legale, l’avvocata Monica Murru che con ostinazione ha combattuto, a colpi di referti medici e istanze, per garantire il diritto di salute al 69 enne Trudu, il quale è affetto da una grave sclerodermia polmonare: da oltre un anno nella Casa di Reclusione di Massama aspetta che gli vengano applicate le cure necessarie, nonostante il pronunciamento della magistratura di sorveglianza di Cagliari. Inoltre, come se non bastasse, gli è stato diagnosticato un adenocarcinoma alla prostata per il quale sono previsti, in linea di massima, tre mesi di terapia ormonale seguiti da 30 sedute di radioterapia. “Il tipo di patologia di più recente diagnosi - osserva il magistrato di sorveglianza che ha disposto i domiciliari - e la necessità di terapia da prestarsi (per altro in luogo esterno di cura) con cadenza quotidiana, rendono il complessivo stato di salute del detenuto tale da aggravare oltremodo la sofferenza che normalmente e necessariamente la carcerazione comporta per chiunque vi sia sottoposto, determinando una sproporzione fra la sanzione e il reato, rendendo la prima contraria al senso di umanità”. Per questo motivo, la magistratura di sorveglianza di Cagliari ha disposto il differimento provvisorio dell’esecuzione della pena presso l’abitazione della sorella. Ovviamente con tutti i divieti del caso, come il non allontanarsi dal domicilio assegnato, mantenere costanti contatti con l’Uepe di Nuoro e non avere contatti con persone diverse dai familiari conviventi. Ovviamente è autorizzato a recarsi presso ambulatori, servizi sanitari e ospedalieri. Ricordiamo che proprio qualche settimana fa è stata indetta una conferenza stampa promossa da Maria Grazia Caligaris, la presidente di “Socialismo diritti riforme”, volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle gravi condizioni di salute dell’anziano arzanese. È intervenuto Luca Lacivita, reumatologo, del reparto di Medicina dell’ospedale San Martino, che ha fatto una specifica relazione: “Si tratta di una malattia invalidante che se non curata adeguatamente può provocare la morte”. È intervenuta anche la camera penale di Oristano tramite la sua presidente Maria Rosaria Manconi: “Noi aderiamo convintamente alla richiesta di giustizia di Mario Trudu e auspica che, nel rispetto dei principi costituzionali della umanizzazione e della funzione rieducativa della pena, vengano quanto prima adottati i provvedimenti necessari affinché venga garantito il diritto alle cure e alla vita stessa”. Nel sottolineare le difficili condizioni anche psicologiche di Mario Trudu, il fratello Danilo e la nipote Maria Assunta Mancosu, hanno espresso preoccupazione per la situazione sanitaria. “Chiediamo solo la possibilità - hanno detto - di farlo curare adeguatamente, non altro”. Il diritto alla salute è previsto dall’articolo 32 della Costituzione e viene prima di ogni altra esigenza di giustizia. Non a caso, in una sentenza del 2010, la Cassazione ha chiarito la necessità di tener sempre presente “indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità del detenuto con le possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario” anche l’esigenza di “non ledere comunque il fondamentale diritto alla salute ed il divieto di trattamenti contrari all’umanità”, posto che essere malati in carcere “porta ad una sofferenza aggiuntiva, derivante proprio dalla privazione dello stato di libertà in sé e per sé considerato e questo nonostante la fruibilità di adeguate cure in stato di detenzione”. Facebook deve cancellare anche contenuti simili a quelli illeciti Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2019 Corte Ue - Sentenza 3 ottobre 2019, Causa C-18/18. Facebook, come gli altri prestatori di servizi di hosting, a seguito di una ingiunzione, sono tenuti a rimuovere commenti identici e, a certe condizioni, equivalenti a un commento precedentemente dichiarato illecito. Lo ha stabilito la Corte Ue, con la sentenza nella causa C-18/18, aggiungendo che la Direttiva sul commercio elettronico non osta neppure a che tale ingiunzione produca effetti a livello mondiale, nell’ambito del diritto internazionale pertinente di cui spetta agli Stati membri tener conto. Il caso era quello di una deputata austriaca che aveva citato Facebook Ireland nel proprio paese chiedendo che cancellare un commento pubblicato, da un utente su tale social network, lesivo del suo onore nonché affermazioni identiche e/o dal contenuto equivalente. E la Corte suprema ha chiesto lumi alla Corte di giustizia di giustizia. Secondo la direttiva citata, spiega la decisione, un prestatore di servizi di hosting, quale Facebook, non è responsabile delle informazioni memorizzate qualora non sia a conoscenza della loro illiceità o qualora agisca immediatamente per rimuoverle. Tale esonero da responsabilità non pregiudica tuttavia la possibilità di ingiungere al prestatore di servizi di hosting di porre fine ad una violazione o di impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitando l’accesso alle medesime. Per contro, la direttiva vieta di imporre a un prestatore di servizi di hosting di sorvegliare, in via generale, le informazioni da esso memorizzate o di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. La direttiva sul commercio elettronico, prosegue la Cgue, non osta a che un giudice di uno Stato membro possa ingiungere a un prestatore di servizi di hosting di rimuovere le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia identico a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita o di bloccare l’accesso alle medesime. Purché però la sorveglianza e la ricerca delle informazioni siano limitate a informazioni che veicolano un messaggio il cui contenuto rimane sostanzialmente invariato rispetto a quello che ha dato luogo alla dichiarazione d’illeceità e purché le differenze nella formulazione non siano tali da costringere il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto. Il prestatore di servizi di hosting può quindi ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati. Infine è legittima anche la richiesta di rimuovere le informazioni oggetto dell’ingiunzione o di bloccare l’accesso alle medesime a livello mondiale, nell’ambito del diritto internazionale pertinente, di cui spetta agli Stati membri tener conto. L’illegittimità della perquisizione non si riverbera sugli esiti probatori di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2019 Corte costituzionale - Sentenza 3 ottobre 2019 n. 219. L’illegittimità della perquisizione non ha come conseguenza l’inutilizzabilità a fini probatori del sequestro del corpo del reato che resta un atto dovuto. La Consulta, sentenza n. 219 di oggi, ha dichiarato inammissibile in quanto avrebbe richiesto un intervento additivo e manipolativo del codice di procedura penale, la questione di costituzionalità proposta dal Gup di Lecce in relazione alla utilizzabilità della prova raggiunta in modo non corretto. A seguito di una perquisizione personale eseguita dai Carabinieri nei confronti dell’imputato per asseriti “atteggiamenti sospetti”, gli erano stati trovati in tasca tre involucri di sostanza stupefacente. A questo punto i militari avevano esteso la perquisizione all’abitazione, dove avevano rinvenuto il resto della droga sottoposta a sequestro. Così stando le cose, secondo il giudice rimettente si sarebbe dovuta desumere l’automatica “inutilizzabilità” degli atti di sequestro, attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” relativi agli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti. Per la Consulta, la tesi secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre - come soluzione costituzionalmente imposta - alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, “secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, rinverrebbe la propria ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 c.p.p. svolgerebbe una funzione di tipo “politico costituzionale”, disincentivando le violazioni finalizzate all’acquisizione della prova”. In tal modo però osserva la Consulta si “finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “politica processuale” che la stessa Costituzione riserva al legislatore”. Il giudice del rinvio cioè si pone un obiettivo ben specifico: “disincentivare gli abusi (o quelli che lui ipotizza esser tali) rendendo gli abusi stessi “non paganti” sul piano processuale, attraverso un passaggio che estende ad un atto in sé valido (il sequestro) la illegittimità (e inutilizzabilità) di quello che ne costituisce la occasio (la perquisizione ed ispezione)”. La questione sollevata nell’ordinanza di rimessione, infatti, è proprio la seguente: va dichiarata l’illegittimità dell’articolo 191 del Cpp” nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’A.G. con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività”. La richiesta di “addizione”, dunque, argomenta la Consulta, “non soltanto mira ad introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità di ciò che l’ordinamento prescrive come attività obbligatoria (il sequestro del corpo del reato), ma si propone altresì di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria” Va da sé, conclude la Corte, che se è vero che le regole che stabiliscono divieti probatori riposano sulla esigenza di introdurre misure volte anche a disincentivare possibili “abusi”, “è altrettanto vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito dall’ordinamento attraverso la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria”. Lombardia. La Regione italiana con più detenuti agenziadire.com, 4 ottobre 2019 In Lombardia ci sono circa 8.500 detenuti di cui circa 3.500 a Milano. Più del 33% sono stranieri e circa il 40% ha alle spalle una storia di tossicodipendenza. I problemi principali che si incontrano, a livello sanitario, tra i detenuti sono, tra i vari, la tossicodipendenza, il disagio psichico, le malattie infettive, le malattie croniche come ad esempio la bronchite cronica. Se ne parla a Milano, presso l’Auditorium Testori del Palazzo Lombardia, durante la prima giornata del XX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2019, intitolato “Il carcere è territorio”. Circa 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia. L’appuntamento, organizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Simit - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, presieduto dal Roberto Ranieri, Coordinatore Sanità Penitenziaria Regione Lombardia, rappresenta il momento di confronto fra tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di sanità e di salute all’interno degli Istituti Penitenziari e che intende fornire spunti per una riflessione approfondita del fare Salute in carcere. La regione Lombardia conta 18 istituti penitenziari sui 190 nazionali. Qui la capienza regolamentare stabilita per decreto dal ministero della Giustizia sarebbe di 6.199 detenuti, ma l’ultimo censimento ufficiale ha contato 8.472 reclusi (1.306 già condannati ma non in via definitiva e 1.098 ancora in attesa del primo grado di giudizio). Queste stime confermano che la Lombardia è la regione d’Italia con il maggior numero di detenuti. A seguire la Campania (7.606), il Lazio (6.483) e la Sicilia (6.396). In un clima altamente esplosivo. “La regione Lombardia presenta una caratteristica: qui la salute penitenziaria resta in carico alle Aziende Ospedaliere, mentre nelle altre ragioni italiane è gestita dalle ASL - dichiara Roberto Ranieri, Presidente del XX Congresso Simspe - L’accesso alle cure è garantito con pari dignità rispetto al cittadino libero in tutte le Regioni, ma alcune, soprattutto quelle autonome, non hanno ancora applicato tutti i criteri previsti nel decreto di passaggio dal Ministero della Giustizia a quello del Welfare che risale all’aprile 2008”. L’attualità insegna che gli abusi fisici nelle carceri esistono, seppur se ne parli pochissimo. Un argomento spinoso, delicato, ma che deve essere comunque affrontato, così da trovarne soluzioni e correzioni nelle pratiche. Secondo i dati dell’Osservatorio Antigone, nel corso del 2018 si sono registrati 120 nuovi casi, quindi un episodio ogni tre giorni, relativi a presunti abusi, maltrattamenti, diritti non rispettati e condizioni strutturali allarmanti. Sono inoltre aumentate le violenze carnali tra detenuti e quadruplicate, secondo il Sindacato Penitenziari, le aggressioni nei confronti dei poliziotti penitenziari. “Nelle nostre carceri possiamo distinguere due tipi di riferiti abusi - specifica il Dott. Ranieri - quelli legati a violenza anche sessuale tra detenuti e quelli operati dal personale di polizia penitenziaria. Dei primi c’è poca conoscenza, anche perché i detenuti stessi preferiscono non ammetterli, i secondi sono sicuramente in diminuzione, anche per un’azione decisa dell’Amministrazione Penitenziaria”. Bologna. Guerra elettronica alla Dozza per i telefonini di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 4 ottobre 2019 Entro fine ottobre arriveranno i rilevatori portatili per individuarli e bloccare le frequenze. La lettera del direttore generale del Ministero della Giustizia è arrivata nei giorni scorsi. Porta la firma di Massimo Parisi e annuncia la guerra ai telefonini in carcere: “Entro la fine di ottobre verranno distribuiti agli agenti i rilevatori di cellulari e di dispositivi elettronici”. Poche righe per rispondere a Roberto Santilli, segretario del Sinappe (sindacato della polizia penitenziaria), che nelle scorse settimane, come anche la Cgil, aveva sollecitato il dipartimento a fare qualcosa contro il ritrovamento di telefonini durante le perquisizioni ai detenuti. Una piaga presente in tutti gli istituti di detenzione e, non ultimo, in quello della Dozza. Quindici i ritrovamenti dall’inizio dell’anno a Bologna. L’ultimo in ordine di tempo ieri mattina, segnalato con una nota dalla Fp-Cgil. Scrive il sindacato: “Durante un’operazione di perquisizione ordinaria in alcuni reparti di detenzione del secondo piano, e stato rinvenuto un telefono iPhone ed il rispettivo carica batterie completamente funzionanti”. L’invito del sindacato è a intervenire con provvedimenti finalmente risolutivi contro quella che sembra essere diventata una piaga, oltre che una pericolosa beffa al sistema carcerario. Apparecchi, con schede telefoniche estere, che consentono ai detenuti più pericolosi di tenere contatti diretti con l’esterno della Dozza. Una volta, a passare tra le sbarre erano i microtelefoni, ma da qualche tempo si cominciano a vedere cellulari di ultima generazione. I quindici telefonini scoperti nel penitenziario bolognese dal primo gennaio scorso sono stati trovati nelle celle di italiani. Ma a prescindere dalla spessore criminale del singolo detentore, la preoccupazione maggiore è che si tratti di strumenti utilizzati da affiliati e boss della criminalità organizzata. L’ipotesi è che si tratti di un modo per comunicare, impartire e ricevere ordini, per dare continuità a attività criminale d’ogni genere. Quindici episodi in meno di 10 mesi sono tanti. Troppi per il Sinappe, che lo ha messo nero su bianco il 17 settembre in una lettera ai vertici della casa circondariale e del dipartimento. Numeri che sono il sintomo di un sistema carcerario “permeabile”. Falle contro cui la polizia Penitenziaria continua a combattere una battaglia impari, uno svilente gioco di guardie e ladri. Ma come entrano i telefonini nelle celle dei detenuti? “Quella delle guardie “infedeli” è solo una delle spiegazioni - dice Nicola d’Amore del Sinappe - Potenzialmente chiunque potrebbe introdurre un telefonino in carcere. In astratto potrebbero farlo medici e infermieri, educatori, gli avvocati e persino i volontari. I controlli ci sono, tuttavia il personale è poco e male attrezzato. Una volta dentro, il cellulare può passare di mano in mano facilmente”. Una cosa è certa: i detenuti che usano gli apparecchi per chiamare fuori dal carcere non lo fanno per parlare con figli, mogli o madri. In questo senso, tutte le carceri italiane infatti consentono contatti telefonici settimanali ed è quindi logico che i telefonini servono per comunicazioni riservate. “Il tema - spiega ancora d’Amore - non è quello dei rapporti con i familiari, che noi riteniamo indispensabili per la serenità dei detenuti, ma quello della liceità delle comunicazioni”. Da qui le continue perquisizioni degli operatori che, nelle prossime settimane, avranno in dotazione anche i rilevatori in grado di individuare cellulari (anche spenti) e apparecchiature elettroniche. Supporti tecnici a cui nei prossimi mesi potrebbero aggiungersene altri. Il dipartimento ha infatti in animo di mettere in funzione gli “jammer” per inibire frequenze telefoniche e apparati rilevatori di traffico di fonia e dati. Attrezzature sofisticate per l’uso delle quali saranno fatti dei corsi di formazione. Brescia. Scabbia a Canton Mombello, scatta la profilassi giornaledibrescia.it, 4 ottobre 2019 Un detenuto l’avrebbe contratta (probabilmente fuori dal carcere), uno potrebbe essere stato contagiato in cella, mentre gli altri dieci compagni che la condividevano sono stati precauzionalmente sottoposti a profilassi e messi in isolamento sanitario in modo che la malattia, per ora ampiamente sotto controllo, non si diffonda. Si parla di scabbia. L’allarme è scattato nelle scorse ore, quando uno degli ospiti di Canton Mombello, arrivato da poco, secondo fonti interne, è stato sottoposto ad un controllo sanitario, in seguito al quale la direzione del carcere ha disposto il suo trasferimento al Civile per accertamenti. Accertamenti risultati positivi proprio alla scabbia. Il detenuto è stato curato in ospedale e dimesso nel volgere di poche ore e, con una prognosi non particolarmente grave, riportato a Canton Mombello, dove ora è in isolamento sino alla guarigione. Contestualmente, nel carcere di via Spalti San Marco, sono scattati i protocolli sanitari del caso. L’altra decina di detenuti più a stretto contatto con l’uomo risultato infetto è stata sottoposta alla profilassi del caso e trasferita in una cella ad hoc. Una sorta di quarantena in attesa di stabilire se il parassita isolato nell’ex compagno di detenzione ha avuto tempo e modo di diffondersi. Al momento i dubbi riguarderebbero una sola persona. Decisive saranno le prossime ore. Oristano. Al via un corso su esecuzione penale e mondo delle carceri linkoristano.it, 4 ottobre 2019 Iniziativa della Camera penale. Interverrà anche il Garante nazionale dei detenuti. A Oristano, magistrati, avvocati e docenti, insieme al Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute Mauro Palma e alla Direttrice Generale per l’Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia Lucia Castellano, si confronteranno in un evento formativo organizzato dalla Camera Penale. Il corso di diritto penitenziario ed esecuzione penale, rivolto a tutti gli operatori del settore, gli operatori sociali e a quanti vogliano approfondire la materia, inizierà domani, venerdì 4 ottobre e durerà fino a venerdì 6 marzo. Suddiviso in nove incontri di quattro ore ciascuno, a cui si aggiunge un convegno finale, si terrà nella sala convegni Unifidi, nella Lottizzazione Cualbu, a Oristano. “L’idea”, spiega l’avvocato Rosaria Manconi, presidente della Camera Penale di Oristano, “nasce dall’esigenza, segnatala da più parti, di aggiornamento e formazione per quanti operano nell’ambito del sistema carcerario e di acquisizione di strumenti nuovi e adeguati ad affrontare le innumerevoli criticità del sistema carcerario italiano e le gravi problematiche (sovraffollamento, suicidi, carenze di organico e mancato rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenuti), per le quali l’Italia ha subito, negli ultimi anni, una serie di condanne dalla Corte Europea per violazione dei Diritti dell’Uomo”. “Ma soprattutto”, continua la presidente, “il corso vuole essere una occasione per richiamare, su questi temi, l’attenzione delle istituzioni e della società civile e in qualche modo contribuire a promuovere o quantomeno sollecitare, attraverso lo studio ed il dibattito, una diversa cultura e una prassi della esecuzione penale”. “Il carcere”, prosegue Manconi, “è ancora oggi un mondo parallelo rispetto quello in cui siamo abituati a vivere, un universo sconosciuto ai più, fisicamente isolato dal resto del consorzio civile e che per questo necessita di riflessioni aperte e schiette in grado di incidere, al di là di ogni utile riforma, nel sentire collettivo”. Oltre che lo studio sistematico della materia, la Camera Penale ha previsto, nel programma, una riflessione critica del sistema e delle modifiche, in parte mancate, dell’Ordinamento Penitenziario, nonché delle problematiche inerenti la condizione delle carceri e dei detenuti, del ruolo dell’avvocato difensore e delle altre figure che operano nell’ambito penitenziario. Cremona. In carcere sarà attivato il servizio di posta rapida “Zeromail” welfarenetwork.it, 4 ottobre 2019 Si è tenuto ieri mattina presso la Casa Circondariale di via Cà del Ferro l’incontro fra gli esponenti dei Radicali cremonesi, Gino Ruggeri e Sergio Ravelli, e il direttore dott.ssa Rossella Padula. L’incontro, al quale ha partecipato anche il comandante Isp. Sup. Pierluigi Parentera, ha avuto un esito molto positivo. Anche a Cremona sarà attivato il servizio in abbonamento di posta rapida “Zeromail” che consentirà a tutti i detenuti l’invio e la ricezione di lettere in tempi drasticamente ridotti e con un significativo risparmio di denaro. La dott.ssa Padula ha comunicato di aver già provveduto all’invio di una proposta scritta di convenzione con Zerografica, la cooperativa sociale nata all’interno del carcere di Milano-Bollate su iniziativa di persone detenute. Tale convenzione permetterà l’assunzione di un detenuto del carcere di Cremona in base all’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario (lavoro esterno) per lo svolgimento di tale servizio presso una cooperativa sociale della città. Il servizio sarà attivo dopo la conclusione della procedura autorizzativa da parte del Provveditorato Regione dell’Amministrazione Penitenziaria. Esprimiamo il nostro grande apprezzamento per la sensibilità e la disponibilità dimostrata dal direttore della Casa Circondariale e dagli operatori penitenziari. Un piccolo, ma importante, passo può essere compiuto al fine di incoraggiare i contatti dei detenuti con il mondo esterno, a partire dai propri affetti familiari, in vista della loro possibile riabilitazione. Carinola (Ce). Percorso scolastico per i detenuti, diploma agrario ed enogastronomico macronews.it, 4 ottobre 2019 La Casa di Reclusione di Carinola “G.B. Novelli” e Isiss “Taddeo da Sessa” di Sessa Aurunca sono fieri di vedere concretizzati gli sforzi compiuti per ampliare l’offerta trattamentale presentando una nuova offerta formativa, destinati ai detenuti che intendono affrontare un percorso scolastico. A partire dal corrente anno scolastico, i detenuti che vorranno cimentarsi in un percorso didattico- formativo potranno scegliere tra diverse opzioni. Sono infatti stati attivati, e prossimi alla partenza, due nuovi percorsi di istruzione di secondo livello finalizzati al conseguimento del diploma di istruzione tecnica con indirizzo di studio agrario e a quello professionale con indirizzo di studio enogastronomia. I corsi, articolati in tre periodi didattici, afferiscono alla nuova offerta formativa dell’ISISS “Taddeo da Sessa” di Sessa Aurunca, autorizzata con delibera regionale in data 04.12.2018. La nuova offerta segue le indicazioni pervenute dalla Direzione della Casa di Reclusione di Carinola, la quale, dopo aver esaminati i bisogni del mercato del lavoro territoriale, è riuscita ad individuare nelle figure del tecnico agrario con specializzazione viticultura e del professionista enogastronomico due delle necessità più pregnanti del nostro territorio. La vocazione turistica del litorale e le produzioni vinicole dell’entroterra, con specificità autoctone di immenso pregio e valore, rendono necessaria ‘la creazione di figure sempre più aggiornate e specifiche per rendere tali risorse una ricchezza e per dare pieno adempimento al dettato normativo della finalità rieducativa della pena. Catanzaro. “Liberi libri”, il progetto di Giurisprudenza per una biblioteca nel carcere di Giorgia Rizzo lanuovacalabria.it, 4 ottobre 2019 Contribuire alla realizzazione di una biblioteca all’interno del carcere di Siano che sia accessibile da parte dei detenuti attraverso la raccolta di libri di testo. È questo l’obiettivo dell’iniziativa “Liberi Libri”, nata dalla sinergia fra la casa circondariale e il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Un tassello nel più ampio progetto che vede impegnato già da una decina d’anni l’Ateneo a stimolare forme di rieducazione all’interno del carcere, che passino attraverso la formazione universitaria di chi vive in detenzione. Un impegno che adesso si sta maggiormente consolidando, proprio su richiesta degli stessi studenti in detenzione iscritti al corso di studi, attraverso una calendarizzazione della didattica e una presenza più costante del supporto docente. “La possibilità per il carcerato di intraprendere esami e di laurearsi è molto più importante di ciò che si crede” - ha sottolineato il professore ordinario di filosofia del diritto dell’Umg Andrea Porciello, che ha aggiunto - “non è solo dare al detenuto delle informazioni giuridiche, seppure importante, ma è proprio l’idea per cui il proiettarsi ad un’attività a lungo termine abbia come risultato l’arricchimento culturale del detenuto ma anche l’alleggerimento della situazione personale in cui versa, in quanto permette di sganciarsi dalla propria quotidiana vuota e grigia verso una socialità più ampia”. Proprio Porciello ricorda, in virtù della sua esperienza passata da docente in carcere, come le lezioni vengano percepite dagli studenti carcerati, solitamente molto desiderosi di apprendere, come momenti di stacco e di allontanamento dall’istituzione detentiva. Cambiando prospettiva, come fa notare Porciello stesso, questi risultano essere anche momenti di arricchimento personale da parte del docente, che entra in contatto con una realtà umana forte. La formazione, quindi, come possibilità di rieducazione e reinserimento, ma anche come liberazione da una struttura totalizzante come quella carceraria. Per sostenere tutto questo, l’invito dei promotori è quello di dare il proprio contributo attraverso la donazione di libri di testo del corso di laurea in Giurisprudenza per la costruzione della biblioteca, intesa come una porta verso la libertà. Civitavecchia. Santo Versace nella Casa circondariale per parlare di lavoro in carcere gnewsonline.it, 4 ottobre 2019 Si parlerà di nuove prospettive per il lavoro detentivo nella Sala Teatro della casa circondariale di Civitavecchia sabato 5 ottobre con Santo Versace e altri rappresentanti del mondo imprenditoriale. Santo Versace, presidente della Gianni Versace Spa fin dalla sua costituzione, è attivo da molti anni nella promozione di attività solidali: è stato Presidente di Operation Smile Italia Onlus, associazione di medici e volontari che si occupa di bambini con malformazioni del volto in 70 Paesi del mondo. L’imprenditore si è avvicinato al lavoro penitenziario sostenendo, con la donazione di filati, l’attività di Officina Creativa - Made in carcere - la cooperativa sociale avviata nel 2007 da Luciana Delle Donne, che produce e vende accessori confezionati dalle detenute del carcere di Lecce. A Civitavecchia sabato si valuteranno ipotesi di attività adatte a una sezione femminile caratterizzata da un certo turn over ma anche dalla presenza di detenute con problemi psichiatrici e con prospettive di permanenza più lunghe che potrebbero permettere percorsi professionalizzanti. Nel corso dell’incontro saranno consegnate alla responsabile del Comitato Unicef di Civitavecchia Pina Tarantino, le Pigotte confezionate dai detenuti, popolari bambole di pezza che da molti anni vengono realizzate e donate all’Unicef per raccogliere fondi in favore dei progetti per i bambini nel mondo. Al termine, consegna degli attestati agli allievi del corso di cucina professionale e recital teatrale. Ferrara. I detenuti si riscoprono Amleto In scena il rapporto padre figlio di Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 4 ottobre 2019 Andrà in scena domani alle 21 all’interno del carcere di Ferrara lo spettacolo “Album di famiglia”, frutto del laboratorio portato avanti da Horacio Czertok del Teatro Nucleo con i detenuti della Casa circondariale cittadina. Il percorso, iniziato quindici anni fa, mira ad abbattere i pregiudizi e a migliorare l’ambiente in cui le persone si trovano a vivere per mesi o per anni. È, come dice Czertok, regista e tra i maggiori promotori a livello internazionale di questa attività, un aiuto psicologico per i detenuti. “Questi anni sono stati per noi una grande scuola. Abbiamo imparato tanto dal mondo penitenziario ferrarese. La direzione del carcere e gli agenti di polizia ci hanno supportato e stimolato a proseguire. Non abbiamo mai avvertito resistenza e, al contrario, se mi guardo indietro vedo una grande collaborazione”. “Io e Marco Luciano, regista che mi accompagna nel percorso, guidiamo il gruppo ma - afferma Czertok - la squadra è fatta. Si è creato un legame tra i detenuti attori, c’è sintonia e questo è bello. Ad ogni corso partecipano una ventina di persone, tutte hanno un passato diverso con cui fare i conti e noi, attraverso il teatro, cerchiamo di mettere in fila i pezzi. Il nostro - prosegue - è anche un lavoro di alfabetizzazione che non si limita all’uso della lingua ma che va oltre e si espande alle emozioni, ai sentimenti”. Ogni anno, ogni laboratorio, ogni allestimento sono una sfida, una scommessa. Anche se il percorso è rodato, la partenza è sempre nuova e diversa. Ci sono i detenuti di lunga data che già hanno partecipato a uno o più laboratori teatrali e accolgono i nuovi arrivati. “È un modo per stare insieme, socializzare, conoscersi e in qualche modo capirsi”. “Album di famiglia” è uno studio su Shakespeare e, più nello specifico su Amleto. Al centro del lavoro il rapporto tra padri e figli, un rapporto spesso travagliato e complesso. “Tutti siamo figli, molti di noi sono padri e anche in carcere - prosegue il regista - ci sono tanti genitori lontani dai propri figli. Siamo partiti da qui, da riflessioni che attingono da condizioni reali, e ci siamo soffermati su autori come Heiner Muller e Laforgue”. Il teatro si è mescolato alla vita e viceversa. La rappresentazione di domani è già sold out da tempo. Il passo successivo, la sfida nuova, sarà quella di portare “Album di famiglia” a primavera sul palco del Teatro Comunale Abbado. “È sempre un’operazione complessa ma - conclude Czertok - speriamo di riuscirci; sarebbe traguardo importante”. Taranto. “L’altra città” un giorno da detenuto, la prima nazionale del docu-video pugliapress.org, 4 ottobre 2019 Mercoledì 9 ottobre p.v. alle ore 18.30, nel Teatro comunale “Fusco” di Taranto, nell’ambito del Mas Week 2019, promosso dalla Società di architettura e ingegneria Mas-Modern Apulian Style, sarà presentato e proiettato, in prima nazionale, il documento-video “L’altra città” (Dvd formato Full Hd, durata 26 minuti), prodotto dalla Fondazione Rocco Spani onlus, ente giuridico riconosciuto, con il sostegno del Garante Regionale pugliese per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana”, per la regia di Alfredo Traversa, documenta e storicizza l’opera ambientale, già realizzata nella Casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto. L’importante progetto sociale, culturale e artistico “L’altra città”, ha rappresentato una “prima assoluta” nel panorama delle iniziative culturali e formative realizzate all’interno delle carceri italiane. “Non è l’arte che entra nei luoghi di detenzione - afferma il curatore generale Achille Bonito Oliva, critico e teorico dell’arte - ma è il carcere stesso che si fa opera d’arte, grazie all’apporto di quanti vivono in prima persona la reclusione, a coloro che vi operano e al pubblico finalmente recluso”. L’esperienza artistica si è, quindi, cristallizzata nel video-documento, in due diversi momenti. Il primo è costituito da una serie di interventi, aperta dall’artista Giulio De Mitri, che ha condotto un gruppo di detenute/i nell’attività progettuale e di didattica attiva. L’artista spiega, in maniera essenziale, l’importanza della didattica attiva nei confronti dei detenuti, motore creativo dell’intero progetto. Seguono gli interventi di: Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria della Casa circondariale di Taranto, e Stefania Baldassari, direttrice della Casa circondariale, che hanno voluto fortemente il progetto, e di alcuni volontari (Anna Paola Lacatena, Giovanni Guarino, Salvatore Montesardo, Don Francesco Mitidieri) e detenuti, nonché di alcuni fruitori. La seconda parte del video visualizza l’intero scenario dell’opera ambientale e la visita condotta dal magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo nella veste di recluso. Performer d’eccezione, egli evidenzia, nel lungo percorso, il dramma esistenziale della reclusione, conducendo quasi per mano il potenziale fruitore del video in questa esperienza singolare. Significative riflessioni di Achille Bonito Oliva accompagnano l’intero video. L’opera video è un lavoro rigoroso e poetico, ben condotto e a tratti commovente. Diritto all’oblio (mondiale) di Riccardo Luna La Repubblica, 4 ottobre 2019 La sentenza della Corte di giustizia europea che impone a Facebook e alle altre piattaforme digitali di rimuovere preventivamente un commento sostanzialmente identico a uno già giudicato offensivo - e di farlo non per un singolo Paese ma per tutto il mondo - va inquadrata in quello che sta succedendo in questo momento in rete sul fronte della libertà di espressione. È in corso una guerra che in prima battuta punta a fermare il cosiddetto hate speech, i discorsi basati sull’odio; ma anche le fake news, la disinformazione; e in definitiva a tutelare maggiormente anche le persone che hanno fatto errori tanto tempo fa, e hanno così ottenuto un diritto a che quell’errore venga dimenticato dalla rete, il “right to be forgotten, il diritto all’oblio”. Questa guerra viene combattuta ogni giorno. Prendete il bollettino dell’ultimo mese. In Italia ha fatto notizia solo la decisione di Facebook di chiudere i profili legati a CasaPound e Forza Nuova (12 settembre). Ma lo stesso giorno, e con le stesse motivazioni, Facebook aveva sospeso in piena campagna elettorale una pagina legata al premier israeliano uscente Netanyahu (che si è difeso dicendo che era gestita da un bot automatico). Sempre Facebook qualche giorno dopo (20 settembre) ha comunicato di aver cancellato “decine di migliaia di app” che rubavano i dati personali degli utenti in modo simile a quello che faceva Cambridge Analytica. Lo stesso giorno Twitter ha comunicato di aver cancellato “migliaia di profili” proveniente soprattutto dal mondo arabo, legati a campagne di disinformazione (e ad agosto ne aveva già chiusi 200 mila accusati di denigrare la protesta in corso ad Hong Kong). Il 3 settembre era stato YouTube a informare di aver rimosso circa 100 mila video e chiuso 17 mila canali che diffondevano contenuti di odio. Si tratta di numeri enormi che danno l’idea della sfida in corso. Al punto che una squadra di calcio, la As Roma, il 27 settembre ha deciso di bannare a vita un suo tifoso perché su Instagram ha dato dello scimmione a un giocatore di colore; e da qualche ora la senatrice democratica Kamala Harris martella Twitter con la richiesta di cancellare nientemeno che il profilo del presidente degli Stati Uniti perché avrebbe minacciato l’agente che ha rivelato la conversazione con il presidente dell’Ucraina da cui è nata la richiesta di impeachment. Insomma la decisione della Corte di Giustizia europea arriva in questo contesto in cui è diffusa la consapevolezza che l’odio e la disinformazione hanno superato il livello di guardia; e le piattaforme digitali stanno facendo moltissimo finalmente per contrastarli (Instagram ieri ha rilasciato un filtro anti bulli che limita le interazioni con utenti sgraditi). Epperò è una decisione che apre due problemi di difficile soluzione. Il primo riguarda il fatto di imporre esplicitamente un filtro preventivo che identifichi commenti identici a commenti bloccati. In teoria è un principio giusto ma in pratica ad oggi non esistono filtri così efficaci a meno di non voler correre il rischio di bloccare anche commenti legittimi oppure satirici, o di mera critica. È una strada che porta alla censura. Il secondo problema è ancora più serio: consentire a un Paese di cancellare contenuti per tutto il mondo è rischiosissimo. La libertà di parola e manifestazione del pensiero infatti è tutelata in modo molto diverso da un paese all’altro. Pur capendo l’esigenza di fare tutto il possibile per arginare odio e disinformazione, consentire ad Paese non democratico di bloccare contenuti per tutti gli altri è oggettivamente sbagliato. Del resto qualche giorno fa la stessa Corte, a proposito di Google, aveva deciso di limitare l’applicazione del diritto all’oblio alla sola Unione Europea. Un criterio ragionevole ma va tenuto conto anche all’interno dell’Unione, ci sono Paesi come la Germania, che hanno adottato norme sull’hate speech molto dure: valgono per tutti? La materia è complicata e incandescente, ma da qui passano la nostra libertà e la nostra sicurezza. Urge una riflessione. Che parte da due domande: a cosa siamo disposti a rinunciare per fermare l’odio online? E poi: ci resterà il tempo, e la voglia, per combatterne le cause? Migranti. Ius culturae, il consenso da costruire di Zeffiro Ciuffoletti Il Dubbio, 4 ottobre 2019 Due anni fa fu affossato lo ius soli che conteneva già lo ius culturae perché al senato mancavano i voti per approvarlo. Ora il Cinquestelle Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, vorrebbe aprire la discussione sullo ius culturae e sulla modifica della legge sulla cittadinanza. Come appare fin troppo evidente, si i tratta di una materia delicata. Ancor più perché non serve solo la maggioranza delle Camere, ma serve un vasto consenso nel Paese. Un consenso che questa maggioranza appiccicata di due partiti in crisi certamente non ha, pur avendo, forse, i voti parlamentari. Il problema però esiste ed è terribilmente delicato, dato l’alto numero di immigrati clandestini che si sono accumulati negli anni in Italia. Sembra addirittura che i giovani minorenni figli di immigrati, ma anche no, siano 800.000. Un numero che fa impressione. Specialmente se si considera il fatto che ognuno di questi giovani che parlano italiano o hanno fatto il primo ciclo scolastico, avrà pur dei genitori: uno o due che siano. Come è facile capire, non si potrà concedere la cittadinanza a questi ragazzi senza estenderla, prima o poi, ai loro genitori. Potrebbero essere almeno altrettanti. Poi perché no ai fratelli, e anche ai nonni, magari anziani e soli e non troppo in salute. Lo ius culturae diventerebbe il pretesto di una gigantesca sanatoria. Più grande di quelle che in passato hanno caratterizzato le diverse leggi (Martelli, Turco-Napolitano, Bossi-Fini ecc.), che hanno tentato di legalizzare la condizione degli immigrati clandestini. Un esercito sempre più grande e tale da costituire un serbatoio potenziale per varie forme di criminalità, che hanno prodotto l’avversione di una grande fetta dell’opinione pubblica. Ora quasi tutte le leggi sulla cittadinanza presenti in Europa sono abbastanza severe. In Germania, ad esempio, diventa cittadino tedesco chi nasce nel Paese ma solo se uno dei genitori risiede almeno da otto anni e nella condizione di regolare. In Spagna diventa cittadino chi nasce nel Paese, ma da genitori di cui almeno uno è nato in Spagna. In Francia si diventa cittadini se uno dei genitori è nato nel Paese oppure si può diventare cittadini francesi al compimento di diciotto anni. Ancora se si è cittadini Ue e si risiede e si lavora regolarmente in Francia da almeno 5 anni. Come si vede i percorsi sono vari e tutti relativamente lunghi. In realtà la cittadinanza non può essere un regalo, ma va costruita, aiutata e meritata. Nella sua forma più graduale e sicura la cittadinanza serve a creare vera integrazione e riconoscimento reciproco fra gli italiani e gli aspiranti tali. Bisognerebbe lavorare insieme senza dogmatismi e senza demagogia, su un progetto di cittadinanza come percorso. Una cittadinanza a punti, appunto, da costruire in un vasto consenso nel Parlamento e nel Paese. Migranti. “Rimpatri sprint in 45 giorni”: la lista dei 13 Paesi sicuri di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2019 Proposta di Maio-Bonafede. Una lista di 13 “Paesi sicuri” a partire dalla Tunisia, quello con il maggior flusso di sbarchi. I loro migranti se faranno istanza di protezione internazionale in Italia dovranno dimostrare una persecuzione personale. Cade la possibilità di chiedere l’asilo invocando una generica limitazione dei diritti umani se, appunto, si proviene da uno dei 13 “Paesi sicuri”. La lista comprende Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capoverde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina. È quanto prevede il decreto dei ministri Luciana Lamorgese (Interno), Luigi Di Maio (Affari esteri) e Alfonso Bonafede (Giustizia) firmato oggi e presentato da Bonafede e Di Maio. Il testo recepisce una direttiva Ue ma è previsto anche dal primo decreto sicurezza dell’ex ministro Matteo Salvini, che definisce “sicuri” quei paesi dove non c’è tortura, trattamenti inumani e degradanti, violenza indiscriminata in caso di conflitti armati. Prevista ora una procedura sprint per le istanze di protezione “manifestamente infondate”: entro sette giorni la commissione dovrà deliberare, se bocciala domanda la procedura di rimpatrio sarà prioritaria e dovrebbe concludersi entro 45 giorni al massimo. In Tunisia resta l’intesa per l’invio di due charter a settimana da 40 posti ciascuno. La Libia non è in grado di soccorrere i migranti in mare di Annalisa Cangemi fanpage.it, 4 ottobre 2019 L’Italia ha le prove ma non le rende note. In un’interrogazione parlamentare al governo il deputato Erasmo Palazzotto denuncia che la documentazione relativa al progetto, finanziato dall’Unione europea, che ha dato vita alla zona Sar libica è stata secretata e anche l’Italia avrebbe messo sotto segreto il rapporto sulla reale capacità dei libici di effettuare salvataggi nel Mediterraneo. Più di seimila persone scappate dall’inferno dei centri di detenzione, dove avvengono quotidianamente torture di ogni tipo, sono state riportate indietro nelle carceri dai militari libici negli ultimi 8 mesi. La Libia non riesce a offrire una collaborazione per le operazioni di soccorso dei migranti in mare, ma i documenti che lo dimostrano sarebbero secretati. È quanto afferma il deputato Erasmo Palazzotto di Sinistra Italiana, in un’interrogazione parlamentare di Leu al governo, di cui è primo firmatario: “Sia numerose inchieste giornalistiche, ultimo l’articolo pubblicato dal settimanale L’Espresso, che i rapporti delle organizzazioni internazionali che operano in Libia denunciano da tempo come la Libia non sia in grado di coordinare gli interventi di soccorso in mare”. “Abbiamo appreso - dice il parlamentare di Leu - che la documentazione relativa al progetto, finanziato dall’Unione europea, per la zona Sar libica, sarebbe secretata e anche l’Italia avrebbe classificato e quindi messo sotto segreto il rapporto sulla reale capacità dei libici di effettuare salvataggi nel Mediterraneo”. “La stessa Commissione europea - insiste l’esponente della sinistra - ad una richiesta di accesso agli atti avrebbe risposto con un dossier in buona parte coperto da omissis. E nonostante i tanti omissis da questo dossier sembra emergere che non sarebbe mai esistito un vero centro di coordinamento dei soccorsi libico. In soli 8 mesi la cosiddetta Guardia costiera libica, a cui l’Italia ha donato motovedette e sta fornendo supporto di formazione del personale, ha intercettato e ricondotto ben seimila persone, uomini, donne e bambini nei centri di detenzione libici dai quali erano riusciti a fuggire e dove vengono nuovamente sottoposti a schiavitù e violenze di ogni genere”. “Vogliamo sapere dal governo se è a conoscenza di chi abbia coordinato sul campo - dalla data di dichiarazione da parte della Libia di una propria zona Sar ad oggi - le azioni delle motovedette libiche, quale sia la linea di comando in relazione alle azioni di recupero dei migranti da parte della Guardia costiera libica e se l’Italia ha mai avuto un ruolo nel coordinamento delle operazioni. Forse è giunto il sacrosanto momento di rendere pubblici - conclude Palazzotto - i contenuti del rapporto sulla valutazione complessiva delle capacità operative dei libici nelle loro operazioni compiute nel Mediterraneo”.