Il sovraffollamento non si arresta: da marzo a settembre 400 in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2019 Superato ancora una volta il record del mese precedente, che già sanciva un numero di sovraffollamento mai raggiunto negli ultimi anni. Al 30 settembre 2019, secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane sono 60.881 rispetto ad una capienza regolamentare di 50.472 posti disponibili. Cioè vuol dire che risultano 10.409 detenuti in più, mentre il mese precedente ne risultavano invece 10.272. Il trend del sovraffollamento è quindi in continua crescita, soprattutto in assenza di misure deflattive come le pene alternative e l’utilizzazione del ricorso al carcere come extrema ratio. Per comprendere l’allarmante tasso in crescita, basti pensare che il picco più alto di quest’anno, precedente al mese di agosto, si è registrato al 31 marzo, con 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Si registra quindi un balzo enorme essendo arrivati a 10.409. Un altro paragone da fare è quello con i numeri al 30 settembre dell’anno scorso: erano 8.653 i detenuti in più. Ma, com’è sempre stato ribadito più volte, i numeri relativi al mese scorso risulterebbero addirittura maggiori se dovessimo sottrarre dalla capienza regolamentare i 3.704 posti non disponibili perché inagibili, oppure in via di ristrutturazione. Dato estrapolato dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, grazie all’analisi delle schede di ogni singolo istituto aggiornato dal ministero. Un dato che ci riporta alla vera dimensione del problema e quindi dell’effettiva emergenza sovraffollamento e che non solo si è affievolita, ma dagli ultimi dati si evince che il trend è in continua crescita. Una emergenza riconosciuta dall’attuale ministro Bonafede che però ha fatto varare la ricetta condivisa da tutto il governo precedente: il nuovo piano carceri attraverso la costruzione di nuovi penitenziari e riconversione di caserme dismesse. Dopo aver bocciato i decreti della riforma penitenziaria originaria che prevedevano l’implementazione delle pene alternative, ha fatto stanziare 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, finalizzati al piano carceri. Ma, come l’associazione Antigone, se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. Ma la ricetta della costruzione di nuove carceri risolverebbe il problema. I dati del passato sconfessano tale situazione. Nonostante i diversi “piano carceri” del passato, l’Italia è stata condanna ben due volte dalla corte europea dei diritti umani: la sentenza Sulejmanovic del 2009, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario, e la Torregiani che ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Ora, salvo nuovi interventi legislativi, il rischio di ritornare ai livelli della Torreggiani non è così lontano. Infezioni in carcere: Hiv, Hcv e Tbc restano le tre più ricorrenti pharmastar.it, 3 ottobre 2019 Al via a Milano il XX congresso nazionale Simspe. Si svolge a Milano, giovedì 3 e venerdì 4 ottobre, presso l’Auditorium Testori del Palazzo Lombardia, il XX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2019, intitolato “Il carcere è territorio”. Circa 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia. L’appuntamento, organizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Simit - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, è presieduto dal Dott. Roberto Ranieri. L’appuntamento rappresenta il momento di confronto fra quanti, a vario titolo, si occupano di sanità e di salute all’interno degli Istituti Penitenziari e vuole fornire spunti per una riflessione approfondita del fare Salute in carcere. Gli argomenti trattati riguarderanno, tra l’altro, il rapporto tra medicina penitenziaria e medicina di comunità, il rapporto tra carcere e salute pubblica, la salute mentale, le popolazioni detenute che necessitano di trattamenti particolari, come donne e stranieri. Il carcere è territorio: tra infettivologia e psichiatria - “Il carcere è territorio” è il tema appositamente scelto per la prima sessione di apertura di questa Agorà - dichiarano Luciano Lucanìa, Presidente Simspe e Roberto Ranieri, Presidente del Congresso - Ed è questo il nostro messaggio. Noi ci siamo: nel mondo variegato del Ssn, all’interno dell’offerta assistenziale dei Distretti, in un segmento nuovo, dove multi-professionalità e multiculturalità - sotto il profilo sanitario - espresse dai presidi aziendali interni agli istituti penitenziari, tutti unità operative dell’azienda sanitaria con la loro struttura ed i rispettivi livelli di direzione, garantiscono un servizio alla persona ed alla istituzione”. Hiv in carcere tra gestione e controllo - I dati relativi all’Hiv sono oggi confortanti perché l’assunzione dei farmaci antiretrovirali nei soggetti consapevoli ha ridotto in maniera notevole la trasmissione del virus anche in presenza di comportamenti a rischio. Infatti, la prevalenza di detenuti Hiv positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale. Questo avviene in modo particolare tra i tossicodipendenti, che rappresentano oltre un terzo della popolazione detenuta, certificato dal 34% di presenti per reati correlati a consumo e spaccio. “Questi dati - spiega Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”. Epatite C resta priorità - L’Epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. Molti istituti italiani si stanno attenendo sempre di più alle indicazioni ministeriali, per raggiungere l’obiettivo dell’assenza di nuove infezioni da Hcv entro il 2030. A questo consegue che, oramai, non c’è più diversità nel trattamento tra pazienti dentro e fuori le carceri ed abbiamo dimostrato come le persone oggi in cura raggiungano la guarigione in oltre il 95% casi, in modo indifferente se trattati in detenzione ovvero in libertà. “Un altro dato che sta emergendo dai nostri studi - aggiunge Babudieri - è che tra tutti i detenuti Hcv positivi, solo poco più del 50% sono realmente viremici e, quindi, da sottoporre a terapie, rispetto al 70-80% atteso. Per molti di questi già guariti è anche ipotizzabile che abbiano eradicato il virus in maniera spontanea”. Tubercolosi - Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. “Anche se stiamo parlando non di malattia attiva ma solo di contatti con il patogeno - conclude Babudieri - un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito. È, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multi-resistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato”. Prescrizione e Csm, il Pd fa muro sulla riforma Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 3 ottobre 2019 Due ore senza risultati per il primo vertice tra alleati, le distanze sono profonde. Anche Boschi contro la bozza del Guardasigilli. Tra Pd e M5S il muro sulla giustizia resta molto alto. Anche se il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha fatto di tutto per cercare di sgretolarlo. Ma stavolta, ai paletti del Pd, si aggiungono quelli dei renziani. Non c’è accordo né sulla prescrizione, né sul sorteggio per il Csm. Questioni su cui, soprattutto la prescrizione, Bonafede non vuole mollare. Alla Camera si tiene, per due ore, il primo vertice serale sulla giustizia del governo giallo-rosso, allargato a tutta la maggioranza. Non solo Pd e M5S, come a palazzo Chigi una settimana fa, ma ci sono anche i renziani con Maria Elena Boschi e Leu con Piero Grasso. Il risultato è decisamente interlocutorio, un nuovo, inevitabile rinvio, perché tutto ruota intorno ai due punti più contestati - prescrizione e Csm - che già in anticipo sono stati bocciati. Bonafede, del resto, prima ancora di sedersi al tavolo anticipa i distinguo e mette i suoi paletti sulla prescrizione, nonna per lui imprescindibile e peraltro già approvata un anno fa nella legge battezzata “Spazza-corrotti”. Prevede il definitivo stop dei tempi di prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Entrerà in vigore a gennaio 2020 perché così avevano imposto Matteo Salvini e Giulia Bongiorno per far passare la legge. Le loro stesse argomentazioni, e cioè prima bisogna accelerare il processo e poi si può tagliare la prescrizione, adesso vengono riproposte dal Pd e da Italia viva. Ma ancora prima che il vertice sulla giustizia si apra Bonafede già dichiara: “Nessun cittadino comprende, se vogliamo fare una riforma per avere un processo più breve, perché dovremmo ritardare l’entrata in vigore della nuova prescrizione”. A chi glielo chiede mentre esce da palazzo San Macuto per un’audizione al Copasir rispiega ancora una volta che “la prescrizione riguarda i reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge, quindi le prime conseguenze si verificheranno tra quattro anni, quando a loro volta avranno avuto effetto le nuove regole per rendere più rapido il processo penale”. Tutto inutile. Perché né Pd, né Italia viva si persuadono. Parla Boschi e chiede che il sistema della prescrizione previsto da Bonafede venga cambiato. Altrettanto fa il Pd. Altrimenti si blocca tutto il resto. Inutilmente il Guardasigilli distribuisce le oltre 40 pagine della sua riforma, che dai tempi della giustizia civile passa a quella penale, impone tempi strettissimi alle indagini preliminari, minaccia illeciti disciplinari per chi viola le regole, e approda alla riforma del Csm, passando per lo stop alle “porte girevoli” per la toga che scende in politica. Bonafede apre la riunione, parla molto a lungo ed è aperturista. Spiega che le sue regole faranno durare meno i tempi dei processi. Promette che non ci saranno forzature, dà al suo predecessore Andrea Orlando il merito di essersi battuto e di aver programmato assunzioni di magistrati e personale amministrativo che oggi sì rivelano preziose per garantire un processo penale in 4 anni. Il vice segretario del Pd questa volta non c’è, è a Strasburgo, ma è molto probabile che, proprio per evitare contrapposizioni, si sfili dall’argomento. Ci sono però Roberta Pinotti, come responsabile ad interim della giustizia e il sottosegretario Andrea Giorgis. Emerge chiaramente che il Pd vuole certezze sulla prescrizione. Ma dall’altra parte Bonafede replica: “La prescrizione è già legge. Entrerà in vigore. Adesso parliamo di come accorciare i processi”. Giustizia, Pd e Iv insistono: cambiare la prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede convoca in serata un vertice di maggioranza per provare a tirare qualche riga certa sulla “sua” riforma. E intanto conferma che la materia sarà spacchettata in due Ddl: da una parte il processo civile, dall’altra il più complicato processo penale e la riforma del metodo di elezione del Csm. Un vertice interlocutorio che ha registrato per ora le distanze su due nodi: la possibile riforma della sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio che entrerà in vigore da gennaio e il metodo di elezione del Csm. Con Pd e la renziana Italia viva uniti contro il M5s sul primo punto ma divisi, con Iv d’accordo con Bonafede sulla proposta di estrazione a sorte per il Csm che vede invece contrario il Pd, sul secondo. La proposta del Pd sulla prescrizione è un intervento per decreto che miri almeno a distinguere la posizione processuale di chi in primo grado è condannato da chi invece è assolto, prevedendo la sospensione della prescrizione solo nel primo caso. Un’ipotesi, quella di congelare la prescrizione solo in caso di primo verdetto di condanna, più volte circolata un anno fa nell’ambito della discussione sulle misure contro la corruzione e che potrebbe trovare un fondamento giuridico di almeno minima ragionevolezza: perché a quel punto lo Stato avrebbe, sia pure solo in primo grado, già effettuato un accertamento di responsabilità. Tutta da verificare invece la sua praticabilità politica, visto che andrebbero comunque vinte le fortissime perplessità dei 5 Stelle a modificare una disposizione destinata a entrare in vigore fra 3 mesi. Tanto più che ieri lo stesso ministro Bonafede ha chiuso le porte a qualsiasi ipotesi di rinvio dell’entrata in vigore, anche se durante il vertice non ha chiuso del tutto all’ipotesi di modifiche entro quel termine. Su questo punto il ministro deve fronteggiare, oltre all’opposizione del Pd, anche quella dei renziani. “Sulla prescrizione abbiamo molti dubbi - conferma il capogruppo di Italia Viva Davide Faraone al termine del vertice. Lavoreremo per trovare una soluzione”. La decisione di presentare due disegni di legge diversi in Consiglio dei ministri, uno dedicato alle misure acceleratorie per i processi civili e l’altro con le norme per velocizzare il penale e cambiare il sistema elettorale del Csm, non incontra ostacoli da parte dei partner di maggioranza e avrà almeno il (probabile) vantaggio di condurre più rapidamente in porto il primo provvedimento, assai meno problematico. Sul sistema elettorale del Csm le distanze tra 5 Stelle e Pd sono minori: condivisa la necessità di un intervento che limiti la capacità di influenza dei gruppi associativi, le tensioni nella maggioranza si concentrano sulla conservazione di una quota di sorteggio così come vorrebbe Bonafede, in questo spalleggiato da Matteo Renzi. Ma in questo caso l’incerta costituzionalità della previsione potrebbe anche contribuire ad ammorbidire i grillini. Né va sottovalutata su questo punto la contrarietà del vicepresidente del Csm David Ermini: “Se la Costituzione parla di un Csm elettivo e rappresentativo, il sorteggio farebbe venir meno questi requisiti e quindi, secondo me, sarebbe incostituzionale”. Sul penale andrà misurata la disponibilità a farsi carico di un meccanismo come quello inserito nel disegno di legge approvato a fine luglio “salvo intese”. In particolare, sul capitolo indagini preliminari, tra quelli più delicati e tuttavia cruciale visto che il maggior numero di prescrizioni matura proprio in questa fase, il provvedimento prevede una sola proroga di 6 mesi rispetto a termini base modulati sulla gravità delle condotte. La durata standard delle indagini dovrebbe essere di 6 mesi per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a 3 anni sola o congiunta alla pena pecuniaria; i anno e 6 mesi quando si procede per i delitti più gravi, dalla mafia all’associazione criminale, al terrorismo, al traffico su larga scala di stupefacenti, al sequestro di persona, ai casi più gravi di estorsione, all’omicidio, alla violenza sessuale; i anno in tutti gli altri casi. Giustizia, riforma spacchettata in 2 ddl. Il ministro: “Bene, ma distanze su prescrizione” Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2019 La riforma della processo penale, quella del processo civile, il sistema di elezione al Consiglio superiore della magistratura. Sono i temi sul tavolo del vertice sulla giustizia che si è tenuto alla Camera dei deputati. Seduti attorno a un tavolo ci sono il guardasigilli, Alfonso Bonafede, e i rappresentati dei partiti di maggioranza: il capigruppo Pd alla Camera Graziano Delrio, i renziani Maria Elena Boschi e Davide Faraone, i capigruppo M5S Francsco D’Uva e Gian Luca Perilli, quelli di Leu Federico Fornaro e Loredana De Petris. Presenti anche la responsabile giustizia del Pd, Roberta Pinotti, Pietro Grasso, e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Oggetto del summit: la riforma della giustizia. Che il guardasigilli intende spacchettare in due disegni di legge: in uno ci sarà la materia penale e la legge elettorale del Csm, nell’altro le norme sul processo civile. Il ministro: “Buon clima, distanze su prescrizione” - “Ho voluto questo incontro per avere un primo momento di condivisione degli obiettivi e dei contenuti della riforma”, ha detto il ministro Bonafede al termine del vertice. “Il clima è stato estremamente positivo e molto costruttivo con l’unico obiettivo di arrivare al dimezzamento dei tempi processi. Siamo al lavoro - ha sottolineato. I cittadini sappiano che il Governo e la maggioranza considerano questa riforma una priorità. L’obiettivo sarà raggiunto, speriamo nei tempi più celeri possibile”. Spiegando di aver “esposto i contenuti” e che “tutti i gruppi parlamentari manderanno il proprio contributo nei prossimi giorni”, Bonafede ha aggiunto: “Sappiamo che ci sono divergenze sulla prescrizione, quello che ci siamo detti è di andare avanti per dimezzare i tempi del processo”. Un ‘nodo’ confermato anche dall’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, e dal vicecapogruppo Pd alla Camera Michele Bordo. I tempi e la legge sul Csm - L’obiettivo del ministro - che nel pomeriggio ha inviato le bozze dei ddl agli alleati di governo - è arrivare all’approvazione del ddl sul processo penale entro fine dicembre. Anche perché l’1 gennaio 2020 entra in vigore la riforma della prescrizione con lo stop dopo il primo grado. Un nodo che separa il Movimento 5 stelle dal Pd e dai renziani, come di fatto confermato da Bonafede dopo il faccia a faccia. Un nodo difficile da contestare apertamente visto che era lo stesso problema contestato dai leghisti di Matteo Salvini. È per questo motivo che fino ad oggi dal Pd si dicono contrari “solo” alla legge elettorale sul Csm che nella formulazione di Bonafede prevede il sorteggio in una prima fase. “L’obiettivo da cui non si può arretrare è la lotta alle degenerazioni delle correnti della magistratura, che sono inaccettabili. Per me lo strumento utile è il sorteggio, ma stasera ci confronteremo”, ha detto il guardasigilli. Il nodo sulla prescrizione - Sempre Bonafede, però, prima del vertice, aveva messo le mani avanti su un ipotetico rinvio dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione: “Non capisco perché ritardare l’entrata in vigore della riforma della prescrizione. Nessun cittadino lo capisce, visto che vogliamo fare una riforma che renda il processo breve. La prescrizione non è all’ordine del giorno, è una legge già approvata su cui registro diversità di opinioni che rispetto. Ma adesso, in virtù di quelle norme, siamo d’accordo nel collaborare perché il processo abbia una durata breve”, ha ripetuto parlando di una “svolta culturale” perché per la prima volta “la magistratura viene fortemente responsabilizzata sulla durata dei processi”. La questione delle intercettazioni - Non sarà sicuramente all’ordine del giorno, invece, la riforma delle intercettazioni: dall’entourage di via Arenula hanno già fatto sapere di avere una nuova legge pronta per sostituire la vecchia di Andrea Orlando. L’entrata in vigore della riforma del Pd è stata sospesa e rinviata più volte: l’ultima proroga scade a fine anno. Per allora, in teoria, le forze della maggioranza dovrebbero trovare un accordo ma la strada appare in salita: la legge che Bonafede vuole cancellare era stata comunque varata dal suo predecessore e oggi plenipotenziario per il Pd sul fronte della giustizia. E si tratta di una legge distante anni luce dalla concezione dei 5 stelle. Allo stato, dunque, l’ipotesi più concreta è quella di una nuova proroga. Per allora, però, dovrebbe già essere stata approvata la riforma del processo penale. Almeno nei piani del guardasigilli. Giustizia, Renzi vuole tenere tutti in scacco di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2019 Sulla prescrizione, il Pd resta contrario, Italia Viva pure, ma si limita a esprimere delle perplessità tecniche, mentre il M5S la difende a spada tratta. Sul sorteggio per i membri del Csm, M5s e Italia viva sono a favore, il Pd e Leu, contrari. Il vertice di maggioranza di ieri sera sulla giustizia ha registrato lo stato dell’arte, anche se la discussione si è mantenuta il più possibile sulle generali. Un giro di tavolo, con uno scontro evidente, ma congelato, in assenza di accordo. Nel frattempo, si cerca informalmente una soluzione: il Pd sarebbe pronto ad accettare il fatto che la prescrizione si interrompa solo per sentenze di condanna, non di assoluzione. Politicamente, poi, c’è qualche acquisizione in più. Se l’obiettivo del Partito Democratico era mettere all’angolo Matteo Renzi, costringendo i suoi a esporsi in una sede ufficiale, tale obiettivo è fallito. Il tema, in questo caso, è la giustizia. La formula, il vertice, che si è tenuto ieri sera. Alla Camera, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha illustrato le linee guida della riforma, attraverso due disegni di legge, uno sul civile e l’altro sul penale e il Csm. La priorità a quest’ultimo, che deve essere approvato entro il 31 dicembre. Ricapitolando. Bonafede vuole ridurre la durata massima dei processi penali a 4 anni e arrivare a una media di 4 anni per il civile. Arrivare a definire un limite massimo serve ai Cinque Stelle per non tornare indietro sulla legge sulla prescrizione che dal prossimo primo gennaio la abolisce dopo la sentenza di primo grado. Mentre il Pd vorrebbe prima la modifica dei processi, per rimandare la scadenza. Il Guardasigilli ieri ha ribadito: “Non capisco perché ritardare l’entrata in vigore della riforma della prescrizione. Nessun cittadino lo capisce, visto che vogliamo fare una riforma che renda il processo breve”. Il ministro vuole sorteggiare i membri del Csm, i Dem di nuovo non ci stanno. E Italia viva? È d’accordo. Nell’intervista al Foglio, Renzi se n’è uscito così: “Il problema della giustizia sono innanzitutto i tempi che vanno accorciati, su questo concordo con Bonafede”. Però, poi, di fatto, non è una riforma che può appoggiare. Ancora. “Sul sorteggio per il Csm sono più d’accordo con Bonafede che con Orlando”. Questo mentre Maria Elena Boschi annunciava: “La nostra posizione la scoprirete in aula”. Al Nazareno si sono parecchio agitati. “Non è che noi ci possiamo mettere d’accordo e poi Renzi fa il fenomeno fuori”. Ecco, allora, la decisione di un vertice. Che non è il primo e non sarà l’ultimo. Questo governo ha davanti a sé la strada di continue ed estenuanti riunioni, presumibilmente per non arrivare a decisioni certe. Ieri alla riunione con Bonafede c’erano una quindicina di persone. I capigruppo di Camera e Senato dei quattro partiti di maggioranza, i responsabili Giustizia dei partiti e pure chi ha incarichi di qualche tipo sul tema. Per Italia Viva, si sono presentati Boschi, Davide Faraone e Giuseppe Cucca. A quest’ultimo, il compito di illustrare le posizioni del nuovo partito. Generico il più possibile. Sul Csm ha sorvolato, sulla prescrizione ha espresso dubbi, ma tenendosi ben lontano da motivazioni politiche: ha parlato della grande carenza di personale. “Sulle riforme sarà necessario un confronto serrato. Quando il provvedimento sarà portato in Parlamento”, ha spiegato poi il senatore al Fatto. Come dire: Renzi non ha nessuna intenzione di rinunciare al palcoscenico offerto dalle Camere per farsi notare. Né tanto meno, smettere il gioco di sponda con il Guardasigilli allo scopo numero uno dimettere in difficoltà i Dem. Più facile il mandato d’arresto Ue contro i cittadini italiani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019 Il mandato d’arresto guadagna spazio. Con la legge di delegazione comunitaria approvata definitivamente martedì dalla Camera viene affidata al Governo, tra le altre, una delega per rivedere la disciplina di una delle misure chiave della cooperazione penale. In particolare, diventeranno meno rigidi i motivi che oggi impediscono l’esecuzione in Italia di una richiesta proveniente dall’autorità giudiziaria straniera. Una serie di motivi oggi vincolanti, infatti, diventeranno solo facoltativi. A partire da quello che esclude alla radice l’esecuzione quando il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, se la persona ricercata è cittadino italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia. Previsione già ritoccata dalla Corte costituzionale che aveva considerato illegittima l’esclusone di chi, cittadino straniero, in Italia ha comunque residenza o dimora. Ora, per effetto della correzione che il ministero della Giustizia dovrà tradurre in decreto, potrà essere più facile la consegna all’autorità giudiziaria straniera di un cittadino italiano (o a questo equiparato). Di più, a venire traghettati nella lista dei motivi che possono, e non devono, dare luogo alla mancata consegna sono altri due casi. Quello che prevede una sovrapposizione di procedimenti e cioè quando, per lo stesso fatto che è alla base del mandato d’arresto europeo, nei confronti della persona ricercata, è in corso un procedimento penale in Italia, esclusa l’ipotesi in cui il mandato d’arresto europeo riguarda l’esecuzione di una sentenza definitiva di condanna emessa in uno Stato membro dell’Unione europea. E ancora quando il mandato d’arresto europeo riguarda reati che dalla legge italiana sono considerati commessi in tutto o in parte nel territorio italiano, o in luogo assimilato al suo territorio; oppure reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l’azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio. Il complesso delle misure in arrivo faciliterà l’esecuzione di mandati spiccati all’estero, anche se è prevedibile che potrebbe rinfocolare polemiche che, ai tempi di approvazione della legge di recepimento della decisione quadro, era il 2005 e la legge poi fu la n. 69, furono assai aspre. A venire lamentato era tra l’altro l’abbassamento delle garanzie di cui i cittadini italiani, bersagli di misure chieste da altri Paesi, avrebbero potuto subire. Evasione fiscale, Daspo per i commercialisti e carcere ai prestanome di Stefano Damiano Il Giornale, 3 ottobre 2019 Sono queste le misure previste dal Def per reperire i 7,2 miliardi previsti dalla lotta all’evasione fiscale. “Inasprimento delle sanzioni per i grandi evasori”, introduzione del reato di “prestanome”, “Daspo” per i commercialisti che favoriscono comportamenti di infedeltà fiscale, stretta alle frodi sui carburanti. E poi c’è la lotta indiretta, con le misure per incentivare i pagamenti elettronici così fa garantire la tracciabilità dei flussi. La prossima manovra di bilancio vedrà numerose misure di lotta all’evasione fiscale, con cui si spera da trovare i 7,2 miliardi previsti nella nota di aggiornamento al Def. Un passo azzardato, forse, considerando che in passato solo Berlusconi mise nella manovra il reperimento di 7 miliardi attraverso misture antievasione; Renzi e Gentiloni, invece, attraverso lo “split payment”, il “reverse charge” e la fatturazione elettronica, cercarono di portare a casa 2-3 miliardi per ognuno degli strumenti messi in campo. Il governo è fiducioso e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che con il suo esecutivo “Faremo una operazione di contrasto all’ evasione mai fatta in passato”, ma non sempre le misure di antievasione e cifratura del gettito vanno di pari passo, come ha ricordato l’ex viceministro all’economia Enrico Zanetti. Comunque vada l’esecutivo prosegue spedito. Il primo punto è quello di colpire i commercialisti che certificano crediti inesistenti o illegittimi, come spiegato ieri dal viceministro dell’Economia Laura Castelli: per loro sarà prevista la Daspo, o sospensione dalla professione. Il secondo punto riguarda la stretta sui prestanome. Ad oggi farlo non è considerato un reato di per sé, a meno che non si dimostri che il prestanome serva per evadere il fisco. Tra le misure è prevista la modifica all’ articolo 8 della legge sui reati tributari del 2000 così da prevedere che il reato (fino a 6 anni) scatti anche quando il prestanome serva per semplici “condotte che possano configurare il tentativo” di evadere il fisco. Infine c’è l’inasprimento contro le frodi sui carburanti, cioè a quelle società Sono società fantasma che si muniscono della qualifica di esportatori abituali così da essere esenti da Iva e potendo rivendere il petrolio ai reali acquirenti interni attraverso fattura che il compratore può anche scaricare. La misura dovrebbe garantire 3 miliardi di maggiori entrate. Senza violenza o minaccia esclusa la legittima difesa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 40414/2019. Senza violenza o minaccia, la riforma della legittima difesa è del tutto ininfluente. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 40414della Quinta sezione penale depositata ieri, la prima nella quale i giudici cominciano a esaminare la legge 36 del 2019. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna messa nei confronti di un uomo che, spaventato al suo rientro a casa per avervi trovato uno sconosciuto, lo aveva colpito alla testa con una mazza da baseball. Tra i motivi di impugnazione era stato sostenuto che la Corte d’appello che aveva confermato la condanna per lesioni personali aggravate, in realtà aveva sbagliato nell’escludere l’applicazione dell’esimente, ritenendo necessario l’intervento di un attacco alla persona e insufficiente la sola introduzione nel domicilio dell’aggressore. La Cassazione conferma però la lettura dei giudici di secondo grado, anche alla luce della riforma. Infatti, il nuovo articolo 52 del Codice penale fa espresso riferimento alla necessità che l’intruzione nell’abitazione altrui sia avvenuta con violenza o minaccia. In caso contrario, la scriminante della legittima difesa non può scattare. Di più, la Cassazione affronta la legge di quest’anno, fortemente voluta dalla Lega, sottolineando anche come il rafforzamento delle presunzioni, quel “sempre” che dovrebbe andare assolto chi reagisce violentemente a un’aggressione nel proprio domicilio, è solo apparente. Resta infatti in vita, ricorda la sentenza, la fattispecie di eccesso colposo, “prevedendo la modifica che ha interessato anche tale disposizione normativa esclusivamente la non punibilità, e per la sola ipotesi della salvaguardia della propria o altrui incolumità, anche in caso di eccesso colposo giustificato da situazione di minorata difesa ovvero di grave turbamento”. A dovere essere esclusa, nel caso esaminato, è comunque anche l’applicazione dell’eccesso colposo che pure era stata sostenuta dalla difesa. La Cassazione, infatti, ricorda la costante interpretazione giurisprudenziale che valorizza il presupposto su cui si fondano sia l’esimente della legittima difesa sia l’eccesso colposo e cioè l’esigenza di rimuovere il pericolo di un’aggressione attraverso una reazione proporzionata e adeguata. L’eccesso colposo si distingue per un’erronea valutazione del pericolo e dell’adeguatezza dei mezzi utilizzati. Di conseguenza, avere escluso gli elementi costitutivi della legittima difesa conduce all’azzeramento dell’ipotesi eccesso colposo, verificata l’inesistenza di un’offesa dalla quale difendersi. La modifica dell’articolo 55 voluta dalla riforma non sposta le conclusioni raggiunte, “rimanendo in ogni caso ancorata la sussistenza dell’eccesso colposo alla ricorrenza dei presupposti della legittima difesa”. L’inquilino è responsabile delle morti da opere abusive di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sentenza 40259/2019. Forse non sono in molti a ricordarsi di un terribile fatto di cronaca avvenuto a Prato nel 2013: sette operai morirono nell’incendio di un capannone dove lavoravano e dove era stato allestito abusivamente il loro dormitorio. Proprio perché dormivano lì non poterono sfuggire alle fiamme: il dormitorio era posizionato troppo lontano dall’uscita. Per il fatto, addebitabile a una serie di circostanze ma anche alle opere abusive in cartongesso che avevano creato una zona dormitorio, erano stati chiamati in causa anche i proprietari del capannone, due italiani che lo avevano affittato a un imprenditore cinese. La Cassazione (sentenza 40259, depositata ieri) ha ora ricostruito i terribili fatti, per arrivare alla conclusione che i due locatori sono completamente estranei ai fatti. In sostanza, la Corte d’appello di Firenze aveva riformato la sentenza del Tribunale riconoscendo che i due locatori erano responsabili per negligenza e imperizia in relazione al reato di omicidio colposo. La Corte d’appello sosteneva che avevano assunto una posizione di garanzia rispetto non solo al pacifico godimento dell’immobile ma anche ai requisiti di sicurezza dello stesso. L’autore delle opere abusive, però, nella ricostruzione della Cassazione (ma anche della Corte d’appello), era lo stesso inquilino che occupava l’immobile dal 2008 e che nel 2012, pur avendo risolto il contratto precedente, ne aveva stipulato uno nuovo a nome di una diversa società a lui riconducibile. Per la Corte d’appello il nuovo contratto del 2012 avrebbe dovuto presupporre una consegna dell’immobile in perfetto stato di sicurezza al nuovo inquilino, quindi tutte le opere abusive avrebbero dovuto essere rimosse, trattandosi di un capannone a uso industriale e non a uso promiscuo produttivo-abitativo. Ma la Cassazione ha individuato una sostanziale continuità di fatto nel rapporto locativo: anche se la società aveva cambiato nome, di fatto l’inquilino, un imprenditore cinese, era sempre lo stesso. Quindi non si era trattato di un nuovo rapporto ma della prosecuzione di quello precedente e non era possibile ascrivere una posizione di garanzia ai due locatori per le opere realizzate nel corso della locazione da chi era sempre rimasto nell’immobile. In conclusione, afferma la Cassazione, grava sul conduttore e non sul locatore ottenere i permessi per eventuali opere edilizie nell’immobile da lui realizzate, e le attività svolte dal conduttore (la costruzione del soppalco-dormitorio abusivo) non possono essere ricondotte a responsabilità del locatore. Dato che restituzione e consegna del bene sono state solo fittizie e il nuovo contratto era identico al precedente salvo il canone, nessuna posizione di garanzie sugli abusi può essere ricondotta al locatore, neppure, sottolinea la Cassazione, se ne fosse stato a conoscenza. Quindi la sentenza è stata cassata senza rinvio perché il fatto ascritto ai locatori (omicidio colposo) non sussiste. Discarica abusiva, la bonifica dopo l’avvio del giudizio non attenua il reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 ottobre 2019 n. 40378. Chi commette il reato derivante dalla gestione di una discarica abusiva non può invocare l’attenuante dell’avvenuta riparazione del danno perché ha ottemperato all’ordinanza di sgombero del Sindaco. Infatti, come precisa la Cassazione con la sentenza n. 40378 depositata ieri, l’attenuante comune (prevista al n. 6 dell’articolo 62 del codice penale) opera solo se c’è stata la bonifica “volontaria” prima del giudizio e se non è stata emessa precedentemente l’ordinanza sindacale di ripristino dei luoghi. L’attenuante - La Corte coglie l’occasione per dettare un principio di diritto - valevole non solo in caso di discarica abusiva, ma per tutti i reati in materia di rifiuti - secondo cui l’attenuante dell’avvenuta riparazione del fatto dannoso o quella dell’essersi adoperato per limitarne le conseguenze o eliminarle del tutto va riconosciuta solo quando si tratti di comportamento volontario realizzato in epoca anteriore al giudizio sul reato e in assenza di ordine specifico in tal senso da parte dell’autorità. Quindi la bonifica o il prodigarsi per rimuovere conseguenze pericolose della propria condotta offensiva in materia ambientale consente di ottenere un trattamento sanzionatorio sensibilmente più mite solo se ricorrono le due condizioni. La nozione di rifiuto - La sentenza nella sua brevità affronta in maniera ugualmente centrale l’inquadramento di un bene nella nozione di rifiuto precisando che vi rientra anche quel bene potenzialmente commerciabile e non basta la prova della finalità della cessione a terzi. Nel caso specifico si trattava soprattutto di rottami d’auto destinati all’eventuale riutilizzo come pezzi di ricambio. La discarica è determinata dal fatto materiale dell’accumulo di rifiuti e scatta il reato in mancanza di autorizzazione se tale situazione di fatto non è incontrovertibilmente temporanea - come affermato dai ricorrenti - ma è connotata da una condotta ripetuta realizzata in un’area determinata. Una siffatta area diventa un deposito “di fatto” in base alla tendenziale definitività dello stato dei luoghi dove sono ammassate considerevoli quantità di rifiuti o di scarti di lavorazione a questi assimilati. Ricorrendo tali caratteristiche è individuabile la fattispecie della discarica abusiva anche in assenza dello svolgimento di attività di trasformazione, recupero o riciclo proprie di quella autorizzata. Tolmezzo (Ud): Il Dap: “Non ci sono criticità per la condizione degli internati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2019 La risposta del Dipartimento alle osservazioni del Garante. Nel carcere di Tolmezzo, che dovrebbe essere sulla carta anche una “casa lavoro”, ma dove il lavoro non c’è, gli internati sottoposti al 41bis, per esigenze di sicurezza, possono subire tutte le limitazioni riscontrate. Questa è stata, in sintesi, la risposta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alle osservazioni formulate dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà. Il Dap si rifà innanzitutto al mancato accoglimento dei ricorsi presentati da alcuni internati: il tribunale di sorveglianza aveva osservato che non vi è alcuna violazione del principio di uguaglianza nel sottoporre al 41bis anche gli internati. In sostanza, per la magistratura di sorveglianza, è indifferente che al 41bis siano sottoposti anche coloro che hanno finito di scontare la pena. Ricordiamo che l’internato non è un detenuto, ma è colui che ha finito di scontare la pena, però per motivi di sicurezza non viene rimesso in libertà. Il fatto che c’è comunque un periodico riesame della libertà, ciò comporterebbe la garanzia che rende costituzionalmente compatibile l’intero sistema delle misure di sicurezza. Questa è la risposta del Dap all’osservazione del Garante sul fatto “che per le persone internate, pur sottoposte a tale regime, siano individuate sistemazioni idonee e confacenti alla misura e non semplicemente parti delle complessive aree che ospitano le persone detenute sottoposte a tale regime”. Ma sullo sviluppo in negativo della situazione all’interno dell’Istituto, con una Casa di lavoro che non è in grado di garantire né il lavoro, né una prospettiva di reinserimento, tipo la negazione di alcuni benefici? Il Dap risponde all’autorità del Garante nazionale che “la rieducazione di soggetti legati alla criminalità organizzata, resisi responsabili di gravissimi delitti contro l’incolumità pubblica, le persone e la società, non può limitarsi allo svolgimento di mera attività lavorativa, come qualsiasi detenuto per reati comuni, ma deve passare attraverso un concreto mutamento di mentalità che presupponga, innanzitutto, la rescissione dei legami con la criminalità organizzata e la rinnegazione esplicita degli ideali devianti su cui era fondata la vita pregressa”. Il Dap poi sottolinea l’elemento di valutazione della cessata pericolosità, ovvero la “collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Quindi, in sostanza, l’opera trattamentale attraverso il lavoro non viene considerato un elemento fondamentale per valutare la proroga o meno degli internati al 41bis. A tal proposito interviene l’avvocato Michele Capano e membro del consiglio generale del Partito Radicale, Il quale assiste alcuni internati al 41bis del carcere di Tolmezzo. “Quanto detto - spiega Capano - contraddice ciò che da tempo è stato segnalato dalla Cassazione, ovvero che ‘ la mancanza di una scelta di tal genere - che come quella confessoria resta nella libera determinazione del soggetto - non può essere ritenuta dirimente al fine di escludere il cambiamento della condotta di vita del proposto ed affermare l’attualità della pericolosità qualificata”. Sempre il membro del Partito Radicale, aggiunge che “se, anche dopo avere scontato la pena, si ritiene che l’internamento in misura di sicurezza al 41bis possa venire meno soltanto con la collaborazione, è chiaro che questo internamento rappresenta una vera e propria “tortura” finalizzata ad ottenere la collaborazione, e durerà fino a quando la collaborazione non interverrà”. Poi sottolinea evocando ciò è stato segnalato da Il Dubbio, a proposito del suo assistito internato a Tolmezzo che denunciò alla magistratura di sorveglianza di aver ricevuto la proposta di una somma di denaro nel caso avesse indicato il nascondiglio del boss Matteo Messina Denaro: “Questo è confermato dal fatto che gli internati ricevono regolarmente visite investigative finalizzate ad ottenere informazioni e collaborazione. E possono continuare a riceverle in quanto restano in condizione di internamento”. Sempre a proposito della risposta del Dap alle osservazioni del Garante nazionale relative alle criticità emerse al carcere di Tolmezzo, si giustifica anche la presenza della schermatura della finestra (la cosiddetta “gelosia”) della stanza dell’area riservata al 41bis. Secondo il Garante contrasta con l’articolo 6 del regolamento carcerario. Secondo il Dap, invece è conforme alla direttiva dipartimentale del 17 settembre del 2015. Pisa. Carcere, visita della II Commissione: “Struttura indecorosa e pericolosa” di Antonia Casini La Nazione, 3 ottobre 2019 Vecchi mobili, pareti scrostate, “con il pericolo che parti di intonaco si stacchino e cadano”, ma anche percorsi educativi e spazi comuni. È la casa circondariale Don Bosco di Pisa, visitata dalla II commissione consiliare Affari sociali, ieri mattina, con la guida, oltre che del garante dei detenuti, l’avvocato Alberto Marchesi, anche di quella del direttore Francesco Ruello, del comandante della polizia penitenziaria Vincenzo Pennetti e dell’area educativa. “Per molti di noi (io ci sono entrato come medico del 118) è stata la prima volta”, spiega Lazzeri (Lega) presidente di commissione. Le impressioni. “La struttura è carente e indecorosa, cascano calcinacci, e quindi pericolosa. Il personale, invece, mi è sembrato molto all’altezza. Belli i percorsi di rieducazione. C’è un aspetto però che mi ha provocato amarezza. Tanti detenuti sono privi di permesso di soggiorno. Quando siamo arrivati, alcuni stavano facendo lezione con un’insegnante dell’Alberghiero. Un’opportunità di formazione. Ma poi?”. Quindi annuncia la volontà di realizzare, “salvo impedimenti urbanistici, nei giardini davanti al carcere una struttura per i familiari in attesa dei colloqui con i detenuti”. Un’occasione anche per il garante dei diritti delle persone detenute, l’avvocato Alberto Marchesi, di fare un quadro con dati e contenuti elaborati dalla Camera penale di Pisa che era stata al Don Bosco il 15 agosto scorso. 130 gli agenti in servizio (uno per 40 detenuti), molte le donne che con la chiusura della sezione femminile (i lavori - celle ristrutturate realizzati bagni e docce nelle camere - si concluderanno a dicembre) sono state trasferite al maschile. 277 i detenuti (30 le detenute che devono rientrare) su una capienza regolamentare di 206. Circa 100 persone in più ospitate. 168 gli stranieri (85% magrebini). 8 lavorano esternamente, alcuni internamente con una piccola retribuzione. Le sezioni. Degrado e “bagni a vista”. “Nonostante i recenti sforzi, l’istituto meriterebbe una adeguata e più completa ristrutturazione per adeguarsi ai canoni imposti dalla Cedu”, commentano la presidente e la vice della Camera penale di Pisa, gli avvocati Laura Antonelli e Serena Caputo. Il campo di calcetto donato da Sofri “inutilizzato perché pieno di bottiglie e sporcizia”. Il Centro clinico: “La sala operatoria è chiusa da perché manca la rianimazione”. Garante che si fa portavoce anche di un’iniziativa dei detenuti che hanno aderito, a loro modo, alla giornata per la salvaguardia del clima. In 87 hanno portato la loro “solidarietà” agli studenti che hanno manifestato, “rinunciando al cibo in silenzio per sostenere un ideale”. Ferrara. Rivolta in carcere. La Camera Penale: “Serve monitoraggio continuo” estense.com, 3 ottobre 2019 L’organizzazione degli avvocati penalisti: “Nonostante i progressi nell’opera rieducativa, permangono criticità evidenti”. Un “monitoraggio continuo a livello locale ed un intervento che deve, però, necessariamente passare per la condivisione degli obiettivi a livello nazionale”. È la richiesta della Camera Penale ferrarese dopo la rivolta in carcere di lunedì scorso. “L’episodio, a pochi mesi di distanza dai tragici avvenimenti di questa estate (quando un detenuto si è tolto la vita ed altri hanno tentato di fare lo stesso), evidenzia che nonostante i progressi nell’opera rieducativa, già rilevati durante la visita al carcere della delegazione della Camera Penale Ferrarese, permangono criticità evidenti”, osserva l’organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti estensi. “È chiaro, infatti, al di là delle circostanze particolari che possono aver dato origine alla protesta nel caso di specie, che l’accaduto mette in luce (ancora una volta) le difficoltà in cui versano le strutture detentive italiane ed il disagio di chi quotidianamente le vive. Sotto questo profilo, ancora una volta, si richiama l’attenzione sull’importanza dell’opera trattamentale, non solo per il perseguimento della finalità rieducativa della pena, ma anche per prevenire il disagio all’interno degli istituti penitenziari”. “L’adeguatezza dell’attività trattamentale - conclude la nota della Camera Penale - non può prescindere, però, dalla presenza di un numero adeguato di agenti di polizia penitenziaria e di educatori, oltreché dalla disponibilità di risorse finanziarie”. Roma. Padre Vittorio Trani (Cappellano Regina Coeli): “Vi racconto la farmacia di strada” di Evelyn De Luca mardeisargassi.it, 3 ottobre 2019 Tra le mura di Regina Coeli, nel cuore di Roma, si nascondono storie tanto interessanti quanto inaspettate. È il caso di Padre Vittorio Trani, conventuale francescano nato in provincia di Latina nel 1944. Sacerdote vecchio stampo, come dice scherzosamente, è impegnato nel carcere romano dal 1978, in cui svolge l’attività di cappellano storico al servizio dei detenuti. Vicino ai problemi della dimensione penitenziaria, inoltre, è presidente della Onlus Vo.Re.Co., Volontari Regina Coeli. Proprio a Vo.Re.Co si deve la nascita della prima farmacia di strada, inaugurata a Roma il 16 settembre in collaborazione con Medicina Solidale, Assogenerici, Banco Farmaceutico, Ordine Nazionale dei Farmacisti e l’Elemosiniere del Papa. La farmacia, con un investimento di più di 7mila farmaci dal valore di 67mila euro, nasce nella sede della Onlus in via della Lungara gestita da volontari ed ex detenuti. Il medico Stefano Giorgi spiega: “Arrivano qui perché hanno timore di andare nei pronto soccorso “normali” oppure sono rifiutati, non sono persone che dispongono del tesserino sanitario”. Il progetto è da iscrivere in una serie di iniziative culturali e assistenziali per favorire l’inclusione sociale di chi ha lasciato Regina Coeli e aiutare cittadini bisognosi e senza fissa dimora. Abbiamo parlato con Padre Vittorio Trani per comprendere il valore del suo volontariato e dell’aiuto spirituale e materiale. Padre Vittorio, Lei è al servizio dei detenuti da più di 40 anni come cappellano del carcere di Regina Coeli. Crede ci sia un punto di contatto tra la Sua formazione sacerdotale e il compito che svolge? “Secondo il mio parere strettamente personale, il sacerdote, se è abbastanza motivato e crede nella propria scelta di vita, trova il suo posto in qualsiasi campo dell’apostolato. Ovunque ha modo di aiutare e mettere in pratica gli insegnamenti della sua formazione e anche esprimere la sua stessa natura. Ogni campo per noi, oltre a essere possibile, è importante al pari di tutti gli altri. Con il tempo poi è probabile entrare maggiormente in sintonia con un preciso ambiente, come è successo a me con quello carcerario. Dopo 25 anni come cappellano feci una sintesi e una riflessione sul mio percorso di vita per giungere alla conclusione che non c’è campo apostolico più importante per un sacerdote delle carceri”. In questi anni di esperienze come ha visto mutare il volto del carcere, in particolare quello di Regina Coeli? “È cambiato tantissimo da quando sono diventato cappellano carcerario. Negli ultimi 30 anni chi ha vissuto nel carcere ha visto mutare lo stile di vita interno, le abitudini, i luoghi comuni sul penitenziario. Prima, i contatti con l’esterno erano molto più limitati e coinvolgevano poche figure. Adesso c’è molto più spazio per i volontari che fanno un lavoro sistematico nelle carceri e organizzano manifestazioni in cui intervengono società esterne con corsi, iniziative e progetti che non esistevano quando ho iniziato qui il mio percorso. Il cambiamento molto forte lo sentono sia i detenuti sia coloro che ruotano intorno Regina Coeli, compreso me. Il carcere ha iniziato a coinvolgere di più invece che limitarsi a escludere”. E come sono mutati i rapporti di solidarietà tra i detenuti e con l’esterno? “La solidarietà? Ormai è tutto. Io ho vissuto in prima persona il passaggio da un sistema meno recente alla situazione attuale del carcere. L’elemento che ha cambiato la percezione della società e di quelli che vivono all’esterno rispetto al penitenziario è stato il caso giudiziario Mani Pulite. Sembra strano, ma l’inchiesta di Tangentopoli ha fatto sentire a tutti che il carcere è un’esperienza che può trovarsi dietro l’angolo per chiunque: non è un ambiente lontano dal nostro vivere quotidiano e non è giusto che lo sia. Prima di Mani Pulite tenevo un corso di volontariato, ma avevo difficoltà e non riuscivo neppure a creare un gruppo di 10 persone che mi aiutassero nel carcere. Dopo, invece, ho dovuto circoscrivere a un massimo di 30 persone il gruppo perché non possiamo aprire a molti. Erano in troppi a proporsi e c’è stata una richiesta enorme per dare un proprio apporto all’interno di questa realtà”. In un’intervista di qualche anno fa ha dichiarato che in carcere ci si può confrontare con la massima povertà dell’uomo ma molto spesso anche con una forza straordinaria e un talento nascosto. L’inclusione sociale e la sensibilizzazione possono avvenire attraverso la promozione del talento? “Quando si prendono iniziative che interpellano il profondo della persona, come la poesia, la pittura e altre iniziative culturali che coinvolgono l’anima, si ha di fronte la più bella manifestazione di ricchezza interiore, straordinaria e inaspettata. Ti faccio un esempio concreto: qualche anno fa chiamai a svolgere un corso di pittura un giovane professore con una metodologia molto originale. Iniziò con l’insegnare l’uso della matita per poi, man mano, arrivare a spiegare tutte le tecniche pittoriche. Il gruppo di persone che partecipò al corso non aveva mai toccato in vita sua un pennello, né mai pensato di volerlo fare; mai una matita, mai una gomma. Da questo corso abbiamo scoperto 4-5 autentici pittori che hanno poi continuato con la loro arte e hanno trovato non solo una passione, ma anche un modo per dar sfogo alle proprie emozioni attraverso la creazione. Dal carcere possono uscire opere straordinarie. Ogni anno facciamo un corso di laboratorio poetico e ogni volta siamo sempre sorpresi dalle poesie meravigliose”. Padre Trani, Lei è anche presidente di Vo.Re.Co., organizzazione di volontari di Regina Coeli. Quali iniziative promuovete attraverso la vostra Onlus? “Abbiamo due spazi pastorali: il primo è il carcere, con circa 120 volontari che svolgono diverse funzioni. La mansione più impegnativa è l’assistenza, che richiede la presenza costante di volontari con un servizio settimanale per garantire massima vicinanza a un preciso settore del carcere. È una vicinanza in primis di sostegno morale, di colloqui e ascolto, ma è anche un aiuto materiale. Molti detenuti non sono del territorio romano, molti sono stranieri che non hanno alcun appoggio familiare. Ma anche tanti italiani non possono contare su nessuno all’esterno e hanno costruito tutto il loro mondo all’interno del carcere. Qui c’è sempre la necessità dei beni più urgenti. Le iniziative principali sono di natura materiale e culturale. Il secondo spazio che abbiamo costruito è il centro di appoggio della dimensione carceraria che si trova nel centro storico di Roma, sul Lungotevere, che non è solo il punto di riferimento per ex detenuti ma per tutte le persone al margine della società che vivono con forti difficoltà”. Tra le vostre iniziative, il 16 settembre c’è stata l’inaugurazione della prima farmacia di strada a via della Lungara, gestita da ex detenuti di Regina Coeli. “Sì, la farmacia è uno dei nostri tanti progetti nell’immediata prossimità del carcere. Come centro di volontariato aiutiamo ex detenuti e non solo. Il centro è aperto a seguire tutti coloro che sono in difficoltà, lungo il Tevere fino al colonnato di San Pietro. Vicino alla nostra farmacia, forniamo la colazione e su di noi ormai fanno tutti riferimento. Nell’arco della giornata arrivano 200-250 persone. La mattina diamo gratuitamente la colazione; la sera, invece, offriamo 30 cene perché disponiamo di uno spazio molto ristretto. Nell’arco della giornata abbiamo pizza, panini e bevande per chi ci chiede aiuto. In settimana ci sono iniziative di tutti i tipi: c’è l’ambulatorio di strada che consente un primo incontro con i medici; abbiamo a disposizione l’otorino, l’oculista, l’avvocato, il Caf e tutti i servizi necessari, come anche il ritiro e il lavaggio della biancheria. Sono piccoli servizi che vogliono aiutare la vita grave e difficile di chi vive per strada”. Come è avvenuta la realizzazione del progetto della farmacia e come la gestite? “L’iniziativa della farmacia è nata come una cosa spontanea. Essendoci medici e servizi sanitari mancava la tappa finale di questo nostro impegno: dare le medicine e l’aiuto concreto a tutti i pazienti dell’ambulatorio da strada. Da 5 anni collaboriamo con Medicina Solidale che mette a disposizione medici e laboratori. Con loro abbiamo pensato di coinvolgere chi produce le medicine per suggellare un accordo che finalmente aiuta i più bisognosi. Dopo le visite gratuite che offriamo, era naturale pensare di offrire, o quantomeno provarci, un servizio come una vera e propria farmacia. Abbiamo collaborato con la Federazione Nazionale Farmacisti e con il Banco Farmaceutico. I due enti si occupano direttamente delle medicine e degli aspetti pratici, collaborando con noi per gli investimenti. Hanno aderito e permesso questo progetto bellissimo per la nostra comunità. Abbiamo aperto da poco e nella praticità quotidiana lavorano qui ex detenuti che hanno la possibilità di rendersi concretamente utili in una società che a volte li guarda di sbieco. Ogni sabato dalle 9 alle 12 i medici forniscono i medicinali necessari, ovviamente sotto precedente prescrizione. I medicinali di cui siamo forniti, inoltre, non sono utilizzati soltanto in questa sede a via della Lungara ma vengono smistati nei diversi punti in cui Medicina Solidale opera. È un’iniziativa bellissima in cui è confluito tutto quello in cui crediamo”. Campobasso. Corsi serali d’italiano per stranieri e detenuti di Noemi Galuppo primonumero.it, 3 ottobre 2019 “Così possono trovare prima un lavoro”. La scuola come volano per il riscatto sociale di adulti, detenuti e stranieri. Al via i corsi di istruzione per adulti e per italiani e stranieri che necessitano di apprendere la lingua italiana, completare l’obbligo scolastico, e più in generale, migliorare le proprie competenze culturali e professionali. Reinserimento scolastico per dare un’opportunità ai meno giovani e alle fasce più deboli di inserirsi nel mondo del lavoro. Questo è il progetto presentato al Comune di Campobasso dall’assessore all’Istruzione e alle Politiche Sociali, Luca Pritano, e dai dirigenti del Cpia e dell’Ipia Montini. “Le persone che non hanno titolo di studio hanno meno chance nel mondo del lavoro per questo abbiamo deciso di aggredire il problema - spiega Praitano - e coinvolgere giovani e meno giovani per offrirgli una formazione in sinergia con i dirigenti e le istituzioni che riguardano il mondo del lavoro”. Il Comune di Campobasso fa da cassa di risonanza di un’iniziativa dei due istituti di Campobasso che hanno un’offerta formativa rivolta ad adulti sia italiani che stranieri che necessitano di apprendere la lingua italiana, completare l’obbligo scolastico, o, più in generale, migliorare le proprie competenze culturali e professionali. L’Ipia Montini - Istituto professionale per l’industria e l’artigianato - ha istituito, per l’anno scolastico 2019/2020, il corso serale per adulti per il conseguimento dell’idoneità al terzo anno di “Manutenzione e Assistenza tecnica”. Mentre il Cpia offre percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana per cittadini stranieri, nonché il corso di primo livello finalizzato al conseguimento del diploma conclusivo del primo ciclo di istruzione (scuola secondaria di I grado, ex scuola media) e il corso di primo livello finalizzato al conseguimento della certificazione attestante l’acquisizione delle competenze di base connesse all’obbligo di istruzione formativo del biennio di scuola superiore (comuni a tutti gli indirizzi degli istituti professionali e degli istituti tecnici). corsi serali “I vantaggi dei corsi serali - spiega il dirigente scolastico della scuola per adulti Ipia Montini - sono tanti. Il tempo per ottenere il diploma si riduce enormemente rispetto ai corsi diurni. L’orario serale permette la frequenza di adulti e la personalizzazione dell’orario in base alle esigenze dei singoli, in più, con un esame integrativo si possono recuperare due anni e accedere direttamente al triennio”. “È fondamentale - aggiunge il responsabile del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti - offrire un percorso scolastico a chi lo ha dovuto abbandonare. Oltre agli stranieri garantiamo un’offerta formativa anche ai cittadini italiani che necessitano di un titolo di studio”. Elevare il contesto culturale, etico e sociale è la missione alla base della sinergia tra gli istituti scolastici e l’amministrazione comunale del capoluogo. L’iniziativa ha una valenza sociale e viaggia sui binari della necessità di integrazione delle persone. Possibilità di formazione anche per i detenuti. “Oggi - spiega la dottoressa Testa in rappresentanza della Casa Circondariale di Campobasso - è maggiore la percentuale di detenuti stranieri o con problemi legati alle tossicodipendenze. Il fenomeno della dispersione scolastica trova largo spazio tra i reclusi, soprattutto per via delle condizioni sociali e delle problematiche di disagio che affrontano nelle propria vita. La scuola ci permette di offrire loro stili di vita e comportamenti diversi, nuovi modelli e valori che possono aiutare nella reintegrazione”. Nuoro. Il valzer dei direttori a Badu e Carros di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 3 ottobre 2019 Nel penitenziario barbaricino torna Patrizia Incollu che dovrà guidare anche le carceri di Tempio-Nuchis e Mamone. Il valzer dei direttori delle carceri sarde continua. Peccato che a ballare siano rimasti in pochi e con i piedi, loro malgrado, in più sedi. Nella colonia penale agricola di Mamone torna la direttrice Patrizia Incollu che già si occupava contemporaneamente di altri due istituti non facili: Badu e Carros a Nuoro e Bancali nella sua Sassari. Ora per lei il salto diventa triplo, oltre ad occuparsi di Nuoro e Mamone a giorni sarà destinata a Tempio-Nuchis mentre lascerà Bancali, il carcere sassarese che nei fatti ha aperto quando la nuova struttura è diventata operativa con la chiusura dell’antico carcere all’interno delle mura cittadine di San Sebastiano. Nel Distretto Sardegna la situazione dei dirigenti si aggrava ancora una volta, rimangono infatti solo 4 Direttori per gestire i 10 penitenziari isolani. Le partenze, in questi giorni la Caterina Sergio (che aveva Mamone e Tempio), come avvenuto in precedenza per Simona Mellozzi, entrambe in distacco dalla penisola, hanno lasciato la Sardegna per raggiungere la nuova sede nella penisola ma nessuna delle due è stata rimpiazzate con i nuovi arrivi. Ovviamente inutile sottolineare che si tratti di un’emergenza che crea gravi falle al sistema penitenziario per il carico di lavoro abnorme rimasto da gestire ai pochi direttori rimasti. Pierluigi Farci già Provveditore vicario e responsabile dell’Ufficio della Formazione del Provveditorato si occuperà degli Istituti di Massama e Is Arenas, la direttrice Elisa Milanesi approda a Sassari ma manterrà anche di Alghero, Marco Porcu avrà un altro tris di istituti da dirigere Uta, Isili e Lanusei. Conosce molto bene il problema il provveditore regionale alle carceri Maurizio Veneziano che dal suo ufficio di Cagliari punta il dito sul nodo della questione. “Non si fanno concorsi per direttori titolari dal 1995. Periodicamente si è cercato di tamponare la situazione con l’invio di dirigenti in missione. Stiamo anche pagando lo scotto di una politica di spending review e poi la Sardegna non risulta una destinazione appetibile soprattutto per via dei collegamenti con la penisola. Va anche detto che le procedure di mobilità non sempre hanno gli effetti desiderati e spesso innescano ricorsi e nuovi impasse. Ci dovrebbe essere un concorso per l’assunzione di 40 dirigenti ma non è stato bandito, ci aspettiamo che venga fatto al più presto. Ovviamente al Ministero e al Dap conoscono bene la situazione di emergenza della Sardegna. C’è una mia fittissima corrispondenza, rafforzata da tanti dialoghi telefonici con il responsabile del personale”, spiega Maurizio Veneziano. Anche i sindacati non stanno a guardare e sottolineano che la situazione che si è venuta a creare non sia più sostenibile. “Il sistema penitenziario isolano rischia il collasso - rimarca Giovanni Villa della Fns Cisl - le nostre denunce, portate avanti puntualmente ogni anno, hanno avuto riscontro da parte dell’amministrazione penitenziaria solo con interventi tampone che sono stati a mala pena sufficienti a tenere a galla il sistema penitenziario isolano. Un sistema che ha retto grazie al costante lavoro della Polizia penitenziaria che ligia al dovere ha collaborato e collabora costantemente con i pochi direttori presenti nel nostro Distretto”. “Tra qualche giorno il Sistema penitenziario isolano, con varie tipologie di reclusi, basti pensare ai detenuti in regime di 41bis, ai detenuti del circuito in Alta Sicurezza, agli internati e così via, rimarrà con quattro direttori e gli stessi ricoprono anche vari incarichi presso il Provveditorato regionale. Una situazione questa che, se non si prenderanno provvedimenti immediati, porterà il sistema penitenziario al collasso con tutte le gravi conseguenze che ne deriveranno. Oggi un direttore non può andare in ferie, se lo fa perché non ne può fare a meno lascia virtualmente l’incarico agli altri che rimangono. Una situazione a dir poco assurda, unica nel contesto nazionale”, conclude Villa. Lanciano (Ch). Protesta per il nuovo reparto detentivo Il Centro, 3 ottobre 2019 Lavoratori in agitazione nel super carcere di Villa Stanazzo per l’apertura, fra meno di un mese, di un nuovo reparto detentivo. Ad annunciare la protesta è il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. “Eravamo fiduciosi che il nuovo provveditore, Carmelo Cantone, avrebbe messo fine alle sperequazioni nel proprio territorio di competenza”, afferma il Sappe con il referente Piero Di Campli, “la delusione, invece, è arrivata come un lampo a ciel sereno. Senza un’accurata analisi e senza approfondire i motivi che hanno spinto anche i precedenti dirigenti a rinunciare ad un progetto già pronto da anni, incurante di condividere decisioni con chi dovrebbe sopportarne il peso e in un istituto che ha una carenza di organico impressionante, si ordina l’apertura di un reparto detentivo con un preavviso di meno di un mese. A parte il fatto che il reparto strutturalmente non è pronto per un’apertura così repentina”, sottolinea il sindacato, “anzi servono ristrutturazioni, ma soprattutto per poter funzionare a regime occorrono almeno 15 unità di Polizia penitenziaria. In due anni nel carcere di Lanciano sono entrati in funzione altri due reparti a costo zero, il multi-video-conferenze con sei aule e il reparto “Ottaviani” che ospita 37 detenuti, problematici e non a trattamento avanzato come si paventò all’apertura, con un aggravio di lavoro per 10 agenti per il primo e 8 per l’altro”. A Villa Stanazzo sono in servizio 132 agenti contro i 157 previsti, e i detenuti sono oltre 300. “La carenza di personale sofferta dal nostro istituto”, continua il sindacato, “si riversa sulle richieste di ferie che vengono ridotte e sulle prestazioni di lavoro straordinario imposto al personale; l’accorpamento di posti di servizio passa come consuetudine così come lavorare ben al di sotto dei livelli minimi di sicurezza (l’ultima aggressione risale alla settimana scorsa), per un istituto che ospita detenuti ad alto indice di pericolosità ed è suddiviso in almeno tre circuiti detentivi con criticità operative. Ma, come sembra, il fondo non è stato toccato. La situazione nel carcere di Lanciano è esplosiva”, conclude il Sappe, “auspichiamo urgenti interventi per incrementare il personale e diminuire i detenuti”. Firenze. Le relazioni familiari al centro di un’iniziativa per i detenuti unifi.it, 3 ottobre 2019 A cura del Polo Universitario Penitenziario nell’ambito del Festival Eredità delle Donne. Sviluppare una riflessione dentro il carcere sul tema delle relazioni familiari e delle emozioni collegate alla genitorialità attraverso la letteratura e il cinema. È lo scopo di un’iniziativa del Polo Universitario Penitenziario, nell’ambito del Festival Eredità delle Donne, che vede la partecipazione di un gruppo di detenute e detenuti di Firenze (Sollicciano femminile, Gozzini) e Prato (La Dogaia), tra cui anche studenti del Polo Universitario Penitenziario. “Padri, madri, figli, figlie: la tavolozza delle emozioni” - questo è il titolo del progetto - si è articolato in tre appuntamenti che si sono svolti all’interno degli istituti penitenziari con letture di testi e proiezioni di film e si concluderà con un incontro venerdì 4 ottobre presso la BiblioteCaNova Isolotto (Via Chiusi, 4/a, Firenze - ore 17): la poetessa Elisa Biagini e la scrittrice Simona Baldanzi leggeranno alcuni elaborati dei partecipanti sulle implicazioni emotive nel rapporto con i propri cari e con i figli in particolare. “Partecipiamo con soddisfazione al Festival delle donne - spiega la delegata del Polo Universitario Penitenziario Maria Grazia Pazienza - con una proposta che ha stimolato il confronto su un argomento particolarmente complesso, soprattutto per chi vive la condizione di detenzione. Questo percorso, per le sue caratteristiche e le sue finalità, rientra pienamente nelle politiche condotte dall’Ateneo nell’ambito della cosiddetta terza missione ed è il risultato della collaborazione tra biblioteche e del territorio che ci auguriamo possa proseguire nel futuro con nuove attività”. “Padri, madri, figli, figlie: la tavolozza delle emozioni” è stato realizzato insieme al Sistema Bibliotecario e al Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo fiorentino e alla BiblioteCaNova del Comune di Firenze e si svolge con la collaborazione delle direzioni e degli uffici educatori degli istituti penitenziari coinvolti. Asti. Un corso sulla gestione del conflitto tra Polizia penitenziaria e i detenuti atnews.it, 3 ottobre 2019 Il corso si terrà il 22-23 ottobre ad Asti, presso la sede della Casa di Reclusione di Quarto. Un progetto su prevenzione e gestione della conflittualità in carcere, tra agenti di polizia penitenziaria, volontari e detenuti: è questa l’idea che ha portato alla nascita del percorso formativo che si terrà il 22-23 ottobre ad Asti, presso la sede della Casa di Reclusione di Quarto. Il corso, condotto dal Dott. Alberto Quattrocolo dell’Associazione “Me-Dia-Re”, punta a fornire agli operatori e ai volontari una “cassetta degli attrezzi” per saper gestire conflitti nell’ambito carcerario: tramite studio di casi e giochi di ruolo, si cercherà di comprendere quali sono i fattori di innesco dei conflitti, limitandone l’esplosione e guidando un processo di de-escalation in cui tutti possono avere un ruolo positivo. Il corso, organizzato dalla Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Asti, Dott.ssa Paola Ferlauto, autorizzato dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, sarà presentato il 12 ottobre 2019, presso la Sala Giunta del Municipio di Asti, in una conferenza stampa a cui parteciperà anche l’On. Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Nuoro. “Luci oltre le sbarre”, il carcere nelle foto di Fabian Volti di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 3 ottobre 2019 Oggi nel Centro Polifunzionale di via Roma alle 18,30, verrà inaugurata la mostra Luci Oltre le Sbarre. 30 Scatti del fotografo sassarese Fabian Volti, un progetto curato dall’associazione 4caniperStrada. Dopo le esposizioni a Sassari e a Cagliari, la mostra fa tappa a Nuoro nell’ambito della rassegna PolifunzionArt curata dall’associazione Madriche. La mostra rappresenta la prima parte di un progetto di documentazione dei luoghi della detenzione in disuso in Sardegna, partendo dall’importante ex carcere di San Sebastiano a Sassari chiuso nel 2013. Il progetto Luci oltre le Sbarre raccoglie le immagini in bianconero e a colori scattate un anno dopo la chiusura del carcere, in una delicata ricostruzione della memoria che riscopre le tracce di vita rimaste all’interno: adesivi attaccati alla mobilia, disegni e scritte sui muri, suppellettili improvvisate che non sono solamente oggetti ma rappresentano simbolicamente quella capacità di sopravvivere che gli esseri umani riescono a trovare nelle situazioni di totale privazione della libertà. Durante l’inaugurazione di giovedì verrà presentato anche il catalogo dedicato alla mostra “Luci oltre le sbarre”, edito da Emuse di Milano, pubblicato nell’ambito del progetto editoriale Sardegna in 4 Movimenti curato dall’associazione 4CaniperStrada con il sostegno della Fondazione di Sardegna, che raccoglie le immagini dell’intera mostra fotografica, introdotte dai testi di presentazione di Daniele Pulino, referente territoriale in Sardegna dell’associazione Antigone e del Alvise Sbraccia, coordinatore del comitato scientifico di Antigone, insieme a un contributo dell’architetto Roberto Acciaro di Nuoro sul carcere di San Sebastiano. Fine vita: il 93% degli italiani chiede una legge sull’eutanasia di Caterina Pasolini La Repubblica, 3 ottobre 2019 Gli italiani la pensano diversamente dal premier Conte che, da cattolico come ha voluto sottolineare, ha detto di non essere convinto esista un diritto a morire. Chiedono una legge sull’eutanasia, il 93 % e più libertà di ricerca e di scelta, la metà è per la cannabis legale dicono i dati emersi da una ricerca commissionata alla Swg dall’Associazione Coscioni, sui temi etici e diritti civili dalla fecondazione al fine vita, in vista del congresso a Bari che parte oggi, giovedì 3 ottobre. Il tutto mentre la Cei, la conferenza italiana dei vescovi preme sulla politica: “L’auspicio è che i cattolici che agiscono in Parlamento ma anche tutte le persone di buona volontà facciano di tutto affinché il pronunciamento della Consulta non apra la strada ad una deriva”. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor. Stefano Russo, “La posizione della Chiesa nasce dal presupposto che noi vogliamo promuovere la vita. Il pronunciamento della Corte Costituzionale mette in discussione la cultura della vita e spero che si riescano a mettere tutti i possibili paletti”. La Consulta una settimana fa, analizzando il drammatico caso di Dj Fabo, il quarantenne tetraplegico milanese andato in Svizzera a morire, ha infatti stabilito che aiutare qualcuno ad uccidersi può non essere reato, rinnovando al parlamento la richiesta fatta inutilmente un anno fa di legiferare sul tema. I nuovi dati dicono che su questa tema cresce la percentuale di italiani che vuole una legge sull’eutanasia. Il 56% è assolutamente favore ad una legge e un ulteriore 37% è a sostegno di una regolamentazione dell’accesso alla dolce morte a determinate condizioni fisiche e di salute, che porta il totale a 93% la percentuale di chi chiede ai partiti di legiferare, dopo anni di assenza sul tema nonostante disegni di legge presentati anche per iniziativa pubblica con 120mila firme. Il testamento biologico è conosciuto dall’83% degli intervistati, ma il 71% ignora come lasciare le Disposizioni anticipate di trattamento. Per r l’84% la causa di questa difficoltà è da legare alla scarsa informazione resa disponibile da parte delle istituzioni. La metà rileva l’assenza di un’adeguata tutela e disciplina giuridica relativamente a fine vita. Come si diceva, aumentano i favorevoli a una legge che regolamenti l’eutanasia, anche a seguito della storica sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato/Dj Fabo, che ha visto il tesoriere dell’associazione Marco Cappato rischiare fino a 12 anni di carcere per aver aiutato il giovane tetraplegico ad andare in Svizzera a morire come chiedeva da tempo. Il 56% degli italiani è assolutamente a favore di una legge, con un ulteriore 37%, a sostegno di una regolamentazione dell’accesso a determinate condizioni fisiche e di salute. “A chiedere l’Eutanasia Legale è quindi il 93% dei cittadini, un dato mai registrato prima d’ora”, dicono alla Coscioni in vista del congresso che si terrà a Bari dal 3 al 6 ottobre, “durante il quale rilanceremo le azioni di disobbedienza civile per ampliare le possibilità di scelte al fine della vita e chiederemo la calendarizzazione della proposta di legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia presentata alla Camera a settembre 2013”. Fine vita, un’altra sentenza per la libera scelta. E Grillo sprona i suoi: “Non siate bacchettoni” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 ottobre 2019 Il Giudice tutelare di Roma riconosce la volontà del paziente anche senza testamento. Alla Camera dalla prossima settimana riprende l’iter della legge sulla dolce morte. Mentre un’altra sentenza di tribunale, dopo quella della Consulta, segna la via per la libertà di scelta nel fine vita, Beppe Grillo dal suo blog scuote le coscienze dei suoi seguaci invitandoli a non essere “estremi anche nella bacchettoneria” e a non mettere bocca in decisioni altrui che riguardino soltanto la propria morte. E il Parlamento finalmente si decide a riavviare l’iter della legge che, nelle istanze della maggioranza dei cittadini italiani, secondo gli ultimi sondaggi Swg, dovrebbe contenere la legalizzazione dell’eutanasia. “La prossima settimana riprendiamo i lavori sul fine vita”, ha assicurato la presidente della Commissione Giustizia della Camera, la pentastellata Francesca Businarolo, spiegando che “sono già state fatte numerosissime audizioni” e che “ora, con nuove condizioni politiche e la bussola della sentenza della Corte Costituzionale, possiamo portare avanti il nostro compito con maggiore serenità”. L’iter si era infatti interrotto a Montecitorio il 31 luglio, arenato per l’impossibilità di arrivare ad un testo base condiviso prima della pausa estiva, malgrado l’imminente scadenza fissata dalla Consulta. A settembre poi la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, aveva tentato di ottenere una proroga dei limiti temporali imposti. Ma la Corte, come largamente previsto, il 25 settembre ha depenalizzato l’aiuto al suicidio in determinate situazioni, dichiarando di fatto non punibile Marco Cappato per il sostegno dato a Dj Fabo. Ieri però un’altra sentenza, questa volta del Giudice tutelare del Tribunale di Roma, ha ricordato alla politica che esiste la libertà di scegliere come morire e ha dichiarato ammissibile che un amministratore di sostegno richieda l’interruzione delle cure della persona amministrata, anche in assenza di testamento biologico, quando il paziente non sia più in grado di esprimersi ma sia stata accertata la sua volontà, sia pure solo in via presuntiva, alla luce di dichiarazioni rese in passato. Inoltre, secondo la IX Sezione civile, non è necessario l’intervento del Giudice tutelare, a meno che non vi sia opposizione a procedere da parte del medico. “Con questa importante pronuncia, il tribunale mette in primo piano la volontà della persona, evitando che, come nel caso Englaro, per anni si sia costretti a combattere nei tribunali per vederla riconosciuta - spiega Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e a capo del team di avvocati che ha seguito il caso - Il giudice tutelare ha confermato la portata della legge 219/17 sulle Disposizioni anticipate di trattamento: la volontà della persona malata, non più capace di esprimersi, è stata conosciuta e ricostruita, perché espressa in precedenza anche in assenza di testamento biologico”. In sintonia con la giornata, e forse ispirato dai dati della ricerca Swg commissionata dall’Associazione Coscioni che attesta come il 93% degli italiani sia favorevole all’eutanasia (ma anche all’aborto in day hospital per il 70%, alla fecondazione assistita per l’82%, alla legalizzazione della cannabis e alla ricerca sugli embrioni per oltre il 50%), è il post di Beppe Grillo. Il leader del M5S racconta infatti sul suo blog di come, in visita in un ospedale, sia venuto a contatto con l’idea che nella morte si è comunque sempre soli e che ciascuno può decidere solo per sé. “Una cosa privata e triste, un intimo precipizio, la nuova casa per quel che mi resta - scrive il comico genovese descrivendo lo sguardo di un uomo su una barella - Non lo so cosa devo pensare, ma non ho la favella di buona lega davanti a quel finale. Non capisco e non capirò mai come possa venire in mente di metterci a dettar legge al mistero triste e fabbricare impicci e cavilli vari per ostacolare quelle pochissime scelte che restano alla fine. Non ficcate il naso nelle cose degli altri sino a questo punto - esorta Grillo - non siate estremi anche nella bacchettoneria. Non andate a confrontarvi i vestiti buoni per partecipare a tiritere sull’etica e discussioni profonde sullo strazio. Lasciate perdere comitati di discussione, so che è difficile, ma basta lasciare che ve ne freghiate come ve ne freghereste di quell’uomo. Proviamo a chiamarlo di nuovo “Signore” e lasciamogli scegliere quello che ritiene il meglio per sé”. Migranti. Pochi rimpatri e richieste d’asilo, diminuiti anche gli sbarchi di Adriana Pollice Il Manifesto, 3 ottobre 2019 I dati del Viminale. “Continuiamo a registrare un trend in diminuzione degli arrivi via mare nelle nostre coste” spiega la ministra Lamorgese, ma “sono in aumento gli sbarchi autonomi, in particolare dalla Tunisia”. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, si è presentata ieri alle commissioni congiunte di Senato e Camera per fare il punto sul tema migranti alla vigilia della riunione del Consiglio europeo del 7 e 8 ottobre. “Nel 2018 sono stati 6.820 i rimpatri forzati e 1.161 quelli volontari - ha spiegato. Nel 2019 fino ad oggi siamo a quota 5.044 rimpatri, più 200 volontari”. Risultati scarsi, quindi, come nel resto del continente. Sul tavolo la prossima settimana ci sarà la richiesta di “un’iniziativa europea per favorire nuovi accordi di riammissione e per implementare quelli in vigore”. Se il governo gialloverde non è stato efficace sui rimpatri, ha avuto invece un impatto forte sulle richieste d’asilo: le istanze sono scese da 118.440 del 2018 a 50.298, con un taglio del 58%. Gli arrivi non destano allarme: “Abbiamo registrato un aumento degli sbarchi autonomi, in particolare dalla Tunisia. Ma il trend nel 2019 è in calo del 63%: 7.783 contro 21.112 del 2018”, ha spiegato Lamorgese. Tema caldo le ricollocazioni tra i paesi Ue: “Solo pochi stati si sono impegnati e le procedure non sono agevoli. Per il 2018-2019, su 855 sbarcati in Italia, le offerte di accoglienza sono state per 673 persone e, di queste, solo 241 sono state effettivamente trasferite”. Il pre-accordo siglato a Malta sarà il punto di partenza della discussione: l’intesa prevede la distribuzione automatica dei migranti e la possibilità di attivare una rotazione volontaria dei porti di arrivo; i ricollocamenti dovranno avvenire entro 4 settimane e sarà lo stato che accoglie a procedere a eventuali rimpatri. “È un progetto pilota che può essere rimaneggiato”, ha concluso Lamorgese. Per poi aggiungere: “Il lavoro può essere agevolato dalla individuazione di paesi sicuri” direttamente in Africa, punto in cima all’agenda del ministro Di Maio. Ma dal ministero dell’Interno tedesco ieri è arrivato l’avvertimento: “La Germania è orientata ad abbandonare il meccanismo automatico di redistribuzione qualora dovesse creare un significativo aumento di arrivi di migranti”. Migranti. Vite dimenticate e finite nel limbo, ora serve una risposta dello Stato di Diego Motta Avvenire, 3 ottobre 2019 Si vive nel limbo perché nel limbo si finisce. Non per scelta, ma per legge. È il destino di migliaia di migranti nel nostro Paese, quello che abbiamo raccontato tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, a cavallo di due diverse stagioni politiche. Storie che hanno in comune da un lato l’assoluta precarietà dei loro protagonisti, chiamati a vivere “più vite” in una vita sola, e dall’altro la testimonianza operosa e silenziosa di tanti educatori, psicologi, medici e volontari che li hanno incontrati nel loro peregrinare. Il bilancio del nostro viaggio non può che partire da questa constatazione: più è profondo il travaglio del migrante finito nel girone degli “invisibili”, più si allarga il bisogno di solidarietà nascosto nelle comunità. Erano tre gli aspetti che volevamo decifrare in questo percorso di svelamento: quanto pesasse, nelle storie di queste persone, l’abolizione della protezione umanitaria decisa un anno fa; quanto si fosse ristretto il perimetro dell’accoglienza dopo il ridimensionamento degli Sprar; chi e in che modo potesse rispondere alla presenza dei migranti irregolari. Ci siamo imbattuti, in questo modo, in vicende sorprendenti che dimostrano quanto poco buon senso ci sia stato in alcune scelte legislative e quanto invece sia fondamentale la supplenza esercitata dal tanto vituperato Terzo settore. Avere un contratto di lavoro a tempo, ad esempio, è stata un’aggravante per chi ha chiesto in questi mesi di poter rimanere in Italia: molti racconti ce l’hanno ricordato, si trattasse degli ex “sfruttati” della piana di Gioia Tauro oggi impiegati nei vivai del Sud o del pizzaiolo di Milano accolto dalla Caritas. Neppure i percorsi scolastici e di apprendimento della lingua italiana, le attività sportive o di volontariato che alcuni hanno intrapreso, sono garanzia di permanenza nel nostro Paese, soprattutto se si affronta il delicato passaggio alla maggiore età. Per non parlare della questione abitativa: a Bergamo abbiamo raccolto testimonianze di “invisibili” che si accalcano alla stazione e hanno come riferimento i dormitori pubblici: di fatto non esistono. E anche la provenienza conta molto relativamente oggi davanti alle Commissioni territoriali, perché diventa sempre più difficile dimostrare di essere in situazione di oggettivo pericolo in caso di rimpatrio forzato nel proprio Paese d’origine. I rimpatri, appunto. Sono fermi, perché nessuno riesce a rendere operative le scelte dei giudici e perché mancano accordi bilaterali con gli Stati interessati. Su tutto, trionfa esasperante la cronica burocrazia italiana, che allunga i tempi di attesa, cambia norme in corso d’opera, di certo non semplifica percorsi già molto complicati. Anche i legami familiari non sono di per sé una garanzia, come ha dimostrato la bella storia di Cosenza di una coppia unita in vincolo d’amore dal matrimonio e di fatto separata dai diversi pronunciamenti della magistratura, tra chi ha diritto d’asilo in Italia e chi non ce l’ha. I nodi lasciati aperti dalla nostra inchiesta sono sostanzialmente tre e spetterà al nuovo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, farsene carico nei prossimi mesi. Riguardano la reintroduzione della protezione umanitaria, la cui concessione è crollata da oltre il 20% al 2%; l’abrogazione della norma riguardante la residenza dei richiedenti asilo; il riavvio di un sistema nazionale di accoglienza che promuova l’inclusione sociale di richiedenti asilo e titolari di protezione. Sono peraltro tre dei punti contenuti nell’appello lanciato recentemente dalla campagna “Io Accolgo”, che racchiude le principali organizzazioni del Terzo settore attive nel campo dell’immigrazione e della tutela dei diritti umani. Sono passi obbligati, che permetterebbero di fare chiarezza e portare alla luce tante storie nel limbo, che meritano una risposta civile da parte dello Stato. Stati Uniti. Un database per il Dna dei migranti clandestini La Repubblica, 3 ottobre 2019 L’amministrazione Trump ha pronto un sistema per raccogliere e conservare i dati genetici degli immigrati entrati clandestinamente nel Paese. Insorgono le associazioni dei diritti civili. Il governo americano vuole prendere il Dna di tutti i migranti entrati illegalmente negli Stati Uniti. Il piano è stato svelato da alti funzionari dell’amministrazione Trump. Il Dipartimento della sicurezza interna (Dhs) sta lavorando su un programma che permetta di raccogliere le informazioni genetiche degli immigrati e di registrarli in un database dell’Fbi chiamato Codis che raccoglie milioni di profili di persone arrestate o riconosciute colpevoli di delitti o di crimini. Dati che potranno essere utilizzati anche da altre agenzie federali. Alcuni responsabili del Dhs hanno detto che questa politica permetterebbe di dare agli agenti di frontiera una idea migliore della situazione dei migranti detenuti. “Questo permetterà - dicono al Dhs - di migliorare la nostra capacità di identificare una persona che prova ad entrare illegalmente nel Paese ed aiuterebbe anche altri organismi”. Il fatto di prendere e tenere i dati del Dna di persone detenute ma non condannate ha scatenato le associazioni per i diritti civili. “Non è una lotta alla criminalità ma un controllo della popolazione, cosa contraria alle nozioni basilari di libertà”, ha scritto la Aclu in un comunicato. Secondo l’amministrazione, però, il tutto è reso lecito da dei regolamenti del ministero della Giustizia del 206 e del 2010 che non sono mai stati attuati. Già da qualche mese le guardie di frontiera fanno dei test rapidi ai migranti in transito, soprattutto per confermare i rapporti familiari dichiarati. Ma il programma previsto permetterà di recuperare molte più informazioni e soprattutto di conservarle. Stati Uniti. Giustiziato un malato terminale italiastarmagazine.it, 3 ottobre 2019 Russell Bucklew, affetto da un tumore che gli provocava sanguinamenti, è stato giustiziato in Missouri. Condannato per omicidio, si era pentito ed era considerato un detenuto modello. Alle 18:23 ora locale, è stato dichiarato il decesso di Russell Bucklew, giustiziato ieri nel carcere di Bonne Terre, in Missouri. Inutilmente, dopo che il governatore Mike Parson ha negato l’istanza di clemenza, gruppi di attivisti e associazioni umanitarie si sono battuti per evitargli la pena capitale, già sospesa nel 2014 e lo scorso anno per ragioni di salute. L’uomo, secondo la difesa, era già condannato: soffriva di emangioma cavernoso, una malattia gli aveva causato tumori alla testa che provocano sanguinamenti continui da bocca, naso e orecchie. L’iniezione letale avrebbe potuto rompere i delicati vasi sanguigni provocandogli una morte atroce. A tentare di arginare l’ondata di polemiche nata dopo la notizia della morte di Bucklew sono arrivate le parole di Morley Swingle, ex procuratore della contea di Cape Girardeau che ha assistito all’esecuzione, assicurando che il condannato ha avuto una morte “molto serena”. Una versione confermata anche da un reporter della rete KFVS, secondo cui Bucklew era steso su una barella e non ha sofferto: dopo l’ultimo sospiro, più profondo degli altri, ha smesso di muoversi. “Piangiamo l’inutile morte di Russell Bucklew - ha commentato Cassandra Stubbs, direttrice del Capital Punishment Project dell’American Civil Liberties Union - lo stato del Missouri ha eseguito un’esecuzione che ha violato il diritto internazionale, nonostante il pentimento del signor Bucklew e il suo esemplare stato di detenzione. L’idea che uccidere quest’uomo - malato terminale e detenuto modello per 23 anni - valeva la macchia sulla nostra democrazia e la nostra umanità è una vergogna”. Bucklew era stato condannato a morte per un caso di furto con scasso, sequestro di persona e omicidio di primo grado avvenuto nel 1997: aveva ucciso Michael Sanders, nuovo compagno della sua ex fidanzata, Stephanie Ray Pruitt, che aveva rapito e stuprato. Era stato fermato dopo un conflitto a fuoco con la polizia in cui un agente era rimasto ferito. La sua è la prima esecuzione in Missouri dal gennaio 2017. Libia. “Trappola infernale” per i migranti ilfarosulmondo.it, 3 ottobre 2019 Non è cambiata la Libia del prima e dopo Gheddafi per i migranti costretti a transitare in un Paese che non contempla un sistema d’asilo, né ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’Uomo. Eppure sono stati stretti nuovi accordi tra la Libia e l’Europa, che vi ha riversato fiumi di finanziamenti, investimenti e contratti per gas e petrolio. Per i migranti dal 2006 ad oggi nulla è cambiato: la Libia resta un luogo di detenzione brutale e disumana su cui l’Occidente continua a chiudere gli occhi, accrescendo anzi il ruolo di argine coatto, per impedire a chi scappa per salvare la propria vita di raggiungere le coste della Fortezza Europa. La trappola libica - È l’allarme lanciato dal dossier “0021, trappola libica” della onlus In Migrazione. 0021 come il prefisso internazionale libico: quello che i detenuti compongono sui cellulari che sono riusciti a nascondere per far sentire le loro voci sull’altra sponda del Mediterraneo. Il dossier riporta terribili testimonianze dei profughi. “Ti tirano il cibo in faccia, ti picchiano senza alcun motivo, ti prendono a schiaffi, ti minacciano con i fucili e le pistole, qualsiasi libico ora ha fucili o pistole, te le puntano alle tempie”. Così John da Gandufa, uno dei carceri per potenziali “clandestini”, sintetizza la Libia vista dai migranti intrappolati a metà strada tra il deserto e il mare, tra il Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea) e l’Europa. “Siamo come animali legati un po’ con la corda lunga…”, aggiunge Ahmed. “Nella stessa stanza di quattro metri per quattro siamo in 17. Qui non c’è scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere”. Chi parla è un minorenne. Insieme a lui e ad altre 500 persone, nel campo della Mezzaluna rossa di Benghazi c’è Ali: “I nuovi arrivati si spaventano subito anche solo guardandoci per come siamo rimasti in otto mesi…”. Nelle carceri libiche, donne, uomini e anche bambini sono tenuti a pane e acqua, dormendo per terra senza materassi. Ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia: percosse, botte, stupri e torture. I carceri, i campi di detenzione e le strutture adattate a prigioni in questo paese sono diventate decine e decine: Ganfuda, Majer, Misurata, Abu Salim e al-Zawiya. Stime di Amnesty International - Secondo le stime di Amnesty International sono operativi 17 centri di trattenimento che ospitano circa 5mila migranti forzati a cui si vanno ad aggiungere le altre diverse migliaia che affollano le carceri comuni e i campi di accoglienza gestiti dai miliziani, stimabili tra le 4mila e le 6mila persone. Il comitato internazionale della Croce Rossa ha visitato 60 strutture a vario titolo detentive in Libia. È noto soprattutto tra i migranti che i centri di detenzione più duri siano nel deserto. Su tutti per condizioni disperate di vita e vessazioni ai danni dei profughi, il campo di Kuhfra e quello Sabha. Quest’ultimo “ospita” al suo interno addirittura 1.300 persone. In questi luoghi e in maniera diffusa e sistematica sono incalcolabili le denunce di trattamenti crudeli e degradanti. Non rimane che la via del mare, attraversare il mare rappresenta l’unica via per tentare la salvezza. Nonostante le voci corrano e la consapevolezza di rischiare la vita sia alta tra i migranti, non c’è un futuro al quale si possa aspirare e dunque niente da perdere. Prendere il mare può volere dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20mila vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo. Per la precisione, dal 1988 ad oggi ci sono stati quasi ventimila morti nel tentativo di raggiungere la “Fortezza Europa”. L’Italia e i migranti - L’Italia - in un quadro più complesso e generale di politiche Ue in materia di immigrazione - ha scelto di delegare di fatto alla Libia il controllo delle frontiere. Lo ha fatto con il patto d’amicizia nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, rinnovato poi nel 2012 con la ratifica tra il ministro Cancellieri e il suo omologo libico Fawzi Al-Taher Abdulali, (resa pubblica tre mesi dopo). Lo ha confermato nel 2013, quando l’attuale premier Enrico Letta ha incontrato a Roma il primo ministro libico, Ali Zeidan Mohammed rinnovando il ruolo della Libia a difesa d’Europa. Scelte che di fatto delegano un ruolo a un Paese dove non esiste il rispetto dei diritti umani e dei diritti d’asilo. In altri termini si continua quell’approccio all’immigrazione che fu premessa dei famigerati respingimenti collettivi in acque internazionali, che sono costati all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Secondo Simone Andreotti, presidente di In Migrazione, “evitare queste morti non è impossibile. Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei Paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che metterebbe fine alla sofferenza delle persone, che salverebbe tante vite e che spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani. Un modo per smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l’apertura o la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione internazionale. L’Iraq in piazza, una lotta difficile per le riforme di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 ottobre 2019 I manifestanti sono poco interessati alla politica. Molti slogan echeggiano quelli espressi in questi giorni dal malcontento popolare in Libano e Tunisia. Non vogliono rivoluzionare il sistema, come speravano invece le “primavere arabe” otto anni fa. Il popolo iracheno scende in piazza contro la disoccupazione, la povertà, la corruzione e la mancanza di servizi. Baghdad, Kut, Nassiriya e molte zone urbane del centro-sud sono nel caos. Negli scontri tra polizia e manifestanti da martedì si registrano almeno sette morti, i feriti sono oltre 300. I bilanci di sangue paiono destinati a crescere. Si tratta dei disordini più violenti dall’affievolirsi dello scontro contro Isis due anni fa nel nord. Certo più gravi e diffusi di quelli che interessarono la regione di Bassora nel 2018. La coalizione di governo del premier Abdel Abdul Mahdi vacilla. Era già fragile di suo dopo che le ultime elezioni avevano sortito un risultato poco chiaro. Ma ora potrebbe avere le settimane contate. Le Nazioni Unite appellano alla calma. Persino Muqtada al Sadr, lo storico leader dell’estremismo sciita passato a coalizzarsi con i comunisti contro i settarismi, oggi tace in nome della pace sociale. Va però detto che i manifestanti sono poco interessati alla politica. Molti slogan iracheni echeggiano quelli espressi in questi giorni dal malcontento popolare in Libano e Tunisia. Non vogliono rivoluzionare il sistema, come speravano invece le “primavere arabe” otto anni fa. Non si appellano alla democrazia o alla libertà di stampa. E per una volta l’antico scontro tra sciiti, sunniti e curdi, che tanto sangue ha fatto versare agli iracheni, qui non c’entra. Non hanno neppure un programma definito o leader riconosciuti. Nei loro slogan chiedono di “cambiare il governo”, ma si accontenterebbero di riforme serie e verificabili.