La pesantezza e il dolore di una pena senza fine di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2019 È entrato in carcere a 19 anni; oggi ne ha quasi cinquanta, si è laureato in Giurisprudenza e da trent’anni vive in una cella, ha conosciuto tante prigioni dal nord al sud dell’Italia e dal 1989 non ha mai camminato libero nel mondo, neppure per pochi passi. Qualche giorno fa mi ha scritto: - Oggi ti ho detto (ndr. a Parma nella redazione di Ristretti che coordino da tre anni con 12 detenuti di Alta Sicurezza di cui dieci ergastolani ostativi) che quel Claudio del reato non c’è più…è altro da me. C’è troppo tempo tra me di adesso e lui… Claudio è nato in Puglia; nella sua terra ha commesso reati molto gravi all’interno di una “guerra criminale”. È stato condannato giovanissimo all’ergastolo e quasi subito trasferito nel carcere di Pianosa dove ha conosciuto anche la violenza delle istituzioni. Oggi è un uomo molto stanco. Molto dignitoso e molto stanco. Qualche volta dice, non senza un filo di autoironia, che è davvero cresciuto in carcere perché quando è entrato non aveva nemmeno completato lo sviluppo fisico. Dunque di ergastolo ostativo si può parlare a tanti livelli; da quello giuridico su cui si è espressa la Cedu - Corte Europea dei Diritti Umani a quello umano e spirituale di Papa Francesco che non ha paura di usare parole forti e vere, definendolo una “pena di morte mascherata”. E poi si può incontrarlo nei volti, nei corpi, nelle testimonianze di persone rinchiuse anche da più di quarant’anni come l’ultimo redattore che si è aggiunto nel gruppo di Parma. E quando lo vedi e lo ascolti e lo incontri ti rendi conto di tutta la pesantezza e il dolore di una pena senza fine. A me, che giurista non sono, pare piuttosto evidente che l’articolo 27 della Costituzione quando parla di “pene che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” non legittimi in alcun modo una pena senza fine che consegni le persone alla morte in carcere. E nemmeno mi pare ragionevole pensare che la sola prova del proprio ravvedimento sia la scelta di una collaborazione che esporrebbe i familiari a rischi e ritorsioni e che, tra l’altro, in molti casi non sarebbe più di nessun aiuto alla giustizia perché troppo lontana dai fatti. La materia è molto più complessa e delicata di quanto si possa immaginare e trovo davvero presuntuoso l’atteggiamento di chi, non sapendo quasi nulla, esprime giudizi affrettati e spesso violenti. La vera domanda, l’unica possibile è: - Cosa è la giustizia? Una sorta di vendetta istituzionale del tutto speculare alla vendetta criminale? O una strada, seppur lunga e dolorosa, per un cambiamento e un ritorno nella società?. I padri costituenti così ce l’hanno consegnata e credo che difenderla sia un compito di tutti. *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Il dietrofront di quelli che... volevano abolire l’ergastolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2019 La sentenza della Consulta che dichiara incostituzionale quella parte del 4 bis che vieta la concessione del permesso premio agli ergastolani ostativi che decidono di non collaborare, ha provocato reazioni scomposte da parte di taluni magistrati, partiti politici e gran parte degli organi di informazione. Eppure, tra di loro, c’è chi nel passato si era espresso per la completa abolizione dell’ergastolo. Curioso che oggi criticano una sentenza che non abolisce l’ergastolo ostativo, ma lo fa rientrare il più possibile entro il perimetro costituzionale. Ma chi sono e in quale occasione sono stati parte attiva nella battaglia contro l’ergastolo ostativo? Tutto ha avuto inizio quando nel 2013 quando un gruppo di ergastolani ostativi diede vita a una campagna per sensibilizzare la Chiesa, la società civile, il governo e il mondo politico nel suo insieme, aprendo un dibattito culturale sull’abolizione della pena dell’ergastolo, tenendo conto del valore del “tempo” e del precetto marchiato nell’articolo 27 della Costituzione. Il loro desiderio è quello di vedere cancellato dalla loro “posizione giuridica” quel “fine pena mai” per essere sostituito da un “fine pena certo”. Solo in questo modo, secondo il gruppo di ergastolani, una società civile e uno Stato di diritto potrebbero garantire quella seconda possibilità che ogni persona merita. Per queste ragioni, grazie all’aiuto dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, gli ergastolani avevano attivato questa campagna raccogliendo migliaia di firme. Nel 2014 l’iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo è stata proposta alla Camera dove è poi rimasta nel cassetto. Tra i primi firmatari c’erano personalità come Agnese Moro, Margherita Hack, Umberto Veronesi, ma anche don Luigi Ciotti che però, oggi, ha espresso perplessità in merito alla sentenza della Corte costituzionale. Eppure, ribadiamo, la Consulta non ha abolito l’ergastolo. Tale iniziativa popolare era partita su più fronti, trovando anche l’ok di qualche parlamentare pentastellato. Tra i quali spicca Alessandro Di Battista che sottoscrisse l’appello contro l’ergastolo “perché - così scrisse - condivido in pieno”. A presentare alla Camera la proposta di legge popolare c’era anche l’attuale ministro della Salute Roberto Speranza, oggi però è rimasto in silenzio. Un silenzio forse dovuto al fatto che il leader del suo partito, ovvero Pietro Grasso, si è espresso duramente contro la sentenza della Consulta, evocando il fantasma del papello di Riina. Ma tra i firmatari della petizione popolare per l’abolizione dell’ergastolo ostativo spicca il nome di Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, in questi giorni in prima linea contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo prima e quella della Consulta dopo, con tanto di titolo in prima pagina: “La mafia ha vinto”. Eppure, ribadiamolo ancora una volta, la sentenza non abolisce l’ergastolo come Sallusti stesso avrebbe voluto. Pochi sono rimasti coerenti, a differenza - per esempio - di Rifondazione comunista che sottoscrisse allora e oggi, coerentemente, ha esultato per la sentenza. Quella iniziativa popolare firmata da numerose personalità politiche ed esponenti della cosiddetta “società civile” è scaturita, dicevamo, da un gruppo di ergastolani, guidato da Carmelo Musumeci, da poco in libertà condizionale. Musumeci, già quando era recluso, ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Ha varcato la soglia del carcere nel 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. In pratica la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Tanti, della società esterna, sostenevano la sua battaglia. E tanti di loro, oggi, si sono accodati nell’indignazione creata da una falsa informazione, in alcuni casi fatta da loro stessi. Subito il decreto o la legge anti-mafiosi e salva-giudici di Peter Gomez e Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2019 Ergastolo ostativo: limiti precisi sui permessi premio per i boss stragisti non pentiti. La Corte costituzionale ha stabilito che i boss mafiosi all’ergastolo per stragi e omicidi potranno ottenere permessi premio, anche se non collaborano con la giustizia. Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Grand e Chambre, questo è un altro colpo mortale all’ergastolo “ostativo”: la condanna a vita che impedisce la concessione di benefici ai detenuti per mafia, stragi e omicidi che si rifiutano di rompere i legami con le organizzazioni criminali raccontando tutto quello che sanno. Si tratta di un crepa nella legislazione contro le cosche che rischia di allargarsi se la politica (e il governo) non interverranno subito. La Consulta, infatti, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Ma come si fa a capire se boss all’ergastolo, come Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, condannati per le stragi, stiano realmente compiendo un percorso rieducativo? Nei casi degli altri ergastolani “comuni” (per i quali già prima della sentenza della Consulta era permesso ottenere benefici) la valutazione si basa principalmente sul comportamento da loro tenuto in carcere. Un comportamento che per i boss mafiosi è, però, tradizionalmente sempre impeccabile. Come allora stabilire se un capomafia vuole cambiare davvero vita e non sta fingendo? È realmente possibile concedere benefici ai boss delle stragi, sebbene non abbiano raccontato i segreti di cui sono depositari? L’ergastolo ostativo era stato introdotto dopo la strage di Capaci. Da oggi in poi basterà invece trovare un giudice di sorveglianza che applichi pedissequamente la sentenza della Consulta per vedere mafiosi pericolosissimi uscire dal carcere in permesso premio. Anche perché se un giudice da solo dovrà decidere se concedere un beneficio a un boss, sarà inevitabilmente esposto alle pressioni, ai ricatti, alle minacce di morte (per sé e i suoi familiari) e ai tentativi di corruzione dei clan. È qui che entra in campo la politica. Se la Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario, il legislatore deve adoperarsi subito per approvare una nuova norma che stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani “ostativi”. Una legge che li sottragga alla discrezionalità dei semplici giudici di sorveglianza sul “percorso rieducativo” e “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”. “Mi aspetto e voglio un legislatore che riduca la fisarmonica del potere discrezionale del giudice”, ha detto per esempio Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. “Spero che la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie a evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo “, ha commentato Nino Di Matteo, componente del Csm ed esperto pm antimafia. Un altro membro di Palazzo dei Marescialli, Sebastiano Ardita, teme per la “pressione” che le organizzazioni mafiose potrebbero esercitare sui magistrati di sorveglianza. Ora, dice, “il legislatore ha il compito di modulare in concreto l’ampiezza di questa innovazione e impedire che quella che dovrebbe essere una eccezione diventi una regola, che va a beneficio di personaggi capaci di riorganizzare Cosa Nostra e non rivolta a chi sta fuori dalla organizzazione”. Alfonso Sabella, l’ex pm che catturò decine di boss corleonesi latitanti, invoca una “norma salva-magistrati” che preveda una “competenza collegiale” e non monocratica, per non “personalizzare la decisione” e “diluire le responsabilità tra i magistrati e quindi proteggerli”. Per questo, considerata la necessità e urgenza della lotta alla mafia, chiediamo una legge -o meglio ancora un decreto legge -che impedisca ai capimafia e agli altri responsabili di stragi di truffare lo Stato, i magistrati e i cittadini onesti ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli. Una norma che il Parlamento dovrebbe approvare all’unanimità. Alla Polizia penitenziaria più poteri che ai direttori: è il carcere giallorosso di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 31 ottobre 2019 Riordino delle carriere. Un modello securitario nei Decreti legislativi in via di definitiva approvazione. Togliere poteri al direttore di carcere e trasferirli al comandante di Polizia penitenziaria: è questo il contenuto di un Decreto legislativo del governo vicino all’approvazione definitiva. Sembra un testo salviniano ma è invece una proposta di questa maggioranza che potrebbe minare alla radice quel delicato equilibrio tra istanze di risocializzazione e bisogno di sicurezza che vede nel direttore il suo garante. Era il 1990 quando fu smilitarizzato il corpo degli agenti di custodia e istituito quello di Polizia penitenziaria. Fu una decisione politica di grande rilievo che seguì, a soli nove anni distanza, la trasformazione della Polizia in corpo civile e non più militare dello Stato. Erano tempi, quelli, nei quali chi legiferava aveva un’idea chiara di società e di giustizia. Si era a pochi anni, tra l’altro, dall’approvazione della legge Gozzini che aveva fortemente spinto verso una maggior impatto delle misure alternative alla detenzione rispetto alla pena carceraria. Il modello organizzativo penitenziario scelto a cavallo tra gli anni 80 e 90 cercava di evitare scorciatoie securitarie e puntava su una gestione finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti. Per questo si previde che a capo di ogni istituto penitenziario ci dovesse essere un direttore sovraordinato gerarchicamente al comandante di Polizia penitenziaria. Il direttore era ed è garanzia del rispetto degli obiettivi costituzionali della pena. Quel modello sottintendeva un’idea di pena che non dovesse essere solo neutralizzazione fisica. Se in un carcere operasse un poliziotto con una qualifica superiore a quella del direttore sarebbe molto difficile imporre l’esecuzione di un ordine, quale ad esempio quello paradigmatico di non usare la forza fisica. Educatori e poliziotti, responsabili gli uni del trattamento rieducativo gli altri della sicurezza, sono ancora oggi parte di un organigramma più complesso che vede nel direttore il punto di riferimento decisivo e finale. Al direttore spetta l’amministrazione contabile, l’ultima parola sulla disciplina, la sicurezza e l’uso delle armi, l’organizzazione della vita interna, la selezione delle opportunità sociali, educative, culturali e sportive. Sono ora all’esame delle commissioni, prima dell’approvazione finale, i decreti che intendono stravolgere tale modello, sottraendo alla direzione del carcere sia la superiorità gerarchica, sia la decisione finale in ambito disciplinare che di uso delle armi. C’è un evidente intento di ritorno a un modello di pura custodia e di sola polizia, esito di una pressione vigorosa da parte delle organizzazioni sindacali autonome della Polizia penitenziaria, nonché del clima cupo in cui siamo immersi. Manca in questa riforma un’idea globale e moderna di gestione e management delle carceri, salvo il puro e semplice accodarsi alle istanze urlate di taluni sindacati. Da circa 25 anni non si assumono giovani direttori mentre ci si affida opportunisticamente a una progressione verticale di carriera a favore di coloro che indossano la divisa. Le seppur legittime aspirazioni professionali di chi è parte del Corpo di Polizia penitenziaria non devono stravolgere il senso costituzionale della pena. Non c’è coraggio in questa riforma di matrice neo-corporativa. C’è un’idea vecchia e rischiosa di pena che è implicitamente riaffermata come mera custodia e dunque pura sofferenza. Non si investe su figure professionali della contemporaneità, su una riforma in senso moderno dello staff. Non è stato finora sentito il parere degli stessi direttori, in gran parte fermamente contrari a tale degradazione del loro ruolo. Nella storia penitenziaria italiana ci sono attualmente, e ci sono stati in passato, direttori eccezionali che in solitudine si sono battuti per assicurare il rispetto della legalità penitenziaria. Direttori che vengono professionalmente bistrattati solo perché non sono numericamente superiori ai poliziotti, i quali nel tempo sono andati a comporre un esercito di quasi 40 mila agenti. Per questo noi di Antigone, insieme a quei direttori che hanno già avviato una protesta, ci appelliamo a quei parlamentari e ministri sensibili a un’idea non custodialistica della pena, affinché dicano un no vigoroso e costituzionale a questo ulteriore scivolamento di tipo securitario. Flick: “Il processo di riforma del sistema carcerario si è interrotto” agensir.it, 31 ottobre 2019 “Il peggior male della giustizia, oggi in Italia, ha le sue radici dentro il carcere”. Lo dice Giovanni Maria Flick, giurista, accademico, già ministro e presidente emerito della Corte Costituzionale, in un’intervista rilasciata a Vita Pastorale e pubblicata sul numero di novembre, anticipato al Sir. “Lo stato di salute della giustizia, anzi quello della società, lo si misura in primis da come funziona il carcere. Da come si rispetta in esso il principio della pari dignità sociale, che impedisce di utilizzare le persone come strumenti e deve garantire a tutti l’eguaglianza sostanziale. Il processo di riforma epocale del sistema carcerario si è interrotto”, osserva Flick. Che avverte: “Si sta chiudendo il canale di comunicazione tra la società e il mondo del carcere, faticosamente avviato con l’ordinamento giudiziario del 1975 e l’introduzione delle misure alternative al carcere del 1986”. La preoccupazione del costituzionalista è che “si interrompa il percorso sulla giustizia riparativa”. Per “umanizzare” il carcere, Flick pensa alle “misure alternative” che “vengono considerate solo uno strumento per decongestionare il carcere (e attenuare, quindi, la sua disumanità), e non come una componente essenziale del trattamento”. “Tutto questo è molto pericoloso. Così si rischia di far diventare il carcere l’unica pena, ma la Costituzione non prevede questo. Un altro interrogativo pesante nasce dalla convinzione che il carcere per essere sicuro dev’essere carcere duro”. Assenze a scuola dei figli di detenuti, il Miur emana una Circolare orizzontescuola.it, 31 ottobre 2019 Il Ministero dell’Istruzione ha emanato una circolare riguardante le assenze a scuola dei figli dei detenuti. Piena soddisfazione della Sottosegretaria, Lucia Azzolina. “Con la circolare emanata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulle assenze scolastiche dei figli delle persone detenute si compie un passo avanti importante a tutela di questi ragazzi” afferma Azzolina. “È una circolare che ho personalmente sollecitato, anche su segnalazione del mio collega parlamentare Raffaele Bruno, che conosce bene il tema ed è impegnato in un capillare tour nelle carceri alla scoperta delle buone pratiche e dei laboratori teatrali che saranno oggetto di una specifica mozione di cui sarà primo firmatario. Con la circolare appena emanata si guarda, finalmente anche alle esigenze degli alunni e degli studenti figli, o parenti entro il secondo grado, di persone detenute e alle assenze che sono costretti a fare per andare in visita dai loro cari” prosegue la Sottosegretaria. “Credo sia un bel gesto di attenzione e civiltà. Che evita un danno ulteriore a ragazzini che affrontano già evidenti difficoltà - sottolinea Azzolina - abbiamo invitato le scuole a porre particolare attenzione alla condizione di questi alunni e a inserire fra le possibili deroghe relative alle assenze anche queste visite, qualificandole come ‘ricongiungimento temporaneo e documentato al genitore sottoposto a misure di privazione della libertà personale” Bruno (M5S): passo avanti contro pregiudizi “Un gesto di grande cura nei confronti di chi, già alle prese con tante difficoltà famigliari e sociali, rischia di essere penalizzato anche in ambito scolastico”: così Raffaele Bruno, deputato del Movimento 5 Stelle, commenta la circolare del Miur con cui si invitano le scuole a considerare la particolare condizione che vivono i figli di persone detenute. “La scuola ha il dovere di stare al fianco e sostenere i soggetti più fragili e vulnerabili, che non devono mai sentirsi esclusi: per questo sono particolarmente soddisfatto del lavoro compiuto insieme al nostro sottosegretario al Miur, Lucia Azzolina”, prosegue Bruno. “Prevedendo tra le possibilità di deroga alle assenze dei ragazzi le visite in carcere dei loro familiari, diamo un messaggio culturale e sociale molto importante: e cioè che non devono sentirsi vittime, né lo Stato li considera tali. Il mio impegno per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e per diffondere sempre di più il concetto di carcere come luogo rieducativo ed evolutivo va avanti da tempo”, sottolinea il deputato del Movimento 5 Stelle. “Da mesi proseguono infatti sui territori gli appuntamenti del progetto, che mi vede in prima fila, ‘Gli ultimi saranno - Conforto dell’arte, vicinanza delle istituzioni’, che trova nell’arte un motivo e un momento di inclusione e di positiva espressione di sé delle persone ai margini della società. Il mio grazie va al personale delle strutture carcerarie che ci ospitano e agli artisti che rendono speciale ogni incontro. Prossimamente la Camera dei Deputati discuterà una mozione a mia prima firma proprio su questo tema. Le istituzioni possono e devono fare tanto per combattere pregiudizi ed emarginazione sociale: oggi abbiamo compiuto un altro piccolo ma grande passo in questa direzione. Teatro, sport e letteratura in carcere, per “emanciparsi” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 31 ottobre 2019 A Urbania XX Convegno internazionale promosso dalla rivista europea ‘Catarsi Teatri delle diversità’. Minoia: “Nel corso dell’evento sarà presentato il Network internazionale di teatro in carcere”. Torna col suo carico di esperienze, punti di vista e impegno sociale, il convegno internazionale promosso a Urbania dalla rivista europea ‘Catarsi Teatri delle Diversità’, in programma quest’anno per l’1, 2 e 3 novembre. L’edizione numero 20 dell’evento. che ospita ogni anno personalità arrivate nelle Marche da tutto il mondo per confrontarsi sui temi della detenzione, si intitola “Emanciparsi dalla subalternità: teatro, sport e letteratura in carcere” e richiama un concetto chiave del pensiero di Antonio Gramsci al quale è dedicato il Premio internazionale per il teatro in carcere istituito nella 2016 e giunto alla quarta edizione. “Teatro, sport e letteratura - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere - sono le tre parole chiave della performance inaugurale del Teatro universitario Aenigma con la compagnia della Casa circondariale di Pesaro “Lo Spacco”, dedicata al rugby e a La luna e i falò di Cesare Pavese. Molto ricco il programma di quest’anno che vede in evidenza anche il film “Fortezza”, presentato proprio in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma: realizzato con gli attori della Compagnia AdDentro, della Casa di reclusione di Civitavecchia, è ispirato a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. In calendario anche Prometeo incatenato, spettacolo di Balamòs Teatro con gli allievi del Centro teatrale universitario di Ferrara, libero adattamento dell’omonima tragedia di Eschilo”. La letteratura sarà valorizzata anche nella testimonianza di Jean Trounstine (premio Gramsci 2018) regista scrittrice e attivista per i diritti delle persone private della libertà personale, ideatrice con Robert P. Waxler a Boston, del programma ‘Changing life through literature’. Alla presenza di Tobias Biancone, direttore generale dell’International Theatre Institute (Iti-Unesco) sarà poi presentato il Network internazionale di teatro in carcere (International Network theatre in prison), lanciato nella scorsa edizione del convegno internazionale e promosso da ‘Catarsi teatri delle diversità’ in partnership con l’Iti Unesco. “Grazie al lavoro della nuova rivista internazionale di educazione e formazione “Cercare, carcere anagramma di” - prosegue Minoia - verrà data continuità al progetto “University scenes for theatre in prison”, avviato a Urbania nel 2017. Sarà inoltre presentato ufficialmente il programma della sesta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere ‘Destini incrociati’ promossa dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere in collaborazione con il ministero della Giustizia e il ministero per i Beni e le attività culturali, in programma quest’anno a Saluzzo il 12, 13 e 14 dicembre 2019”. Mascherin: prescrizione, prima vediamo gli effetti della riforma penale di Errico Novi Il Dubbio, 31 ottobre 2019 Il presidente Cnf a Bonafede: “Nuova norma sia rinviata”. Sono i diritti di difesa il filo conduttore. Ma per i due dossier indicati come priorità dall’avvocatura, patrocinio a spese dello Stato da una parte, prescrizione dall’altra, ci sono aspettative assai diverse. Con due distinti comunicati diffusi nella giornata di ieri, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin accoglie con soddisfazione “l’accelerazione della riforma” sul ddl Bonafede relativo al patrocinio per i meno abbienti, poi chiede allo stesso ministro della Giustizia di “attivare un monitoraggio sulla effettiva riduzione dei tempi del processo, non appena sarà introdotta la riforma penale” e di “congelare” nel frattempo “la norma sulla prescrizione”. Di fatto dal mondo forense arriva al legislatore, innanzitutto al governo, l’invito a occuparsi di giustizia con rigore scientifico. La legge sulla difesa a spese dello Stato “accoglie in buona parte le indicazioni del Cnf e di tutte le componenti della avvocatura”, ricorda Mascherin nella sua nota. Secondo la stessa logica, sulla prescrizione l’invito del Cnf è a intervenire a partire dalla realtà dei dati. La stessa Unione Camere penali, che contro la “nuova” prescrizione si è astenuta dalle udienze per tutta la scorsa settimana, non smette di sollecitare via Arenula ad ascoltare i rilievi avanzati, sulla norma approvata con la “spazza corrotti”, dalla “intera comunità dei giuristi italiani”, che con gli avvocati riunisce anche l’accademia. Mascherin dunque spiega di aver fatto pervenire a Bonafede “la richiesta di rinviare l’entrata in vigore della norma sulla prescrizione per il periodo necessario a effettuare un monitoraggio appropriato sulla effettiva riduzione dei tempi del processo, non appena sarà approvata la riforma penale, mantenendo inalterate le garanzie processuali per l’imputato”. Secondo il presidente del Cnf vanno prima di tutto verificati gli effetti della riforma, poi si potrà ragionare sui termini di estinzione dei reati. “Una volta terminato questo periodo di verifica, la politica potrà valutare a ragion veduta le modalità di applicazione, o meno, di un nuovo regime della prescrizione”, fa notare infatti Mascherin. Che ricorda ancora: “I tempi del processo penale dipendono da diversi aspetti solo in parte procedurali e in parte legati a investimenti in strutture e personale. È evidente che il tema della prescrizione e tutti gli aspetti critici sono indissolubilmente legati alla durata del processo”, fa notare il presidente del Cnf, nel senso che “più il giusto processo si svilupperà in tempi ragionevoli meno rilevante sarà il tema della prescrizione. La priorità è quindi evitare che un cittadino possa essere un ‘ imputato a vita’, cosa che sono certo tutti vogliono scongiurare. Per questo motivo”, spiega, “abbiamo ritenuto opportuno formulare al ministro della Giustizia la proposta di congelare la norma sulla prescrizione e di attivare, non appena sarà introdotta la riforma penale, un monitoraggio, per un periodo adeguato, sulla effettiva riduzione dei tempi del processo”. Una sollecitazione sulla quale andrà ora attesa la risposta del ministro. Intanto il Parlamento andrà avanti con l’esame del ddl sul patrocinio a spese dello Stato. Ieri Mascherin ha incontrato il vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio Franco Vazio, facente funzioni di presidente della commissione stessa, che ha anticipato l’esito dell’ufficio di presidenza tenuto poche ore dopo: è stato fissato per giovedì 7 novembre l’avvio delle audizioni sulla legge presentata proprio dal guardasigilli Bonafede a partire dalle indicazioni del Cnf. E sarà proprio il massimo organo istituzionale dell’avvocatura il primo interlocutore ad essere ascoltato dai deputati della Seconda commissione. Da Mascherin, che accoglie “come una buona notizia” la “accelerazione sulla riforma” comunicata da Vazio, arriva “l’auspicio che nel corso dell’iter parlamentare il testo venga ulteriormente migliorato”. Prospettiva del tutto realistica considerato lo spirito di collaborazione con l’avvocatura che ha segnato il provvedimento fin dalla sua elaborazione. Un deputato renziano spiega perché sulla prescrizione occorre reagire di Camillo D’Alessandro* Il Foglio, 31 ottobre 2019 Lo sciopero degli avvocati italiani pone le forze politiche e il legislatore davanti ad un bivio. Non si tratta di una automatica condivisione di tutto, non si tratta di aderire, ma di riconoscere che esiste una emergenza democratica nel paese, la più pericolosa: il populismo penale. La deriva giustizialista nutre l’idea di una legislazione penale orientata alla vendetta, allo scalpo da esibire, non alla garanzia di una eventuale pena proporzionata, se accertata, orientata alla presunzione di colpevolezza, non di innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, orientata alla drammatizzazione finale di una giustizia da esercitare contro “i nemici del popolo” (chi sono ?), ma non in nome del popolo. I populismi si nutrono di una semina irresponsabile di giustizialismo che invade, penetra, influenza l’esercizio del potere legislativo incapace di essere terzo, libero, dalla pressione del “popolo di Barabba”, la piazza, sempre più mediatica, virtuale, dove le pulsioni sostituiscono i diritti. Il riformismo non può avere paura, innanzitutto del confronto con chi legittimamente la pensa diversamente, ma che non significa adesione, il riformismo deve porsi il compito della contaminazione, a partire dalla prescrizione, non si può essere imputati per sempre. E per questo, proprio su questo tema, sulla barbarie relativa alla fine della prescrizione, il Parlamento non può stare solo a guardare ma deve agire per aprire una riflessione necessaria per arrivare ai correttivi rispetto all’impianto precedente. Il riformismo è innanzitutto il coraggio di cambiare, altrimenti è una finzione. Il riformismo è tale se capace di esprimere autonomia di giudizio, ovvero consapevolezza, soprattutto in questa fase della storia del paese che non è neutra, rispetto alla tenuta della impalcatura di suo Stato liberale, democratico, repubblicano fondato sulla separazione e sulla autonomia dei poteri. Non condivido, per nulla, il ripiegare, ogni volta, il tema del diritto penale e del giusto processo ad uno scontro tra politica e magistratura, tirato in ballo dalle tifoserie tra garantisti e giustiziasti, come se giudici e pubblici ministeri fossero schierati militarmente tra i secondi. Per fortuna non è così. Di certo fanno più rumore alcuni casi di spettacolarizzazione rispetto al lavoro quotidiano, riservato e rispettoso, del corpo della giustizia italiana. Il punto è un altro e va rovesciato. Il populismo penale non preme, con evidente successo, influenzandola, solo sulla politica, ma diviene strumento di pressione, di aspettativa punitiva a prescindere (perché nella narrazione populista la giustizia coincide solo con la condanna), anche e soprattutto sulla giurisdizione e, quindi, sul processo, sin dalle sue fase preliminari. Abbiamo assistito, spesso, ad attacchi indegni della piazza nei confronti di giudici rei di aver espresso una sentenza di assoluzione, perché l’aspettativa alimentata dal circuito della rabbia, rispetto a qualunque fatto socialmente rilevante, aveva espresso già la sua condanna, come se i processi penali, codice e procedura penale, dovessero risolvere conflitti sociali e non più accertare responsabilità individuali, come se il giudice dovesse ambire al consenso e non ad amministrare la giustizia. Ci troviamo di fronte ad un sovvertimento delle regole del diritto e ad un evidente salto di qualità: il populismo penale diviene ideologia da perseguire con conseguente iniziativa legislativa a tal punto da spingersi fino alle estreme conseguenze introducendo, nell’ordinamento, la possibilità di referendum propositivo sulla materia penale, che dovrebbe essere salvaguardata e garantita dagli impulsi, dagli istinti della paura e del risentimento. Io chiaramente ho votato contro. Il riformismo vero non può esitare nel porsi alla guida delle istanze che provengono, sia dalla magistratura, quanto dagli avvocati, nella difesa dell’idea costituzionale del processo penale, nella difesa del principio della proporzionalità tra offesa e difesa e che l’accertamento dei fatti sia dentro il processo, in un giusto processo. In tal senso non può essere omessa la necessità, non più rinviabile, della introduzione in Costituzione della fondamentale figura dell’avvocato. Di fronte a questa gigantesca questione il tema non può essere il calcolo della convenienza. Il nostro dovere è esercitare responsabilità. Lo spartiacque non è tra giustizialismo e garantismo, ma stare dentro e difendere i dettami costituzionali o fuori. Nessuna valutazione di opportunità può prevalere, ogni ripiego silente oggi sarà giudicato domani alla stregua di un codardo ritiro tematico, il più importante, quello dei diritti e dei doveri, quello delle libertà: quello della giustizia. *Deputato di Italia Viva Lite temeraria, Bonafede prova a salvare la riforma di Antonio Pitoni La Notizia, 31 ottobre 2019 Ordine e Sindacato dei giornalisti fanno muro sul ddl Di Nicola. Il testo non va modificato. La legge si è arenata in Senato. Oggi un vertice per trovare la quadra. Alla fine, per sbrogliare la matassa, è dovuto intervenire il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Che ha convocato per oggi, a Via Arenula, una riunione per sbloccare l’iter del ddl sulle liti temerarie contro i giornalisti, a prima firma del grillino Primo Di Nicola, incagliatosi in commissione al Senato proprio quando il voto per il passaggio del provvedimento all’esame dell’Aula sembrava solo una formalità. E tutto a causa di alcuni rilievi sollevati all’ultimo momento proprio dal ministero della Giustizia, nella persona del sottosegretario Pd Andrea Giorgis. Sentito martedì da La Notizia, ha assicurato che il rinvio del voto in commissione si è reso necessario per “eliminare refusi” dal disegno di legge e inserirlo eventualmente in un testo più ampio relativo a tutte le liti temerarie, non solo quelle contro i giornalisti. “Solo per rendere il ddl più efficace - ha aggiunto Giorgis -. Non si può ad esempio parlare giuridicamente di malafede, ma solo di dolo o colpa grave”. Una versione che, però, non ha, convinto per niente Di Nicola, che sarà presente alla riunione di oggi al ministero insieme ai capigruppo della commissione Giustizia del Senato: “Ho presentato un ddl con un solo articolo, proprio per evitare che finisse sul binario morto come accaduto negli ultimi 20 anni - ha replicato al sottosegretario. Giorgis parli chiaro e dica se vuole o no questa riforma”. Una posizione peraltro condivisa anche dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, che sta seguendo da vicino l’iter della legge. “La lite temeraria è una fattispecie tipica del mondo dell’informazione - spiega, sentito da La Notizia -. Equipararla ad altri ambiti professionali è sbagliato, perché, quando utilizzata contro un giornalista, non solo si lede l’articolo 21 della Costituzione e il diritto dei cittadini ad essere informati, ma mira ad interrompere - intimidendolo - la doverosa attività del cronista di informare. Per questo ritengo che il ddl Di Nicola non debba essere toccato - conclude. Se si mette troppa carne sul fuoco, magari allargandone l’ambito di applicazione ad altre fattispecie, si rischia un altro nulla di fatto, l’ennesimo dopo i tanti già registrati negli ultimi vent’anni”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Federazione nazionale della stampa. “La battuta d’arresto subita dal ddl Di Nicola sul contrasto alle querele bavaglio non lascia presagire nulla di buono”, affermano Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, rispettivamente segretario generale e presidente del sindacato dei giornalisti. “Vorremmo sbagliarci e ci auguriamo di essere smentiti al più presto, ma il tentativo di emendare la proposta nella parte in cui prevede la condanna del querelante ad una pena pecuniaria non inferiore alla metà del risarcimento richiesto al giornalista nasconde il tentativo, trasversale a tutte le forze politiche, di eliminare - concludono i vertici della Fnsi - qualsiasi elemento di certezza nella determinazione della sanzione per introdurre una discrezionalità assoluta da parte del giudice che non è detto possa sempre tradursi in condanne esemplari”. Depistaggi su Cucchi. “Ministri e generali dicano la verità in aula” di Carlo Bonini La Repubblica, 31 ottobre 2019 La famiglia presenta la lista dei testimoni per il processo agli ufficiali dell’Arma: da Gallitelli, Del Sette e Nistri a Trenta e La Russa, ecco chi deporrà. Non è ancora cominciato la prima udienza sarà il 12 novembre - ma il processo a otto ufficiali dei carabinieri per il depistaggio delle indagini sull’omicidio di Stefano Cucchi promette di illuminare la storia non scritta dell’Arma di questi ultimi dieci anni. E, con lei, il conflitto sordo, senza quartiere, mai neppure dissimulato tra i due comandanti generali che si sono avvicendati tra l’omicidio di Stefano (2009) e il crollo del muro di omertà (2018). Un conflitto che ha spaccato lo Stato maggiore, indotto doppie fedeltà, e oggettivamente contribuito a un contesto refrattario alla verità. Parliamo del generale Leonardo Gallitelli (comandante dal giugno del 2009 al gennaio del 2015) e del generale Tullio Del Sette (comandante dal gennaio del 2015 al gennaio del 2018). I nomi di entrambi compaiono infatti nella lista dei testimoni di cui viene chiesta la deposizione in aula che la famiglia Cucchi ha depositato ieri nella cancelleria della settima sezione del Tribunale di Roma, di fronte al giudice - Federico Bona Galvagno - di cui, nei giorni scorsi ha per altro chiesto, insieme a tutte le parti civili private, l’astensione per “gravi ragioni di convenienza”. Vale a dire il rapporto di consuetudine e amicizia che lo legherebbe al generale Del Sette e che lo ha visto ripetutamente partecipare, nel tempo, a convegni e manifestazioni organizzate dal Comando generale. In un’apertura di gioco volutamente anticipata e in qualche modo funzionale alla ricerca (non facile) di un giudice sufficientemente sereno e dalle spalle larghe in grado di sostenere la pressione che il processo inevitabilmente produrrà, la famiglia Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo fissano dunque il contesto di un giudizio che, arrivati a questo punto, rischia di contare persino di più di quello che andrà a sentenza il 14 novembre per le responsabilità dell’omicidio di Stefano. Se è vero infatti - come il pm Giovanni Musarò ha ripetuto più volte - che Stefano è stato ucciso una seconda volta dalle manipolazioni dell’intera catena gerarchica dei carabinieri di Roma nel 2009, e una terza volta dalle omissioni sapienti degli ufficiali dell’Arma che, tra il 2015 e il 2016, avrebbero dovuto dare impulso definitivo alla ricerca di una verità che aveva allora cominciato finalmente a palesarsi, è altrettanto vero che dieci anni di depistaggi non possono essere spiegati come frutto delle mosse infedeli di un generale di brigata, un colonnello, un capitano, un paio di maggiori e qualche maresciallo. Il processo per depistaggio dovrà infatti rispondere a una domanda cruciale. Come è stato possibile che, in dieci anni, in due diverse occasioni, ufficiali dell’Arma si attivarono per occultare la verità nell’apparente inconsapevolezza del Comando generale, del suo Stato maggiore, dei comandanti che nel tempo si sono avvicendati a Roma. Per essere ancora più chiari: obbligato per legge alla verità, l’ex comandante Gallitelli, che in dieci anni si è sistematicamente sottratto a qualsiasi interlocuzione o domanda sul caso Cucchi, dovrà finalmente spiegare in che modo gestì la morte di Stefano. Quale fu la sua interlocuzione con l’allora comandante provinciale di Roma e suo delfino, il generale Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata), l’ufficiale da cui gerarchicamente dipendeva l’attuale generale e imputato Alessandro Casarsa. E quale fu l’interlocuzione del Comando generale con l’allora ministro della difesa Ignazio La Russa (anche lui nella lista testi insieme alla ex ministra Trenta). Allo stesso modo, il generale Del Sette dovrà chiarire per quali ragioni, sotto i suoi occhi e quelli dell’ufficiale che aveva voluto al comando di Roma, Salvatore Luongo, la ricerca della verità venne nuovamente ostacolata. E perché né lui, né il suo predecessore, trovarono mai il coraggio di rompere l’omertà con un gesto trasparente, come quello del nuovo Comandante generale Giovanni Nistri che nel processo ha costituito l’Arma parte civile e, anche lui, indicato ora come testimone. Inumana detenzione, prescrizione decennale dell’azione risarcitoria. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2019 Responsabilità delle Pa - Detenzione inumana - Risarcimento danni - Natura - Indennitaria e non risarcitoria - Prescrizione decennale - Configurabilità - Decadenza dell’azione ex art. 2 de DL n. 92 del 2014 - Sussiste. La domanda di risarcimento danni per inumana detenzione ha natura indennitaria e non risarcitoria pertanto il termine di prescrizione per la domanda non può essere quello quinquennale ex articolo 2947 cod. civ. Il Dl 92 del 2014 ha creato un rimedio nuovo per tale fattispecie, di natura prettamente indennitaria, applicabile anche retroattivamente a situazione pregresse, e che per questo è soggetto a prescrizione decennale. Tuttavia non è immune da decadenza di cui all’art. 2 dello Dl citato qualora l’azione non sia stata esercitata entro i 6 mesi dalla sua entrata in vigore ovvero 28 giugno 2014. • Corte di cassazione, sezione VI civile, ordinanza 22 ottobre 2019 n. 26974. Cedu - Inumana detenzione - Pregiudizio - Rimedio pecuniario previsto dall’art. 35-ter l. n. 354 del 1975 - Prescrizione decennale. Il diritto a una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della Cedu, previsto dall’art. 35-ter, comma 3, della legge n. 354 del 1975, come introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 92 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria. • Corte di cassazione, sezione III civile, ordinanza 29 agosto 2019 n. 21789. Responsabilità e risarcimento - Trattamento inumano - Detenzione in condizioni non conformi all’art. 3 Cedu - Pregiudizio - Rimedio pecuniario previsto dall’art. 35 ter, l. n. 354 del 1975 - Prescrizione decennale - Termine - Decorrenza. Il diritto a una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU, previsto dall’art. 35 ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, come introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 92 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 117 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 del d.l. n. 92 del 2014, il termine comincia a decorrere solo da tale data. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 8 maggio 2018 n. 11018. Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - Processo equo - Termine ragionevole - In genere - Equa riparazione - Proponibilità dell’azione in pendenza del processo - Compatibilità tra decorrenza del termine di prescrizione e pendenza del termine di decadenza - Configurabilità - Esclusione - Fondamento. Il diritto a una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione per condizioni non conformi all’art. 3 CEDU, previsto dall’art. 35-ter, comma 3, ord. pen. si prescrive in dieci anni che decorrono dal compimento di ciascun giorno di detenzione inumana. Coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell’entrata in vigore della nuova normativa introdotta dal DL n. 92 del 2014, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 dello stesso decreto, hanno anch’essi diritto all’indennizzo ex art. 35-ter, terzo comma, ord. pen. il cui termine di prescrizione in questo caso non opera prima del 28 maggio 2014, data di entrata in vigore del decreto legge. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 2 ottobre 2012 n. 16783. Niente autoriciclaggio con la bancarotta per distrazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 44198/2019. Non commette il reato di autoriciclaggio l’amministratore che distrae l’azienda che apparteneva a una società fallita, reimpiegandola nelle attività economiche di un’altra costituita ad hoc. La Cassazione (sentenza 44198) respinge il ricorso del Pm, che contestava l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame aveva avallato la scelta del Gip. Un verdetto che escludeva il reato, per l’assenza di una concreta idoneità dissimulatoria, e dunque il sequestro preventivo di oltre 9 milioni di euro nei confronti del manager e della Srl per la responsabilità degli enti nel reato di autoriciclaggio, come previsto dal Dlgs 231/2001 (articolo 25-octies). Secondo la pubblica accusa la decisione era il risultato di una lettura sbagliata della norma sull’autoriciclaggio, che, nell’utilizzare la frase “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”, non farebbe riferimento a un connotato esclusivo della condotta, ma “al risultato complessivo dell’azione, che deriva dal combinato tra condotta di autoriciclaggio in senso stretto e delitto presupposto”. E se quest’ultimo è dunque idoneo a “nascondere” la provenienza delittuosa del bene, non servono altri accorgimenti dissimulatori. Nello specifico la distrazione era stata messa in atto con un contratto di affitto dell’ azienda simulato, in favore di una nuova società formalmente amministrata e partecipata dai familiari degli esponenti della fallita. Un meccanismo finalizzato a dare un’apparenza di legalità al negozio e dunque a far sembrare l’azienda di provenienza lecita. Il contratto poi, pur concluso prima dell’entrata in vigore della norma sull’autoriciclaggio, aveva avuto conseguenze nel tempo. Per la Cassazione però la lettura del Pm presta il fianco a due critiche. La conclusione si traduce, infatti, in una non consentita duplicazione del reato presupposto, che non può far scattare al tempo stesso la bancarotta per distrazione e l’autoriciclaggio. Ma, anche ammettendo la correttezza della tesi del Pm, questa sarebbe comunque in contrasto con l’articolo 2 del Codice penale che impedisce di punire qualcuno per un reato non previsto dalla legge del tempo. Il riciclaggio è, infatti, un reato istantaneo, nello specifico tutte le operazioni di impiego dell’azienda di costruzione ed appalti pubblici si erano consumate prima dell’introduzione dell’articolo 648-ter, mentre era ininfluente la durata dei contratti ottenuti grazie al trasferimento fraudolento. Anche ipotizzando un concorso di reati tra bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio - per il bene sottratto ai creditori e reimmesso sul mercato, riutilizzando l’oggetto del reato presupposto - sarebbe comunque necessario che vendite e cessioni fossero successive all’operatività della norma. Detto questo, la Cassazione chiarisce che per configurare l’autoriciclaggio è necessaria una particolare capacità dissimulatoria, tale da dimostrare che l’autore abbia effettivamente voluto occultare l’origine illecita dei beni. Condizione che, nello specifico, non sembra soddisfatta dalla sola distrazione e dal successivo contratto fittizio, senza ulteriori “accorgimenti”. Campania. Il Garante dei detenuti: “I fondi per le carceri ci sono ma non si spendono” di Rossella Grasso Il Riformista, 31 ottobre 2019 “Il carcere come azienda ha fallito”. Ne è convinto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. Quotidianamente visita le carceri della regione, parla con i detenuti e le loro famiglie e con il personale penitenziario e fa un quadro della situazione. “Il primo dato che emerge con forza è quello del sovraffollamento - dice - celle da 2 diventano da 4, da 3 diventano da 6 e in alcuni casi anche da 9 con i letti a castello. A una persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà, non alla dignità”. Ciambriello riporta una situazione allarmante con celle senza doccia, spazi troppo stretti con il cucinino troppo vicino al bagno. “A Carinola il bagno è a vista - dice - Lì erano sezioni per il 41bis, c’erano i terroristi e l’alta sicurezza, quindi dall’esterno bisognava poter vedere il detenuto anche quando andava in bagno ma non penso sia una questione di sicurezza”. Poi c’è la questione della sanità. Interminabili liste d’attesa per visite specialistiche e operazioni chirurgiche e mancano i farmaci. “Non ci sono nemmeno psicologi e psichiatri - denuncia Ciambriello - Eppure questa popolazione che si aggira intorno alle 7.870 unità ha problemi psicologici e psichiatrici. Sono persone che magari già in ingresso avevano il sostegno del Dipartimento di Salute Mentale, ma in carcere gli viene negato”. Eppure i detenuti con disagio psichico ci sono. Tra il 2015 e il 2016 sono infatti stati chiusi gli ospedali psichiatrici di Aversa e Secondigliano dove c’erano più di 400 persone ristrette. “C’è questa innovazione delle R.E.M.S. residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in un sistema più sanitario - continua il garante dei detenuti - ma sono appena 50 i posti. Dove sono finiti gli altri 350? Mentre stiamo parlando nelle carceri campane ci sono almeno 13 detenuti che dovrebbero stare in una R.E.M.S. e poiché non ci sono posti devono stare in carcere “. Ciambriello racconta che la metà dei detenuti in Campania sono in attesa di giudizio e molti di questi escono innocenti senza aver fatto nemmeno il processo di primo grado. “Negli ultimi 15 anni 16.000 italiani hanno ricevuto un risarcimento in denaro per ingiusta detenzione, l’anno scorso tra Napoli e provincia è successo a 410 persone”. Molti di loro, una volta tornati in libertà, non vogliono più avere a che fare con la giustizia e i risarcimenti non li chiedono nemmeno. “I reati gravissimi in Italia tra 61.000 detenuti sono appena 5.100, sono quelli che stanno dentro per reati connessi alla malavita organizzata, omicidio e altro. In Campania non arrivano nemmeno a 1.000. A uno che è condannato a un anno di carcere perché non assegnare una pena alternativa? Invece no, lo mandiamo in carcere, ‘l’università del crimine’ dove ci costa 159 euro al giorno”. Il problema del sovraffollamento non insiste solo sulla Campania ma su tutta Italia che è in cima alla classifica europea per il sovraffollamento. In Campania c’è il 127% di detenuti in più, solo a Poggioreale che ha una capienza stimata di 1.633 posti, c’è una presenza di 2.364 detenuti. Da anni si parla di costruire un nuovo carcere, ristrutturare padiglioni, sono arrivati anche fondi dal ministero per le infrastrutture, ma i lavori non iniziano mai. “Un anno e mezzo fa una società francese ha vinto la possibilità di costruire un nuovo carcere a Nola - dice Ciambriello - Un architetto ha anche mostrato un progetto su come dovrebbe essere, ma poi nessuno ci ha messo mano. Tre anni fa il ministro per le infrastrutture Delrio ha passato 12 milioni di euro al provveditorato regionale per le opere pubbliche per far abbattere e rimodernare 4 padiglioni di Poggioreale, ma di questi soldi non è stato speso un euro. C’è forse una volontà politica a creare dei casi, delle rivolte, dei mostri?”. A tutte queste problematiche si affianca anche la carenza di personale. Ciambriello dice che in tutta la Campania ci sono 69 educatori e 15 psicologi che non bastano per seguire adeguatamente tutta la popolazione carceraria. “Da qui i casi di autolesionismo, sciopero della fame, l’anno scorso 11 suicidi, 77 tentativi di suicidio. Quest’anno già siamo a 6 suicidi di cui 3 a Poggioreale, poi ad Aversa, Secondigliano e nel carcere di Benevento”. A questo si aggiunge che nel 78% dei casi chi esce dal carcere ci torna reiterando i reati. “Si salva solo chi in carcere incontra un cappellano, un educatore o un buon corso di formazione che gli può dare un futuro. Lo studio e la cultura liberano”. Lo testimonia il successo di iscrizioni, più di 60, al polo universitario che la Federico II ha aperto a Secondigliano. La drammatica situazione delle carceri campane riguarda per lo più quelli maschili. Per le donne e i minori la situazione è un po’ diversa. Sono circa 400 le donne recluse. “A Pozzuoli ci sono celle da 10 o 12 persone con un solo bagno. Poi c’è la massima sicurezza a Santa Maria Capua Vetere e sezioni femminili a Benevento, Avellino e Salerno dove l’anno scorso c’è stato il primo caso di una donna che si è suicidata. Diciamo che queste donne sono lì in sostituzione di uomini. La recidiva per loro non arriva nemmeno al 20%. Questo perché vivono di più la responsabilità genitoriale e affettiva con i figli e probabilmente se si è fatta fregare una volta non lo farà più. Sui minori il dato è un po’ più allarmante. Tra Nisida e Airola non arriviamo a 80 persone. Il problema è un altro: fuori da queste carceri c’è scritto ‘Istituto penale per minorenni’, ma tra le due strutture si contano sulle dita quelli che hanno tra i 14 e i 18 anni”. Fino a 25 anni è possibile scontare in una struttura minorile la pena per un reato commesso da minorenne. E così i 2/3 della popolazione carceraria minorile ha più di 18 anni. Per i minori Ciambriello auspica che si crei una progettualità per seguire i minori a rischio e prevenire il fatto che commettano i reati. Poi c’è bisogno anche di seguirli dopo la misura detentiva per evitare che in carcere ci tornino. E si scaglia contro quei politici che affermano che “bisogna gettare la chiave”. “L’anagramma di carcere è cercare. I politici che fanno queste affermazioni dovrebbero essere denunciati con un’aggravante. Dobbiamo tutti rispettare la Costituzione”. La Spezia. Detenuto 30enne muore in carcere, disposta l’autopsia La Nazione, 31 ottobre 2019 Secondo gli inquirenti si tratterebbe di morte naturale. La Procura della Spezia ha ordinato l’autopsia. Un detenuto algerino trentenne è stato trovato privo di vita all’interno della sua cella nel penitenziario di Villa Andreino alla Spezia. Il cadavere è stato trovato questa mattina: Secondo i primi accertamenti svolti dal medico legale si tratterebbe di morte naturale. La Procura della Spezia ha comunque ordinato l’autopsia per comprendere le cause del decesso: l’esame si svolgerà domani. Bari. Nel carcere è emergenza continua, ci sono 453 detenuti e solo 299 posti di Francesca Di Tommaso Gazzetta del Mezzogiorno, 31 ottobre 2019 “Ad agosto siamo arrivati ad essere in 25 in un’unica cella. C’erano i “paglioni”, dove avremmo dovuto dormire, tutti in fila per terra. Per andare al bagno dovevamo stare attenti a non calpestarci a vicenda”. Siamo nel 2011, ma la storia si ripete ciclicamente. Il commento è di un detenuto del carcere circondariale di Bari, riportato in un video dell’associazione Antigone, l’Onlus che svolge attività di promozione e tutela dei diritti delle persone private della libertà. L’Osservatorio di Antigone riferisce che, al 30 settembre 2019, i detenuti presenti nel carcere sono 453, su una capienza di 299 posti. Il tasso di affollamento è dunque del 147,8%. “Sono costretti in spazi angusti, in celle con 3 o 6 posti letto a castello, con intuibile spazio tra le tavole adibite al riposo. Per essere chiari, è come vivere in una cuccetta di seconda classe”. La conferma delle difficoltà oggettive nel “Francesco Rucci” arriva dal presidente della Camera penale, Guglielmo Starace, in visita lo scorso agosto nella casa circondariale. “La visita ci ha dato la plastica rappresentazione della condizione in cui le persone devono espiare la sanzione penale e, ciò che è più grave, della condizione in cui alcune persone sono costrette ad attendere di essere giudicate” spiega Starace. “Ci sono soltanto 237 appartenenti alla Polizia penitenziaria (di cui 52 addetti al Nucleo traduzioni, i trasferimenti) per 428 detenuti. La struttura sanitaria ospita diversi detenuti affetti dalle più svariate patologie, comprese quelle psichiatriche, ed ha un personale medico ed infermieristico che si impegna quotidianamente per la tutela della loro salute e per la ricerca di finanziamenti per macchinari e dotazioni indispensabili per diagnosi e cure - continua Starace. Abbiamo incontrato persone spesso in difficili condizioni di salute e in una situazione umana che è arduo definire civile. Un anziano con la bombola di ossigeno ci ha detto di dover espiare ancora due anni e che, per ragioni di salute, non può usufruire nemmeno delle ore d’aria”. Nel 2018 i casi di autolesionismo sono stati 103; 67 gli scioperi della fame. “Sono lì, tutti insieme, aggrappati ad una speranza spesso irrazionale di tornare nel mondo che gira. Chiedono di parlare con la Direttrice, con il dirigente medico, con gli educatori, con i familiari, con gli avvocati, con chiunque rappresenti un gancio con il mondo che c’è fuori”. Nessun dubbio sull’impegno e il lavoro di chi segue la casa circondariale. “La direttrice, Valeria Pirè, il dirigente medico, Nicola Suonino, erano lì ad accoglierci pur essendo in ferie e sono stati ospitali e disponibili a rispondere a tutte le nostre domande - racconta Starace - così come tutto il personale, in divisa e non, che ci ha accompagnato per il percorso. Il personale s’impegna con tutte le sue forze ma le nozze con i fichi secchi non si possono fare”. Problemi strutturali, quelli di un istituto penitenziario complesso, di primo livello ma con diversi circuiti penitenziari. E dove sono ospitati detenuti appartenenti a clan contrapposti, motivo per cui esistono due diverse sezioni per allocarli, sia per l’Alta che per la Media Sicurezza. “Gli spazi esterni dedicati alle attività comuni sono angusti e pericolosi ove si svolgano attività di carattere sportivo - racconta Starace. Le sale dedicate ai colloqui con i familiari non sono dotate di condizionatori d’aria e l’aria pare irrespirabile. La detenzione può essere anche rieducazione, o addirittura educazione, ma per questo occorre che lo Stato impegni risorse umane e materiali per consentire alla società di ritrovare persone migliori rispetto al momento in cui hanno perso la libertà”. Bologna. Detenuti “trattenuti” in infermeria per mancanza di posti disponibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2019 La denuncia del Segretario provinciale del Sinappe. Cresce il sovraffollamento al carcere “La Dozza” di Bologna, in particolare alcune sezioni detentive, come il Reparto “Infermeria”, che è a sua volta composto da quattro segmenti, dove sono sistemati detenuti appartenenti ai diversi circuiti penitenziari: “Nuovi giunti”, segmento “H”, sezione “Degenza” e “Grande sorveglianza”. A denunciarlo è Vitaliano Cinquegrana, il segretario provinciale del sindacato della polizia penitenziaria Sinappe. Ma il problema grava molto alla sezione “Infermeria”, dove stazionano detenuti per troppo tempo, e comunque oltre il tempo necessario ad effettuare gli screening sanitari, proprio per la mancanza di posti disponibili nelle sezioni detentive giudiziarie e reclusione. Il Sinappe si rivolge direttamente alla direttrice del carcere e per conoscenza al provveditorato regionale, all’osservatorio carcere della camera penale di Bologna e al garante locale Antonio Aniello. Quest’ultimo, oggi pomeriggio, presenterà la sua relazione annuale riguardante proprio il carcere in questione. Tra le varie criticità evidenziate, una è quella strutturale. Nel rapporto si legge che “sono notorie le criticità strutturali per quanto riguarda il profilo architettonico, anche risultando decisiva la congruità degli spazi per la piena attuazione del trattamento penitenziario e per i contenuti di umanizzazione della pena” e fa l’esempio dell’accentuata concezione claustrofilica dell’organizzazione degli spazi detentivi, alla carente presenza di ampi spazi dedicati alle attività trattamentali e alla mancanza di spazi dedicati ai refettori. A questa criticità di base, va ad aggiungersi quella connessa “al logorio impiantistico e strutturale di un complesso penitenziario - si legge sempre nella relazione del garante Aniello - anche mal costruito che necessita di un programma di recupero per quanto riguarda in particolare il vetusto impianto idraulico soggetto a non infrequenti problemi alle tubature”. Quindi, d’inverno, accade che le celle non si riscaldano. Il Garante poi fa riferimento al trend in crescita delle presenze in carcere. La capienza regolamentare dell’istituto è fissata a 500 a fronte di 855 presenze (oggi aumentate ulteriormente), configurandosi una stabile condizione di sovraffollamento che comporta comunque un abbassamento complessivo della qualità della vita all’interno dell’istituto. Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, nonostante permangono singole interpretazioni del ruolo in chiave banalmente custodiale, il garante sottolinea che “si percepisce anche un diverso approccio culturale alla questione detentiva e al proprio lavoro, nella consapevolezza che possa esistere un’intima connessione fra la congruità delle condizioni detentive e dei percorsi trattamentali e le condizioni di lavoro degli operatori penitenziari”. Lodi. Apre lo sportello del Garante regionale per i detenuti di Laura De Benedetti Il Giorno, 31 ottobre 2019 Potranno utilizzarlo per ottenere cure sanitarie, assistenza amministrativa e fiscale. Appello del difensore civico alla sindaca Casanova. “Chi è in carcere non perde i diritti civili: aprendo lo sportello del Garante dei detenuti anche nella Casa circondariale di Lodi, potremo aiutare le persone private della libertà ad ottenere cure sanitarie, svolgere pratiche amministrative e fiscali, ottenere i contributi spettanti. Le forze, però, sono poche: mi appello alla sindaca perché, tramite bando, istituisca il garante comunale dei detenuti”. Lo ha detto ieri Carlo Lio, difensore civico regionale e, come tale, anche garante dei circa 8600 detenuti attuali nei 17 istituti di pena lombardi, sovraffollati con una media del +30%: dopo aver istituito lo sportello nelle maggiori carceri, tra cui le 3 del Pavese, ieri ha inaugurato il servizio nella casa circondariale di via Cagnola, che mancava ancora all’appello insieme a Bergamo, Varese (che saranno attivati nelle prossime settimane), Cremona, Mantova e Sondrio. “Saremo a Lodi una volta al mese: testeremo un ufficio entro Natale - ha spiegato Lio -. I detenuti possono fare richiesta di incontro e potranno avere un colloquio non sorvegliato né audito. Ma il nostro ufficio è composto solo da 3 persone. Ho scritto alla sindaca perché emetta velocemente un bando di avviso pubblico per istituire il Garante comunale, che in genere è un componente del mondo dell’associazionismo che riceve un rimborso spese o un gettone. Ci aiuterebbe a stare vicino alle persone più fragili, quelle che non hanno un grande avvocato alle spalle”. Il progetto, partito l’anno scorso dal carcere di Opera e che vede la collaborazione di Luigi Pagano, già Provveditore delle carceri lombarde, presente ieri a Lodi, ha fatto emergere molti bisogni: “Le terapie mediche, in carcere, non sempre sono velocissime - spiega Loi -. Ma c’è anche chi chiede, oltre al trasferimento vicino ai familiari o in carceri più ambiti, come Bollate, dove si lavora, anche solo come rinnovare la patente per quando ottiene di effettuare lavori esterni, oppure contributi previdenziali o di disoccupazione maturati, o ancora un aiuto amministrativo per pagare cartelle esattoriali in scadenza”. “Non abbiamo molti spazi, noi stessi operatori condividiamo gli ambienti, ma comunque siamo entusiasti e attrezzeremo una sala per gli incontri col garante - ha rimarcato Caterina Zurlo, che dirige l’istituto lodigiano da febbraio. Qui, nel carcere di Lodi, che spicca per umanità, favorita dagli ambiti ristretti, abbiamo ad oggi 79 detenuti su una capienza massima di 90: più della metà sono tossicodipendenti, metà stranieri e quasi la metà condannati definitivamente anche se qui dovrebbero starci solo persone in attesa di giudizio. Gli agenti sono 42 su 45 previsti: ci ha aiutato molto l’arrivo di 7 agenti ad agosto. Una decina di detenuti sta seguendo un corso per imbianchino: vorrei, come già nel carcere di Piacenza, da cui provengo, colorare alcuni spazi, anche col supporto di artisti esterni”. Dopo l’evasione “per amore”, nel maggio 2018, di un giovane che era riuscito, nell’ora d’aria, a scavalcare il muro di cinta e sparire per un paio di giorni, Zurlo assicura che “le misure di sicurezza sono state rafforzate, i procedimenti sono ancora in corso”. “A Lodi si sta anche predisponendo un protocollo tra le istituzioni per favorire l’inclusione sociale delle persone con problemi di giustizia - ha aggiunto Grazia Grena di Los Carcere, una delle associazioni che aiutano detenuti e famiglie dentro e fuori dall’istituto. Noi seguiamo un centinaio di persone tra carcere, arresti domiciliari, pene alternative: i problemi maggiori riguardano chi esce ed è solo rispetto a chi ha seguito un percorso graduale di fuoriuscita con misure alternative. Col protocollo, ciò che oggi viene portato avanti con dei singoli progetti, diverrebbe un servizio”. Crotone. Visita del Garante regionale dei detenuti di Aurelia Parente noidicalabria.it, 31 ottobre 2019 Ha già visitato nove istituti di detenzione a fronte dei dodici presenti in Calabria il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale Agostino Siviglia, a Crotone oggi per la sua prima visita alla casa circondariale della città e al Cara di Sant’Anna. “La situazione nelle carceri calabresi è estremamente complessa - ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa che si è svolta nella sala Giunta del Comune - perché è complesso il mondo dell’esecuzione penale. Ci sono problematiche per quello che riguarda l’assistenza sanitaria, l’effettività del trattamento rieducativo della pena e la possibilità del reinserimento socio lavorativo una volta scontata la pena detentiva”. La situazione dell’istituto penitenziario di Crotone non presenta problemi diversi da quelli che si registrano nel resto della Calabria: “C’è carenza di personale di polizia penitenziaria, difficoltà nel potere svolgere lavori volontari e gratuiti a favore della collettività da parte dei detenuti, nell’ottica di una giustizia ripartiva, e questo è anche molto significativo sia per una revisione critica del proprio comportamento, sia per restituire alla società in una logica di riparazione. Queste - continua l’avvocato Siviglia - sono problematiche che vanno affrontate e risolte, ma è fondamentale l’apporto della comunità esterna, quindi coinvolgere le associazioni di categoria e gli imprenditori, che sulla scorta dell’esempio di Callipo a Vibo, che da quattro anni assume detenuti, possano assumere persone che si trovano dentro il carcere, proprio per consentire a questi di professionalizzarsi, di avere una possibilità di reinserimento sociale e allo stesso tempo è vantaggioso perché ci sono abbattimenti, come sgravi fiscali e contributivi per chi assume detenuti o ex detenuti”. Il garante regionale è competente anche per i luoghi di privazione e limitazione della libertà personale, come i centri di prima accoglienza per rifugiati, quindi “è mia intenzione avere uno screening complessivo di tutti gli ambiti e i luoghi di isolamento e privazione della libertà e poi di coinvolgere direttamente tutti gli stakeholder, i portatori di interessi comuni e le istituzioni e amministrazioni interessate, in modo da poter intervenire in maniera coesa e trasversale”. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Federico Ferraro, e l’assessore comunale ai Servizi sociali, Ines Mercurio. Foggia. Detenuti e riabilitazione, c’è solo una strada: il lavoro (anche in carcere) foggiacittaaperta.it, 31 ottobre 2019 Il lavoro come strumento di riabilitazione in rapporto alla comunità di riferimento; le difficoltà nel definire i percorsi di inclusione sociale e il valore della promozione della cultura della legalità. Questi alcuni dei temi affrontati nel corso del workshop “Il lavoro ri-abilita. La comunità ri-accoglie? Germogli di opportunità in Capitanata per soggetti in conflitto con la legge”, organizzato dall’Uiepe, Ufficio locale di Esecuzione Penale esterna di Foggia, in collaborazione con il Csv Foggia e con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. Un’iniziativa importante e formativa che ha avuto luogo nella giornata di ieri, 29 ottobre, e che ha posto l’attenzione sui modelli di ri-abilitazione dei progetti “Riscatto Sociale” di Aranea e “Ciascuno cresce solo se sognato” di Pietra di Scarto. Dopo i saluti di Roberto Lavanna, membro del CdA della Fondazione, è intervenuto Pietro Fragasso, presidente della coop. Pietra di Scarto di Cerignola, che ha raccontato, anche attraverso la testimonianza di Franco, Gianluca e Giovanni, il progetto di filiera equa e solidale del pomodoro. A seguire, Vincenzo Pacentra del Consorzio Aranea, insieme con Loredana, Giovanni e Oronzo, ha illustrato il percorso di crescita di “Riscatti sociali - lotterai, l´otterrai, lo terrai”. Al centro del dibattito, la speranza per i soggetti che sono entrati in conflitto con la legge di guardare al futuro, di credere nella possibilità di rifarsi una vita dopo la conclusione della pena. La scommessa - da quanto è emerso dai lavori - è dare a ogni ristretto ed ex detenuto un ruolo, una prospettiva; costruire un percorso di reinserimento nella società. La strada? Una sola: il lavoro. “In alcuni Istituti Penitenziari si realizzano prodotti di qualità a costi contenuti: dobbiamo costruire percorsi simili anche in Capitanata. Ogni detenuto che vuole lavorare deve poterlo fare, perché solo così si fa vera prevenzione, solo così si costruisce una società più sicura”, ha evidenziato il procuratore Vaccaro, intervenuto durante l’incontro. Stando a quanto è emerso durante la giornata, appare netta la convinzione che non è corretto pensare che il detenuto debba passare il tempo solo aspettando la libertà. “La detenzione - si legge nel comunicato inviato - rappresenta un periodo della vita da utilizzare per crescere, uno sviluppo a cui tutti devono contribuire, ciascuno per la propria parte. Questo l’impegno assunto dai presenti”. Fossano (Cn). Vittime e detenuti si incontrano: “Un percorso che ti cambia dentro” di Luigina Ambrogio La Fedeltà, 31 ottobre 2019 Il carcere di Fossano ha ospitato il Progetto Sicomoro che punta alla riabilitazione attraverso il riconoscimento della colpa, la riconciliazione e l’impegno al cambiamento. “Ho provato emozioni che non avevo mai provato, emozioni che dovrebbero provare tutti, non solo i detenuti”. Questo il commento di uno dei partecipanti al Progetto Sicomoro concluso nei giorni scorsi nel carcere di Fossano: otto incontri fra detenuti e vittime alla presenza di un’equipe di “facilitatori”. Lo scopo è quello di sanare le ferite e spezzare le catene che legano sia chi ha commesso il crimine che chi ha subito le conseguenze di un reato. Giovedì scorso i partecipanti hanno comunicato le emozioni vissute nel corso di un incontro tenuto nel salone del Santa Caterina. Presenti, insieme alla popolazione carceraria, la direttrice della casa di pena Assuntina di Rienzo, il comandante della Polizia penitenziaria, le educatrici e il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Bruno Mellano. Uno dei volontari che ha coordinato il gruppo ha spiegato la filosofia del progetto e le modalità con cui si realizza. “Si parte dal riconoscimento della colpa - ha detto - lasciando per un momento da parte le ragioni che possono aver portato il detenuto a compiere il reato. Con l’aiuto delle testimonianze dei famigliari delle vittime ci concentriamo sulle conseguenze di un reato, che non sono mai circoscritte alla vittima ma coinvolgono molte persone, a volte comunità intere. Interrompono sogni di ragazzi e giovani, segnano a vita chi aveva legami affettivi con la vittima”. “Se avessi potuto incontrare chi ha rovinato la mia famiglia” “Questa fase del percorso fa bene ai detenuti, che spesso ammettono di non aver mai riflettuto sulle conseguenze dei loro atti, ma fa bene soprattutto ai famigliari delle vittime, che nel processo sono messe da parte” - hanno spiegato i volontari dell’associazione Prison Fellowship, ideatrice del progetto -. Molte persone, dopo aver partecipato a questi gruppi, ci hanno detto: ‘Se avessi potuto incontrare chi ha rovinato la mia famiglia e avessi potuto ascoltare le sue ragioni come è avvenuto oggi, sarei riuscita a guarire prima. “Non voglio più tornare in galera” Il percorso prosegue con un cammino di riabilitazione basato sul desiderio di riconciliazione e di “riparazione” attraverso una restituzione concreta o simbolica del danno arrecato. Dalle testimonianze dei detenuti si comprende come questa fase sia importante. “Chiedere perdono a una vittima mi ha fatto sentire molto libero - ha detto uno dei partecipanti -; mi ha liberato dai miei pesi”. “Ho capito che la mia anima sa fare spazio, capire, sostenere” - ha detto un altro. L’ultima tappa del percorso è dedicata al cambiamento. Un impegno non scontato e a cui si arriva con intensità diverse. “Io avevo desiderio di cambiare - confida un detenuto al termine del percorso - ma non ne avevo la forza. Questo progetto dà la forza per fare un passo che da solo non ti senti di fare”. “Se non incontri persone come queste non capisci” - spiega un altro detenuto. Qui, partecipando alle attività del carcere, avevo già fatto tanti progressi, ma ora, grazie a questi volontari, ho capito molte cose che prima non avevo chiare. Non voglio più tornare in galera” “Prima di partecipare a questo corso ero refrattario a qualsiasi proposta - ha confessato un altro -: non mi interessava imparare un mestiere; io volevo semplicemente organizzarmi per continuare, una volta fuori, a spacciare. Ho ascoltato con attenzione le storie delle vittime di spacciatori come me e non voglio più essere io a infliggere quel dolore. Non posso chiedere perdono a tutte le persone a cui ho fatto del male vendendo la droga, ma se, una volta uscito, mi si presentasse qualcuno a propormi di continuare a spacciare direi: ‘No, non vendo più droga’. Posso trovare da vivere senza spacciare. Dopo questo percorso per la prima volta ho accettato un lavoro proposto dal carcere”. “Chi ha fatto questo percorso è cambiato” La direttrice del Santa Caterina, intervenendo giovedì mattina, ha spiegato di aver sperimentato positivamente il progetto Sicomoro nel carcere di Ivrea dove ha operato prima di arrivare a Fossano. “Credo molto in questo percorso - ha detto - ho potuto constatare che chi vi ha partecipato è cambiato; è diventato più autocritico. Anche la responsabile dell’Area trattamentale, Antonlla Aragno, ha sottolineato la positività del percorso: “Il contatto con le vittime è molto importante per l’elaborazione del proprio vissuto, soprattutto per chi fatica a fare questo passaggio”. Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti, ha detto: “In questi giorni si discute molto sul senso della pena, ma poi si delega tutto all’Amministrazione penitenziaria mentre il carcere non può essere l’unica risposta. Là dove si realizza un incontro fra esperienze si realizza molto di più in termini di riabilitazione: ce lo dicono le parole che abbiamo ascoltato ma soprattutto gli abbracci che abbiamo visto sul palco”. Roma. Concorso nazionale E.I.P., premiati il Liceo Rummo e il carcere di Benevento di Teresa Lombardo ilvaglio.it, 31 ottobre 2019 “Luci di cultura e legalità”: il Sannio sul podio del 47esimo concorso nazionale dell’E.I.P. Italia (Ecole Instrument de Paix) che si è svolto a Roma alla Lumsa. Il primo prestigioso premio nazionale per i progetti innovativi e sperimentali nelle carceri italiane è stato assegnato al Liceo scientifico Rummo e alla Casa circondariale di Benevento per i progetti ‘Saponette per terra’ (videoclip, libro) e il libro ‘Donne in Libertà’. Costruiamo la libertà e dunque la legalità per realizzare il Futuro e innalzare il Tricolore della Libertà: è il leit motiv che ha animato il progetto ‘Saponette per Terre’ realizzato dagli studenti del Liceo scientifico Rummo: non soltanto teoria, ma simulazione, apprendimento sui diversi linguaggi comunicativi, confronto, interazione e visita presso la casa circondariale di Capodimonte (Bn) nel corso della quale gli alunni della III CC sono riusciti a comprendere come sia angusta la realtà carceraria e come sia necessario perseguire i veri valori. Educare alla legalità attraverso progetti, visite negli istituti penitenziari - spiega la giornalista Teresa Lombardo che ha ideato, coordinato e diretto i progetti - credo sia un deterrente necessario affinché le nuove generazioni, come i giovani del Liceo scientifico Rummo, hanno appreso, comprendano che le sbarre sono sbarre; che lì dentro si sente il rumore dei cancelli e di quelle chiavi che scandiscono minuto dopo minuto la vita del detenuto e delle detenute; che lì dentro mancano gli affetti, manca la quotidianità, manca addirittura anche il rumore delle auto perché, dentro quelle mura - nonostante i tanti progetti volti al reinserimento del detenuto - anche il sole passa attraverso le sbarre. Vite spezzate, storie pesanti che hanno fatto riflettere i giovani del Rummo e apprezzare la vita lì fuori a due passi da loro. Giovani la cui chiosa è stata: ‘Vogliamo un mondo a colori. Quei colori che rispecchiano i nostri sentimenti senza aver paura di sentirci noi stessi e di esprimerci per quello che siamo. Non limitatevi al nero. Mirate all’arcobaleno’. Il progetto realizzato in collaborazione con la casa circondariale di Benevento guidata dal direttore Gianfranco Marcello ha conquistato anche la menzione d’onore della giuria ministeriale. Hanno collaborato al progetto ‘Saponette per terra’ le docenti Giovanna Viespoli e Gina Della Torca, gli alunni Davide Pio Bove, Loris Catalano, Margherita Ciarleglio, Gianluigi Coletta, Costanzo Della Pietra, Marco Di Rubbo, Simone Forgione, Simone Frangiosa, Morena Ialeggio, Ilaria Iele, Giada Leone, Marco Mignone, Flavio Aldo Perlingieri, Matteo Quaglia, Pietro Sciancalepore, Daria Todino, Antonio Vicario, Alessandra Votino, Giorgio Zeolla, Flavio Zotti; per il carcere oltre al direttore Gianfranco Marcello anche il capo area trattamentale Patrizia Fucci e il funzionario giuridico pedagogico Cristina Ruccia. Se stanno tutti coi buoni, ai cattivi chi ci pensa? di Gioacchino Criaco Il Riformista, 31 ottobre 2019 La società italiana è talmente incrostata di cattiveria da rendere irrilevante la ricerca di elementi di umanità nelle esistenze mostruose. Il fatto più terribile è che gli elementi di umanità sono più difficili da reperire fra le vite angeliche che in quelle demoniache: il bene rinuncia alla comprensione del male, si auto riflette e vive in una rappresentazione dell’umanità. Chi sta nel giusto tifa, a ragione, per la distruzione del male. Ma chi sta nel giusto? Qualcuno se lo è chiesto mai come davvero si dovrebbe essere? E un riparo, o almeno un contenimento del male, si può ottenere? La verità è che migliaia e migliaia di ragazzi nati male riempiranno celle buie o bare strette. La verità è che la marginalità produce devianza, nel Sud dell’Italia, nella periferia delle città, nei margini del mondo. E la marginalità, in posti periferici in cui si è lasciato che le controculture criminali diventassero dominanti, è una bomba atomica che lascerà scampo a pochi e gli effetti radioattivi si approprieranno del futuro. La verità è che migliaia e migliaia di ragazzi meridionali finiranno male, dopo aver fatto danni irreparabili a migliaia e migliaia di innocenti. Avranno la sorte dei loro fratelli delle generazioni che li hanno preceduti. E a nessuno frega nulla. Pensare ai cattivi è un tifo perdente, in un conformismo cinico imperante. Il tifo è facile da un comodo divano con gli hippy hippy urrà di fianco a giustizieri implacabili. Bisogna esserci nati nei posti della marginalità, per aver coscienza della umanità che vi nasce, di quella che vi sopravvive e di quanta necessità ci sia di non lasciare alla deriva questi sentimenti. L’abbandono e il bastone sono le risoluzioni scelte. Non servono profeti per vedere il futuro che continuerà a essere quello: ragazzi che saranno tonnellate di carne da galera e innocenti che pagheranno per quelle scelte. E spesso anche da chi vuol comprendere arrivano al massimo carezze, le carezze che si concedono ai bambini, piccoli ancora per capire. E quello sono i nati male: un popolo di bambini molestati che ha invertito le responsabilità, e si attribuisce le colpe delle violenze altrui. Li hanno messo sul banco degli imputati e loro ci stanno su afflitti, pronti a confessare qualunque misfatto. Se parlano di loro stessi lo debbono sempre e solo fare parlando in termini di riscatto, ambire al perdono. Ma quale riscatto, e rispetto a quali colpe? Vivono schiavi, al servizio, e salgono sopra qualunque convoglio, ovunque li spediscano, a curare i beni altrui. Hanno un’unica e immensa responsabilità: di non aver lottato fino in fondo per la loro libertà. Hanno colpa di non prendere a calci quelli che fra loro li tradiscono. Rispetto a questo sono colpevoli, senza alcun alibi. Ma rispetto ad altre società che si sentono perfette in confronto a loro, e li utilizzano in chiave consolatoria, non hanno riscatti o colpe da pagare. Non hanno bisogno del perdono. E devono scrollare la cenere dal capo e scendere dal banco degli imputati. Liliana Segre, sì del Senato alla commissione contro razzismo e antisemitismo di Monica Guerzoni e Claudio Del Frate Corriere della Sera, 31 ottobre 2019 Il centrodestra si astiene. Salvini: “Non vogliamo bavagli e stato di polizia”. Standing ovation dell’aula alla senatrice prima firmataria della proposta. Il Senato batte un colpo contro l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’odio e alla violenza. Ma mentre dà il via all’istituzione della Commissione straordinaria, l’aula di Palazzo Madama non riesce a inviare al Paese un segnale di compattezza su tematiche drammaticamente attuali. La proposta di legge, prima firmataria Liliana Segre - senatrice a vita, testimone dell’orrore dei campi di sterminio e destinataria, ogni giorno, di qualcosa come 200 insulti al giorno a sfondo antisemita - è sì passata con 151 voti a favore, ma il numero che deve far riflettere è un altro: 98 astenuti, 98 senatori che hanno scelto di mettere le ragioni politiche della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia davanti alla memoria della Shoah e al destino, non soltanto culturale e civile, di un Paese intero. Salvini: “E’ censura” - Il segretario Matteo Salvini ha motivato in questo modo il “non voto” dei suoi: “Siamo contro razzismo, violenza, odio e antisemitismo senza se e senza ma. Tuttavia non vorremmo che qualcuno a sinistra spacciasse per razzismo quello che per noi è convinzione e diritto ovvero il `prima gli italiani´. Siamo al fianco di chi vuole combattere pacificamente idee fuori dal mondo, però non vogliamo bavagli e stato di polizia che ci riportano a Orwell”. Standing ovation per Segre - Subito dopo il voto tutti i senatori presenti si sono alzati in piedi e hanno rivolto un applauso alla senatrice a vita Liliana Segre e prima firmataria della mozione ma l’atteggiamento scelto dalle opposizioni è destinato a far discutere. “Al Senato è andata in scena la vergogna, inaccettabile, dell’astensione di tutto il centrodestra sulla proposta di Liliana Segre per istituire una commissione sui discorsi d’odio nel web, il comportamento del centro destra rimarrà una macchia indelebile per la nostra storia parlamentare. Su questi temi non sono accettabili pelosi distinguo e manovre politiche di basso conio! L’astensione di tutto il centrodestra è un’offesa al Paese e alla sua coscienza e alla Memoria. Vergogna”. Dissenso tra i parlamentari di Forza Italia: i deputati Osvaldo Napoli e Sandra Savino non condividono la scelta dei loro colleghi senatori. “La mia Forza Italia non si sarebbe mai astenuta in un voto sull’antisemitismo” è invece il tweet di Mara Carfagna. FdI: “No alla commissione Boldrini” - Il senatore di Fratelli d’Italia Giovanbattista Fazzolari ha motivato invece l’astensione del suo gruppo con il fatto che la commissione fu a suo tempo proposta da Laura Boldrini. “Fratelli d’Italia - osserva Fazzolari - non ha votato a favore dell’istituzione della commissione perché non è una commissione sull’antisemitismo, come volevano far credere, ma una commissione volta alla censura politica. Purtroppo la mozione Segre è in realtà la mozione Boldrini, perché ricalca fedelmente la commistione `Jo Cox´ istituita dall’allora presidente della Camera, con la finalità di creare un gruppo di `saggi´ con il potere di censurare chi non rispetta i canoni del politicamente corretto”. Cos’è la proposta di Liliana Segre - Liliana Segre, sopravvissuta ai lager nazisti e destinataria ancora oggi di una media di 200 messaggi d’odio al giorno aveva proposto l’istituzione della commissione un anno fa: “Io che sono stata vittima dell’odio dell’Italia fascista sento che, dopo anni, sta ricrescendo una marea di razzismo e di intolleranza che va fermata in ogni modo” erano state le sue parole il giorno della presentazione del disegno di legge. Quest’ultimo è composto da tre articoli. Il primo istituisce la commissione bicamerale di indirizzo e controllo sui “fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo”, il secondo specifica i compiti della commissione, regola la raccolta dei dati e la loro periodica pubblicazione; il terzo riguarda il funzionamento della commissione. Certezza del processo per i “leoni da tastiera” di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 31 ottobre 2019 Il caso degli insulti che la senatrice Liliana Segre riceve via internet ripropone il problema dello sviluppo di una responsabile cultura del digitale. Luciano Violante, qualche giorno fa sul Corriere (sabato 26 ottobre), auspicando lo sviluppo di una responsabile cultura del digitale, ha scritto che nella rete oggi c’è libertà senza responsabilità. E un pubblico ministero, nel chiedere l’archiviazione di un procedimento per diffamazione a mezzo social, ha sostenuto che gli utenti di internet non danno alcun peso a quel che viene postato, termini scurrili o denigratori compresi, consapevoli che si tratta solo di un modo per sfogare rabbia e frustrazione senza alcun controllo. Se il Gip accoglierà la richiesta, ritenendo non lesivo il post incriminato, ci sarà una nuova causa di non punibilità non codificata, l’imbecillità dell’indagato; e l’uso dei social, che per il codice penale è un’aggravante, diventerà ancor più libero e irresponsabile. Poi, però, la politica d’improvviso si accorge dei numerosi insulti, che da tempo la senatrice Liliana Segre riceve via internet e, sull’onda dell’indignazione, il presidente del Consiglio dichiara di voler intraprendere una lotta senza quartiere, per contrastare il linguaggio dell’odio, che circola su quegli stessi social. E così via a una nuova commissione parlamentare per il contrasto del razzismo, dell’intolleranza, dell’antisemitismo e per la lotta contro l’istigazione all’odio e alla violenza. Un programma vasto, come disse De Gaulle a chi gli proponeva di lanciare una campagna per eliminare i cretini. Qui non si tratta, però, solo di cretini, né di persone che suscitano pena o di malati bisognosi di cure, come la senatrice li ha definiti pubblicamente, sulla scorta della sua terribile esperienza personale e della saggezza che anima ogni suo intervento, ma di un fenomeno da non sottovalutare. Colpisce, infatti, indiscriminatamente e solleva un’ondata così alta di improperi da intimidire e spesso annientare vittime deboli e indifese. Se ben orchestrata, una campagna d’odio può persino dissuadere chi scrive per mestiere, resistendo a cause milionarie e a minacce fisiche, a esporsi con tesi impopolari o posizioni dissonanti dal pensiero dominante, fino a indurli a chiedersi se valga la pena affrontarla o se non sia meglio tacere. Una sottile forma subliminare di censura, che potrebbe negli anni a venire orientare l’informazione, eliminando su base volontaria, però, le notizie scomode e, dunque, manipolando il consenso. Oggi, intanto, i messaggi contrastanti, che la cronaca offre ogni giorno, finiscono per ringalluzzire i leoni da tastiera, tanto che, sempre più spesso, rinunciano all’anonimato, la loro originaria caratteristica peculiare, perché ormai certi dell’impunità, incoraggiati dalle difficoltà per identificarli con certezza, da un certo lassismo nel perseguirli e, soprattutto, aiutati dalla enorme mole di processi che bloccherebbero i tribunali, se si applicasse rigidamente il codice penale. Così la differenza finisce spesso per farla l’importanza o la visibilità della vittima, ma anche la mancanza di risorse umane e tecniche, la scarsa deterrenza delle sanzioni applicabili e la lunghezza dei processi, di tal che l’effetto non voluto è la sostanziale depenalizzazione di quelle condotte e l’eventuale incriminazione è come un terno al lotto. Non di nuove norme c’è bisogno, dunque, ma di utilizzare meglio quelle vigenti perché, fatte sempre salve le opinioni, anche le più forti e dissacranti, spesso chi digita commette reati che vanno dalla diffamazione aggravata alla sostituzione di persona, dalle minacce alle molestie, dall’incitamento all’odio razziale allo stalking, almeno fino a che non verranno depenalizzati; ma la fa franca per mancanza di tempo, voglia, motivazione e risorse. E fa piacere sapere che la Procura di Milano avrebbe avviato già da un anno un’indagine, ancora contro ignoti però, sulle minacce e le molestie alla senatrice Segre, ma quante sono le denunce per minacce e molestie via internet rimaste nei cassetti? È necessaria, dunque, una maggiore certezza del diritto: ogni persona deve poter valutare e prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta; e se una norma, quale che sia, viene violata, deve essere applicata la pena prevista. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma se passasse chiaro e forte il messaggio che chi delinque sarà identificato - e ben vengano, se attuabili, tutte le proposte per farlo - processato e, se colpevole, condannato, quei leoni da tastiera potrebbero smettere di battere sui loro tasti e la libertà sulla rete, un bene da proteggere a ogni costo, potrebbe non esser più sinonimo di impunità. Migranti. Agli accordi libici solo ritocchi: venti parlamentari dicono no di Daniela Preziosi Il Manifesto, 31 ottobre 2019 Di Maio annuncia “miglioramenti” sui lager, ma decide il governo. Il Pd pasticcia in aula. L’appello: l’Italia sospenda il supporto alla Guardia costiera e alla gestione dei centri di detenzione. Si apra un negoziato su un piano di evacuazione umanitaria. Il governo “sta lavorando per modificare in meglio il Memorandum d’intesa tra Libia e Italia”, “in particolare nella parte riguardante le condizioni dei Centri di detenzione”. Risponde così il ministro degli esteri Luigi Di Maio al question time della Camera. E così pensa di aver replicato a tutte le obiezioni che in queste ore crescono nella stessa maggioranza, fin dentro al suo partito, almeno nell’area di Roberto Fico (almeno a parole). A presentare l’interrogazione è il Pd. Inizia Laura Boldrini, fresca di passaggio al gruppo dei dem a nome del quale chiede “profonde modifiche all’accordo” perché “rapporti Onu e inchieste giornalistiche hanno documentato come i centri di detenzione si siano trasformati in luoghi di violenza e tortura. Questi rapporti ci dicono anche che componenti della guardia costiera libica sono collusi con i trafficanti di esseri umani”. È molto, ma c’è molto di più, come ha spiegato da ultima Emma Bonino su Repubblica: i nostri interlocutori, dice, “non sono le quasi inesistenti ‘autorità libiche’ ma poteri e personaggi di provato rango criminale”, una sorta di “trattativa Stato-mafia libica”. Il ministro risponde e annuncia l’ennesimo topolino partorito dal governo. Ma stavolta il topolino è un mostro. Ci saranno “modifiche”. Verranno concordate nella “la Commissione congiunta italo-libica” convocata “per lavorare all’intesa e coinvolgere le organizzazioni internazionali”. Di Maio vanta l’Italia “l’unico partner effettivo delle autorità libiche nella lotta al traffico di esseri umani: una riduzione dell’assistenza italiana potrebbe tradursi in una sospensione dell’attività della Guardia costiera libica”. Sospensione auspicabile, visto il trattamento che riserva ai naufraghi in fuga dai lager. Invece il ministro elogia i (presunti) buoni effetti di quegli accordi, snocciola i numeri diminuiti degli sbarchi in Italia, in una chiara rivendicazione anche dei decreti Salvini, che infatti sono ancora in vigore, con buona pace degli annunci dell’alleato dem. Per l’alleato dem replica Lia Quartapelle, sostenitrice di quegli accordi dall’inizio (durante il governo Gentiloni, ministro Minniti) teorica della necessità che l’Italia non si sottragga alla collaborazione con i carcerieri libici. La stessa linea del resto del segretario Zingaretti, che chiede modifiche “profonde” al memorandum ma, aggiunge, “io non ho mai creduto al disimpegno unilaterale, la soluzione non è scappare dagli scenari di crisi”. Così in aula Quartapelle chiede di “voltare pagina rispetto a 14 mesi di indifferenza e propaganda” e elenca le richieste del Pd: “i corridoi umanitari, lo svuotamento dei campi, la presenza delle organizzazioni internazionali nei campi e la protezione dei diritti umani in quel Paese”. Il Pd vorrebbe apparire come la forza politica che incalza l’alleato ma rischia di diventarne la spalla. In molti, anche fra i dem, hanno chiesto una discussione parlamentare, ma né il ministro né le interroganti se ne ricordano. La decisione sul memorandum resterà del governo e dell’improbabile commissione congiunta con i rappresentanti di un paese in guerra civile. “È un’enorme ipocrisia”, è il commento amaro di Riccardo Magi, “questo accordo serve a bloccare le persone e a farle riportare indietro da questi personaggi”. Mentre va in aula si svolge il dialogo sceneggiato fra alleati, le organizzazioni che si occupano dei migranti si appellano al presidente Conte per stracciare quegli accordi. Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea, punta il dito contro il “codice di condotta” per le Ong emesso dalla Guardia Costiera libica: “Siamo arrivati alla pazzia che le cosiddette autorità libiche emettano un codice di condotta per le Ong: loro che tutti i giorni catturano nel Mediterraneo e riportano agli stupri e alle bombe centinaia di persone impongono regole che mettono a gravissimo rischio anche la sicurezza dei nostri equipaggi, composti da donne e uomini della società civile italiana ed europea. Ma i libici si sentono in diritto di farlo proprio perché i crimini che commettono sono finanziati e sostenuti dall’Italia e dagli altri paesi dell’Unione”. Chiuso il question time il ministro crede di aver chiuso la questione. Non è così. Sono venti i parlamentari che firmano un appello per sospendere gli accordi con la Libia e favorire la chiusura dei lager e l’evacuazione dei detenuti. “L’Italia non può far finta di non sapere”, scrivono. Sono deputati e senatori di Pd, Leu, Italia viva e gruppo misto (Palazzotto, Muroni, Fratoianni, Orfini, Magi, Migliore, Pini, Raciti, Rizzo Nervo, Pastorino, Fassina, Occhionero, Ungaro, Fusacchia, Gribaudo; De Petris, Faraone, De Falco, Verducci, La Forgia, La Mura, Nugnes) e tre eurodeputati Pd (Bartolo, Majorino, Smeriglio). Promettono di non fermarsi. A gennaio ci sarà un altro appuntamento con il rifinanziamento delle missioni italiane. Migranti. Sulla Libia il governo non torna indietro di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 31 ottobre 2019 “Dannoso eliminare il Memorandum”. Restano gli accordi firmati nel 2017 da Gentiloni, le organizzazioni umanitarie accusano Di Maio. Un accordo “illegale” perché sottoscritto “in violazione dell’articolo 80 della Costituzione, che prevede “la ratifica dei trattati internazionali di natura politica con oneri a carico dello Stato”. Un accordo “criminale” perché nei centri di detenzione libici i migranti vengono sottoposti a violenze, stupri e torture “da parte dei funzionari statali e dalle milizie che li gestiscono”, né è sufficiente la presenza di organizzazioni internazionali come Unhcr e Oim per garantire il rispetto dei diritti umani. Non basta al governo il duro atto d’accusa delle decine di associazioni (da Arci ad Amnesty) riunite nel Tavolo Asilo, che chiedono di annullare il Memorandum sottoscritto nel 2017 da Paolo Gentiloni e di evacuare circa 5 mila persone rinchiuse nei lager. A 72 ore dalla scadenza del 2 novembre, data del rinnovo automatico del patto, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio annuncia che l’intesa resterà in vigore per altri tre anni. Secondo Oxfam Italia, formazione di personale locale nei centri di detenzione e fornitura di mezzi terresti e navali sono già costati al nostro Paese 150 milioni di euro. Il governo lavora per modificare il testo, spiega il ministro, “in particolare nella parte riguardante le condizioni dei centri di detenzione”, ma non ci sarà alcuno stop. “L’accordo può essere migliorato - dichiara alla Camera -ma è innegabile come abbia contribuito attraverso il rafforzamento delle capacità operative libiche a ridurre in maniera rilevante l’arrivo dei migranti, da 107.212 del 2017 a 2.722 dell’ottobre 2019, e conseguentemente le morti in mare nel Mediterraneo centrale”. L’Italia “è l’unico partner effettivo delle autorità libiche nella lotta al traffico di esseri umani, una riduzione dell’assistenza potrebbe tradursi in una sospensione dell’attività della Guardia costiera libica” sostiene Di Maio, annunciando la convocazione della Commissione congiunta italo-libica e ricordando più tardi l’impegno anche sul fronte dei rimpatri, con un fondo alimentato con 20-25 milioni. “Il Memorandum deve cambiare radicalmente” dice al mattino il segretario Pd Nicola Zingaretti. “Bisogna voltare pagina rispetto a 14 mesi di indifferenza e propaganda” sottolinea in aula replicando a Di Maio Lia Quartapelle, capogruppo dem in commissione Esteri, chiedendo che le modifiche riguardino “i corridoi umanitari, lo svuotamento dei campi, la presenza delle organizzazioni internazionali e la protezione dei diritti umani”. “E una questione di scelte politiche” osserva il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che sul Memorandum riferirà alla Camera mercoledì, spiegando inoltre che, entro fine anno, i decreti sicurezza saranno modificati “in prima battuta per renderli conformi alle osservazioni del Quirinale”. Ma l’annuncio di Di Maio semina scontento nella maggioranza, evidenziando sull’immigrazione differenze difficili da sanare. Ventiquattro tra parlamentari ed eurodeputati di Pd, Sinistra Italiana, Italia Viva, Radicali e M5s, a cui si aggiunge l’ex grillino Gregorio De Falco, parlano di risposte “insufficienti” e chiedono “la sospensione immediata” del Memorandum, “all’origine di una sistematica violazione dei diritti umani delle persone che tentano di fuggire da un inferno”. Il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova mette in guardia: “Rischia di essere un accordo Stato-mafia”. Esprime “preoccupazione” anche Magistratura democratica, confermando il quadro di violenze “riscontrabile” dai magistrati durante le audizioni dei richiedenti asilo: “I finanziamenti - avvertono - non sono serviti a migliorare le condizioni di vita nei centri”. Legalizzare la droga è un tabù di Mattia Feltri Vanity Fair, 31 ottobre 2019 Gli abitudinari delle cronache, dei libri e delle fiction di denuncia, arte diffusa in un tempo di martiri e di eroi a scialo (quando c’è inflazione di registi, scrittori e giornalisti marmorei nelle schiene diritte, e non ci piegherete, e non ci intimidite eccetera, significa che non corrono alcun rischio: nella Russia di Stalin, per dire, o nella Germania di Hitler, i pochi con la schiena diritta si guardavano bene dallo sbandierarlo), si saranno fatti l’idea di una Roma riemersa dagli abissi degli inferi: sparatorie, violenza quotidiana, reti criminali a cielo aperto, i famosi tentacoli della mafia avvinghiati al Campidoglio, le gerarchie politiche ed ecclesiastiche strette negli affari e nei malaffari, specie notturni e d’alcova. Un bordellificio e uno sgozzificio. Poi la Cassazione s’è incaricata di ristabilire che l’amministrazione comunale non era agli ordini delle cupole (Mafia capitale: l’affascinante definizione del nulla), e le statistiche (oggetto di disturbo per gli analisti al metro dello stomaco) che Roma non è il far west, secondo la sciatta e pigra titolazione a ogni morto ammazzato. Roma è lercia e disordinata e governata da una specie di baby gang a cinque stelle, ma poche capitali del mondo sono altrettanto sicure: lo scorso anno gli omicidi sono stati dieci, in costante calo da un paio di decenni almeno, mentre a Londra sono regolarmente oltre i cento e a Berlino quasi, senza andare a contabilizzare le macellerie delle città del Nord e del Sud America. Di quanto abbiamo letto, c’è di vero soltanto che quasi sempre gli omicidi sono la conseguenza estrema dello spaccio e del consumo di droga. Luca Sacchi, fatto fuori con un colpo in testa pochi giorni fa, il carabiniere Mario Cerciello Rega, assassinato a settembre, Desirée Mariottini, morta a fine 2018: in ognuna di queste storie c’entra la droga. E succede perché l’Italia e l’Europa intera sono posti in cui la gente usa droga. Nel 2016 (ultimo dato dell’Osservatorio europeo) ottantotto milioni di persone, oltre un quinto della popolazione continentale, hanno dichiarato di aver provato droga almeno una volta nella vita (poi ci sono quelli che lo fanno ma non lo dichiarano). Sempre un quinto (20,7 per cento) sono i giovani italiani che hanno consumato droga nell’anno precedente: nel 2011 erano il 15 per cento. Il settantacinque per cento delle attività illegali traggono profitti dalla droga, e solo in Italia muovono una ventina di miliardi di curo all’anno. Il grosso viene dalle droghe leggere, hashish e marijuana. I ragazzi di venti o trent’anni hanno buone probabilità di essere figli di genitori con familiarità con la droga, quantomeno con le canne. Ci sono famiglie in cui i figli fumano coi genitori, che accettano per desacrali77are il brivido del proibito, ma soprattutto perché non hanno la percezione di fare qualcosa di socialmente riprovevole, addirittura ai limiti dell’illegale. È la normalità. L’unico tabù, oggi, è parlare di liberalizzazione o legalizzazione delle droghe, pure di quelle leggere, e nonostante dove è successo, come in Olanda, il consumo non aumenti più che altrove, forse meno, e intanto si evita di riempire le carceri di piccoli spacciatori, e si aggiungono entrate tributarie. Capite il non senso? Chi strilla contro l’allarme sicurezza, specialmente gente della politica, trascura che la criminalità Ingrassa quasi esclusivamente con la droga, gliene lascia il monopolio, e rifiuta di regolarizzare quello che è già la regola. La cannabis di Angela. Antiproibizionismo, la lezione di Merkel alle resistenze italiane di Luigi Manconi La Repubblica, 31 ottobre 2019 L’ultima grande democristiana europea, Angela Merkel, il suo partito e l’alleato conservatore, Csu, stanno prendendo in seria considerazione il progetto di legalizzare produzione, distribuzione e consumo dei derivati della cannabis (hashish e marijuana). Questo mentre il primo ministro del Lussemburgo, Xavier Bettel, fa della legalizzazione di quelle sostanze uno dei punti principali del suo programma di governo. E mentre si prevede che, entro il 2024, nella metà degli stati americani il consumo a scopo ricreativo di hashish e marijuana non sarà più reato. E negli stati dove già vige la legalizzazione, il numero degli adolescenti che fa uso di cannabis si riduce costantemente. E in Italia? In Italia tutto tace, a parte la sacrosanta pervicacia e la saggia follia dei radicali. Oggi, nel nostro Paese, i derivati della cannabis, gestiti dalla criminalità si trovano in un regime di liberalizzazione perfetta. È questa, secondo i parametri dell’economia classica, la condizione del mercato: una molteplicità di esercizi commerciali, aperti giorno e notte, in un numero elevatissimo di strade e piazze di tutte le città, dove è possibile acquistare ogni tipo di sostanza da una rete articolata di fornitori. In altre parole, un mercato totalmente libero, ancorché illegale. L’antiproibizionismo vuole l’esatto opposto. Ovvero un sistema di regolamentazione pubblica di produzione, distribuzione e commercio della cannabis, sottoposto a un meccanismo di controlli, divieti e imposte, che sottragga l’attuale mercato al comando della criminalità organizzata. Si tratterebbe di un regime del tutto simile a quello applicato all’alcol e al tabacco. Nessuno, infatti, ha dato ancora risposta a una domanda semplice: perché alcol e tabacco sono legali e regolarmente acquistatili e perché, invece, i derivati della cannabis sono fuorilegge? Tutto ciò partendo da un assunto: nessuno, ma proprio nessuno, degli antiproibizionisti ha mai affermato che la cannabis non fa male. Il suo abuso, particolarmente in età adolescenziale, può produrre danni significativi, seppure inferiori a quelli determinati dalle altre due sostanze. E se, dunque, si chiede la legalizzazione della cannabis, è perché si ritiene che la condizione di clandestinità ne incrementi la pericolosità. Per due ragioni. Perché costringe un numero esteso di persone a frequentare ambienti criminali, a entrare in rapporto con associazioni criminali, e a compiere atti criminali. E perché impedisce di controllare la composizione della sostanza e la percentuale di principio attivo. Si tratta di considerazioni razionali e di evidenze scientifiche, condivise da tossicologi e sociologi, da operatori della sicurezza e dell’ordine pubblico, da farmacologi e medici. La più autorevole conferma è venuta dall’allora capo della Procura nazionale antimafia, Franco Roberti, che, in due successivi rapporti annuali, invitò il legislatore ad affrontare il tema della legalizzazione. Ma, nonostante la crescita del numero e del prestigio di quanti si dichiarano favorevoli, i decisori pubblici esitano, traccheggiano, recalcitrano. E l’orientamento prevalente nell’attuale Parlamento sembra essere decisamente ostile. Questo rende ancora più importante la volontà espressa dalla Cdu tedesca e dalla sua leader. E, tuttavia, la cosa sorprende fino a un certo punto. Di fronte a un fenomeno che coinvolge così tanti cittadini e che corrisponde, come diceva Marco Pannella, “all’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa”, si sceglie la via di un ponderato pragmatismo. Troppo ampio, quel fenomeno, e troppo connaturato all’indole umana per risolverlo con la repressione. Qui interviene, forse, anche un elemento religioso: l’ispirazione luterana dell’educazione e della cultura di Merkel e di molta politica tedesca non determina esclusivamente, come si ritiene con superficialità, un atteggiamento intransigente. Nelle teologie e nelle dottrine morali delle chiese cristiane (e specie in quella cattolica) si trova la teoria del male minore. L’idea, cioè, che se il male non può essere bandito dal consorzio umano, compito del cristiano e del politico cristiano è quello di ridurre i danni che può produrre. E questa considerazione si aggiunge alle altre di natura sociale, giuridica e criminologica, che rendono la proposta della legalizzazione ragionevolissima e concretissima. In ogni caso, come vuole qualsiasi approccio serio e scientifico, da sperimentare. Non così in Italia, dove la situazione sembra addirittura peggiorata rispetto al passato. Un quarto di secolo fa, il futuro presidente del Senato, Marcello Pera, scriveva con me appassionati articoli per la legalizzazione sul Sole 24 Ore; e Franco Debenedetti condivideva con altri intellettuali e parlamentari liberali (in primo luogo Antonio Martino) la medesima opzione. All’interno delle formazioni di sinistra, la componente antiproibizionista otteneva notevoli consensi. Oggi, tutte quelle posizioni sembrano aver perso vitalità e vivacità. Una volta constatato il fallimento di tutte le strategie proibizioniste e repressive, cosa si aspetta ancora per proporre con forza una svolta radicale? Cosa aspettano i liberali e i libertari, la sinistra e le sinistre (qualsiasi significato si attribuisca a quella categoria), i garantisti, gli uomini e le donne di fede e quelli di scienza e tutte le persone di buona volontà? Cina. Almeno 150 detenuti morti in campi di detenzione dello Xinjiang agenzianova.com, 31 ottobre 2019 Almeno 150 persone hanno perso la vita nell’arco di sei mesi all’interno dei campi di detenzione operati dalla Cina nella regione dello Xinjiang. Lo riferisce una “fonte ufficiale” citata dalla stampa internazionale. A confermare il dato è stato un ufficiale del dipartimento di Polizia nella contea di Kuchar, secondo cui le 150 morti sono avvenute presso uno solo dei quattro centri di detenzione di massa attivi nel paese, il n. 1, nel distretto di Yengisher, a circa 10 chilometri dal centro di Kuchar. Le morti sono avvenute tra giugno e dicembre 2018, quando il funzionario di polizia era assegnato alla struttura; la fonte non ha saputo riferire quante persone abbiano perso la vita nel centro di detenzione prima o dopo quel periodo. Myanmar. Quando la satira costa un anno di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 ottobre 2019 Il thangyat è una delle più antiche forme tradizionali di arte di Myannar: unisce poesia, commedia e musica ed è molto diffusa soprattutto durante i festival dell’acqua e in altre occasioni festive. Gli spettacoli di thangyat erano stati messi al bando nel 1989 dalla giunta militare ed erano stati ripristinati nel 2013. Per quelli di quest’anno, il governo aveva subordinato il permesso all’approvazione di un apposito comitato: un modo inaccettabile di tenere sotto controllo l’arte vietando tutti i contenuti critici nei confronti del governo. Kay Khine Tun, Zayar Lwin, Paing Pyo Min, Paing Ye Thu e Zaw Lin Htut, cinque artisti del gruppo satirico “Generazione Pavone”, hanno sfidato la norma. Ieri sono stati condannati a un anno di carcere per uno spettacolo di thangyat messo in scena ad aprile, nel quale si erano esibiti in uniformi militari e avevano preso in giro le autorità. Il loro “reato” è di aver diffuso notizie con l’intento di spingere membri delle forze armate a disertare o a venir meno in altro modo al loro dovere. Per aver trasmesso in diretta Facebook lo spettacolo rischiano un’ulteriore condanna, fino a due anni, per “diffamazione online”.