Il silenzio su Fiammetta di Luciano Capone Il Foglio, 30 ottobre 2019 La figlia di Paolo Borsellino elogia la Consulta contro l’ergastolo ostativo. Ma le sue parole non fanno comodo. Non abbiamo la controprova, ma se avesse affermato il contrario le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino sarebbero finite sulle prime pagine di tutti i giornali e in tutti i Tg. E invece, le parole della figlia del giudice ammazzato dalla mafia a favore delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale contro l’applicazione automatica dell’ergastolo ostativo sono cadute nel vuoto. Tanti commentatori, inclusi magistrati che hanno occupato o che occupano ruoli di rilievo, hanno contestato le sentenze della Cedu e della Consulta spendendo i nomi di Falcone e Borsellino. Le parole della figlia, evidentemente, non rientravano nella narrazione e per questo sono state ignorate. Alcuni giorni fa, subito dopo la sentenza della Consulta, Fiammetta Borsellino ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il “depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese” (che è poi proprio ciò che l’ha spinta - dopo la sentenza del Borsellino quater - a esporsi pubblicamente). Nel suo intervento ha parlato dell’ergastolo ostativo, per commentare le dichiarazioni di alcuni magistrati e le prime pagine di certi giornali secondo cui i giudici di Strasburgo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. “Penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato, così come viene fatto in questi giorni, la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo”, ha detto Fiammetta Borsellino. “Loro ci hanno insegnato che questi sono problemi complessi, non possono essere semplificati in questo modo. Non sono un’esperta in questo settore, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso”, che poi è ciò che ha stabilito la Consulta rinviando a una decisione caso per caso dei giudici di sorveglianza. E ancora: “Il problema è molto complesso e va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni perché le semplificazioni, come ‘la mafia ha perso’ o ‘la mafia ha vinto’ o ‘la mia antimafia è migliore della tua’, fanno male”. Fatta questa premessa su come magistrati, giornalisti e professionisti della giustizia dovrebbero porsi di fronte a questioni fondamentali che riguardano il diritto, Fiammetta Borsellino ha detto anche che le sentenze delle supreme corti sull’ergastolo ostativo automatico non vanno contro i princìpi che hanno guidato l’azione di suo padre. Anzi, vale il contrario. “Sono convinta - ha detto - che il problema andasse affrontato e sono convinta che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quella giusta, quella che va incontro all’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre”. La figlia del magistrato è stata poi ancora più esplicita quando dal pubblico le è stato chiesto di nuovo se lei condividesse l’idea che, con queste sentenze, la Cedu e la Corte costituzionale avrebbero ucciso di nuovo suo padre. “A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi - ha risposto - è stato il tradimento di alcuni uomini delle istituzioni che oggi, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Consiglio superiore della magistratura si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto”. Il riferimento di Fiammetta Borsellino ai magistrati che si sono occupati, malamente e proprio a causa della “cultura dell’emergenza”, delle inchieste sulla strage di Via D’Amelio e che distribuiscono patentini di antimafia non è casuale. Come non lo è il silenzio che ha circondato le sue dichiarazioni: avesse detto il contrario, sarebbe finita su tutti i giornali. “Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2019 Fiammetta Borsellino al Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. “È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie”. È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano. Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale - come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla - “è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine”. Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. “Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo”, ha risposto Fiammetta. “Sicuramente io non sono una esperta in questo settore - ha continuato la figlia di Borsellino - ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni”. Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di “un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘la mafia ha perso’ o ‘la mafia ha vinto’ o anche ‘la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre”. Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita. Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. “A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto”, ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti. Ergastolo ostativo, la disinformazione è il vero regalo alle mafie di Domenico Bilotti* lanuovacalabria.it, 30 ottobre 2019 La Corte costituzionale italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno attribuzioni diverse e ruoli non sovrapponibili. L’una è giudice delle leggi nel diritto dello Stato, l’altra è organo la cui giurisdizione è fissata in un trattato internazionale. Come da tempo i giuristi si augurano, però, le Corti finiscono per dialogare: o perché le motivazioni della sentenza di una Corte richiamano la giurisprudenza dell’altra o perché quasi simultaneamente e in modo spesso del tutto involontario decidono di argomenti simili, con poteri e provvedimenti di differente natura. L’articolo 4bis, I comma, dell’ordinamento penitenziario italiano è esattamente uno di questi casi. L’articolo in questione, che prevede l’esclusione dai regimi beneficiali per alcuni soggetti condannati alla pena dell’ergastolo, e la disciplina che detta sono stati dichiarati dalla Corte di Strasburgo incompatibili con l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Intervenendo in riferimento a un diverso caso concreto, ma non invertendo una valutazione negativa dell’istituto, la Corte italiana ha dichiarato incostituzionale la norma che prevede il cd. ergastolo ostativo nella parte in cui non prevede però la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia nemmeno quando sia ormai esclusa l’attualità della partecipazione all’associazione criminale. Molti hanno commentato le due pronunce eleggendole a “regalo alla mafia”, a liberazione anticipata dei mostri della mafia stragista, addirittura (e come sbagliarsi?) ad attacco frontale alla sovranità dell’Italia nella lotta alla criminalità organizzata. Nulla di tutto questo. Le due pronunce, se un punto in comune ci pare che tratteggino, insistono su un aspetto molto diverso: non ci può essere un automatismo che escluda sempre e comunque un soggetto dai regimi di “beneficio”, in assenza della previa valutazione di un giudice. È l’autorità giudicante, garante della vicinanza alla fattispecie singola, che determina caso per caso l’ammissione a un diverso trattamento sanzionatorio. È l’elogio di un principio chiaro: l’esecuzione della pena ha un giudice e un giudizio, non è un “buttate la chiave” (e nemmeno un “aprite le porte”): è il giudice che può riscontrare - e in Italia, fatti salvi i casi pur clamorosi che comprensibilmente fomentano l’opinione pubblica - l’immissione del soggetto in un percorso rieducativo, riabilitativo ed emendativo. I giudizi di esecuzione sono peraltro statisticamente molto restrittivi e fa rumore l’approccio opposto. I fiumi di carta non apriranno le celle a sgherri e sicari, le città italiane non dovranno lottare con nuovi demoni (non bastassero i tanti e veri che abbiamo ogni giorno). L’ergastolo ostativo non appartiene ai principi ispiratori della Carta costituzionale: l’idea del prigioniero ostaggio della sua pena non appartiene ai costituenti e alle costituenti, che in molti casi il carcere conobbero per davvero. La pena può e deve consentire a chi ha espiato o sta espiando le colpe individuate dall’applicazione della norma penale di non restare vita natural durante un soggetto espulso da ogni forma di contatto col mondo, inumato in una bara di sbarre. La pena funziona quando agisce, non quando si ipostatizza: altrimenti non funziona. Proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due simboli della lotta alla criminalità organizzata portata al suo più alto livello di efficienza e qualità investigativa, hanno scritto pagine importanti sulle collaborazioni di giustizia e sulla loro gestione: certi che le propalazioni rese all’autorità giudiziaria non siano di per sé sinonimo di verità e pentimento e altrettanto certi che un processo di radicale ripensamento individuale possa avvenire anche per il reo notorio, il reietto ufficiale, il delinquente più sperimentato. La lotta alla mafia s’alza di qualità se diventa strategia di scoperta dei presupposti sociali e degli effetti anche patrimoniali dell’agire mafioso, non se la si inquadra credendo che azzerare le minime, minime, forme di socialità sia l’unica via… e per cosa? Di questo, dell’avanzata di mafie estere in Italia, della penetrazione delle mafie nell’agire amministrativo, della disinvolta gestione legislativa del processo (tanto civile quanto penale) non c’è traccia nelle parole di chi ha tuonato contro il verdetto di Strasburgo o contro una Corte costituzionale invece sostenuta e supportata a convenienza e a corrente alternata. Ed è strano perché il sapere nell’agire democratico è il solo vero regalo alla legalità. *Professore a contratto di Diritto e religioni nell’Università Magna Grecia di Catanzaro La Corte Costituzionale: le pene abbiano un fine rieducativo di Roberto Davide Papini riforma.it, 30 ottobre 2019 Anche la Consulta si è espressa a proposito dell’ergastolo: le prime reazioni non sono certo costruttive. Come accade spesso (ultimamente anche nello spinoso tema del fine vita) il Parlamento italiano, paralizzato da partiti, di maggioranza e di opposizione, che guardano all’immediato tornaconto elettorale e non a politiche di largo respiro, anche sul tema delle carceri si fa riprendere dalle supreme Corti che correggono le storture del nostro sistema di pena. Così, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ha censurato l’ergastolo ostativo come “pena inumana e degradante”, arriva anche la sentenza della Corte Costituzionale sullo stesso tema: i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario carcerario non possono essere negati a priori ai detenuti, anche se non collaborano con la giustizia. A essere dichiarato incostituzionale, dunque, è l’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento dove si prevede, in maniera automatica, la non concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia “anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Una scelta, quella della Consulta, che segue il principio costituzionale del fine rieducativo della pena, sostenendo che “la presunzione di pericolosità sociale del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. In sostanza, quindi, non ci saranno orde di criminali che usciranno dal carcere per seminare morte e violenza nelle nostre città, perché ogni richiesta di permesso premio sarà valutata caso per caso da un magistrato e supportata da vari pareri e soprattutto vincolata al fatto che “il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Un passo importante sul percorso tracciato dall’articolo 27 della nostra Costituzione, e sulla stessa linea era andata la già citata sentenza della Cedu: “È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura”. Con alcune eccezioni, le reazioni del mondo politico sono state allarmate, preoccupate, catastrofiste: dalle dichiarazioni estreme (“è una sentenza che grida vendetta”, ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini) a quelle più pacate ma comunque negative (“sentenza stravagante, non condivido”, ha commentato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti). Il dibattito, ovviamente, resta aperto ed è più che legittimo criticare ogni sentenza. Resta, però, l’impressione di una politica che sceglie secondo i (presunti) umori dell’elettorato, cercando di parlare alla pancia dei cittadini, invece di rivedere seriamente quanto e come le nostre norme sulla pena e la loro applicazione (vedi le pessime condizioni e il sovraffollamento in molti istituti penitenziari) siano effettivamente compatibili con la Costituzione e i principi dello stato di diritto. Magari raccogliendo (con un dibattito serio, però, e non di pancia) la provocazione di Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale: “Questa è solo una prima tappa. Il nostro obiettivo è che la Corte dichiari incostituzionale la misura dell’ergastolo”. Permessi premio per ergastolani: è polemica tra garantisti e giustizialisti di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 30 ottobre 2019 Il pronunciamento delle Corte Costituzionale annulla in parte il 4bis e assegna ai magistrati di sorveglianza il compito di valutare caso per caso. Ma l’opinione pubblica è divisa. Il Garante dei detenuti delle Marche Andrea Nobili: “Tutelano i diritti, ma la pena esiste per una criminalità molto significativa”. La Corte Costituzionale ha aperto ai permessi premio per detenuti condannati all’ergastolo anche per reati di mafia e terrorismo. Un pronunciamento che divide la politica e l’opinione pubblica e che di fatto annulla in parte il 4bis: i mafiosi in regime di ergastolo ostativo potranno accedere ai permessi premio anche se non collaborano con la giustizia, ma a condizione che non abbiano più legami con la criminalità organizzata, che partecipino al percorso rieducativo e che non rappresentino più un pericolo sociale. Saranno i magistrati di sorveglianza a valutare ogni caso sulla base delle relazione del carcere, del parere della Procura Antimafia o Antiterrorismo competente e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il cosiddetto ergastolo ostativo è infatti regolato dall’articolo 4bis dell’Ordinamento Penitenziario che stabilisce che le persone condannate per mafia o terrorismo non possano godere di alcuni benefici come la libertà condizionale, il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semi libertà. Recentemente contro l’Ergastolo Ostativo si era pronunciata la Corte Europea per i Diritti Umani (Cedu) che aveva sollecitato l’Italia a porre rimedio. Prudente la posizione del Garante dei diritti dei detenuti Andrea Nobili: “Se da un lato l’ergastolo ostativo viola i principi della Costituzione non consentendo di declinare la pena in chiave rieducativa, occorre anche considerare che questo tipo di pena esiste perché in Italia c’è una criminalità molto particolare. In linea di principio la sentenza della Corte Costituzionale è condivisibile per la tutela dei diritti, spetterà poi al magistrato di sorveglianza valutare di volta in volta ogni caso: una bella difficoltà dal momento che si tratta di soggetti che hanno un percorso criminale molto significativo e che non hanno dato prova di voler collaborare con la giustizia”. Duro il commento del senatore della Lega Paolo Arrigoni: “La Lega è sempre dalla parte delle vittime e quella della Consulta è una sentenza pericolosa, che fornisce ai peggiori criminali, inclusi mafiosi senza scrupoli, un alibi per non collaborare con la giustizia. Così facendo si afferma che non c’è differenza tra chi collabora con la giustizia e chi sceglie l’omertà, mettendo a rischio i cittadini italiani. La questione ora dev’essere affrontata in Parlamento e la Lega farà di tutto per smontare la decisione e perché ad essere difese siano le vittime di reato e quelle che potrebbero diventarlo”. “La Corte di Giustizia Europea ha attaccato il sistema del 4bis - commenta Corrado Canafoglia, legale di Unione Nazionale Consumatori - un sistema di tutela dello Stato da criminali particolarmente efferati come mafiosi, persone pericolose, la cui forza viene esercitata anche dall’interno del carcere. Quella della Corte Europea è un’analisi basata sui massini sistemi teorici che non tiene conto delle problematiche reali insite nel nostro Paese: non dobbiamo dimenticare di avere le quattro mafie più importati d’Europa, due delle quali sono le più importanti del mondo, ovvero la mafia e la ‘ndrangheta. I nostri magistrati hanno ben capito che non basta tenere un mafioso dietro le sbarre, bisogna impedirgli di poter comunicare con l’esterno, senza dimenticare che questi carcerati sono responsabili di efferati delitti e di traffico internazionale di droga, oltre che di rifiuti illeciti, inoltre uccidono le persone facendo stragi. Reclusi con una potenza così forte che le barriere del carcere non riescono a fermarli, ma solo il 4bis può impedire che questo potere venga esercitato al di fuori. La stessa logica che avviene anche nel terrorismo, un sistema che ha portato a contenere il fenomeno della criminalità organizzata, ma che se continuiamo ad eliminare strumenti dalle mani dei magistrati rischia di saltare e diventa difficile combattere”. Cafanoglia continua: “Occorre fare una scelta, vogliamo combattere contro questi reati, oppure vogliamo solo fare sofismi? È questo il problema di fondo. Nonostante il carcere duro sia una misura estremamente punitiva e dura, e faccia storcere il naso agli operatori del diritto che hanno studiato Beccaria, al lato pratico ci rendiamo conto che i personaggi criminali ai quai è applicato il carcere duro non sono rieducati per cui è uno dei pochi elementi che costringe dentro un carcere e li rende innocui”. Per Canafoglia non bisogna dimenticare che è proprio il carcere duro ad aver convinto alcuni a collaborare e “ad aver consentito alla giustizia di penetrare nelle maglie della criminalità organizzata”. In pratica, secondo il legale, si aprirebbe un quadro che “va a scontrarsi con la pratica”. E conclude: “Vogliamo continuare a parlare di dottrina o combattere le mafie? Una comunità seria deve porsi questa domanda”. “Basta ergastolo!”, lo schiaffo che sarebbe piaciuto a Sciascia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 30 ottobre 2019 La Corte europea e poi la Consulta hanno detto no a una legge incostituzionale finalizzata a costruire il “pontificio”. Ci vorrebbe Leonardo Sciascia per sottolineare a modo suo gli schiaffoni che ancora bruciano sulle gote dei “professionisti dell’antimafia” in seguito a una serie di provvedimenti che hanno riportato qualche pillola di civiltà giuridica nel nostro paese. Le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, prima di tutto, ma anche la sentenza della Corte di cassazione che, quasi fosse ancora in servizio un Corrado Carnevale, ha fatto le pulci a chi aveva voluto a tutti i costi vedere la mafia a Roma laddove c’era la “normale” delinquenza se pur organizzata, con tutte le conseguenze processuali. detentive e anche mediatiche del caso. E ha stabilito che a Roma la mafia non c’è. Il primo schiaffo arriva dall’uggioso cielo di Strasburgo, pur se in stagione estiva, il 13 giugno di quest’anno. Riguarda un caso specifico, quello di Marcello Viola. ergastolano per reati di mafia, che si è sempre dichiarato innocente. Non si tratta di un detenuto qualunque, ma di un fantasma destinato a morire da prigioniero in seguito a una sciagurata decisione dell’ultimo imbelle governo della prima repubblica, che, incapace di sconfiggere la mafia che aveva assassinato Falcone e Borsellino con gli strumenti della repressione ordinaria, ricorse a una legge emergenziale. Una legge incostituzionale, dicemmo in pochi, in parlamento e fuori, in quell’estate del 1992, palesemente finalizzata a costruire il “pentitificio” come unico strumento di lotta alla mafia. Nacque così l’ergastolo ostativo, cioè quel “fine pena mai” che impedisce ai condannati all’ergastolo per gravi reati come mafia e terrorismo, di uscire prima o poi dal carcere come persone diverse da quelle che avevano commesso i reati e dopo il percorso rieducativo previsto dall’art. 27 della Costituzione. Salvo che non si siano trasformati in “pentiti”. Era il caso del detenuto Viola, che, essendosi sempre dichiarato innocente e non potendo collaborare con la magistratura, vedeva respinta ogni richiesta per i benefici penitenziari e la liberazione anticipata. Così presentò ricorso alla Cedu. La sentenza del 13 giugno ha condannato l’Italia. Lo schiaffo è pesante, perché mette in discussione proprio la costrizione alla collaborazione, il ricatto che impedisce il ritorno alla libertà del detenuto, ancorandolo per tutta la vita alla pericolosità del momento in cui aveva commesso il fatto. Eri delinquente a 18 anni? Lo sarai anche a 70, se non denunci qualcuno. Così dice l’Italia, e l’Europa la condanna. Dopo quella prima decisione si agita subito la corporazione delle toghe e di conseguenza il governo nei cui ministeri, forse non tutti lo sanno, si annidano molte toghe in veste di “tecnici”, molto sensibili al richiamo della casta e molto potenti. Il ricorso del governo Conte primo e secondo contro la Corte di Strasburgo pare scontata, del resto anche il ministro di giustizia Bonafede è sempre lo stesso. È quello che vuol rendere eterni i processi, lasciando nel limbo dell’incertezza sia gli imputati che le vittime bloccando la prescrizione, figuriamoci se non vuol rendere eterna anche la detenzione. Il governo presenta dunque il suo ricorso, adducendo alcune sentenze della nostra Corte costituzionale che in effetti aveva prodotto nel corso degli anni una giurisprudenza quanto meno contraddittoria sul tema, ma soprattutto spiegando all’Europa che, poiché in Italia c’è la mafia, sarebbe lecito violare lo Stato di diritto e la stessa Costituzione con ripetute leggi emergenziali. Quando si avvicina la data della decisione della Cedu sul ricorso italiano. fortissime sono le pressioni di coloro che ancora oggi Sciascia definirebbe “professionisti”. Il pubblico ministero della direzione nazionale antimafia Nino Di Matteo ha facilità a emergere per la forza delle sue argomentazioni sul presidente della commissione antimafia Nicola Morra e sullo stesso ministro guardasigilli. L’eliminazione dell’ergastolo ostativo, spiega ai suoi colleghi d’oltralpe, sarebbe un segnale ai capimafia e una “riaffermazione del loro potere”. Insensibili al grido di dolore si mostreranno però l’una dopo l’altra sia (9 ottobre) la Cedu che la stessa (23 ottobre) Corte costituzionale italiana. Che mettono, si spera, alcuni punti fermi. L’organo di Strasburgo mette l’accento sulle norme dell’ordinamento penitenziario (in particolare l’art. 4bis) che vanno modificate, soprattutto sul principio dell’automatismo. per rimettere nelle mani del magistrato il compito di giudicare caso per caso. La mannaia viene infine calata dalla Corte presieduta da Giorgio Lattanzi che dichiara l’incostituzionalità proprio in quell’articolo che trasformava i detenuti in fantasmi e l’ergastolo nella pena di morte. Due concetti che non riescono a penetrare nella cultura della maggior parte dei politici attuali, se escludiamo i radicali e l’associazione Nessuno tocchi Caino che si batte da sempre per l’abolizione della pena di morte nel mondo e di conseguenza contro l’ergastolo ostativo. All’appello del pm Di Matteo che continua a esortare la politica “a reagire” (vorremmo sapere con quali strumenti che non violino la Costituzione), rispondono compatti da Salvini a Zingaretti fino alla truppa dei grillini: obbedisco. La Corte europea dei diritti umani ha deciso: al mafioso non si può negare “la speranza” di Milena Gabanelli corriere.it, 30 ottobre 2019 Il 13 giugno 2019 una sezione del tribunale di Strasburgo si esprime contro l’esclusione dei benefici penitenziari per i detenuti condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo: nell’ordinamento italiano, questi detenuti non hanno diritto alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi premio. Lo Stato italiano ricorre, chiedendo la pronuncia della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo e sottolineando che il divieto-preclusione sia da considerare un caposaldo della legislazione contro il crimine organizzato: come spiegano coloro che lo hanno combattuto, i legami con mafia, ‘ndrangheta e camorra sono difficili da recidere. L’ergastolo ostativo era stano infatti introdotto nell’ordinamento italiano nei primi anni Novanta, per rafforzare le misure contro le grandi organizzazioni criminali dopo le stragi con cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad ottobre la Grande Camera della Corte europea ha ritenuto il ricorso inammissibile. La pronuncia si innesta sul ricorso presentato dal noto costituzionalista Valerio Onida per conto di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. Dopo essere stato sottoposto per sei anni al regime di carcere duro regolato dall’articolo 41bis, Viola ne è uscito e ha chiesto di ottenere un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Le sue richieste sono sempre state rifiutate sulla base dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario italiano, secondo il quale per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per questi tipi di reato devono prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Viola invece si è sempre dichiarato innocente. Dopo il ricorso presentato da Onida, la Corte europea ha stabilito che l’ergastolo ostativo, cioè “il fine pena mai”, non è compatibile con l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani. Anche l’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene devono tendere “alla rieducazione del condannato”. Nel 2003 la Corte Costituzionale italiana aveva difeso l’ergastolo ostativo, sostenendo che la mancata collaborazione con la giustizia sia una scelta del condannato. Pochi giorni fa, però, il massimo tribunale italiano ha dichiarato l’ergastolo ostativo sancito dall’articolo 4bis incostituzionale, e ha affermato che anche ai mafiosi che non collaborano possono essere concessi permessi premio. Una Corte però spaccata poiché 7 giudici sarebbero stati contrati e 8 favorevoli. Quel che è certo è che la procedura è complessa: devi aver scontato almeno 10 anni di carcere, deve esserci il parere favorevole dell’assistente sociale, del Giudice del Tribunale di Sorveglianza, devono essere sentiti i pareri dei magistrati (che potranno ricorrere contro un parere favorevole non condiviso, fino in Cassazione), della procura antimafia, del Prefetto. Se sono tutti concordi sul fatto che il detenuto si è comportato in modo esemplare, che non ha più contatti con le cosche ed ha manifestato la volontà di redimersi, allora potrà ottenere un permesso premio. I magistrati che da 40 anni combattono mafia camorra e ‘ndrangheta sostengono che non c’è un solo detenuto per mafia che abbia mai avuto una sanzione, sono tutti detenuti modello, proprio per continuare a mantenere i contatti. Spiegano che è molto difficile provare la scissione con la cosca di appartenenza, e quando emerge è per puro caso, e all’interno di altre indagini, e i contatti spesso vengono mantenuti tramite gli avvocati, i cui colloqui non sono monitorabili. Difficile prendere posizione, si può prendere atto che questa pronuncia della Corte è stata presa sul serio, mentre tutte le altre che riguardano le condizioni disumane delle carceri italiane no, e continuiamo a pagare multe come se nulla fosse. La pena ha una funzione riabilitativa, e la riabilitazione passa attraverso il lavoro - lo dice la legge. Il nostro sistema, molto sensibile ai diritti umani, non garantisce a tutti i carcerati, che una volta scontata la pena usciranno, la possibilità di lavorare durante il periodo di detenzione. Infatti il 70% torna a delinquere. “Io deputata 5 Stelle rispetto la sentenza sull’ergastolo, ma ora più tutele ai giudici” di Errico Novi Il Dubbio, 30 ottobre 2019 Intervista a Anna Macina, Commissione Affari costituzionali della Camera. “Rispettare la sentenza? Non avrebbe senso ipotizzare il contrario. La pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo è il punto di partenza. Ma di fronte a un intervento su norme di tale delicatezza è dovere del legislatore provvedere a ogni eventuale ulteriore modifica che possa completare il quadro definito dalla Consulta”. Anna Macina, capogruppo 5 Stelle nella Commissione Affari costituzionali di Montecitorio, è la voce con cui il Movimento prova a superare l’inquietudine per la parziale bocciatura dell’articolo 4bis, arrivata lo scorso 23 ottobre. Pochi minuti dopo la decisione con cui i giudici costituzionali hanno di fatto reso possibile concedere permessi anche agli ergastolani per mafia e terrorismo, lo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha prefigurato un “impegno del Parlamento sulla questione”. Sul Blog dei 5 Stelle è apparsa una nota dello stesso tenore. Ad anticipare le possibili mosse della maggioranza è dunque la deputata eletta a Brindisi che tiene a definirsi “avvocato convinto della differenza tra chi dice di fare e chi sa di essere avvocato”. La sentenza ha aperto una strada e non sono ipotizzabili retromarce, onorevole Macina... La sentenza va rispettata. All’interno dello spettro definito dal giudice delle leggi è comunque possibile un intervento del legislatore. Quale potrebbe essere? Partirei da due presupposti. Prima di tutto il rischio di un travisamento, sul piano mediatico, del dato affermato da Palazzo della Consulta: non ci sarà alcuna automatica uscita in massa degli ergastolani, in particolare di condannati per mafia, piuttosto viene attribuito al giudice di sorveglianza un potere discrezionale nel valutare caso per caso, ma sempre all’interno di una cornice ben precisa. Il secondo punto di partenza deve essere, a mio giudizio, proprio nel fatto che non è ragionevole scaricare sul singolo magistrato la responsabilità di decisioni così pesanti nei confronti di condannati per 416 bis o per terrorismo. D’altra parte nella necessità di una concreta, specifica valutazione del giudice è proprio il cuore della sentenza... Va però ricordato anche che se un giudice è lasciato totalmente solo nell’assumere decisioni su mafiosi o terroristi si rischia di condannarlo. Ecco perché noi dobbiamo puntellare tutti quei parametri che poi diventano gli strumenti concreti di valutazione per il giudice di sorveglianza. Non sarebbe semplice approvare una legge che integri l’ordinamento penitenziario nella parte già vagliata dalla Corte... Ma intanto si può partire da uno strumento sottovalutato, previsto all’articolo 108 del regolamento di Montecitorio: la possibilità che la commissione Affari costituzionali, di cui faccio parte, istruisca un approfondimento sulle sentenze della Consulta. Si può nominare un relatore e approvare un documento che indichi possibili ulteriori linee di intervento. Uno strumento per comprendere se e quali misure possano completare il quadro normativo, nello spazio lasciato al legislatore? Parliamo di una prerogativa importante riconosciuta alla Prima commissione. Tanto che quel documento viene poi trasmesso non solo ai presidenti di entrambe le Camere ma anche ai vertici della stessa Corte costituzionale, del governo e ai ministri competenti. Credo che il caso delicatissimo dell’ergastolo ostativo reclami proprio simile approfondimento. Ma sul rispetto della sentenza non ci sono equivoci, giusto? Ci mancherebbe che la Camera possa contrastare una pronuncia della Corte. Come si regola altrimenti da quanto già previsto dopo la sentenza il caso di un ergastolano che non collabori per timore di rappresaglie su persone a lui care ma che non potrebbero essere incluse nel programma di protezione? Ecco, è proprio l’ipotesi che potrebbe aver motivato la decisione della Consulta, anche se per comprenderlo dovremo leggere le motivazioni. Ma intanto direi che si tratta di ipotesi limitate, residuali e comunque non riferibili a capimafia, per intenderci. Credo comunque che la risposta più adeguata potrebbe consistere nel fissare criteri ancora più rigorosi per la definizione dei pareri che devono precedere la decisione del giudice, a partire da quelli del procuratore distrettuale e della Dna, magari prevedendoli come vincolanti. Sono atti già prodotti secondo standard molto rigorosi... Possiamo rafforzare la necessità di verificare concretamente sul territorio la sussistenza delle condizioni indicate dal condannato. Sia nel senso di accertare la scomparsa di legami anche indiretti con l’organizzazione, sia con la verifica, attraverso i presidi di legalità, dell’effettiva esistenza di rischi quali quelli paventati. Ma ripeto, parliamo di casi limite. E comunque in circostanze simili un certo tipo di permessi dovrebbe essere considerato assai pericoloso. Quale tipologia? Se il detenuto esce dal carcere per essere presente a un matrimonio, andrebbe considerato in maniera ancora più scrupolosa il rischio che possa riallacciare relazioni criminali. Gli spazi per il legislatore potrebbero rivelarsi davvero minimi... In gioco c’è il bilanciamento tra il fine rieducativo della pena e l’interesse pubblico a non spuntare le armi della lotta al crimine. Proprio per approfondire tale equilibrio credo sarebbe utile che la prima commissione ascoltasse anche i costituzionalisti. Il punto chiave è ripristinare l’autonoma valutazione del giudice, liberarla dagli automatismi: il Movimento può essere disponibile a ragionarci anche al di là dell’ergastolo? A mio giudizio sarebbe utile che l’automatismo fosse in qualche modo mantenuto: protegge il giudice nel senso che lo lascia meno esposto alle conseguenze delle sue valutazioni. Il fine rieducativo della pena va preservato senza compromettere strumenti adottati dopo la stragi di mafia. Chiederemo ai costituzionalisti di approfondire insieme anche questo aspetto. Ioia: “Da ex detenuto vi racconto il carcere. L’articolo 27 della Costituzione? Solo parole” di Rossella Grasso Il Riformista, 30 ottobre 2019 “Nelle carceri italiane l’articolo 27 della Costituzione non è rispettato”. A denunciarlo è Pietro Ioia, napoletano, ex detenuto e ora fervente attivista per i diritti dei detenuti, presidente dell’Associazione Ex Don. “Sono stato uno spacciatore, poi narcotrafficante internazionale negli anni 80, sono stato arrestato e trattenuto in carcere per 22 anni. Nel 2002 sono uscito e ho deciso di cambiare vita. Da 15 anni lotto per i diritti dei detenuti”. Pietro parla con i reclusi, con le loro famiglie e con chi esce. A questi ultimi cerca di dare una mano a reinserirsi nel mondo del lavoro e a non delinquere più. “Per me è stata dura ricominciare - racconta - Per chi esce dal carcere non ci sono mai state possibilità. Quando sono uscito dal carcere ho cercato lavoro a Modena. Durante la detenzione avevo fatto corsi di carpenteria, ma il posto dove avevo trovato lavoro, dopo aver scoperto che ero un ex detenuto mi ha sbattuto la porta in faccia. Sono tornato a Napoli e ho lavorato sempre in nero, era l’unico modo. Ho deciso di cambiare vita perché guardandomi indietro ho capito di aver lasciato da sola la mia famiglia, i miei figli sono cresciuti senza di me. Ho avuto occasione di tornare a delinquere ma ho detto basta”. Pietro, grazie alla sua esperienza, riconosce e testimonia l’importanza di poter svolgere in carcere corsi di formazione che siano davvero utili a trovare lavoro. Per lui è un problema che riguarda tutta la società: “Se in carcere non si impara nulla, il detenuto uscirà ancora più criminale - dice - Se uno non si rieduca è inutile, avremo sempre più criminali. Recuperare un delinquente è recuperare un mondo”. Per Pietro l’articolo 27 della Costituzione non è rispettato affatto. “Troppo spesso arrivano alle cronache storie di poliziotti penitenziari che picchiano i detenuti, come è successo a Torino. Poi c’è il caso della “cella zero” a Poggioreale per cui è in atto un processo in cui sono coinvolti 12 poliziotti penitenziari. Se si rispettasse l’articolo 27 tutto questo non succederebbe. Una persone è in custodia della polizia ed è un essere umano prima di essere un detenuto”. Pietro è stato uno dei primi a denunciare la presenza della ‘cella zero’ a Poggioreale. Una cella di torture che adesso è stata chiusa. Detenuti, ex detenuti e famiglie chiedono a Pietro voce e appoggio per difendere i loro diritti. “Quello che mi raccontano più spesso sono storie di mala sanità. “Tempi enormi per poter fare una visita specialistica, medicine che non ci sono da quando la gestione è andata in mano all’Asl Napoli 1, non ti fanno manco comprare le medicine o fartele portare dai parenti. Poi ci sono le malattie virali e le infezioni che si diffondono per gli spazi stretti. Addirittura si parla di casi di tubercolosi”. E racconta di un detenuto 40enne che dal carcere di Palermo, il Pagliarelli, è stato trasferito a Poggioreale 5 mesi fa per fare una visita specialistica. Nel giorno dell’appuntamento prefissato non c’era nessuno che poteva accompagnarlo perché il personale della polizia penitenziaria è sotto organico. È ancora lì, sovraffollando ulteriormente un carcere che già sta straripando con le conseguenti problematiche. “Portare lontano un detenuto dalla sua città vuol dire allontanarlo dai suoi cari che magari non hanno i soldi per potersi pagare il viaggio per andare a trovarlo. Soffre tutta la famiglia, non solo chi ha sbagliato”. “Io non sono dell’idea che sia giusto abbattere tutti i carceri - spiega l’attivista. Ci sono persone che per i reati che fanno meritano il carcere. Il problema è che i penitenziari dovrebbero essere strutture moderne, spaziose, in cui entrano ditte esterne per cui un detenuto dovrebbe lavorare, non oziare. Lavorare per costruire il suo futuro, imparare come è successo a me e con quello che ho imparato lì mi sono potuto ricostruire la vita”. Per Pietro invece il carcere serve solo a farsi una cultura criminale. Si entra per un aver commesso un errore, magari uno scippo fatto per fame, e si esce veri e propri criminali. “In cella si parla solo di affari illegali. Poggioreale, per esempio, è un posto criminogeno, una vera e propria scuola di criminalità. E questo succede ovunque”. Recentemente Pietro ha vinto il “Premio Diritti Umani Stefano Cucchi Onlus” promosso e consegnato da Ilaria, la sorella di Stefano, il ragazzo morto il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare. Un premio che lo ha particolarmente emozionato perché arriva come riconoscimento della sua instancabile attività in difesa dei diritti dei detenuti. “È un premio che arriva da una famiglia che ha subito un morto in quel modo, un morto in mano allo Stato, una tragedia immane - dice Pietro. Questo premio mi fa capire che le battaglie che si fanno per i diritti umani vanno sempre fatte. E io continuerò a farle con tutte le mie forze”. Ma potrebbe esserci una nuova opportunità per Pietro. Napoli avrà presto un garante dei detenuti. C’è possibilità di mandare la propria candidatura fino al 1 novembre, dopodiché il sindaco Luigi De Magistris dovrà scegliere uno tra i candidati che resterà in carica per 5 anni (rinnovabili di altri 5). Tuttavia il ruolo non prevede alcun compenso, sebbene si tratti di una posizione strategicamente importante. Pietro non sa se candidarsi o no ma spera che il posto sarà occupato da un professionista sensibile alle problematiche dei detenuti a Napoli. “Ce n’è davvero tanto bisogno”, ha concluso. Abusi in cella? Tra gli agenti c’è chi dice no alla violenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2019 Parla Nicola D’Amore, in servizio a Bologna ed esponente del Sindacato Sinappe: “Il carcere si sta trasformando in un ghetto, dove il lavoro è sempre più difficile e i detenuti non dovrebbero viverlo come esclusivamente punitivo”. Ultimamente sono venuti allo scoperto numerosi episodi di cronaca per presunti abusi da parte degli agenti penitenziari. Pestaggi, uso improprio degli idranti, persone lasciate ammanettate nei passeggi, abuso spropositato dell’isolamento. Non c’è giustificazione alcuna, nonostante la difficoltà evidente nel rapportarsi con detenuti che vanno in escandescenza, soprattutto a causa delle patologie psichiatriche che taluni hanno: chi aveva problemi mentali già da prima, oppure sopravvenuti durante la detenzione. Oppure i detenuti stranieri, i quali hanno il problema della barriera linguistica e, in mancanza di mediatori, si trovano perduti: per comunicare il loro disagio ricorrono all’autolesionismo o, appunto, alla violenza. E gli agenti penitenziari sono quindi giustificati a ripagare con la stessa moneta, nonostante l’oggettiva difficoltà? C’è chi dice no come Nicola D’Amore, agente penitenziario che opera al carcere di Bologna ed esponente del sindacato Sinappe, che da anni si batte per una svolta culturale da parte degli agenti. Sì, perché se da una parte ci sono episodi di evidenti abusi, dall’altra ci sono tantissimi agenti che si comportano professionalmente per sedare i comportamenti violenti dei detenuti. Lui stesso, assieme ad altri suoi colleghi, ne è stato recentemente l’esempio. Un detenuto tunisino, con problemi psichiatrici, era andato in escandescenza in una stanza dell’ospedale del Sant’Orsola, dove era piantonato, e con una sbarra improvvisata, ha distrutto tutto quello che si è trovato davanti. Con lui c’era anche un altro detenuto, quindi in pericolo. Gli agenti, tra i quali Nicola D’Amore, sono intervenuti senza caschi né scudo, ma anche senza mascherine che hanno dovuto richiedere al personale sanitario. Hanno utilizzato una tecnica di mediazione, senza ricorrere a metodi coercitivi. Lo hanno riportato alla calma, senza utilizzare metodi violenti. “Ho avuto la fortuna di stare assieme a colleghi che hanno una cultura diversa rispetto a quella di altri- spiega a Il Dubbio il sindacalista Nicola D’Amore - abbiamo dimostrato che si può agire diversamente attraverso tecniche diverse e non coercitive”. L’agente evidenzia però che hanno agito da autodidatti. “Ci vorrebbe una formazione diversa, dei corsi professionali che insegnino a comunicare, saper mediare e soprattutto lavorare in sinergia con altre figure professionali indispensabili come gli educatori, medici e mediatori culturali”. D’Amore ci tiene a sottolineare che qualcosa sta cambiando con le nuove leve. “I giovani agenti penitenziari spiega l’esponente del Sinappe hanno indubbiamente una formazione diversa, molti hanno avuto anche un percorso universitario e, a differenza del passato, non provengono dall’esercito”. Perché è importante? “Il carcere - spiega D’Amore - non è un campo di guerra, ma una comunità dove noi agenti penitenziari non dobbiamo considerarci una specie di corporazione, ma un gruppo che lavora per la società”. Il sindacalista che opera a Bologna non fa sconti a nessuno, nemmeno alla sua categoria. “Noi - spiega D’Amore - rispetto al passato, abbiamo raggiunto tutele che prima non avevamo, ora dobbiamo pensare alla qualità del lavoro, non ridurci a figura da carceriere, ma promotori dell’opera trattamentale dei detenuti”. Lui che è nato a Napoli e conosce quartieri difficili come Scampia, sa che l’ambiente stesso può produrre degrado e fa la comparazione con il carcere. “Non può diventare un contenitore del fallimento dello Stato - spiega - perché in questo modo si sta trasformando in un ghetto, dove il lavoro è sempre più difficile e i detenuti stessi non dovrebbero viverlo come esclusivamente punitivo”. Nicola D’Amore ritiene che gli agenti penitenziari debbano avere anche dei centri di ascolto, in maniera tale da non riversare il loro disagio e le frustrazione sull’anello debole, che in questo caso è il detenuto. Una rivoluzione culturale nel mondo degli operatori penitenziari è quindi possibile. Il digitale in carcere. Come può ridurre l’isolamento dei detenuti di Luigi Accattoli ilregno.it, 30 ottobre 2019 La comunicazione digitale che tutto collega potrebbe domani mitigare la segregazione del mondo carcerario, almeno per gli aspetti più iniqui e meno necessari. Ho percepito qualcosa di questa possibilità nel mio lavoro di giurato del Premio Castelli, un premio “letterario” per detenuti che ha dietro la Società di San Vincenzo de Paoli. Provo a raccontare quella percezione. Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. Dalla mia partecipazione al premio che gli è intestato ho ricavato una minima conoscenza delle carceri e qualcosa ne ho riferito in questa rubrica nei mesi di ottobre degli ultimi anni (cf. Regno-Att. 18,2018,575ss). Negli occhi del compagno la tua stessa solitudine - La premiazione è sempre ottobrina e avviene ogni anno in un carcere diverso: quest’anno andiamo a Matera. Le 11 precedenti edizioni ci avevano portato a Palermo, Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta, Padova, Nisida (Napoli). Ma la mia vera esperienza del carcere è nella lettura delle centinaia di “lavori” che i detenuti inviano alla giuria e che ultimamente mi ha provocato a indagare sul rapporto tra il carcere e il digitale. “Riconoscere l’umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza” era il tema di quest’anno. Molti tra i lavori che abbiamo ricevuto attestano che il riconoscimento d’umanità talora sorprende, affiorando nelle situazioni anche meno propizie, come potrebbe sembrare quella del carcere; e può capitare che sia proprio la prova del carcere a favorire quel riconoscimento. Il testo che ha vinto il secondo premio argomenta così la riscoperta dei “rapporti di buon vicinato” da parte dei reclusi: “La condizione obbligata del carcere fa fare passi molto veloci sulla via della reciproca conoscenza. Star sulla stessa barca diventa molto più che un modo di dire e la condivisione cresce esponenzialmente”. Vari tra i testi che sono entrati nei 10 “segnalati” indicano l’aiuto al recupero d’umanità che è venuto ai loro autori dall’esempio dei volontari: cioè da un’umanità che “si avvicina a quanti hanno sbagliato dandogli un’altra possibilità”. E in tale avvicinamento c’è spesso il seme di una futura fratellanza, “perché l’umanità è qualcosa che ognuno riconosce, senza dubbi, quando la scopre negli occhi dell’altro e ne rimane contaminato”, conclude un lavoro intitolato “Eroi”. Il riferimento allo sguardo come specchio d’umanità lo troviamo anche in un altro dei 10 testi segnalati: “Pian piano, troviamo negli occhi del compagno la nostra stessa solitudine e dai meandri della mente riaffiora la misericordia”. Ci ha sorpresi, nei lavori di questa edizione, l’insistita segnalazione dei rischi che possono venire dai social e - più in generale - dalla comunicazione digitale. Sono 13 i concorrenti che svolgono questo richiamo mai prima riscontrato nelle annate del premio. Uno di essi propone un sottile paragone tra le identità fittizie indotte dai social e quelle favorite dalla reclusione. Osserva che in carcere spesso “l’umanità che ciascuno porta in sé si occulta dietro cliché comportamentali” e argomenta che “proprio questo specifico aspetto ha significative somiglianze con il “fuori”: in carcere non c’è Internet per nascondere la propria identità fino al punto da crearne una fittizia, ma lo si fa ugualmente, generando formalismi vuoti”. L’urgenza di svegliare chi si perde nella Rete - Il testo “Il regalo di un sorriso”, che è tra i segnalati, vede nei social il volano del livellamento universale delle individualità: “Oggi ogni aspetto della vita sociale è gestito da connessioni alla Rete. Le parole sono sostituite da messaggi e foto e tutti sanno tutto di tutti”. Il lamento dei nostri concorrenti verso il digitale è spesso generico, somigliante a quello che capita d’ascoltare tra i passeggeri di un treno. C’è chi attribuisce al “bombardamento di messaggi” la “spinta a non prestare ascolto agli altri”. Un altro afferma che l’uso dei social produce un “calo” delle relazioni. Un terzo osserva che “la tecnologia della comunicazione allontana”. Un quarto azzarda che “le reti sociali controllano la nostra vita”. Com’è generica la denuncia, generico è il rimedio. Un concorrente invita a diffidare dei social che “dovrebbero accorciare le distanze ma in realtà ci rendono più distanti”. Un altro segnala l’urgenza di “richiamare chi si isola nella Rete” e di “ricordargli che i veri rapporti sono quelli che nascono tra i viventi e non dietro una tastiera”. Un terzo dà ai giovani il rassegnato consiglio di lasciare il cellulare e di “andare di persona a trovare colui a cui si vuole dire qualcosa, mettendoci la faccia”. Ma abbiamo letto, nei lavori in concorso, anche osservazioni cavate dal vissuto. Uno dei concorrenti indica tra le cause della propria devianza “le relazioni telematiche che non si svolgevano quasi mai a quattr’occhi”. Un altro è tentato di dare tutte le colpe allo smartphone e giura che mai più “sprecherà un solo istante a far divorare le sue sensazioni da quel diabolico congegno”. Un terzo osserva che “on-line e sui social appare più evidente il fenomeno, che c’è sempre stato, di chi prende spavalderia a insultare quand’è sicuro di non essere visto”. Le paranoie di non avere il cellulare - Un concorrente dettaglia l’improbabilità che le “amicizie” della Rete incidano sulla vita: “La quasi totalità delle persone utilizzano un like per condividere una richiesta di aiuto, mentre solo una sparuta minoranza ha l’umiltà di trasformare quel like in un gesto di solidarietà”. Colpisce questa attenzione al digitale da parte dell’umanità delle carceri, che è impedita dall’usarlo. In qualche caso si avverte, dietro ai fuggevoli accenni, un’esperienza maturata fuori da chi è in carcere da poco: un concorrente racconta come gli sia stato necessario “oltre un mese dall’arresto per levarmi le paranoie di non avere il cellulare”. Ma più frequente è l’impressione di un apprendimento indiretto di questa realtà, dai contatti con i familiari, in occasione di permessi, attraverso la lettura e l’ascolto della televisione. Il fatto che tanta attenzione al digitale nei lavori in concorso si sia manifestata quest’anno e non fosse comparsa prima, induce a ipotizzare che stia lievitando nella società una percezione collettiva dei fenomeni digitali, veicolata principalmente - si può immaginare - dalla cronaca su vicende di plagio, di dipendenza, di violenza, di vendetta, di suicidio a seguito di fissazioni e irretimenti legati all’abuso dei social. Quella percezione è ormai pervasiva e non trova più un reale ostacolo neanche nelle mura delle carceri. “Possibilità d’accesso a Internet da parte dei detenuti” è intestata una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che, nel 2015, autorizzava la creazione di postazioni Internet in locali comuni come biblioteche, aule d’insegnamento, sale lettura - per finalità di studio, formazione, aggiornamento, lavoro - con accesso autorizzato e sorvegliato per evitare che i detenuti possano comunicare con l’esterno. In collegamento Skype e col “Mai dire mail” - Un carcerato può anche essere autorizzato a tenere un portatile in cella, disattivata la connessione a Internet. In alcuni istituti è oggi possibile sostituire la telefonata ai familiari con un collegamento Skype, in postazioni controllate e con esclusione dei detenuti nei circuiti di alta e massima sicurezza. Pur nella breve esperienza maturata a oggi, la letteratura carceraria attesta che il collegamento audio-video risulta prezioso per mitigare la solitudine di detenuti che vengono a trovarsi senza contatti con i familiari, quando questi sono lontani o impediti a viaggiare. In altre carceri è possibile comunicare via e-mail tramite un servizio assicurato da volontari che si chiama “Mai dire mail”: il detenuto scrive il messaggio su un foglio indicando l’indirizzo e-mail del destinatario, al quale il testo viene inoltrato da una postazione esterna al carcere. Chi lo riceve può rispondere allo stesso indirizzo, specificando l’identità del detenuto, al quale il messaggio arriverà stampato. Il vantaggio di questa mail per interposto volontario - e con il controllo dei contenuti da parte degli organi di vigilanza, come avviene per la posta ordinaria - è nella velocità della comunicazione dall’oggi al domani che può essere provvidenziale per detenuti che vivono malattie, lutti, decisioni riguardanti la coppia e i figli. In Francia - leggo sul quotidiano Le Parisien - la sperimentazione del computer in cella pare sia più avanzata che da noi, anche se limitata a circuiti Intranet, cioè scollegati dalla Rete globale, che però forniscono agli utenti tutti i vantaggi che derivano dall’essere interconnessi tra loro. A Padova i detenuti gestiscono un Call center - Il settimanale Vita dell’11 novembre 2016 informava che Vodafone aveva firmato un’intesa con il Ministero della giustizia per la fornitura gratuita di 130 PC in 10 carceri italiane. “Vogliamo dare un contributo alla formazione digitale dei detenuti” aveva dichiarato Maria Cristina Ferradini, sustainability manager di Vodafone. Quando visitammo come Premio Castelli il carcere Due Palazzi di Padova, ci mostrarono un Call center per ospedali e per varie aziende; e aule per attività informatiche varie, dal trattamento delle “firme digitali” alla digitalizzazione di documenti cartacei. Un volontario che accompagna i detenuti autorizzati a uscire “in permesso” mi racconta del loro stupore nel vedere ragazzi e adulti, in ogni ambiente, chini sui loro smartphone: credo sia questo sbalordimento nelle uscite o davanti ai televisori che ha attivato le considerazioni lette quest’anno nei lavori del Premio Castelli. Il garantismo non è una categoria, è la regola di Armando Spataro* Il Riformista, 30 ottobre 2019 Nella presentazione pubblica della linea editoriale del nuovo quotidiano “Il Riformista” ho letto che sarà “di sicuro garantista sulla giustizia”. Perché mai, mi sono chiesto, il garantismo dovrebbe essere una caratteristica speciale di un giornale, di un gruppo, di un partito, di una persona e non una regola ordinaria e diffusa? Sono convinto, cioè, che solo una interpretazione forzata del termine possa trasformarla in una qualifica eccezionale da porre in evidenza e magari tale da contrapporla a quella di “giustizialista”, come se si parlasse di “buoni” e “cattivi”. Personalmente, da magistrato, ho sempre svolto il ruolo di pubblico ministero, convinto che giudici e Pm debbano nutrirsi della stessa cultura giurisdizionale, privilegiando nella ricerca della verità il rispetto dei diritti e delle garanzie dei cittadini: è questo, tra l’altro, il senso dell’unicità delle due carriere previsto dal nostro assetto ordinamentale, invidiato in Europa e che qualcuno, in Italia, vorrebbe cancellare senza rendersi conto delle possibili gravi conseguenze. Sto dicendo che i magistrati italiani sono perfetti e non sbagliano mai? Assolutamente no e aggiungo che non apprezzo quelli tra loro che non sopportano critiche al proprio operato e che si propongono alle folle come gli unici ricercatori e custodi della verità. È tuttavia certo che ogni generalizzazione sarebbe anche in questo caso ingiustificata. Vorrei però capire per quali ragioni chi svolge il ruolo di pubblico ministero, magari in settori criminali di rilievo (mafia, terrorismo, corruzione etc.), debba solo per questo - specie in relazione a inchieste di un certo rilievo - essere così spesso tacciato di “giustizialismo” da parte di chi rivendica di essere “garantista”. Mi concedo una citazione dal passato solo perché serve a chiarire il mio pensiero: negli anni di piombo, fino al 1988, pubblici ministeri e giudici istruttori che si occupavano di terrorismo venivano spesso tacciati di essere “destrorsi” o quasi dai garantisti dell’epoca. Persino, alcuni magistrati arrivarono a criticare duramente i loro colleghi che lavoravano in quel settore criminale, “accettando - dicevano - di condurre inchieste fondate sulle dichiarazioni dei pentiti in cui avvengono illegalità e trattative sottobanco tra inquirenti ed imputati”: quelle teorizzazioni, diffuse anche nel mondo politico e tra tanti pseudointellettuali, amareggiarono un giudice istruttore come Guido Galli, che di quelle inchieste si occupava e che per questo chiese di lasciare il suo ufficio per venire in Procura. Non fece in tempo, lo uccisero il 19 marzo del 1980. Passando al moderno contrasto del terrorismo di matrice islamica, i pm italiani sono stati all’opposto accusati di eccedere in garantismo: un premier italiano ebbe ad affermare, nel dicembre del 2005, che “non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano” e nel febbraio del 2007 il Wall Street Journal definì “rogue prosecutor” (“procuratore carogna”) i pubblici ministeri che riservavano attenzione anche ai diritti e alle garanzie dei terroristi, inclusi quelli rapiti e torturati in base alla strategia americana della “War on terror”. È chiaro che gli esempi potrebbero essere tanti e riguardare altri settori dell’azione repressiva dei pm: come dimenticare le accuse di giustizialismo rivolte a Borrelli e al pool di Mani Pulite? E quelle di essere mossi dai propri orientamenti politici riservate a tanti magistrati che si sono occupati della “zona grigia” che spesso accomuna mafiosi e corrotti? Non si deve neppure tacere, però, sulle accuse di segno opposto: le critiche, come è normale in democrazia, sono sempre lecite se correttamente formulate, sicché non è possibile accusare di eccesso di “garantismo” e/o di voler difendere i criminali chi esercita tale diritto, anche se con toni ed espressioni forti! Piuttosto, nei confronti di chi commenta le inchieste giudiziarie debordando nell’insulto e nella manipolazione della realtà, specie se ciò avviene sulla base di interessi retrostanti, dovrebbero essere usate ben altre definizioni: non “garantista”, ma falsificatore e/o calunniatore. Un ruolo equilibratore in questa querelle potrebbe essere svolto proprio dai giornalisti che, per evitare equivoci, errori o strumentalizzazioni delle inchieste giudiziarie, dovrebbero verificare l’assoluta attendibilità di ogni notizia di rilievo di cui entrino in possesso, qualunque ne sia la fonte: magistrati, avvocati, imputati, parti offese dei reati. Credo, cioè, che anche per i giornalisti esista il principio di “obbligatorietà” dell’approfondimento e della ricerca dei riscontri alle notizie acquisite, esattamente come per i pm prima di utilizzare le dichiarazioni dei “pentiti”. Giornalisti e magistrati, però, quando la situazione lo richiede, dovrebbero sentire anche il dovere dell’autocritica: sto ancora aspettando di leggere qualche parola in tal senso da parte di coloro che in Italia e in Francia, pur se all’epoca smentiti dalla Cedu di Strasburgo, accusarono i magistrati di avere perseguito e condannato Cesare Battisti all’ergastolo negandogli le garanzie di un giusto processo. Da parte loro solo il silenzio ha fatto seguito alla recenti confessioni di Battisti che ha riconosciuto di essere stato responsabile dei quattro omicidi e di altri reati per cui era stato condannato. Chi fu allora garantista e chi giustizialista? Vallo a sapere! A proposito delle parti offese prima citate, mi permetto un’altra critica a certi eccessi di garantismo: come mai si manifestano solo a favore di imputati o indagati, e mai o quasi mai nell’interesse delle vittime dei reati? Riflettiamo anche su questo. Mi fermo qui e chiudo con un auspicio: nessuno si comporti o si orienti secondo doveri imposti dall’appartenenza all’una o all’altra categoria. Io mi auguro che il nuovo Riformista non si attesti, sulla giustizia, su posizioni di “garantismo a prescindere”, ma che sia capace di denunciare la violazione delle garanzie quando l’accertamento della verità dei singoli fatti lo consenta. E se ciò non è sempre compatibile con i tempi rapidi dell’informazione, occorre prudenza e pazienza. I lettori capiranno e apprezzeranno. *Ex magistrato Imputati a vita. È questa la modernità? di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 30 ottobre 2019 Il populismo giustizialista si nutre di menzogne. Quando la Corte Costituzionale restituisce finalmente ai Tribunali di Sorveglianza il compito di valutare se un ergastolano possa meritare o meno un permesso premio, occorre spaventare la gente dicendo che ora Bagarella te lo ritrovi per le strade di Corleone. E che così è stato ucciso una seconda volta Giovanni Falcone, anche se questo ergastolo ostativo non era in realtà il suo. Serve indignare, spaventare, suscitare rabbia per consolidare consenso politico e fortune editoriali. Ecco allora che la prescrizione dei reati deve essere raccontata non come il doveroso rimedio all’infame pretesa che un cittadino rimanga a vita in balia della giustizia penale, ma come una scandalosa esclusiva italiota nelle mani degli “avvocatoni”, cosicché politici e potenti “la fanno franca”, come Berlusconi ed Andreotti nel millenovecento e nonsoché. Gli avvocati, come è ben noto a chiunque pratichi le aule giudiziarie e sappia leggere un codice, non hanno il benché minimo strumento - ma dico: il benché minimo - per far prescrivere reati. Qualunque impedimento pur legittimo del difensore o dell’imputato - impegno in altro processo, malattia, sciopero - determina puntualmente la sospensione del corso della prescrizione. Macché: se leggi il Fatto Quotidiano apprendi che l’astensione dei penalisti della scorsa settimana concorrerebbe alla prescrizione dei fatti di Rigopiano, per dirne una. Quanto allo strumento degli imputati ricchi e potenti, basterà leggere le statistiche del Ministero di Giustizia. Il 60% circa delle prescrizioni matura prima della udienza preliminare, quando gli avvocati, per dirla con gergo calcistico, non hanno toccato palla. Una falcidia letteralmente interclassista, che per di più colpisce per la massima parte reati bagatellari che il sistema comunque non potrebbe assorbire. Una volta si usavano le ricorrenti amnistie per riequilibrare la ingestibile obbligatorietà dell’azione penale, oggi ci pensa la prescrizione nella fase delle indagini (“il nostro quantitative easing”, ha felicemente detto uno dei più autorevoli magistrati italiani). Un altro 15% di prescrizioni matura entro la sentenza di primo grado. Dunque se il Ministro Bonafede leggesse le sue stesse statistiche, comprenderebbe che la sua riforma “epocale” andrebbe ad incidere sì e no sul 25% delle prescrizioni (che a sua volta ammonta, per la cronaca, al 10% del totale dei procedimenti penali, non proprio una apocalisse). In cambio di questa marginalità di risultati, questa “riforma epocale” introduce tuttavia nel nostro sistema un principio letale e semplicemente incivile: lo Stato si prenda tutto il tempo che gli serve per celebrare processi e definire innocenti o colpevoli; imputati e parti offese se ne stiano lì, se necessario vita natural durante, ad aspettare i suoi comodi. È la definitiva consacrazione di una categoria sociale in verità già tristemente diffusa: l’imputato a vita. E con lui -quel che non capiscono gli analfabeti che pensano di poter parlare di diritto penale come al bar dello sport - anche le parti civili, le cui aspettative risarcitorie nel processo penale seguono le sorti dell’imputato. Il Consiglio Superiore della Magistratura e la stessa Anm hanno con chiarezza denunziato che la abrogazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rallenterà in modo esponenziale la definizione dei processi, come può in verità comprendere anche un bambino. Oggi infatti i processi in Corte di Appello e in Cassazione vengono celebrati con l’occhio attento alla data di prescrizione dei reati, ben segnata sulla copertina del fascicolo. Una volta eliminata quella data, che fretta c’è? Perché caricare - come oggi si fa - i ruoli di udienza di quaranta o cinquanta processi? Ne fisseremo venti, e ce ne torniamo a casa tutti, giudici ed avvocati, per ora di pranzo. La prescrizione è dunque un istituto di radicata civiltà giuridica, che sancisce un principio di elementare giustizia: la potestà punitiva dello Stato non è, non può essere, illimitata nel tempo. Può trattarsi - come in molti sistemi processuali di civiltà occidentale - di prescrizione dell’azione: trascorsi un certo numero di anni, non puoi più nemmeno iniziare una indagine penale, o non la puoi proseguire; o di prescrizione del reato, come nel sistema italiano. Sapete in quanti anni si prescrivono i reati di maggiore allarme sociale nel nostro Paese? Vi farò qualche esempio. La violenza sessuale in 30 anni, l’omicidio stradale da 30 a 45 a seconda delle varie ipotesi aggravate, da 25 a 50 l’inquinamento ambientale che provochi morti o lesioni, 37 anni e 6 mesi il disastro ambientale, 24 anni lo scambio elettorale politico mafioso, 40 anni l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, 60 anni il sequestro a scopo di estorsione, in 30 anni l’associazione mafiosa, in 30 anni la corruzione in atti giudiziari, da 17 anni e sei mesi fino a 25 anni e tre mesi i maltrattamenti in famiglia, in 25 anni la rapina e l’estorsione, in 18 anni e nove mesi la bancarotta fraudolenta, in 15 anni la concussione; e potrei continuare. Per di più, a seguito della riforma Orlando approvata solo due anni fa, tutti questi termini sono prorogati di ulteriori tre anni dopo la sentenza di primo grado e fino alla sentenza di Cassazione. Non bastano tutti questi anni? Dobbiamo poter processare qualcuno per violenza sessuale per più di 33 anni, per poi magari assolverlo (come avviene almeno nel 50% dei casi)? Ed è concepibile, in caso di condanna, mandare in carcere una persona per un fatto che egli ha commesso 33 anni prima, quando era uno scapestrato di diciotto anni, mentre oggi è un padre di famiglia cinquantenne? Ecco perché lo scontro sulla riforma della prescrizione va ben al di là dell’impatto di quella sciagurata norma, destinata altrimenti ad entrare in vigore il primo gennaio 2020. Si misurano qui due idee del diritto, due concezioni opposte e non conciliabili della giustizia penale, al di qua o al di là dei confini tracciati dalla nostra Costituzione. Si tratta di scegliere tra una idea profondamente autoritaria che pone al centro del diritto penale e delle sue regole la potestà punitiva dello Stato, la quale non deve conoscere limiti e condizionamenti di sorta; ed una idea liberale del diritto penale, che pone al centro della propria scala valoriale la persona ed i suoi diritti, e dunque la necessità di porre argini al potere immenso ed altrimenti incontenibile dello Stato. Questa è la vera partita in gioco, nascosta dietro le fumisterie della becera propaganda populista. Una partita, è bene che lo si sappia, che si è già giocata oltre settant’anni fa, quando i nostri padri costituenti scelsero senza esitazione l’idea liberale del diritto e del processo penale. Questo è il grido d’allarme che hanno lanciato in questi giorni i penalisti italiani, dando il via ad una battaglia civile che - sia ben chiaro - è solo agli inizi. Sono in gioco valori costituzionali fondamentali di tutti i cittadini, altro che il privilegio degli impuniti. Occorre perciò che i mezzi di informazione facciano il loro dovere, liberando l’opinione pubblica dal giogo umiliante della disinformazione sistematica e cinica fatta di slogan volgari e vuoti, o di minacciose ed allarmanti previsioni prive di ogni fondamento nella realtà. Ed occorre che la politica ritrovi il senso profondo della propria nobiltà perduta, schierandosi in difesa dei valori e delle idee, piuttosto che immiserirsi nella rincorsa degli umori di una opinione pubblica inferocita ad arte, ma drammaticamente inconsapevole. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Io, di sinistra, sono per le manette agli evasori fiscali. Che dite, sbaglio? di Michele Fusco Il Dubbio, 30 ottobre 2019 “Il mio piano: svuotare le carceri dei disperati e riempirle dei veri delinquenti, gli evasori totali, una folta comunità. non è forse una politica di sinistra?”. Caro Direttore, questa volta scrivo sotto forma di lettera, sperando nella tua udienza, perché sento di dovermi abbandonare a un sentimento che ai lettori del Dubbio darà l’impressione di assoluta terribilità. E che racchiudo immediatamente in una domanda: se una persona di sinistra, un cittadino di sinistra, si schiera pubblicamente per la galera ai malviventi, comprendendo nella categoria anche gli evasori di livello, ecco, perché questo cittadino, come per magia, e in pochi decimi di secondo, viene considerato da tutti un uomo di destra, liquidatore d’ogni stato di diritto, gli amici tra loro commentando: “È impazzito” ? Per carità, qui non si esclude affatto che un uomo probo che fu già di sinistra, possa con il procedere delle epoche e i relativi cambiamenti, cambiare egli stesso idea politica, trasferendosi sull’altra sponda, e restando altrettanto probo. Ma non è questo il caso. Qui stiamo parlando di persone che sentono orgogliosamente ancora un’appartenenza a certi valori della sinistra, lo sentono prima di tutto intimamente, per la loro storia, le esperienze fatte, per una certa solidarietà verso mondi distanti, insomma, senza fartela troppo lunga, tutto l’armamentario che il mondo della sinistra portava con sé. Molte di queste persone, oggi, sono smarrite rispetto all’idea che equità sociale e riduzione delle disuguaglianze siano ancora cardini di un sistema democratico. Vedono completamente disattesi questi principi. Vedono che la giustizia non arriva mai dove dovrebbe. E se ci arriva, è con un ritardo epocale. E che da quel momento, la giustizia si organizzerà per rendere la vita più facile e semplice all’ospite circondariale. La legislazione, da possibilmente premiale, si trasformerà in sicuramente premiale. Questo è il mondo che immaginano quelli di sinistra? Ho qualche dubbio. Sabato scorso, in prima sul Sole 24 Ore, un pezzo del professor Enrico De Mita, che del diritto tributario è principe, era titolato così: “Le manette non risolvono niente”. Si commentava l’enfasi con cui il governo, soprattutto la parte Cinque Stelle, si era venduta la questione “lotta agli evasori”, con l’evocazione - appunto delle manette. Per farlo, il professore ricorreva ai grandi della storia, per esempio Ezio Vanoni secondo cui la via maestra era “creare attraverso una persuasione politica e morale, un clima nel quale si sente che difendendo la razionale applicazione dei tributi, si difende non una legge formale dello Stato, ma l’essenza stessa della vita dello Stato”. O come Gobetti, che con realismo pessimista sosteneva che “in Italia il contribuente ha raramente sentito la dignità di partecipare alla vita dello Stato; non ha la coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta”. Parole del primo 900. Un secolo fa. Cosa è cambiato rispetto ad allora, rispetto a un cittadino italiano che non sente la “dignità di partecipare alla vita dello Stato”? Tutto, come società. Niente, come risposta a quei problemi. Se possibile, la situazione è peggiorata. Precipitata. Con quali armi della consapevolezza educativa, gentile professor De Mita, dovremmo oggi riportare all’altare della moralità pubblica interi eserciti di evasori? Insomma, De Mita e molti altri famosi illustratori della nostra realtà ci raccontano che l’evocazione delle manette è semplicemente inutile. Non serve e non risolve, soprattutto. Nel corso della storia, il territorio è già stato battuto e non ha dato i frutti sperati. De Mita e gli altri però ci raccontano solo un pezzo. Non spiegano perché non ha funzionato, o non funzionerebbe, questo impianto, chiamiamolo più volgarmente, “repressivo”. Sin da quando siamo bambini, a una minaccia dei genitori corrisponde un’azione-reazione. Che può essere la paura, da cui il rigar dritto per timore, appunto, di una punizione, o il fregarsene, da cui la disperazione di padri e di madri che vedono annullata la forma più diretta di dissuasione. In termini percentuali, i bambini che hanno paura e che per paura ubbidiscono sono l’ 85%, i turbolenti il 15%. Massima solidarietà ai genitori di quel 15%. Ecco, quando questi bambini (italiani) diventano grandi, la percentuale incredibilmente si inverte: la paura dei genitori (lo Stato) non ha più alcun effetto sulla maggioranza dei cittadini. I quali evadono in maniera massiccia, furiosa, persino entusiasta (al grido, con massima faccia di bronzo, che lo stato ti azzanna le tasche). Un contrappasso amaro, troppo amaro, per quella massa di cittadini che invece mantiene quel senso civico (paura) e che contribuisce ai servizi della collettività. A questa platea di cittadini perbene, viene a mancare il grande pezzo dei menefreghisti, il cui costo ricade naturalmente sui bambini bravi. Lo Stato italiano non incute paura. Non ha autorevolezza. Ma come è possibile? Come è possibile che non faccia valere le sue prerogative? È semplice. Perché nella sua storia non ha mai dato il buon esempio, non è mai stato virtuoso, non ha mai lasciato l’impressione di essere “giusto”. Ecco la grande differenza con gli Stati Uniti! Dove i cittadini sono perfettamente consapevoli dei rischi che corrono, nel caso in cui dovessero decidere di delinquere, di evadere. Sanno che il gioco non è truccato. Se ti pizzico, sei rovinato. La figura di Madoff, nel momento in cui è emersa in superficie con la forza di uno scandalo planetario, ha ricompreso in epoca moderna tutti i cittadini che intendono sfidare la giustizia. Se volete, è una sfida bellissima e straordinaria. Tutti sanno le regole del gioco. Nessuno può sperare nei premi. Qui non si vincono premi. La chiave te la fanno vedere il primo giorno, quando aprono il gabbio, poi la buttano. Ecco, se a fronte di tutto questo, all’idea della galera, di non vedere più le persone care, i tuoi figli, decidi che vale ancora la pena di giocarti la tua partita di malfattore, beh allora sei un grandissimo e meriti di finire in un film. Da noi, invece, sei solo il furbo peracottaro che farà accordi con lo Stato. Là, oltreoceano, useranno la sentenza come forma di ammonimento sociale, quei 120 anni madoffiani, che non avrebbero un minimo senso logico, finiranno sui libri di testo, nelle omelie dei cardinali, sui manifesti a Ebbing, Missouri. Da noi, al più, nei migliori studi legali come “ottima” letteratura giurisprudenziale. Caro Direttore, per concludere, vorremmo declinare il nostro programma per il futuro: svuotare le carceri dei disperati che non ha senso che le affollino, e riempirle, sino ai posti in piedi, dei veri delinquenti, tipo gli evasori totali che sono un’affollatissima comunità. È un programma sinceramente di sinistra, e noi ne andremo fieri. Ps. Un’ultima istanza, Direttore. Che riguarda il pudore e il rispetto della storia e delle persone. Se ogni volta che un uomo di sinistra auspica la galera per i malfattori, convinto che sia una strada socialmente e istituzionalmente percorribile, non gli si opponga il caso di Enzo Tortora, come massimo strazio del diritto. Lo si lasci riposare in pace, pur nella sua terra inquieta. Violenze in famiglia, dallo Stato meno di un euro per ogni donna maltrattata di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 30 ottobre 2019 L’Istat pubblica la prima indagine: nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne. I centri funzionano bene ma sono troppo pochi. La denuncia di Di.Re. “Nel 2017 i fondi pubblici per i Centri antiviolenza sono stati 12 milioni di euro, che - se divisi per il numero delle donne accolte secondo l’Istat - fa meno di un euro al giorno, 76 centesimi per la precisione”. Il calcolo è di Mariangela Zanni, consigliera di “D.i.Re” (Donne in Rete contro la violenza) ed è stato possibile grazie ai dati emersi dalla prima indagine dell’Istat sui 281 Centri antiviolenza (Cav) realizzata in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità, il Consiglio nazionale per le ricerche e le Regioni e pubblicata il 28 ottobre. “Una cifra ridicola - prosegue Zanni - che spiega il dato Istat sul massiccio ricorso al volontariato da parte dei centri antiviolenza, nonostante essi siano un tassello imprescindibile del Piano nazionale antiviolenza”. Nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne, ovvero 15,5 ogni 10mila, il 67,2 per cento delle quali ha iniziato un percorso di uscita da una vita di soprusi e maltrattamenti. Ogni Centro ha accolto in media 172 donne (il 25,7% dei Centri ha avuto un’utenza inferiore a 40 donne, il 6,7% superiore a 500) e lavora con un numero medio di 115 donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. “La variabilità territoriale - scrive l’Istat - è elevatissima: 22,5 per 10mila le donne accolte dai Centri del Nordest, 18,8 per 10mila nel Centro. Tassi di accoglienza più elevati si riscontrano in Emilia Romagna, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Provincia Autonoma di Bolzano, Abruzzo, Toscana e Umbria. Anche per le donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza, il Nord-est presenta tassi più elevati (16,6 contro 10,7 per 10mila donne della media nazionale). La capacità di supportare le donne dipende poi molto dal radicamento sul territorio dei Centri antiviolenza: maggiore sono gli anni di apertura, maggiore è il numero di donne che vi si recano”. Per l’Istituto di statistica, l’offerta delle strutture che si occupano di aiutare le vittime di violenza e la loro prole è ancora insufficiente. La legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 individua come obiettivo quello di avere un Cav ogni diecimila abitanti. Al 31 dicembre 2017 sono risultati attivi nel nostro Paese 281 centri antiviolenza, pari a 0,05 centri per 10mila abitanti. “Considerando il dato calcolato sulle vittime che hanno subito violenza fisica o sessuale negli ultimi 5 anni, l’indicatore di copertura dei centri su 10mila vittime è pari a 1, con un minimo nel Lazio (0,2) e un massimo in Valle d’Aosta (2,3)” scrive l’Istat, che definisce “ancora insufficiente l’offerta dei Centri antiviolenza”. “Il quadro che emerge dalla rilevazione sui centri antiviolenza pubblicata da Istat e relativa al 2017 - ha commentato Lella Palladino, presidente di D.i.Re - conferma le criticità che la rete da sempre e continuamente mette in evidenza. I centri antiviolenza sono troppo pochi, con interi territori scoperti, personale solo parzialmente retribuito, risorse assolutamente al di sotto del bisogno”. Eppure i centri esistenti svolgono un ottimo lavoro, come scrive sempre l’Istat: “Ottima la reperibilità offerta dalle strutture, aperte in media 5,1 giorni a settimana per circa 7 ore al giorno. La quasi totalità ha attivato diverse modalità per esserlo in modo continuativo, dal numero verde alla segreteria telefonica. L’89,7% dei centri assicura ascolto cinque o più giorni a settimana, e solo il 2% non ha adottato soluzioni di continuità h 24, ma comunque aderisce al servizio di chiamate urgenti allo 1522. Molti, inoltre, i servizi offerti in risposta all’esigenza di personalizzazione dei percorsi per superare abusi e sopraffazioni subite”. Processo per la strage Borsellino, l’ultimo mistero del falso pentito di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 ottobre 2019 Scarantino alla vigilia del processo voleva svelare il depistaggio. Ecco i brogliacci delle conversazioni con pm e poliziotti, il giallo si infittisce: chi lo convinse a non tirarsi indietro? Il 22 maggio 1995, alla vigilia della sua prima deposizione al processo per la strage Borsellino, il falso pentito Vincenzo Scarantino era pronto a far saltare la grande impostura del depistaggio. Alle 20.27, chiamò la moglie per dirle: “Prepara le valigie, che ho intenzione di tornare in carcere”. Ma due giorni dopo, davanti ai giudici della corte d’assise di Caltanissetta, raccontò invece il castello di menzogne che gli avevano suggerito. Senza alcun tentennamento. E ora la domanda è una sola: chi convinse Scarantino a non tirarsi indietro? In quei giorni, il falso pentito era sotto protezione a San Bartolomeo a Mare, provincia di Imperia, scortato dai poliziotti del “Gruppo Falcone Borsellino” che adesso sono accusati di essere i principali responsabili del depistaggio: nel processo in corso a Caltanissetta sono imputati un ex funzionario della squadra mobile di Palermo, il dottore Mario Bò, e due sottufficiali, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Nell’indagine della procura di Messina, sono invece indagati due ex magistrati di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Scarantino aveva un telefono nella sua abitazione, che era intercettato. I nastri sono stati ritrovati di recente in un archivio del palazzo di giustizia di Caltanissetta e consegnati alla procura di Messina, per essere trascritti. È emerso che il falso pentito era in contatto con magistrati e investigatori. I brogliacci delle conversazioni sono stati depositati al processo che vede imputati i tre poliziotti. E il giallo si infittisce. Il 3 maggio, alle 19.41, Scarantino chiama l’utenza 091210704. “Telefona all’ufficio Falcone e Borsellino - annota solerte un agente che sta ascoltando il telefono intercettato, nei locali della procura di Imperia - chiede del dottor Bò, il quale non c’è. Enzo chiede spiegazioni delle domande che ha scritto in merito alla sua prossima presenza in aula”. Di quali domande si tratta? Stava forse imparando a memoria le false dichiarazioni? Il grande orchestratore sarebbe stato l’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Era il super poliziotto di Palermo, ma anche - e lo si è scoperto solo dopo la sua morte - un collaboratore dell’allora Sisde, il servizio segreto civile. Per quali missioni speciali, non è ancora chiaro. Alle 20.08 di quel 3 maggio, Scarantino “ritelefona al Gruppo Falcone e Borsellino”, si legge ancora nel brogliaccio. Evidentemente, quella sera era particolarmente nervoso. “Richiede del dottore Bò - annota il poliziotto - che non c’è. Chiede nuovamente spiegazioni sulle domande”. Il giorno dopo, alle 16.43, Scarantino chiama un’utenza di Caltanissetta: 0934599051. “L’utente non risponde”. Poi, alle 17.28, un numero di cellulare 0336886569: “Per motivi tecnici la telefonata non è stata registrata”. Una coincidenza o c’è qualcosa di sospetto? Alla scorsa udienza del processo ai poliziotti, l’ispettore Giampiero Valenti, addetto ad alcuni turni nella sala intercettazioni, ha svelato che una volta un suo superiore (Di Ganci) gli ordinò di interrompere l’intercettazione perché Scarantino doveva parlare con i magistrati. L’8 maggio, alle 16.01, fu invece registrato un dialogo fra Scarantino e i pm di Caltanissetta. Prima su quell’utenza di Caltanissetta a cui il 4 maggio non rispondeva nessuno (0934599051): “Enzo conversa con la dottoressa Palma - annota il poliziotto - in merito al suo trasferimento per mercoledì a Genova, per essere sentito dalla dottoressa Sabatini, chiede se può evitare questo interrogatorio prima di essere sentito al processo. Si risentiranno”. Alle 16.27, un’altra conversazione: “La dottoressa Palma spiega ad Enzo che la dottoressa Sabatini lo deve sentire per forza mercoledì perché ha delle scadenze da rispettare. Enzo dice che va bene però ha paura ad andare a Genova. La dottoressa lo assicura che tutto verrà fatto in modo di sicurezza assoluta per la sua incolumità. Enzo dovrà telefonare alle 18 per parlare col dottor Petralia”. Ma di cosa aveva paura per davvero Scarantino? Chi doveva uccidere un falso pentito che accusava degli innocenti e salvava i veri colpevoli della strage di via D’Amelio? Forse era la paura di essere interrogato, considerato che era solo un balordo di borgata e non certo un mafioso come diceva di essere. Scarantino è nervoso. Otto minuti prima dell’appuntamento chiama il dottore Petralia, su un’altra utenza della procura di Caltanissetta. Il poliziotto annota: “Enzo parla con il dottore Petralia, il quale gli dice di non avere problemi e che giovedì prossimo faranno una bella chiacchierata”. Processo Cucchi, “Tedesco era l’anello debole del potente ingranaggio” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 ottobre 2019 Il processo bis alle ultime battute. La requisitoria degli avvocati del teste chiave. Nell’immensa aula bunker di Rebibbia, dove si è trasferito per le ultime battute il processo bis per la morte di Stefano Cucchi, pronunciano le loro arringhe conclusive gli avvocati dei 5 carabinieri imputati.. Ieri è stata la volta dei difensori di Francesco Tedesco, il teste chiave (presente in aula) che da imputato per omicidio preterintenzionale insieme ai suoi due colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, autori del pestaggio dato ormai per assodato da tutti, è oggi accusato “solo” di falso e calunnia nei confronti dei tre agenti penitenziari che, innocenti, per sette anni hanno subito un procedimento. Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto 3 anni e sei mesi, essendo il reato di calunnia andato ormai in prescrizione. Subito dopo ha preso la parola l’avvocato Giosué Bruno Naso, difensore del maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della caserma Appia e considerato il principale artefice dei depistaggi, per il quale la procura ha chiesto 8 anni per falso e calunnia. Per Tedesco i suoi avvocati Eugenio Pini e Francesco Petrelli, invocano invece l’assoluzione. Diversi i motivi: perché sarebbe stato “l’anello debole di un ingranaggio potente”, costretto per tanti anni a un comportamento a “doppio binario”, da un lato omertoso “per paura di perdere il lavoro” e dall’altro corretto, teso a smarcarsi dai suoi due colleghi violenti contro i quali si era schierato durante il pestaggio. Ma, come da sua stessa ammissione, a far decidere infine Tedesco di vuotare il sacco è stata la lettura del capo di imputazione nei suoi confronti, a processo già avviato. Ecco perché è suonata piuttosto cacofonica l’affermazione dell’avv. Petrelli secondo il quale: “È Stefano Cucchi che chiede l’assoluzione di Tedesco”. Anche se il geometra romano aveva detto più volte che a salvarlo da un pestaggio peggiore sarebbe stato un terzo carabiniere. Epperò, ha gioco facile anche l’avvocato Naso - che ha pronunciato una seducente requisitoria nella quale ha accusato la procura di Giuseppe Pignatone di “cultura della giurisdizione” - a dire che Tedesco non avrebbe profferito parola se il primo processo si fosse chiuso con la condanna dei tre agenti penitenziari. Per questo, perché “Tedesco non è credibile”, e perché secondo Naso non ci sarebbe relazione tra il pestaggio e la morte di Cucchi, l’avvocato chiede l’assoluzione di Mandolini. Il 14 novembre è prevista la sentenza. E, per coincidenza, quel giorno si concluderà anche in Appello, dopo due rinvii della Cassazione, il processo ai cinque medici del “Pertini” accusati di omicidio colposo. Ma prima di allora, la prima Corte d’Assise ha dato ieri ancora due appuntamenti: il 6 e il 12 novembre per dare la parola ai difensori di D’Alessandro e Di Bernardo, per i quali la procura ha chiesto 18 anni di carcere. E il 12 novembre si apre anche l’altro processo, forse il più delicato, quello per il depistaggio. Per andare ai vertici dell’”ingranaggio potente”. Sentenza in contumacia senza notifica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2019 Non va più notificata la sentenza in contumacia emessa nel giudizio abbreviato. Lo afferma una pronuncia delle Sezioni unite penali della Cassazione, anticipata per ora con un’informazione provvisoria. Viene risolta in questo modo una questione rilevante che divideva la stessa prassi degli uffici giudiziari, visto che alcuni continuano tuttora a effettuare le notifiche, mentre altri non le dispongono affatto. Oltre che la prassi, però, la necessità o meno della notifica divide la stessa Cassazione con sentenze di orientamento opposto, dopo la riforma della disciplina della contumacia del 2014. Ricordato che la nuova disciplina dell’assenza nulla dice sull’abrogazione dell’obbligo, una linea interpretativa è caratterizzata da un maggior rigore ed esclude che la persistenza della regola per la quale all’imputato a qualsiasi titolo non comparso deve essere notificata la sentenza emessa dopo rito abbreviato possa essere considerata frutto di una svista oppure di un mancato coordinamento tra norme succedutesi nel tempo. A voler tacere poi del fatto che la soppressione tacita di una norma, dalla quale discende la compressione del diritto all’impugnazione, può essere ritenuta in contrasto con il principio del giusto processo come definito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che richiede sempre, in materia penale, un’interpretazione segnata dal favor rei. A questa posizione se ne contrappone un’altra, ed è è stata poi quella fatta propria dalle Sezioni unite, in base alla quale con la nuova disciplina della contumacia, indirizzata a garantire l’effettiva conoscenza del processo e ricondurre la mancata partecipazione dell’imputato a una scelta consapevole e volontaria, è venuta meno la ragione che stava alla base dell’obbligo di notifica. Tanto più che nel giudizio abbreviato l’imputato non comparso resta rappresentato da un difensore in possesso dei poteri che gli sono stati attribuiti con procura speciale. Per questa ragione, il difensore è in contatto con il proprio assistito ed è in grado di fornirgli tutte le informazioni necessarie sul procedimento e sulla sua conclusione. Particolare tenuità del fatto: valida la sentenza del giudice di pace di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 29 ottobre 2019 n. 44118. Per cancellare la sentenza di non punibilità per particolare tenuità del fatto, emessa dal giudice di pace, non basta che questo non potrebbe applicare la norma, è necessario che l’imputato le ragioni del pregiudizio e perché aveva diritto ad un’assoluzione piena. Tuttavia proprio in virtù del riconoscimento del 131-bis va esclusa la condanna sulla liquidazione delle spese proposta dalla parte civile. La Cassazione, con la sentenza 44118, accoglie solo in parte il ricorso contro la sentenza del giudice di pace di Gorizia, che aveva considerato il ricorrente non punibile per il reato di minaccia nei confronti della moglie in virtù della particolare tenuità del fatto, ma lo aveva condannato al risarcire i danni alla parte civile. L’uomo contesta entrambe le scelte: l’applicazione dell’articolo 131-bis è fuori dal raggio d’azione del giudice di pace e comunque se applicato è di ostacolo a una pronuncia di condanna ai fini civili. La Cassazione accoglie solo quest’ultimo punto. Per quanto riguarda il potere del giudice di pace di applicare il 131-bis la Cassazione ammette che questo è stato escluso dalle Sezioni unite. Tuttavia il proscioglimento “nei casi di particolare tenuità del fatto” non è avulso dal microsistema dettato per il giudice di pace, “poiché trova la sua declinazione procedimentale nella previsione dell’articolo 34 del Dlgs 274/2000”. I giudici di legittimità, pur considerando pacifico, che i presupposti dell’articolo 34 e dell’articolo131-bis sono divergenti - oltre che per la finalità conciliativa dell’articolo 34, anche perché nel procedimento davanti al giudice di pace la tenuità prevista dall’articolo 34 può essere ammessa solo se non si oppongono imputato e persona offesa - ricordano che il proscioglimento per particolare tenuità del fatto è comunque un esito previsto del procedimento davanti al giudice di pace. L’eventuale errore, commesso nel richiamare l’articolo 131-bis anziché l’articolo 34, non può dunque essere contestato in quanto tale, ma è necessario dimostrare “l’effettivo pregiudizio da rimuovere per effetto di quella decisione”. Non c’è dubbio che ci sia un interesse ad impugnare una sentenza, irrevocabile, emessa ai sensi dell’articolo 131-bis perché quanta comporta un giudizio di colpevolezza, sebbene per una colpa “lieve”. Per travolgerla però è necessario dimostrare che c’erano margini per una sentenza pienamente liberatoria. Contravvenzioni, da marzo 2018 inappellabili i proscioglimenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2019 La previsione dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa, in assenza di una disciplina intertemporale, è applicabile alle sole sentenze emesse successivamente al 6 marzo dell’anno scorso. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza 43699 della Terza sezione penale depositata ieri. L’indicazione è arrivata nel corso di un procedimento penale avviato per getto pericoloso di cose: dal balcone, secondo la tesi della parte danneggiata, era stata immessa nel giardino sottostante un’elevata quantità di acqua piovana maleodorante. La Corte di cassazione sottolinea che il decreto legislativo 11 del 2018 ha modificato l’articolo 593 comma 3 del Codice di procedura penale, allargando i margini di inappellabilità delle sentenze. Alla previsione di inappellabilità delle condanne per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda è stata affiancato anche il caso delle “sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punte con la sola pena dell’ammenda o penale alternativa”. La disposizione è entrata in vigore il 6 marzo del 2019, nell’ambito di un intervento complessivamente indirizzato a ridisegnare la disciplina delle impugnazioni, e non ha stabilito sul punto specifico una dettagliata regolamentazione della fase transitoria. Di conseguenza per la Cassazione bisogna ritenere che la previsione deve essere applicata a tutti i giudizi di proscioglimento emessi in una data successiva al 6 marzo. Per effetto della sentenza della Cassazione è stata così accolta la tesi della difesa che si era dovuta confrontare con una sentenza di appello che aveva deciso la condanna a 200 euro più risarcimento danni nei confronti della parte civile, dopo un verdetto di assoluzione in primo grado che, appunto, non si sarebbe potuto impugnare perché emessa in data successiva al 6 marzo. Campania. Il Garante Ciambriello: “Un milione e 300mila euro destinati ai detenuti” La Repubblica, 30 ottobre 2019 “Un milione e trecentomila euro destinati a progetti per i detenuti dentro e fuori dalle carceri”. Lo annuncia il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ospite ad un’iniziativa della cooperativa Less, che si è svolta a Napoli questa mattina, nell’ambito del Festival Intrecci giunto alla quarta edizione. “Firmiamo oggi un importante accordo in modo che, una volta scontata la pena, i detenuti abbiamo una chance da giocarsi per ottenere un lavoro e reintegrarsi nella società”. Un accordo che costituisce una parte di quanto si potrebbe fare. Continua Ciambriello: “Le istituzioni dovrebbero essere molto più presenti. Anche i sindaci dovrebbero svolgere la loro parte, in quanto i detenuti fanno parte della loro comunità. Troppo spesso le carceri sono viste come un problema di altri e al contrario offrire un’altra opportunità è la strada più sicura per evitare che compiano nuovamente reati”. Ne è fermamente convinto anche Domenico Schiattone, direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria: “I detenuti a Napoli escono dal carcere per pulire Scampia o fare altri lavori di pubblica utilità. Ma queste iniziative coinvolgono numeri troppo piccoli di persone e non inducono alla professionalizzazione. Questo lavoro andrebbe retribuito, non deve essere solo un’occasione per uscire dalla cella. Entro il 2019, anche se in ritardo, partiranno dei corsi di formazione per detenuti e, al termine di un triennio, saranno attivati stage con il conseguimento di un certificato professionale. Si potrebbe, però, fare molto di più. Manca una rete reale sul territorio per responsabilità delle istituzioni. Non ci sono fondi per assistenti sociali, psicologi e esperti. Il volontariato fa tantissimo, ma è solo”. Ed è il direttore di Less, Giulio Riccio, a spiegare il progetto di Less per i detenuti e illustrare quanto fa il terzo settore su questo versante: “Abbiamo stipulato protocolli d’intesa con più carceri. Svolgiamo dei laboratori e abbiamo in calendario un importante investimento per sviluppare una cioccolateria. In particolare operiamo con i minori. Offrire un’occasione ai ragazzi che, seppure giovanissimi, hanno imboccato la strada del crimine, è l’unico modo per rendere la nostra società più sicura”. Milano. Don Gino Rigoldi: “Celle e paure, i miei 30 mila ragazzi del Beccaria” di Andrea Galli Corriere della Sera, 30 ottobre 2019 Gli ottant’anni del sacerdote, da mezzo secolo al carcere minorile Beccaria: “La sfida di oggi? La bassa autostima degli adolescenti”. Carcere minorile Beccaria, dieci del mattino, ufficio di don Gino Rigoldi: due sedie, un tavolino, finestra spalancata che dà sull’interno del penitenziario e stop, ma è ovvio così, altrimenti non sarebbe lui, don Virginio detto Gino, nato a Milano il 30 ottobre 1939, quartiere Crescenzago, periferia, ed è ovvio anche questo. Intanto, buon compleanno. Quante vite ci sono nei suoi ottant’anni? “Pensavo: è dal 1972 che vivo in questo luogo. Una delle mie case. Da allora sono passati trentamila ragazzi”. E li ha conosciuti tutti? “Direi di sì. Anche oggi, come del resto ieri, come domani, io starò nelle celle. Non ricevo mica: vado da loro. Senza paura”. Paura? “Non la paura fisica... Su, non scherziamo... Intendo la paura di entrare nella sofferenza, nei tormenti, nella legittima richiesta di risposte”. Gli telefonano. Don Gino ascolta la domanda, appoggia il cellulare su uno degli inconfondibili suoi golfini, dice: “Quando finiamo con questa intervista? Tre minuti bastano?”. Beh no, don, considerato che abbiamo iniziato da quattro minuti, magari potremmo... Riprende il telefonino, dice: “Cinque minuti e ho terminato”. A posto. Oggi al Beccaria ci sarà una grande festa organizzata dai suoi ragazzi. “Mi ha fermato uno prima, ha detto: “Auguri di cuore”. E io: “Grazie, ma caspita, sto diventando proprio vecchio”. E lui: “Non lo dica nemmeno, non può mica lasciarci tutti quanti orfani”“. Adesso: dei progetti in cantiere del don, si perde il conto. Dopodiché, bisogna rispettare una specie di giuramento, non menzionando alcuni dei medesimi progetti. Di altri, si può benissimo parlare. Per esempio del centro giovanile (“Festeggio il giusto e torno subito a lavorarci sopra”). Dunque, parliamone. “Qualche finanziatore l’ho già trovato. Ma non basta. Non basta mai. Quindi spero che si facciano avanti altri generosi. So che succederà. La mia idea è la seguente: un grande centro giovanile che unisca l’oratorio a una scuola di mestieri, la preparazione per appunto a un lavoro, con gente che te lo insegna, e non per forza, con tutto rispetto, saranno solo lavori manuali non difficili da apprendere, e allo stesso tempo sarà uno spazio per il gioco, il divertimento, le letture, il pallone, il teatro. Ci saranno appartamenti dedicati a particolari situazioni e ci saranno fruitori chiamiamoli così di giornata che verranno, che so, a imparare a suonare la chitarra. Sarà una grande eterogenea comunità, una comunità aperta su questa Milano - che, ahimè, e apro una parentesi, vede correre i prezzi ma non gli stipendi - e con un concetto di base. Fondamentale: la capacità di fare gruppo. Che rimane uno dei migliori strumenti per aiutare questi giovani di oggi, così a volte ossessivi nella bassa auto-stima”. Perché? “Per paura, scelgono di isolarsi. Una forma di difesa. Ma se noi adulti incentiviamo le occasioni di stare insieme, forniamo un aiuto unico”. C’entrano i genitori, c’entrano sempre. “Oh, i genitori... Spesso misurano i figli - quello che fanno, come lo fanno, quello che pensano, quello che dicono - su una personale scala di giudizio, che corrisponde banalmente al proprio successo o insuccesso... Non ci sei tu, figlio, ci sono io... Anche se, per la cronaca, questi genitori contemporanei non hanno certezze nel futuro, vedono tutto nebuloso, e questo non aiuta... Ogni estate mando un centinaio di ragazzi in Romania, nei centri di aiuto alle fasce deboli. Quando tornano sono gasatissimi. Stando l’uno al fianco dell’altro, diventa un processo naturale quello di lasciarsi andare, svelare un’angoscia, confidare un sogno. Parlare, ascoltare. Insomma, il concetto di comunità; e il concetto dell’amore, sempre lì si torna”. Stiamo sui giovani. La droga. “Pensavo che certe stagioni, quelle da adolescenti dei sessantenni di oggi, quando l’eroina dimezzava classi d’età, ecco, non si sarebbero ripresentate... Un’emergenza enorme, la droga. Sto spingendo per la nascita di una comunità terapeutica per tossicodipendenti. In questa vita servono i fatti. I fatti, e poi certamente i luoghi adatti, e il personale giusto. Così come anche fra i detenuti minorenni in parecchi hanno problemi di natura mentale, conseguenza di traumi psichici atroci - chi ha attraversato prima l’Africa e poi il mar Mediterraneo - che non possono essere gestiti in carcere”. Il tempo è terminato, don Gino esce dall’ufficio, lascia il Beccaria, attraversa la strada di corsa, sì, proprio di corsa, verso il prossimo interlocutore che l’aspetta, e sarà uno dei mille di giornata. Ovvio. Concludendo, don? “Ho tante ma tante e tante di quelle cose da fare, che mi serve ancora e ancora tempo. Un sacco di tempo. Con l’intervista va bene, sem a post?”. Ferrara. Apprendere ad imprendere in carcere, chiave per la rieducazione del detenuto di Matteo Bellinazzi estense.com, 30 ottobre 2019 Entra nella Casa circondariale di Ferrara il progetto promosso dall’Associazione nazionale tributaristi Lapet. Una nuova, grande occasione per i detenuti del carcere di via Arginone di Ferrara. Arriva nelle carceri “Apprendere ad imprendere” il progetto, unico nel suo genere, promosso dall’Associazione nazionale tributaristi Lapet ai fini rieducativi della popolazione detenuta, e che ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Giustizia e del Comune di Ferrara. Scopo dell’iniziativa è ridurre il rischio di recidiva, favorendo il reinserimento dei detenuti nelle attività economiche e lavorative, sostenendone il pieno reinserimento sociale. Il progetto è stato presentato ufficialmente nella mattinata di martedì 29 ottobre 2019 presso la casa circondariale di Ferrara alla presenza delle autorità civili e militari. In rappresentanza dell’amministrazione comunale sono intervenuti gli assessori Angela Travagli (attività produttive) e Cristina Coletti (politiche sociali) che hanno rinnovato la presenza dell’amministrazione a fianco del progetto, fondamentale per “impostare - dice Coletti - il sistema carcerario alla rieducazione dei detenuti e al recupero sociale degli stessi come base per contrastare il fenomeno della recidiva, oggi diffuso al 70% in Italia”. Ad esporre il progetto il presidente nazionale Lapet Roberto Falcone, venuto appositamente da Roma. “Riteniamo - afferma Falcone - che tale iniziativa possa contribuire a fornire strumenti efficienti per indicare un nuovo percorso a coloro che una volta scontata la pena cercheranno di ricollocarsi nel mondo del lavoro, con la possibilità anche di avviare un’attività privata commerciale”. La mattinata è poi proseguita con l’intervento tecnico e formativo di Riccardo Bizzarri, coordinatore nazionale del Centro studi tributaristi Lapet, che ha ricordato come “tale iniziativa si muova su solide basi e che ha già coinvolto, con ottimo successo, da ormai cinque anni, studenti delle classi IV e V degli istituti superiori, con l’obiettivo di integrare le competenze acquisite nel loro percorso di studi, con le esperienze concrete di imprenditori e professionisti”. Bizzarri ha poi ribadito “la massima disponibilità dell’Associazione Tributaristi, capillare in tutta Italia, a essere un punto di riferimento per tutti coloro che una volta liberi cerchino aiuto per costruire le basi della propria attività d’impresa”. Durante il corso verranno trasferite conoscenze utili ad affrontare il rapporto con le pubbliche amministrazioni, con l’amministrazione finanziaria, oltre alle competenze relazionali necessarie a gestire i rapporti con clienti, dipendenti, utenti e fornitori. Sassari. A Bancali arriva il capo del Dap e snobba i sindacati di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 30 ottobre 2019 Francesco Basentini ha incontrato direttori e comandanti. La lunga lista delle criticità dei penitenziari della Sardegna. Visita a sorpresa nel carcere sassarese di Bancali del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini che ha convocato e incontrato i direttori delle carceri sarde e i comandanti della polizia penitenziaria. Un arrivo non annunciato che ha colto di sorpresa soprattutto i rappresentanti delle organizzazioni sindacali che hanno cercato di avere un confronto con il massimo dirigente del Dap, ma senza ricevere alcuna risposta. La tappa sarda del capo del Dap - secondo quanto si è appreso - è stata programmata per analizzare le dinamiche degli istituti penitenziari dell’Isola, dove le criticità non mancano di certo e sono state portate a più riprese anche all’attenzione nazionale. Le organizzazioni sindacali l’hanno considerata una occasione persa per tutti, perché il capo del Dap è stato privato di un contributo di conoscenza importante, quello che arriva appunto dai rappresentanti dei lavoratori che in carcere vivono 24 ore al giorno e per tutto l’anno. Le difficoltà, è vero, sono conosciute - secondo i sindacati - ma una occasione per un faccia a faccia ai massimi livelli finora non c’è stata. Le constatazioni delle situazioni reali però è facile immaginare che ci siano state: Sassari, Mamone, Lanusei, Isili e Is Arenas non hanno un direttore in pianta stabile, si va a scavalco, e le prime due non dispongono neppure di un comandante titolare della polizia penitenziaria. Ma l’elenco è lungo: negli aeroporti sardi manca un ufficio logistico idoneo per sistemare i detenuti durante le traduzioni (quello di Cagliari Elmas è considerato fuori da ogni logica “e andrebbe chiuso”). Negli ospedali, poi, non è previsto un repartino detentivo e il personale è costretto a collocare i pazienti-detenuti con gli altri ricoverati e a sistemarsi in spazi di fortuna nei corridoi per garantire la sorveglianza e il controllo (a Cagliari in realtà il repartino è stato costruito ma mai consegnato). Michele Cireddu, segretario generale Uil-Pa Sardegna ha anche sottolineato che “in Sardegna continuano a pervenire detenuti che in altre regioni si sono rivelati ingestibili e il personale - di contro - è costretto a lavorare senza i più elementari strumenti di sicurezza. E non prevedere a Sassari e Cagliari i nuclei cinofili per i controlli antidroga è un clamoroso autogol”. I sindacati auspicano che quella di Basentini non sia “l’ennesima passerella infruttuosa”. La Uil-Pa denuncia che il Governo da tempo ha scelto la Sardegna per trasformarla in una “grande Asinara”, per costruire grandi carceri per contenere un numero di detenuti ben oltre le reali necessità della Regione. “Così nel silenzio della politica, tranne rare eccezioni - ha concluso Cireddu - sono arrivate negli istituti sardi forme di criminalità italiane e internazionale, di cui il personale ha dovuto studiare i comportamenti per adottare le contromisure”. Grande delusione per una delegazione del Sappe che ha atteso fuori dal carcere di Bancali di incontrare Basentini. “Il capo del Dap viene nell’Isola una volta all’anno - se va bene - e non trova il tempo per incontrare noi che rappresentiamo i poliziotti? - denunciano Luca Fais e Antonio Cannas, rispettivamente segretario regionale per la Sardegna e delegato nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Abbiamo fatto una richiesta formale per essere ricevuti, ma evidentemente c’è chi ha preferito un incontro auto-referenziale con direttori e comandanti che non quello schietto, leale e costruttivo con noi che rappresentiamo chi in carcere lavora. A Bancali, manca un direttore titolare in pianta stabile, visto che quello assegnato per tre mesi ha tre istituti da gestire. E anche il comandante è in distacco da Roma e terminerà l’incarico a fine mese”. Sulmona (Aq). Operatori penitenziari da tutto il mondo per “costruire la pace” gnewsonline.it, 30 ottobre 2019 L’Ufficio delle Nazioni Unite per lo stato di diritto e le istituzioni di sicurezza (Orolsi), articolazione del Dipartimento delle operazioni di pace (Dpko), ha scelto l’Italia per lo svolgimento di un corso di formazione per formatori selezionati dall’Onu per le missioni post-conflict nel Centro-Africa (Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali). In risposta alla richiesta pervenuta attraverso la Rappresentanza Permanente italiana presso le Nazioni Unite, l’ Ufficio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Direzione generale della formazione hanno offerto l’ospitalità nella Scuola di Istruzione di Sulmona per la formazione di venti corsisti e di sei facilitatori in servizio presso alcune delle missioni Onu e presso gli uffici delle Nazioni Unite di New York. A questi ultimi è stato dato l’incarico di gestire le attività formative. Finanziato dal governo svedese, il corso ha l’obiettivo di elaborare, con il contributo dei corsisti presenti in aula - alcuni dei quali provenienti da Ruanda, Burundi e Burkina Faso - un curriculum formativo da destinare agli operatori penitenziari, che comprenda contenuti utili alla promozione del rispetto della parità di genere. Il programma del corso è costruito sulla base degli input di mandato propri delle Nazioni Unite (codice di comportamento, etica e valori) ma anche sulle modalità relative all’applicazione delle “Mandela rules” nei teatri di missione. I formatori /facilitatori hanno manifestato notevole interesse per alcune tecniche operative utilizzate dalla Polizia Penitenziaria e per alcuni sussidi didattici sviluppati dall’Istituto di istruzione di Sulmona: particolarmente importante è stato definito il contributo di alcune donne della Polizia Penitenziaria, presenti in sede, per la definizione del curriculum nella parte relativa alle pratiche operative dei servizi del personale penitenziario. Nel curriculum formativo sono state inoltre inserite modalità operative ed esercitazioni di tecnica penitenziaria da utilizzare nel corso perquisizioni personali, documentate anche attraverso sussidi didattici-audiovisivi, predisposti ad hoc, con la supervisione del personale italiano in servizio presso l’istituto di istruzione di Sulmona. La particolare attenzione dedicata alle donne, nei ruoli di prison officer da impiegare nei teatri di missione di pace, selezionate dalle Nazioni Unite e provenienti da diversi Stati (in prevalenza africani), rappresenta l’obiettivo strategico di questo “laboratorio formativo”. Infatti, le Nazioni Unite, nell’espletamento del proprio mandato, ritengono imprescindibile la rimozione tra il personale, di qualsivoglia pregiudizio di genere nei rapporti sia professionali sia personali. Tra i facilitatori presenti in aula, anche l’Ispettore Superiore di Polizia Penitenziaria Fabio Pinzari, attualmente funzionario presso la Missione Nazioni Unite in Kosovo, uno degli esperti formatori dell’Unitar (agenzia delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca). Il “laboratorio” formativo, avviato lo scorso 21 ottobre, si concluderà il prossimo 31 ottobre con una breve cerimonia di consegna degli attestati. Palermo. Gemellaggio con il Messico su riscatto detenuti e recupero tradizioni gnewsonline.it, 30 ottobre 2019 Negli stessi giorni in cui Halloween invade il mondo con il suo armamentario consumista di zucche e maschere macabre, feste dalle liturgie antiche ma dai simboli e dai valori molto somiglianti vengono celebrate in due città molto lontane. Si tratta della Festa dei Morti di Palermo e del Dia de los muertos messicano, che l’Unesco ha nominato “Patrimonio immateriale dell’umanità”. Una somiglianza che la Notte di Zucchero - kermesse di danza, musica e teatro ideata da Giusi Cataldo a difesa della festa tradizionale - ha voluto valorizzare dedicando il convegno “Palermo-Messico, la vita è bella” alla storia di due culture che in comune hanno la celebrazione della vita, intesa anche come rinascita simbolica dopo momenti di crisi. Non a caso il convegno che si terrà il 30 ottobre nella Sala Martorana di Palazzo Comitini (via Maqueda 121, dalle ore 10 alle 13) ha riservato uno spazio significativo all’esperienza di “Mi riscatto per”, un modello italiano di reinserimento socio-lavorativo che è stato replicato a Città del Messico. Il progetto è il risultato di una sperimentazione virtuosa che ha visto collaborare insieme più protagonisti, frutto di un accordo sottoscritto a Città del Messico dai delegati italiani del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, da quelli del Messico e delle Nazioni Unite A raccontare come sia stato possibile esportare in Messico un progetto pensato per la realtà italiana (sperimentato a Roma e poi esteso a molte altre città, tra cui Palermo) sarà Vincenzo Lo Cascio, direttore del programma dei Lavori di pubblica utilità del Dap. Tra i presenti, il sindaco Leoluca Orlando, l’assessore alle Culture della città di Palermo Adham Darawsha, il giornalista Corradino Mineo, Paola Felix Diaz, capo dell’Ente per il Turismo di Città del Messico e Claudio La Camera, senior advisor dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il delitto in Messico In apertura del convegno si potrà ammirare il grande telo artistico con la tradizionale Catrinas mexicana, una delle figure più popolari della cultura messicana, presenza immancabile nell’ambito dei festeggiamenti del Dia de Los Muertos, realizzato dai detenuti di alcuni istituti penitenziari di Città del Messico, che hanno partecipato al programma dei lavori di pubblica utilità. Milano. Birra “Malnatt” e “Idee in Fuga”, per raccontare i progetti di riscatto dei detenuti Il Giorno, 30 ottobre 2019 Una serata di arte, gusto e dibattito: appuntamento mercoledì 30 ottobre. Arte, gusto e dibattito si uniscono per una serata dedicata a progetti di riscatto per i detenuti. L’appuntamento, organizzato da Birra Malnatt (il progetto brassicolo della città di Milano che sostiene il reinserimento di carcerati ed ex-carcerati nel mondo produttivo) e “Idee in Fuga” (la prima iniziativa di democrazia partecipativa all’interno del carcere) è per mercoledì 30 ottobre, alle 18.30, al Frida, luogo simbolo del quartiere Isola di Milano, in via Antonio Pollaiuolo 3, con molti ospiti, una mostra di illustrazione e un aperitivo. La serata prevede l’incontro “Partecipazione e inclusione sociale come riscatto per i detenuti”, un dibattito aperto sullo sviluppo di progetti che costituiscono valore all’interno delle istituzioni e che contribuiscono a un pieno reinserimento dei rei nel tessuto sociale. Interverranno Pietro Buffa, Provveditore del Prap - Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria - Lombardia, Lorenzo Lipparini, Assessore alla Partecipazione, Cittadinanza Attiva e Open data del Comune di Milano, Anita Pirovano, Presidente della Sottocommissione Carceri Pene Restrizioni del Comune di Milano, Cosima Buccoliero, Direttore della II Casa di reclusione di Milano - Bollate. Massimo Barboni per Birra Malnatt insieme a Giorgio Pittella, ideatore di “Idee in Fuga”, Stefano Stortone, fondatore dell’impresa sociale BiPart e coordinatore del progetto “Idee in fuga”, racconteranno i loro progetti che coinvolgono i detenuti delle carceri milanesi. A conclusione del dibattito sarà previsto un aperitivo con protagonista Birra Malnatt. Parte del ricavato sarà devoluto per finanziare progetti all’interno delle carceri. Durante l’evento sarà possibile visitare una mostra di oltre 50 illustratori (tra cui Paolo D’Antan, Andie Prisney, Riccardo Guasco e Adriano Attus) realizzata da BiPart in collaborazione con AI Associazione Autori di Immagini per “Idee in Fuga”. Molte opere sono fruibili anche in realtà aumentata e si potranno anche acquistare per sostenere i progetti di “Idee in Fuga”. Porto Azzurro (Li): I detenuti incontrano lo scrittore Alessandro Orlandini di Irma Annaloro corrierelbano.it, 30 ottobre 2019 Il forte interesse per il mondo della scrittura e la voglia di misurarsi ogni giorno con nuove opportunità. I detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro hanno incontrato lo scrittore Alessandro Orlandini. Un pomeriggio dedicato ai libri, alla scrittura, alla cultura e, in generale, a tutte le produzioni - componimenti poetici, racconti, storie di vita vera - nate all’interno del carcere elbano. L’incontro si è tenuto all’interno della sala polivalente della struttura. È stato organizzato dall’associazione di volontariato Dialogo e dall’area educativa della Casa di reclusione. Presenti i docenti delle classi interne al carcere e nove classi superiori. Al centro del dibattito soprattutto il genere fantasy, dalla sua nascita fino ad oggi. Orlandini ha parlato delle sue esperienze maturate nel corso di diverse fiere e altri eventi letterari, dei tredici anni di attività, del duro lavoro che si nasconde dietro al mondo dell’editoria. Spunti di riflessione ma anche qualche considerazione sul futuro per i molti detenuti che all’interno della Casa di reclusione dedicano diverse ore alla scrittura. Tanto che è emersa anche la voglia di poter raccontare, e raccontarsi, al di fuori del carcere, per far conoscere le loro esperienze di vita all’interno della struttura detentiva. Per il momento soltanto un’ipotesi. Poi, chissà. “Diario di bordo”, di Antonella Ferri recensione di Elena Barbato ladomenicasettimanale.it, 30 ottobre 2019 Le storie raccolte da una “prof” che insegna da vent’anni nelle carceri napoletane. “Insegnare a coloro che non vedono un futuro oltre quella porta blindata, ha motivato la mia voglia di dar voce a chi spesso, purtroppo non ne ha”. Parla Antonella Ferri, napoletana, professoressa di italiano presso istituto tecnico Caruso e autrice del libro “Diario di bordo” edito da Tullio Pironti. Un testo che nasce da una profonda esigenza di raccontare e riassumere la sua esperienza ventennale presso gli istituti penitenziari di Napoli. Occasione per riflettere e conoscere la realtà umana dietro le sbarre la presentazione presso la libreria Ubik di via Benedetto Croce del suo libro. “Diario di bordo” non a caso è il titolo scelto dalla Ferri per narrare la storia di una professoressa che si trova in giovane età ad insegnare presso l’Istituto penitenziario ed a narrare vicende e vicissitudini di un’insegnante che attraverso le storie dei suoi allievi è riuscita a fare della sua professione una missione di vita. “Pubblicare un libro - spiega il filosofo Pino Ferraro, intervenuto alla presentazione - vuol dire rendere pubblico qualcosa che non è conosciuto”. “Diario di bordo” racconta la volontà di ri-costruzione, le aspettative non sempre ripagate, le attività che spingono alla crescita personale e gli abbandoni. È la testimonianza della solitudine di scelte sbagliate e quella di un mestiere che si confronta anche con chi ritiene ingenua fatica insistere sulla via della conoscenza con chi ha imparato troppo presto la ferocia della strada. Amore per il proprio lavoro e grande attenzione verso gli alunni colpevoli di reati, a volte di gravissima entità, hanno indotto la docente a diventare dopo la lunga esperienza un punto di riferimento per le giovani insegnanti che approcciano al difficile mestiere del docente presso le sedi carcerarie. Insegnare nelle carceri è difficile ma è l’unica, concreta, occasione per cambiare le persone. Ripartire dalla cultura per arricchire l’anima di chi - spesso - non ha avuto una opportunità di fare scelte diverse. Migranti. Un “Decreto Minniti” in salsa libica contro i soccorsi delle Ong di Adriana Pollice Il Manifesto, 30 ottobre 2019 Il giro di vite emanato dal governo fa capo ad al Serraj: “Salvataggi solo su autorizzazione della guardia costiera”. Sabato intanto se Palazzo Chigi non lo ferma si rinnova il “memorandum” di aiuti alla Libia. Un colpo di mortaio lunedì notte vicino all’aeroporto di Mitiga, a Tripoli, è suonato come un avvertimento in vista della riapertura, ieri, dello scalo. Questo è il paese senza stato, in guerra civile, con cui l’Italia dovrebbe rinnovare il memorandum sottoscritto nel 2017. In assenza di atti ufficiali, l’accordo si intenderà sottoscritto a partire dal prossimo sabato e la collaborazione con la Guardia costiera di Tripoli per appaltare a loro i respingimenti di migranti proseguirà. L’esecutivo continua a non fare chiarezza. Infatti del decreto emesso il 15 settembre dal Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico si è avuta notizia in Italia solo grazie all’Ufficio immigrazione dell’Arci, che l’ha tradotto e pubblicato. L’Arci l’ha definito “il codice Minniti libico” perché ricalca quello dell’ex ministro dem. In base alle disposizione del governo che fa capo a Fayez al Serraj, le organizzazioni non governative che intendono svolgere attività di Ricerca e soccorso nelle acque libiche devono chiedere l’autorizzazione a Tripoli e rispettarne le norme: le navi che non lo fanno saranno sequestrate. Le ong sono tenute a “fornire tutte le informazioni necessarie, anche tecniche, al Centro di coordinamento libico per il salvataggio”; a non bloccare le operazioni della Guardia costiera locale e a “lasciarle la precedenza d’intervento”; a informare preventivamente il Centro di coordinamento libico di iniziative autonome, anche se urgenti. I naufraghi salvati dalle Ong “non vengono rimandati in Libia tranne in casi eccezionali”. Il personale libico “è autorizzato a salire a bordo per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza”. Le ong s’impegnano a “non mandare nessuna comunicazione o segnale per facilitare l’arrivo d’imbarcazioni clandestine”. L’Arci, con Filippo Miraglia, denuncia: “Il “codice Minniti libico”, come quello dell’ex ministro italiano, punta a ostacolare e criminalizzare i salvataggi. È per di più illegittimo perché emanato non da uno stato sovrano, ma da una delle parti in causa nella guerra civile in atto. Il decreto viene utilizzato per dare credibilità alla cosiddetta Guardia costiera libica. I rapporti dell’Onu hanno dimostrato come quest’ultima sia un miscuglio di milizie e trafficanti”. Stamattina a Roma il Tavolo Asilo presenta la lettera aperta che invierà al governo italiano per chiedere di non rinnovare il memorandum. “Molte inchieste hanno svelato la totale inefficienza del Centro di coordinamento libico - conclude Miraglia. Non hanno a disposizione strumentazione e protocolli per le attività di Ricerca e soccorso, alle richieste telefoniche non rispondono mai prontamente. Nel 2019 hanno riportato più di 7mila persone nei lager libici”. Una conferma involontaria a quanto sostenuto dall’Arci è arrivata da Mohamed Sakr, funzionario della Guardia costiera di Tripoli interpellato ieri dall’Agenzia Nova: “Non abbiamo ricevuto dal ministro dell’Interno del Governo di accordo nazionale alcun mandato di cattura per Bija” cioè Abd al Rahman al Milad, l’ufficiale accusato di violenza e traffico di esseri umani, direttore della Guardia costiera a Zawiya. Sakr ha aggiunto di essere in contatto con il primo ministro al Sarraj “per rimuovere Bija dall’elenco delle sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu dal momento che è uno dei principali leader coinvolti nella difesa di Tripoli. Le accuse si basano su voci diffuse per danneggiare la nostra Guardia costiera”. Bija è stato sanzionato dall’Onu per complicità nella tratta di migranti, la sua attività era già nota nel 2017 quando il governo italiano lo accolse per una serie di incontri ufficiali. Anche Oxfam, con Paolo Pezzati, chiede di bloccare il memorandum: “L’accordo non è mai stato ratificato dal parlamento, contrariamente a quanto previsto in Costituzione. Nei centri di detenzione sono rinchiuse oltre 4.500 persone. In quelli non ufficiali, gestiti da criminali, ne sono stimati a decine di migliaia. I governi italiani hanno continuato a finanziare i libici per un costo di oltre 150milioni di euro dal 2017 al 2019”. Da Mediterranea l’invito a mobilitarsi: “Fino a sabato riempiamo le strade e le piazze per affermare il nostro dissenso”. Migranti. Decreti sicurezza, cosa cambiare di Antonio Maria Mira Avvenire, 30 ottobre 2019 Viaggio tra le Caritas d’Italia, che fanno i conti con il boom di irregolari provocato dall’ultimo giro di vite. Tre le priorità: ripristino dell’umanitaria, registrazione anagrafica ai richiedenti asilo e ritorno allo Sprar. Ripristinare il permesso di soggiorno per motivi umanitari o, almeno, uno analogo. Consentire la registrazione anagrafica anche ai richiedenti asilo. Riordinare il sistema di accoglienza attualmente devastato dai tagli e dalla riduzione dei servizi per l’integrazione. Sono le più urgenti modifiche del primo “decreto sicurezza” che chiedono le Caritas e le organizzazioni collegate, dal Nord al Sud. Le chiedono al governo e in particolare al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. Altrimenti, denunciano, aumenteranno irregolari, abbandonati, sfruttati, anche a discapito della sicurezza. Un viaggio, l’ennesimo di Avvenire, tra chi nella prima linea dell’accoglienza non ha mai chiuso le porte. Torino. “Va ripristinato il permesso di soggiorno per motivi umanitari - afferma con forza Sergio Durando, direttore della Pastorale Sociale dei Migranti della diocesi di Torino, che opera assieme alla Caritas. La sua abrogazione precarizza e rende molto più vulnerabili le condizioni degli immigrati”. E le nuove, limitate, forme di permesso previste dal primo “decreto sicurezza”, non sono sufficienti. “L’umanitaria poteva essere convertita in permesso di soggiorni per lavoro e studio, quelli nuovi no”. Inoltre, aggiunge, “l’umanitaria favoriva anche attività culturali, di formazione e impegno sociale. Ora questo non c’è più e si vanificano impegni umani e economici dei territori buttando via risorse”. C’è poi la questione della residenza. “Richiedenti asilo e ricorrenti non la possono più avere e questo preclude tutto il resto. Così aumentano le persone irregolari, senza diritti, il lavoro nero, lo sfruttamento, i problemi di salute”. Per questo “il nostro è un grido di allarme, soprattutto per chi aveva fatto già un percorso e ora finisce sulla strada”. Milano. Anche la Caritas ambrosiana chiede che “sia previsto un nuovo permesso di soggiorno per chi aveva l’umanitaria e ora si trova senza protezione”. Come denuncia il portavoce, Francesco Chiavarini, “sono le vittime del “decreto sicurezza”, lo abbiamo toccato con mano. Stiamo accogliendo a nostre spese 77 persone che erano nostre ospiti e che avrebbero dovuto essere messe per strada”. E la Caritas “continuerà ad ospitarli perché devono poter proseguire il loro percorso di integrazione. Ma tanti altri sono abbandonati e potrebbero diventare un problema di sicurezza”. Per questo, aggiunge Chiavarini, “un’altra modifica assolutamente necessaria è ridare la possibilità anche ai richiedenti asilo di essere inseriti nel sistema Sprar, esclusa dal decreto ma fondamentale per un vero percorso di inclusione”. Roma. Lorenzo Chialastri, responsabile area immigrati della Caritas di Roma, torna a indicare il problema della residenza, in particolare per richiedenti asilo e ricorrenti. “Non avere l’iscrizione anagrafica impedisce tante cose, come partecipare a tirocini o iscrivere i figli all’asilo nido. Molti Municipi si stanno arrampicando sugli specchi per iscriverli, sforzi ai limiti della legge, ma è assolutamente necessario modificare il decreto”. Così come è urgente intervenire sul sistema dell’accoglienza “che si sta sgretolando, spegnendo. È giusto controllare di più, ma anche chi lavora bene è in difficoltà. Molti non ce la fanno con 18-20 euro al giorno, non si può fare integrazione”. Dunque, insiste, “va sostenuto il sistema Sprar ma anche la prima accoglienza nei Cas, prevedendo nuovamente i servizi di integrazione esclusi dal decreto. Altrimenti non bastano i 6 mesi nello Sprar. Ne escono senza essere davvero integrati. Li si rimanda al nulla”. Foggia. Torna sul tema della residenza l’avvocato Stefano Campese, coordinatore pugliese del progetto Presidio della Caritas. “Il cosiddetto “decreto sicurezza” sta creando molte difficoltà per l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. Ci sono state delle decisioni della magistratura sul fatto che sia sufficiente il modello C3, che viene rilasciato al momento della richiesta di protezione internazionale. Ma si tratta di interpretazioni. A Foggia, ad esempio, non si applica e vengono rimandati indietro”. È dunque necessario modificare il decreto anche perché, denuncia, “la residenza è necessaria per modificare il vecchio permesso di soggiorno in quello per motivi di lavoro. E non pochi imprenditori non fanno un contratto regolare con la scusa che non hanno la carta d’identità”. Campania. Sono univoche le richieste che vengono dalle Caritas di Aversa, Capua, Caserta e Teggiano Policastro che abbiamo raccolto nell’incontro che hanno avuto a Castel Volturno. “Bisogna assolutamente ripristinare il permesso di soggiorno per motivi umanitari. E intervenire sul problema della residenza. Altrimenti si incentiva l’illegalità”. L’impossibilità di convertire la vecchia umanitaria in permesso per lavoro, denunciano, “farà aumentare gli irregolari anche se c’è richiesta di lavoro. E senza lavoro tante famiglie rischiano di finire per strada. Bisogna ridare a queste famiglie l’umanitaria”. E c’è molta preoccupazione per i minori non accompagnati. “Avevano il permesso di soggiorno ma ora al 18mo anno si vedono respinta la domanda”. Reggio Calabria. Le richieste non cambiano in Calabria. “Il divieto di iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo oltre che ingiusto sta creando gravissimi problemi” dice Giovanni Fortugno, referente immigrazione della Comunità Papa Giovanni XIII, che opera assieme alla Caritas di Reggio Calabria. “Bisogna cambiare la norma, perché, malgrado varie sentenze, il divieto viene applicato in modo diverso. Il comune di Reggio Calabria non lo applica, altri comuni vicini sì”. C’è poi il sistema dell’accoglienza. “C’è una gran confusione, manca una vera regolamentazione. Tanti vengono a chiedere aiuto. Stanno aumentando situazioni di povertà e irregolarità, soprattutto per l’impossibilità di rinnovare l’umanitaria”. E allora, è la richiesta, “chiamatela pure in un altro modo ma qualcosa va fatto, altrimenti di qui a un anno la situazione sarà irreversibile. Anche perché gli sbarchi dalla rotta dell’Est aumentano, uno a settimana sulle coste joniche”. Ragusa. Le emergenze create dal cosiddetto “decreto sicurezza” e le modifiche necessarie non cambiano in Sicilia. “Bisogna ritornare al permesso di soggiorno per motivi umanitari o almeno rendere convertibili quelli speciali, introdotti dal decreto, in permessi per lavoro o studio. Ora impossibile”, denuncia Domenico Leggio, direttore della Caritas di Ragusa. “La non convertibilità e la restrizione genera senza fissa dimora e esclusi”. E torna anche qui la questione della residenza. “L’impossibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe è un’aberrazione perché impedisce di usufruire di tutti i servizi territoriali”. Inoltre, accusa, “l’impossibilità di accedere alla seconda accoglienza, lo Sprar, è ancora più grave. Dove vanno? Per strada”. Migranti. Il governo è cambiato ma le scelte politiche no di Luca Misculin ilpost.it, 30 ottobre 2019 Le navi delle Ong continuano a restare per giorni in mare, i decreti sicurezza sono ancora lì e le soluzioni a lungo termine non si vedono. Il 31 agosto, nel pieno delle trattative fra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle per formare un nuovo governo, il segretario del PD Nicola Zingaretti twittò un articolo di Repubblica che raccontava le storie di alcuni migranti soccorsi in mare dalla nave Mare Jonio della Ong Mediterranea. Come capitava in quei mesi a tutte le navi gestite dalle Ong, alla Mare Jonio era stato impedito di attraccare in Italia dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, sulla base del controverso “decreto sicurezza bis”. “Queste cose non vogliamo più vederle. Non è umano. Fate scendere subito questi esseri umani”, commentò Zingaretti. Per via di questa e altre prese di posizione degli ultimi mesi, ci si aspettava che sull’immigrazione il secondo governo Conte sostenuto dal PD avrebbe modificato l’approccio intransigente di Salvini: è successo, ma solo in parte. Quando poi il governo è intervenuto su alcuni temi non affrontati da Salvini - come i rimpatri dei migranti irregolari - il risultato è stato giudicato poco soddisfacente dagli esperti di immigrazione. Negli ultimi giorni, per esempio, il governo italiano ha negato la disponibilità dei propri porti alle navi di due ong che hanno soccorso decine di persone al largo della Libia. Il caso più grave è quello della nave Ocean Viking, gestita dalle ong Medici Senza Frontiere e SOS Méditerranée, che è rimasta per undici giorni nel tratto di mare fra Libia e Italia con a bordo 104 migranti, soccorsi il 18 ottobre. Fra le persone soccorse ci sono 41 minori e dieci donne, fra cui due incinte. Nel pomeriggio del 29 ottobre, il governo ha infine concesso il porto di Pozzallo, in Sicilia. L’altra nave bloccata è la Alan Kurdi, che tre giorni fa ha soccorso 92 persone e da allora è in attesa di poter sbarcare in Italia o a Malta. Il governo italiano non ha ancora spiegato perché ci ha messo così tanto a concedere un porto alla Ocean Viking o perché non l’abbia ancora garantito alla Alan Kurdi. Soltanto due settimane fa, fra l’altro, la Ocean Viking aveva dovuto attendere pochi giorni prima di essere assegnata al porto di Taranto, in Puglia, dove furono sbarcati 176 migranti soccorsi in due distinte operazioni. In casi come questo si intravedono comunque alcune differenze con la gestione di Salvini. Il nuovo governo per esempio non ha mai emesso i divieti di ingresso nelle acque italiane “per motivi di ordine e sicurezza pubblica”: una possibilità prevista dal “decreto sicurezza bis”, forse la più controversa fra le misure promosse da Salvini sull’immigrazione, dato che secondo diversi esperti non tiene conto di numerose norme del diritto internazionale e marittimo. E mentre durante la gestione di Salvini le navi delle Ong attendevano circa nove giorni prima dello sbarco - imposto a volte da autorità giudiziarie - col nuovo governo l’attesa è scesa a circa sei giorni. Secondo un calcolo del ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, inoltre, dall’insediamento del governo ad oggi - cioè in poco meno di due mesi - la percentuale delle persone soccorse dalle ong fra quelle arrivate in Europa è aumentata dal 10 al 18 per cento. Non è ancora chiaro se il dato mostri davvero un cambiamento di tendenza: va preso con le molle sia perché parliamo di numeri molto contenuti, alcune centinaia di persone concentrate in pochi sbarchi, sia perché due mesi sono un campione troppo ridotto per una valutazione solida. Migranti. I nuovi scafisti ucraini dei barconi “di lusso”: 10 mila euro a passeggero di Marco Imarisio Corriere della Sera, 30 ottobre 2019 Partono dalla Turchia, trasportano migranti economici. La rotta che conduce al litorale ionico si è riaperta nell’estate di tre anni fa. Un tempo era la via delle sigarette di contrabbando. Gli scafisti sono quelli biondi e con gli occhi azzurri. Anche venerdì scorso i carabinieri di Reggio Calabria sono andati a colpo sicuro. Una barca a vela abbandonata in mare, cinquanta immigrati pachistani, un gommone sulla spiaggia poco distante. Una pattuglia ha incrociato due uomini che camminavano a piedi sulla statale, muniti di quegli inconfondibili segni particolari. Documenti prego. Entrambi ucraini, naturalmente. Con visto di ingresso in Turchia sul passaporto, ma non quello d’uscita. Come tutti gli altri che li hanno preceduti. La rotta e i flussi - Non è facile tenere una contabilità aggiornata. Le maglie della rete sono larghe. La rotta che dalle coste greche e turche conduce al litorale ionico si è riaperta nell’estate di tre anni fa. Era la via classica delle sigarette di contrabbando. Dalle ordinanze della procura di Crotone, la più interessata da questo tipo di sbarchi. “A mero titolo esemplificativo, tra il 2016 e il 2017 le organizzazioni criminali e transnazionali hanno allestito circa 26 imbarcazioni tra velieri e yacht dirette verso il territorio calabrese, e nel medesimo periodo questa polizia giudiziaria ha sottoposto a provvedimenti restrittivi della libertà personale più di quaranta scafisti di nazionalità ucraina”. Nel 2018 gli sbarchi sul litorale crotonese sono stati 18, nel resto della Calabria ionica sono stati 18, dodici quelli avvenuti sulle coste del Salento. Quest’anno i numeri vanno aggiornati al rialzo. Nel mese di settembre, 15 arrivi tra il reggino e Crotone. Mai meno di trenta migranti, mai più di sessanta. Al tim0ne sempre scafisti dell’Est. Circa ottanta arresti in totale. Tutti ucraini, tranne due lettoni. “Immigrazione di prima classe” - Gli addetti ai lavori la chiamano “immigrazione di prima classe”, definizione che compare ormai anche in qualche informativa delle forze dell’ordine. Non è cinismo. È solo per distinguerla da quella ancora più disperata che dall’Africa punta alla Sicilia. “Sono due fenomeni completamente diversi” conferma il procuratore capo di Crotone, Giuseppe Capoccia. “Qui parliamo di immigrati curdi, pachistani, spesso del Sud Est asiatico, quasi tutti diretti in Germania, migranti economici, dotati di una certa scolarizzazione, interi nuclei familiari che dispongono di informazioni e consapevolezza. Pagano tanto, vengono fatti viaggiare in condizioni quasi accettabili, tanto che spesso non riusciamo a contestare il trattamento inumano e degradante agli scafisti”. Niente a che vedere con la Libia - La parola “yacht” è una esagerazione forse dovuta alla necessità di sintesi giudiziaria. Ma è vero che si tratta di imbarcazioni da 10-12 metri, alcune a vela, neppure paragonabili ai barconi che giungono sulle coste siciliane. E ogni volta, questa anomalia degli scafisti ucraini. Così vistosa, così fuori contesto. “Nazionalità eccentrica rispetti ai clandestini trasportati”, scrive un giudice per le indagini preliminari. Sui loro telefonini viene ritrovato ogni volta “un messaggio ricevuto dalla Turchia comunicante coordinate geografiche coincidenti con quelle dell’avvenuto sbarco”. Alcuni sono stati arrestati in albergo. Avevano prenotato una stanza, si stavano cambiando d’abito dopo la doccia. Altri mentre si allontanavano senza fretta. L’annuncio - “Lo scorso marzo ho messo un annuncio su un giornale ucraino, chiedendo un lavoro ben pagato per le mie qualità di marinaio e di ex militare dell’esercito. Pochi giorni dopo sono stato contattato telefonicamente da una persona. Mi ha proposto, per una paga di 2.600 euro, di effettuare un viaggio in barca, senza entrare in altri particolari”. Nel luglio di quest’anno Y.K., 29 anni, accetta di parlare agli inquirenti. “Sono partito insieme a un equipaggio di due persone da una città fluviale dell’Ucraina, dove una persona mi ha fornito i documenti e la chiave della barca. Dal fiume abbiamo raggiunto il mare e poi la Turchia, facendo sosta nei porti di Canakkale e Babakale. Qui abbiamo fatto salire a bordo le persone. Abbiamo navigato per cinque giorni. Mi è stato chiesto di non accettare nessuna somma dai migranti”. Barche rubate - Alcune barche risultano rubate in Bielorussia. La maggioranza di quelle usate per la traversata vengono noleggiate nei porti di partenza. I migranti dichiarano di aver pagato cifre che si aggirano sempre intorno ai diecimila euro a trafficanti di nazionalità turca. “Gli scafisti erano muniti di cibo per tutti e di attrezzatura per sfuggire ai controlli” mette a verbale Zeeshan Tubassum, agronomo pachistano. “Dopo aver ricevuto un messaggio, scendevano sottocoperta per prendere da un mobiletto le bandiere che issavano ogni qualvolta, credo, giungevamo in acque territoriali di uno Stato. Siamo partiti con la bandiera turca, poi siamo passati a quella greca e infine alla bandiera italiana”. Gli arresti e il racket - Alcuni scafisti hanno fatto più viaggi. Uno degli ultimi arresti nel crotonese riguarda un marinaio ucraino ricercato anche dalla procura di Lecce per due sbarchi avvenuti l’anno scorso. “L’esistenza di un racket criminale e transnazionale sembra ormai provata” scrivono i magistrati. Infatti ora indaga la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Sono già partite due rogatorie in Grecia e in Turchia. Il mistero degli scafisti ucraini non è una nota a margine nel dramma dell’immigrazione. Nel silenzio, la rotta dell’Est che attraversa l’Egeo e finisce nel mar Ionio rappresenta ormai la principale via di ingresso per l’Italia. Ed è anche la più redditizia, per i trafficanti che la sfruttano. Droghe. Polito e la nostalgia della “war on drugs” di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 30 ottobre 2019 Antonio Polito, nel suo editoriale “La droga e i silenzi colpevoli” comparso sul Corriere della Sera del 10 ottobre, su una cosa ha senz’altro ragione: tra i giornalisti, dalla scomparsa di Pasolini, “non c’è quasi più nessuno che si interroghi sul perché”. Per porre rimedio a tale mancanza di riflessione sulle sostanze psicotrope e la loro diffusione e consumo, il vicedirettore del Corriere della Sera ritiene utile riproporre stralci dell’articolo dello scrittore friulano La droga: una vera tragedia italiana, di 44 anni fa. Nel 1975 c’era ancora la scala mobile, al XIV congresso del Pci vinceva il compromesso storico di Berlinguer e gli americani scappavano sconfitti dal Vietnam. Insomma un altro mondo, rispetto al quale l’unico tema che appare immutabile sembrano essere le droghe: anzi “la” droga, al singolare, come ripete Polito, chiamando alla battaglia contro di essa e evocando Pasolini per avvalorare le proprie affermazioni. Sarei curioso di chiedere a Polito se ritiene utilizzabile ancora oggi l’analisi di Pasolini sulle differenze tra i giovani del nord e del sud contenuta nell’articolo La colpa non è dei “teddy boys”; o se, parlando di figli, tema assai caro al vicedirettore, sottoscriverebbe, senza storicizzare, l’articolo I giovani infelici comparso in Lettere luterane, sempre nel 1975, o Il “discorso” dei capelli del 1973. Per le droghe, a leggere alcuni editoriali, sembra non esserci né tempo né luogo: poco importa che Piazza Navona, dove Pasolini incontrava un drogato che passa ciondolando, oggi è ad uso esclusivo dei turisti, che il Quarticciolo sia ormai gentrificato e che i bar di Piazza dei Cinquecento siano gestiti da cittadini della Repubblica Popolare Cinese (cosa difficile nel ‘75, con Mao vivo). No, non siamo negli anni 70, neanche per quanto riguarda le droghe: a cominciare dal mercato illegale, che vede una presenza di sostanze psicotrope impensabili negli anni nei quali scriveva Pasolini e che rappresenta la prova regina del fallimento della guerra alla droga lanciata quarant’anni fa da Reagan. Mai come oggi tante diverse droghe sono consumate da tante persone in Europa: ci accontentiamo di dire che la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte o tentiamo un’analisi appena un po’ contemporanea e ragionevole? Gli oltre 92 milioni di cittadini europei che hanno consumato droghe si spiegano con il vuoto culturale? È possibile pensare che questi milioni di individui siano portatori di motivazioni più serie? È possibile pensare che, se buona parte del mondo della cultura non è estraneo all’uso di sostanze psicotrope, la cultura dell’occidente deve fare i conti in modo laico con tali consumi, come il mondo greco e romano li fecero con l’alcol? Polito dice che non è interessato a riaprire il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe cosiddette “leggere”. Bene, sulla liberalizzazione neanche noi: noi chiediamo, con forza, di riaprire il dibattito sulle politiche pubbliche in materia, celebrando la Conferenza Nazionale che attendiamo da oltre dieci anni; chiediamo una nuova regolazione del mercato delle droghe, a partire dalle legalizzazione della cannabis; chiediamo che quello che il Vicedirettore liquida come un limitarsi a ridurre gli eventuali danni collaterali, ovvero le Politiche di riduzione del danno (che hanno contribuito a portare le morti per overdose da 1383 del 1991 alle 334 del 2018), oggi inserite nei Livelli essenziali di assistenza, divengano finalmente un diritto esigibile su tutto il territorio nazionale. Coloro che fanno ricerca, animano i servizi di cura, le unità di strada, “si interrogano sui perché” e si danno anche qualche risposta. Non sempre esaustiva, ma iscritta nel registro, provvisorio, della contemporaneità. Diritto internazionale umanitario: a Roma un corso di formazione per i cappellani L’Osservatore Romano, 30 ottobre 2019 Cappellani al fianco dei prigionieri nelle zone di guerra. “Sensibilizzare l’opinione pubblica alla sorte dei detenuti e a una migliore protezione della dignità della persona umana, della sua libertà e dei suoi diritti inalienabili, nel contesto dei conflitti armati”: è questo uno degli obiettivi dichiarati che si propone il quinto corso per la formazione dei cappellani militari cattolici al diritto internazionale umanitario, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, in collaborazione con le Congregazioni per i vescovi e per l’evangelizzazione dei popoli. Lo ha sottolineato il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero organizzatore, inaugurando i lavori a Roma il 29 ottobre, nel ricordo del suo predecessore, il venerabile Francois-Xavier Nguyèn Van Thuàn che ha vissuto ben 13 anni in carcere in Vietnam. Soffermandosi sul tema del corso, cui partecipano anche diversi ordinari militari, il porporato ha evidenziato come esso intenda “considerare un aspetto particolare della dura realtà dei conflitti armati, cioè la privazione della libertà per le persone che sono interessate da questo dramma e che si trovano pertanto in situazione di vulnerabilità”: a cominciare dai detenuti, che possono essere “combattenti caduti nella mani delle forze nemiche”, oppure “civili che non di rado sono oggetto di rapimenti, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziarie”; per non tacere poi “dei trattamenti disumani che talvolta colpiscono le minoranze etniche, linguistiche, politiche, culturali e religiose” nelle zone di guerra. Il pensiero del cardinale Turkson è andato quindi ai luoghi di reclusione, sovente disumani e lesivi “della dignità della persona, in particolare delle donne, dei bambini e degli anziani, che talora sono arrestati sulla base di semplici sospetti”, costretti “a condividere uno spazio insufficiente senza badare alle condizioni fisiche, sanitarie e culturali”, spesso detenuti a “lungo, senza processo né alcuna assistenza di tipo giuridico o spirituale”. Da qui il richiamo del relatore alla necessità di attuare le Convenzioni - come quelle del 12 agosto 1949, di cui ricorre il settantesimo anniversario - che, “raggiunte con grande sforzo e a caro prezzo, si prefiggono di alleviare le sofferenze causate dall’atrocità della guerra”, e la conseguente esortazione rivolta ai cappellani destinatari del corso (che si concluderà giovedì 31) affinché testimonino “con le parole e la vita la sollecitudine della Chiesa e l’amore misericordioso di Dio che non esclude nessuno”. Mons. Olivera: “Condizioni di detenzione umane alla base del diritto alla giustizia” “Assicurare condizioni di detenzione umane è una base del diritto alla giustizia. Perché le carceri non diventino mondi di mezzo e scuole di violenza”. Lo ha detto mons. Santiago Olivera, ordinario militare in Argentina, intervenendo oggi a Roma al 5° corso internazionale di formazione per cappellani militari cattolici al diritto internazionale umanitario, promosso dallo Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale e dalle Congregazioni per i vescovi e per l’evangelizzazione dei popoli. Il vescovo ha indicato i casi di detenzione dei militari in Argentina dopo la dittatura in contrasto con i diritti umani. “Un ufficiale di marina di 82 anni è stato arrestato nel 2011. Mentre era in carcere è stato insultato e ha sofferto molte privazioni. È stato assolto dopo 8 anni. Un altro è stato arrestato a 65 anni, ha trascorso 6 anni in prigione e poi è stato assolto. Era stato ricoverato anche in una clinica psichiatrica da detenuto. Un miliare è stato arrestato nel 2009 a 81 anni per una presunta partecipazione a una rivolta illegale. È morto in carcere senza essere stato giudicato”. Episodi che, secondo l’ordinario, fanno riflettere sul tempo medio della custodia cautelare. “Nel mio Paese in media è di sei anni. E quando arriva a essere di 10 anni, la detenzione preventiva è una condanna vera e propria”. “Il degrado delle persone si verifica spesso perché l’aumento della popolazione carceraria non va di pari passo con l’aumento delle risorse umane ed economiche, ma si poggia su strutture e risorse insufficienti. Si tratta di un grave problema umanitario che condiziona la vita delle persone in carcere”. Di qui l’impegno della Chiesa. “I luoghi di detenzione sono specchio della società e la Chiesa non deve essere estranea da questo mondo. Abbiamo la responsabilità di aiutare i nostri fratelli e sorelle a vivere meglio alla luce del Vangelo. Abbiamo bisogno di ponti che permettano il ripristino dei diritti. La base di uno Stato non deve essere l’odio”. Card. Turkson: “Le carceri non facilitano sempre il rispetto della dignità” agensir.it “Le condizioni in cui le persone detenute scontano la loro pena non favoriscono sempre il rispetto della loro dignità. Spesso le prigioni diventano addirittura teatro di nuovi crimini. L’ambiente degli istituti di pena offre tuttavia un terreno per dimostrare la sollecitudine cristiana da un punto di vista sociale”. Lo ha detto il card. Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, aprendo oggi il 5° corso internazionale di formazione per cappellani militari cattolici al diritto internazionale umanitario, promosso dallo stesso dicastero e dalle Congregazioni per i vescovi e per l’evangelizzazione dei popoli. L’occasione è la ricorrenza del 70° anniversario delle quattro convenzioni di Ginevra su feriti e prigionieri in guerra. Soffermandosi sulla missione dei cappellani militari, il porporato la considera “un tema di grande attualità in un tempo di grandi conflitti”. A proposito della “dura realtà dei conflitti armati”, il cardinale ha evidenziato come tra le persone detenute vi siano “sia combattenti caduti nelle mani di forze nemiche sia civili rapiti, per non parlare dei trattamenti disumani che colpiscono le minoranze etniche, linguistiche, politiche, culturali e religiose”. “I luoghi in cui queste persone sono detenute destano non poca preoccupazione sotto il profilo delle condizioni di detenzione disumane”. L’attenzione è rivolta in particolare a donne, bambini e anziani, “talora arrestati e detenuti in base solo a sospetti”. “Non di rado si trovano a condividere spazi insufficienti per non parlare delle condizioni fisiche e sanitare - ha aggiunto il card. Turkson -. In alcuni casi essi rimangono per un lungo periodo di detenzione senza processo e senza assistenza di tipo giuridico o spirituale”. Di fronte a tutte queste persone in situazione di vulnerabilità “il cappellano è chiamato a testimoniare con le parole e con la vita la sollecitudine della Chiesa e l’amore misericordioso di Dio che non esclude nessuno”. L’impegno auspicato è quello a “cercare nuove vie per migliorare le condizioni di detenzione e per un’applicazione del diritto più consona con la dignità della persona nei conflitti armati non internazionali”. Francia. Il carcere di Nanterre e l’architettura come dichiarazione politica di Ciro Marco Musella elledecor.com, 30 ottobre 2019 Come si progetta una prigione nel 2019? C’è posto per loro nelle città? L’architettura può contribuire alla rieducazione? Le domande, e le risposte, di Studio Lan sono tutte in questo progetto. É finalmente stato completato il carcere di Nanterre firmato Lan, che unendo per la prima volta due sistemi di minima detenzione penitenziaria, si afferma come un nuovo postulato nella definizione tipologica del carcere. In un momento storico nel quale il dibattito sulle forme penitenziarie è quanto mai attuale, sono numerosi i tentativi di riportare lo scopo del carcere alla rieducazione del detenuto e non sulla detenzione passiva, postulato assunto dalla cultura illuminista e sancito dalle Costituzioni occidentali. Il mondo delle Arti è sempre più motivato nell’avvicinare i carcerati alla società civile e la stessa architettura si è lungamente interrogata sulla definizione del tipo architettonico per le carceri. Indubbiamente però, il distanziamento dell’istituzione carceraria non è un fatto recente: le prigioni sono oggetti non urbani anche se costruite nel tessuto della città: se già nel progetto della città ideale immaginato da Ledoux non c’era posto per la prigione, quando queste sono collocate all’interno delle città ne risultano completamente distanziate ed isolate dalle invalicabili mura che le cingono. É in questo contesto che la prigione di Nanterre diventa è una vera e propria dichiarazione politica assunta dallo studio Lan. Il progetto si pone innanzitutto come risoluzione urbana e, insediato nel quartiere di Chemin-de-l’Île dove in modo eterogeneo si trovano condomini, case singole ed architetture industriali, i progettisti hanno compiuto una scelta di un lessico inusuale: una facciata e non più una parete e uno spazio di transizione flessibile tra interno ed esterno. La specificità del progetto è inoltre nel riunire al suo interno due programmi: il Spip, servizio di integrazione in libertà vigilata, assicura il monitoraggio delle persone poste in sorveglianza, mentre il Csl, il sistema di semi-libertà permettendo al detenuto di uscire dall’edificio per svolgere delle mansioni utili al suo reinserimento nella società. Non è un caso se un progetto di una tale rilevanza sia stato vinto da uno studio che ha fatto delle architetture-manifesto il suo caposaldo. Lo studio Lan, il cui acronimo indica Local Architecture Network, è stato fondato a Parigi nel 2002 dal francese Benoît Jallon e dall’italiano Umberto Napolitano, e dal suo esordio si è distinto per le accurate risposte nella definizione di architetture dalla forte identità unitaria. Tra le oltre trenta architetture costruite, vanno indubbiamente ricordate il Centro degli Archivi della Edf, maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia, la palestra di Chelles e il grande cantiere per il rinnovo del Grand Palais di Parigi, il cui completamento è previsto per il 2023. Tra le più significative realtà di architettura europee, il duo di architetti, oltre ai numerosi premi ricevuti, ha avuto l’onore di essere insignito come Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere, una delle più alte onorificenze istituzionali francesi. Nel caso di Nanterre quindi, un volume con un impianto ad L si racconta volutamente a chi lo osserva, presentandosi come un grande parallelepipedo le cui mura vengono abdicate per la scelta di una massiccia facciata in corten, interrotta da una sola grande apertura che diventa una vera e propria finestra da e sulla città. La compenetrazione dei due sistemi penitenziari si realizza con la definizione del lato lungo dell’isolato e del fronte costruito, dedicato al Spip, mentre il lato corto è destinato al Csl, che si articola anche nelle stecche interne alla corte. L’organizzazione delle diverse aree del carcere è controllata da un punto di accesso protetto che, sulla scorta delle lezioni del Panopticon di Jeremy Bentham, permette una vista diretta sul cortile. L’edificio, che si sviluppa su quattro piani, ospiterà a breve i 92 dipendenti nelle 89 celle. Quest’ultime, di 12 mq ciascuna, restano delle tipiche celle con porte blindate e barriere alle finestre. Nessuna delle finestre affaccia sull’esterno, così come tutte le aree destinate alle attività. Infatti la biblioteca, la palestra, il refettorio, e tutte le altre attività, affacciano unicamente sul cortile interno, adibito a campo di basket, i cui colori ricordano inevitabilmente quello nel quartiere di Pigalle a Parigi.