Cos’è la giustizia riparativa, voci e testimonianze dagli istituti di pena di Luca Cereda lifegate.it, 2 ottobre 2019 La testimonianza di una vittima della strage di Piazza della Loggia: “Non lasciamo i detenuti isolati”, ma accompagniamoli in un percorso di giustizia riparativa. “Colui che viene condannato viene visto esclusivamente attraverso gli occhi della legge. Viene considerato colui che ha commesso il reato. Ma chi è questa persona? Come mai ha commesso violenza, di qualsiasi tipo, contro qualcuno e contro la comunità? Abbiamo bisogno anche di rispondere a queste domande. Non dobbiamo dimenticare mai che il reo è una persona e non un mostro”. Queste sono le parole di Manlio Milani, un uomo che porta ancora nel cuore la lacerazione improvvisa della strage di piazza della Loggia a Brescia, ovvero la perdita - in quel sanguinoso 28 maggio del 1974 - di sua moglie Livia per mano dei terroristi. La strage di piazza della Loggia a Brescia - Quel giorno, alle ore 10:00, in piazza della Loggia, a Brescia, era prevista una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato antifascista con la presenza del sindacalista della Cisl Franco Castrezzati, dell’Onorevole Adelio Terraroli del Partito comunista italiano e del segretario della Camera del lavoro di Brescia Gianni Pannella. Centinaia, migliaia di persone erano in piazza a manifestare. Alle 10:12 una bomba contenente almeno un chilogrammo di esplosivo, nascosta in un cestino dei rifiuti, esplose colpendo moltissime persone: tre di queste morirono sul colpo. Una di queste fu Livia. Altre 102 persone rimasero ferite non gravemente. Nel caso della strage di piazza della Loggia molte cose sono note. Il 20 giugno 2017, la Corte di cassazione conferma la sentenza d’appello che nel 2015 aveva comminato l’ergastolo a Carlo Maria Maggi, il capo del gruppo neofascista Ordine nuovo - un gruppo politico di estrema destra extraparlamentare - nel Triveneto, e Maurizio Tramonte, militante padovano di Ordine nuovo e nello stesso tempo informatore dei servizi segreti. È lui la “fonte” che aveva ispirato una cruciale relazione del centro di Padova del Sid (il servizio segreto militare), datata 6 luglio 1974. In quella relazione si diceva che nel 1974 c’erano state alcune riunioni in cui Ordine nuovo, sciolto l’anno precedente, aveva deciso di riprendere clandestinamente le attività. Uno di questi incontri era avvenuto ad Abano Terme il 25 maggio. Ovvero tre giorni prima della strage di piazza di Brescia. La strage di piazza della Loggia ha, quindi, dei responsabili. Maggi e Tramonte sono i colpevoli materiali della strage. I mandati, però, e molte altre sfumature di quella terribile vicenda, sono rimaste nell’ombra sia dei processi che della memoria collettiva. Fare memoria e renderla attiva, una memoria dello Stato e soprattutto dei cittadini. È per questo che è nata nel 2000 l’Associazione casa della memoria di Brescia, di cui Manlio Milani è presidente. In carcere con altri occhi - Si è scelto di guardare all’interno del carcere, facendosi guidare dalla voce e anche dallo sguardo di Milani. I suoi occhi e le sue parole infatti aprono una breccia nelle sbarre che separano chi sta dentro da chi sta fuori, all’interno degli istituti di pena, e mettono al centro l’umanità condivisa da vittime, rei e dalla società, che non deve porsi come cesura, ma come trait-d’union. “Il detenuto è una persona che parla a tutti noi, perché la violenza apre uno strappo non solo nel cuore della vittima, ma - continua Milani con una voce profonda - pone delle domande sulla lacerazione avvenuta in seno all’intera società che ha subito quel crimine”. Un crimine è come uno strappo nel tessuto sociale – “Il carcere ha quindi la forma di una parte della risposta alla domanda che ogni crimine pone alla società civile. Un reato è lo specchio di un qualche disagio che c’è nella società. Ai detenuti va ridata fiducia, perché possano riconoscere il male fatto anche attraverso il dialogo diretto con la vittima. Anche la vittima - conclude Milani - quando comprende che il reo ha preso consapevolezza del male, della lacerazione, si rende conto di non aver a che fare con un mostro ma con una persona”. “Quando sei un criminale non dai valore alla tua vita e come fai a vedere il valore di un’altra persona, dell’essere umano, della vita o della vittima addirittura? Te ne freghi, perché sai che il tuo primo valore è vivere, cercare di sopravvivere, e se non hai le condizioni o le capacità non puoi vedere mai una vittima o anche un essere umano nella vittima che stai rapinando”. Queste, invece, sono le parole del detenuto Carmelo nel docu-film “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Questo docu-film nasce dall’esperienza e dalle riflessioni di quattro testimoni del contrasto alla scelta criminale, esito di più di 20 anni di attività professionali: Angelo Aparo, psicologo nelle carceri milanesi; Francesco Cajani, magistrato; Carlo Casoli, giornalista; Walter Vannini, criminologo. L’obiettivo de “Lo strappo” è, in primo luogo, mostrare il punto di vista di ciascuno sulle altre parti in causa, la vittima, il reo, i mezzi d’informazione e la giustizia, dimostrando come ciascuna parte sia legata per molti fili all’altra: allo stesso modo in cui lo è ognuno di noi, estraneo ai fatti eppure parte della medesima narrazione e del medesimo tessuto sociale, consapevole o no. In secondo luogo, “Lo strappo” intende restituire una visione del reato il più possibile aderente alla realtà delle cose che possono accadere a ciascuno di noi, immortalate nella loro naturale sequenza: la culla, il teatro, le macerie, la difficoltà e gli strumenti per ricostruire gli uomini che ne sono stati protagonisti a vario titolo. Il risultato è un percorso documentaristico all’interno del quale i componenti del comitato scientifico, pur avendo di fatto materialmente condotto le interviste a tutti i protagonisti di questo racconto, rimangono volutamente senza volto e senza voce. Ponendo a tutti le stesse domande, dopo essersi fatti loro stessi interrogare, nel corso del loro percorso professionale, dalle proprie. Il carcere: incontri da dentro - L’obiettivo di questo reportage sul carcere non è quello di descrivere i numeri delle carceri italiane, ma quello di sollecitare alcune riflessioni, di fotografare in modo sintetico, e il più possibile esaustivo, la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: psicologiche, sociologiche, emotive. Implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti sia antecedentemente, sia durante, sia successivamente all’agire criminoso. Chi finisce in carcere e perché? “Finiscono nei penitenziari le persone che hanno dentro una forte rabbia, un grande rancore. In carcere finiscono soprattutto le persone che fanno diventare azione di rivalsa verso l’altro e verso il mondo la loro rabbia nei confronti della società”. Queste sono le parole con cui risponde lo psicologo Angelo Aparo, uno degli ideatori de “Lo strappo”, che nelle carceri milanesi ha fondato nel 1997 il Gruppo della trasgressione, un gruppo di confronto e dialogo all’interno degli istituti di pena tra i detenuti stessi e con la società civile, che entra in carcere per far sentire chi è dentro, parte di ciò che sta fuori. Quando si sta in mezzo a questo gruppo, si riesce a toccare con mano quanto spiegato dal dottor Aparo. Il Gruppo della trasgressione lavora sull’auto-percezione di chi commette reati e sul sostrato affettivo che anche nelle persone comuni può portare a piccole violenze sugli altri e su se stessi. Il gruppo comprende oggi un’associazione e una cooperativa strettamente connesse, entrambe costituite da detenuti, ex detenuti, imprenditori, professionisti, studenti universitari e neolaureati. I principi e gli obiettivi che da sempre caratterizzano tale attività sono lo scambio fra dentro e fuori, la partecipazione alla vita della comunità, il lavoro su se stessi, l’educazione alla legalità, la prevenzione di bullismo e tossicodipendenza. In carcere infatti bisogna innanzitutto promuovere nel detenuto quella riflessione che non c’era al momento del reato, per recuperare la coscienza della parentela fra il reo e la vittima, l’appartenenza alla stessa comunità. Giustizia, da retributiva a riparativa - Un modo per dare impulso a questo riconoscimento di un’umanità di fondo che irrora vittime e rei, sono i percorsi di giustizia riparativa. Nell’immaginario collettivo e per una questione di scarsa informazione, non c’è nessuna idea del fatto che in carcere si possa fare anche un percorso di riabilitazione, che si debba fare un percorso. Che la pena è questo. Che non è un caso che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. L’obiettivo della giustizia riparativa è quello di rispondere all’esigenza di restituire attenzione alla dimensione personale e sociale che investe il crimine, senza la quale la pena altro non sarebbe che un’afflizione. La giustizia riparativa viene tematizzata per la prima alla fine degli anni Ottanta in Nord America (restorative justice) e nasce come un modello sperimentale in cui viene proposta una sorta di equazione per la quale “il crimine è una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali; le violazioni creano obblighi; l’obbligo principale è quello di rimediare ai torti commessi”. Di fatto questa è una rivoluzione copernicana, un cambiamento di paradigma. La pena non deve essere più retributiva, dove la sanzione penale deve servire a punire il colpevole per il male provocato, ma riparativa. Le persone - vittime e rei, con le loro esperienze, il vissuto, le esigenze e le relazioni - non rimangono del tutto marginali come nel paradigma precedente, ma diventano centrali. I percorsi di giustizia riparativa sono diretti a tutte le parti coinvolte, vittima, reo, società civile, e la direzione che dovrebbe essere intrapresa per recuperare un’umanità sofferente che affolla le nostre carceri, la indica Milani: “non lasciare i detenuti isolati, per poter fare in modo che essi da un lato cerchino di recuperarsi ad una nuova vita, e dall’altro lato trovino la possibilità di sopportare fino in fondo, pur vivendo quella colpa, il peso delle loro azioni. Che così non è un’espiazione, è semplicemente riconoscere la responsabilità di ciò che hanno prodotto”. Lo sforzo, il compito che Manlio invita a compiere, allora, è quello di indirizzare chi patisce lo strappo, il dolore del reato, verso il bisogno che dal dolore nasca qualcosa. E questo sforzo va orientato in una direzione che non può essere quella dell’odio perché´ nel tempo, e ce lo ha raccontato lui da vittima, si capisce che la prigione dell’odio consuma la vita di una persona e di una comunità. Senza restituirle nulla. In carcere per un furto da 60 euro: storia di Giacomo. E di 200 come lui affaritaliani.it, 2 ottobre 2019 Sono circa 200 i detenuti in attesa di un posto in Rems: 43 solo nel Lazio. A Rebibbia c’è Giacomo Sy, arrestato a luglio 2018 per un furto da 60 euro. È detenuto illegalmente da quattro mesi, dopo aver scontato la pena a cui era stato condannato: da alcuni giorni è in isolamento, Giacomo Sy, 25 anni, destinato a una Rems ma, in mancanza di posti, dal 2 luglio 2018 rinchiuso a Rebibbia, dove da alcuni giorni è in isolamento, perché i suoi problemi psichiatrici (un bipolarismo aggravato dall’uso di sostanze) sono aggravati dalla detenzione prolungata e dalla mancanza di cure appropriate. A denunciare la sua storia e combattere per i suoi diritti è la mamma Loretta Rossi Stuart, che anche con l’aiuto di alcune associazioni (Articolo 21, Psichiatria democratica ecc.), cerca di accendere i riflettori su “un’ingiustizia che non riguarda solo mio figlio, ma più di 40 persone soltanto nel Lazio. E tante di queste non hanno la possibilità di denunciare. Per questo, ho scelto di essere anche la loro voce, esponendomi in prima persona, nonostante la fatica che questo comporta”. Tra qualche settimana Loretta presenterà il suo docu-film, “Io combatto”, in cui racconta la vicenda di suo figlio. Intanto, pochi giorni fa ha scritto una lettera, che ha diffuso tra le autorità competenti, ricevendo però finora solo una risposta dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria, peraltro “vaga e puramente formale”, riferisce. “Come madre di un ragazzo cosiddetto ‘internato’ (ovvero trattenuto in carcere senza titolo perché in attesa di ingresso in Rems), chiedo al nuovo esecutivo e in particolare agli onorevoli Zingaretti, Speranza, Bonafede, Astorre, Amato, di mettere in luce con rigore la problematica relativa al contesto nebuloso delle competenze e responsabilità riguardo casi come quello di Giacomo - scrive - Sto studiando e approfondendo un argomento ostico perfino agli addetti ai lavori, prendendo atto come il doveroso superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non trovi ancora una prospettiva e un’attuazione concreta”. Le droghe “facili” - Il caso di Giacomo si inserisce nel contesto di quello che sta diventando “un problema dilagante - scrive - perché uno dei fattori scatenanti di queste situazioni è la facilità con cui i nostri ragazzi assumono droghe economiche e devastanti per il loro equilibrio psichico. Una battaglia che bisogna fare, una richiesta di chiarezza di intenti, per il bene della società tutta e delle future generazioni”. È proprio l’uso di sostanze che infatti ha portato Sy in carcere: “Un furto da 60 euro - ci racconta la mamma - commesso per procurarsi la droga. Pochi giorni prima era stato rimandato a casa dal pronto soccorso, in cui lo avevo portato dopo che aveva tentato il suicidio. Non volevo che tornasse a casa, sapevo che avrebbe sbagliato ancora, per la disperazione chiesi un Tso, ma mi fu negato, perché mi spiegarono che dall’interno dell’ospedale non può essere disposto. Ma mio figlio aveva bisogno di un luogo sicuro e sorvegliato, dalla comunità era fuggito e quando avevo provato a riportarcelo lo avevano rifiutato. Ha rubato ed è finito in carcere: ma non condanno quel giudice, so che lo ha fatto per proteggerlo, per tenerlo al sicuro - ci racconta ancora Loretta - Ma mio figlio, nelle condizioni in cui si trova, non può stare in una struttura detentiva che non gli presti le cure di cui ha bisogno: perde la testa, non si controlla, si mette nei guai”. In carcere perché in Rems non c’è posto - Ora Giacomo ha scontato la sua pena: da maggio dovrebbe essere in una Rems, per essere riabilitato e curato. “Io so che recupererebbe - ci spiega Loretta - e so che può salvarsi. È un bambinone che va aiutato a risolvere i suoi problemi. Per questo non chiedo che torni a casa: chiedo che vada in un luogo sicuro dove possa essere aiutato”. Quello che lo stesso magistrato ha indicato: la Rems. “Peccato che non ci sia posto: così, da maggio, mio figlio è detenuto illegalmente. E questo non può che aggravare le sue condizioni. Sono preoccupata e ho paura”, ci confida Loretta. Il problema ha quindi a che fare con l’applicazione della legge 81/2014, che ha disposto la chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) e ha reso il Dipartimento di Salute Mentale (Dsm) titolare dei programmi terapeutico - riabilitativi, con l’obiettivo di attuare i conseguenti trattamenti nel contesto territoriale. Ad oggi però la riforma promessa e l’insufficienza dei posti nelle Rems è uno dei tanti problemi che riguardano queste strutture. 200 persone in attesa di Rems in Italia - “Coloro che attendono un collocamento utile per il ricovero in Rems sono circa 200 in tutta Italia - riferisce la magistrata Paola Di Nicola - Un numero irrisorio se valutato complessivamente, e a livello nazionale, tale da poter essere assorbito con la semplice predisposizione di altre dieci Rems e con l’investimento di cifre contenute”. Il caso di Giacomo accende quindi una luce su una problematica complessa e generale: “In attesa che venga eseguita la misura di sicurezza detentiva, la cui esecuzione deve consistere un ricovero presso un Rems, la carcerazione di fatto prosegue anche per mesi - riferisce Giancarlo Di Rosa, anche lui avvocato della famiglia - L’intollerabile stallo - fa notare - consegue banalmente alla insufficienza strutturale di posti disponibili nelle Rems, che hanno una capienza che non corrisponde al reale fabbisogno”. 43 nel Lazio - Intanto, secondo Gabriella Stramaccioni, garante del detenuto del comune di Roma, “Giacomo Sy non può e non deve stare in carcere. Il magistrato ha previsto per lui un provvedimento in Rems e tale prescrizione deve essere applicata. Il trattenimento in carcere è illegale. In una situazione simile a quella di Giacomo abbiamo 43 persone solo nel Lazio, dove sono previsti 80 posti letto, ma in questo momento ce ne sono solo 73 disponibili. E gli altri 7? Ho provato a chiederlo, ma non ho ricevuto risposta. Intanto Giacomo è il 19° in lista d’attesa: quanto tempo ancora dovrà restare illegalmente in carcere? Forse sarà chiamato quando ormai la sua situazione sarà risolta, quando sarà uscito dal carcere e, magari con l’aiuto dei servizi, avrà trovato una sua stabilità. Sì, perché il meccanismo automatico produce anche questo: che venga ammesso alla Rems chi ormai non ne ha più bisogno. Mentre Giacomo, in carcere, non può che peggiorare. E per lui siamo tutti preoccupati, visto anche il caso recente di un giovane detenuto che, al Regina Coeli, si è tolto la vita a soli 24 anni: era anche lui in attesa che si liberasse un posto in una Rems. Bisogna agire al più presto, non c’è tempo da perdere”. “Lavoro sottopagato”, 30 detenuti lavoratori vincono vertenza contro il Ministero di Associazione Yairaiha Onlus quicosenza.it, 2 ottobre 2019 Quando si parla di lavoro intramurario è difficile immaginare il lavoro svolto dai detenuti come un lavoro “normale”. Nella percezione comune il lavoro in carcere equivale ad una estensione della pena stessa con funzione retributiva sfiorando, pertanto, l’idea tanto cara a certa politica, che auspica la reintroduzione dei lavori forzati. Sempre più frequentemente si ha notizia di protocolli d’intesa che coinvolgono vari enti, pubblici e privati, che vedono impiegata manodopera detenuta a titolo volontario o gratuito, sostituendo alla retribuzione della prestazione lavorativa il bollino della “buona condotta”. Ma così non è. Il lavoro, anche se svolto da persone detenute, deve essere retribuito come da contratto collettivo nazionale, in base alle mansioni svolte e alle ore. Il principio riconosciuto e sancito all’interno della Costituzione, del Codice Civile e nelle norme dell’Ordinamento Penitenziario fissa l’assoluta parità di diritti tra il detenuto lavoratore e il lavoratore libero. I detenuti che all’interno delle case di detenzione italiane svolgono mansioni lavorative dai nomi alquanto anacronistici quali “spesino”, “scopino”, “piantone”, “porta-vitto” non vedono adeguarsi la loro mercede (la retribuzione di chi lavora appunto nelle carceri) dal lontano 1993 in quanto è da allora che per la mancanza di fondi la Commissione Ministeriale responsabile di disporre gli adeguamenti non si riunisce, quindi è da oltre 20 anni che l’Amministrazione Penitenziaria e per suo tramite il Ministero della Giustizia si trova ad essere causa di discriminazione dimenticando la funzione di rieducazione che invece deve essere garantita ma soprattutto tale condotta va a scapito dell’affermarsi di una valida cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari. Pertanto al fine di vedere riconosciuti i propri diritti in ambito lavorativo decine di detenuti che scontano la propria pena nelle case circondariali di tutta la penisola, tra cui Voghera, Catanzaro, Oristano, Parma, Novara e Tolmezzo, ecc., si sono rivolti all’associazione Yairaiha che ha investito i legali avv. Giuseppe Lanzino e avv. Marco Aiello, del Foro di Cosenza, e i consulenti del lavoro dott. Lino Landro e il dott. Alessandro Occhiuto per rielaborare le differenze retributive e promuovere l’azione legale. Sono già oltre 30 i contenziosi intrapresi contro il Ministero della Giustizia ai fini della corresponsione ai detenuti lavoratori delle differenze retributive cui hanno pieno diritto stante la violazione dell’art. 22 dell’ordinamento penitenziario ai sensi del quale la cosiddetta “mercede” non deve essere inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria del Ccnl (contratto collettivo nazionale di lavoro) in vigore ma per l’appunto, a causa di tale violazione in forza del mancato adeguamento dei livelli retributivi per carenze economiche, la forbice tra i compensi di chi è “fuori” e chi è “dentro” si è allargata sempre di più determinando i detenuti legittimati a rivolgersi all’Autorità competente. Finora ogni ricorso iscritto alla sezione lavoro del Tribunale di Roma si è concluso con successo e anche in breve termine in quanto, al fine di accelerare le tempistiche e con l’assenso dei lavoratori, sono state avanzate proposte transattive sinora tutte accettate dall’Amministrazione Penitenziaria, per cui in tempi celeri i detenuti lavoratori hanno visto tutelato il proprio diritto ad una giusta ed equa retribuzione. Su Csm e intercettazioni più vicina l’intesa M5S-Pd di Errico Novi Il Dubbio, 2 ottobre 2019 Schiarita lontana sulla prescrizione, non su tutto il ddl. Sulla prescrizione l’intesa tra M5S e resto della maggioranza è in alto mare. A maggior ragione dopo le parole di Renzi, che sul tema ha minacciosamente prefigurato “suggerimenti in aula”, e dopo i 5 giorni di astensione proclamati dall’Unione Camere penali. Ma su altri punti caldi del dossier giustizia le acque sono meno agitate del previsto. In particolare sull’ipotesi del sorteggio per il Csm, che Bonafede non considera un dogma. “Se ci fossero proposte alternative ma altrettanto efficaci nell’arginare il correntismo, sarebbero ben accette”, spiega un parlamentare M5S che ne ha parlato col ministro. Mentre nel decreto intercettazioni potrebbe cadere il divieto di trascrivere le comunicazioni irrilevanti o lesive della privacy, ma resterebbe il vincolo per Pm e Gip di citare solo i “brani essenziali”. Si può trovare un’intesa, su gran parte del dossier giustizia. Alfonso Bonafede e Andrea Orlando ne restano convinti. Nonostante la complicazione creata dalla variabile Renzi. Il nome stresso dell’ex premier evoca un’altra parola: prescrizione. È il moloch che rischia di condizionare la partita della riforma penale. A ricordarlo è anche l’astensione proclamata dall’Ucpi, che si protrarrà per l’intera settimana dal 21 al 25 ottobre. Il ministro della Giustizia sembra però intenzionato a partire da due punti fermi: nessun passo indietro sulla norma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado, soluzioni alternative possibili su altri aspetti, come il sorteggio per il Csm, e sulle intercettazioni. Un passo alla volta. A cominciare dal sorteggio per individuare i magistrati eleggibili al Consiglio superiore, divenuto all’improvviso tema sensibile. Un po’ per le reazioni assai negative della magistratura - e della stessa Unione Camere penali - un po’ per la freddezza del Pd sull’ipotesi. Manifestata da Orlando nel vertice di venerdì scorso a Palazzo Chigi e ribadita due giorni fa dalla vicepresidente del Senato Anna Rossomamdo, dem anche lei: il sorteggio “sarebbe un grave errore”, ha detto. In realtà, spiega un parlamentare 5 Stelle che ne ha discusso con Bonafede, “il ministro non considera il sorteggio alla stregua di un dogma. È convinto che si tratti della strada migliore per raggiungere l’obiettivo: sradicare il correntismo. Ma appunto, è concentrato sull’obiettivo, non sullo strumento. Quindi”, spiega la fonte m5s, “se altri proporranno soluzioni alternative ma altrettanto efficaci, saranno ben accette a via Arenula”. Chiarissimo. E piuttosto in linea, a ben vedere, con quanto detto dallo stesso guardasigilli nell’intervista al Fatto di domenica scorsa: “L’essenziale è riformare il Csm”. Sul sorteggio Renzi si dice più d’accordo con l’attuale ministro che col “suo” ex guardasigilli, Orlando. Il tema in ogni caso non giustificherà ordalie trilaterali. Tutt’altro discorso sulla prescrizione. Ai dem non è affatto piaciuta l’uscita di Renzi, che preannuncia “suggerimenti in aula”. È vero che il leader di Italia viva non è stato invitato all’incontro con Conte, Bonafede, Orlando e Giorgis, ma è anche vero, fanno notare dal Nazareno, che Leu, pure non presente, non si è certo sognata di accendere fuochi d’artificio. Certo però è che le insidie renziane sul nodo più intricato della giustizia irrigidiscono, dal punto di vista dem, l’intera partita. Così come è vero che si dovrà fare i conti con la mobilitazione dei penalisti, e con i riverberi che se ne avranno in Parlamento. Nella delibera con cui il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza ha indetto l’astensione, un passaggio definisce “manifestamente inverosimile” il proposito di “un intervento di riforma dei tempi del processo penale prima della entrata in vigore della riforma della prescrizione”. Ma a voler isolare il nodo sul quale la pacificazione pare assai lontana, resta sullo sfondo anche il decreto intercettazioni. Pure quello entrerà in vigore il 1° gennaio - nella forma disegnata due anni fa da Orlando - qualora non ce ne si occupasse. Ma ora sembra profilarsi un punto d’incontro tra l’attuale e il precedente guardasigilli, Bonafede e Orlando, che potrebbero parlarne in un prossimo colloquio, ancora non calendarizzato. Bonafede intende modificare la norma che vieta la trascrizione delle comunicazioni lesive della privacy o comunque non rilevanti per i fatti oggetto d’indagine. La polizia potrebbe restare libera di sbobinare tutto, anche perché la preclusione prevista da Orlando, tuttora congelata, “pregiudicava per esempio il diritto alla difesa”, come ricordato da Bonafede sempre nell’intervista al Fatto quotidiano. Resterebbe però il vincolo per pm e gip a utilizzare nelle loro richieste e ordinanze cautelari solo i “brani essenziali” delle intercettazioni, in modo da impedire che i virgolettati finiscano direttamente dal segreto d’indagine alle prime pagine dei giornali. Non se n’è ancora parlato, ma se il tutto fosse accompagnato da misure rigorosissime, per la polizia, nella custodia del materiale, Orlando potrebbe anche dare il via libera. Resteranno immutati altri capitoli del ddl Bonafede: per esempio quello che impedisce le “porte girevoli” tra magistratura e carriera politica. Non è questo a preoccupare il Csm, che aveva addirittura esortato un simile rigore e il cui vicepresidente David Ermini ieri ha detto: “Abbiamo ricevuto una bella botta, ma il Consiglio ha lavorato senza mai saltare un provvedimento”. E in fondo è vero. L’astensione dell’Ucpi contro lo stop alla prescrizione: “No all’imputato a vita” Il Dubbio, 2 ottobre 2019 I penalisti proclamano lo stop alle udienze dal 21 al 25 ottobre. La delibera firmata dal presidente delle camere penali Caiazza e dal segretario Rosso definisce “aberrante” lo stop alla prescrizione. “È ormai imminente il termine di entrata in vigore della norma che di fatto abroga la prescrizione del reato dopo la pronunzia della sentenza resa dal giudice del primo grado”. Inizia così la nota con cui l’Unione Camere penali comunica la proclamazione di un’intera settimana di astensioni dalle udienze, da lunedì 21 a venerdì 25 ottobre, contro la soppressione dell’istituto. “Il Ministro della Giustizia ha pubblicamente dichiarato che nessun intervento è previsto su quella norma”, ricordano i penalisti, “mentre il Partito Democratico, ha formulato, sul punto, riserve assai blande, indeterminate nei contenuti e non di rado contraddittorie. È manifestamente inverosimile il proposito, pure sorprendentemente avanzato dal Ministro, di un intervento di riforma dei tempi del processo penale prima della entrata in vigore della riforma della prescrizione, cioè entro il 31 dicembre 2019”, si legge nella nota. La delibera dell’Ucpi, firmata dal presidente Gian Domenico Caiazza e dal segretario Eriberto Rosso, ricorda ancora: “Il cittadino resterà in balia della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda, come denunciato dai penalisti con l’intera comunità dei giuristi italiani. È chiaro a tutti gli addetti ai lavori, anche alla magistratura, che l’entrata a regime di un simile, aberrante principio determinerebbe un disastroso allungamento dei tempi dei processi, giacché verrebbe a mancare la sola ragione che oggi ne sollecita la celebrazione”. L’Ucpi proclama dunque “l’astensione dalle udienze e da ogni attività nel settore penale per i giorni 21, 22, 23, 24 e 25 ottobre 2019”. Una grande mobilitazione, che avrà il clou in un evento nazionale, ma che vedrà impegnata l’avvocatura in tutto il Paese: la giunta dell’Ucpi, infatti, “invita tutte le Camere Penali territoriali ad organizzare iniziative volte ad informare la pubblica opinione e a coinvolgere le forze politiche, le altre associazioni forensi, la magistratura, l’Università e tutti coloro che intendono impedire l’affermarsi della idea incivile e incostituzionale dell’”imputato a vita”“. Reddito alla ex Br Saraceni, dietrofront M5S: “Quella legge va cambiata subito” di Pino Corrias La Repubblica, 2 ottobre 2019 Di Maio: “Non possiamo permettere che Saraceni abbia l’assegno”. E Forza Italia attacca: “La Lega bocciò l’emendamento contro la norma”. Il governo rivedrà le regole di assegnazione del reddito di cittadinanza dopo il clamore suscitato dalla scoperta che della misura usufruisce l’ex brigatista - tuttora agli arresti domiciliari - Federica Saraceni, condannata a 21 anni e mezzo per l’omicidio di Massimo D’Antona. A muoversi in questa direzione è il viceministro dell’Economia Antonio Misiani, che sottolinea: “Bisogna cambiare le regole di attribuzione del reddito”. Oggi riunione tecnica al Lavoro con la ministra Nunzia Catalfo, la Giustizia e l’Inps. Lo stesso Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e anima del provvedimento con il precedente governo, ha detto: “Non possiamo permettere che una brigatista possa ottenere il reddito di cittadinanza”. Il Pd, per bocca del capogruppo alla Camera Graziano Delrio, insiste: “Chiediamo che al più presto si verifichi e si modifichi la norma sulla concessione del reddito di cittadinanza legandola, nel caso di detenuti per gravi reati, a un effettivo ravvedimento e collaborazione con lo Stato. Nessuno può premiare chi non si ravvede e collabora”. Sulla storia è intervenuto, dopo un giorno di silenzio, il padre di Federica Saraceni, Luigi, già parlamentare del Pds e dei Democratici di sinistra, ex magistrato nonché difensore della figlia: “Prima del reddito di cittadinanza mia figlia percepiva il reddito d’inclusione. Dobbiamo mandarla a fare la prostituta o buttarla in una discarica? Mia figlia dice una cosa: datemi un lavoro e rinuncio al reddito di cittadinanza”. E ancora: “Federica è stata condannata per un errore. L’attacco parte dalla destra becera e reazionaria, purtroppo la sinistra si accoda perché la destra specula sulle emozioni e la sinistra non è mai capace di una propria autonomia”. Il provvedimento, sottolinea il Partito democratico, “fu votato e approvato dalla Lega, che ora inscena una protesta propagandistica”. E al leader del Carroccio, Matteo Salvini - che ha tuonato “chiariscano o fermiamo i lavori del Parlamento” - chiede conto anche Sandra Savino (Forza Italia): “I deputati della Lega sono gli stessi che nel marzo scorso votarono contro un emendamento di Forza Italia che mirava proprio a evitare casi analoghi a quello emerso in questi giorni”. La vedova del giuslavorista, Olga D’Antona, si dice certa che Federica Saraceni non abbia “davvero bisogno” di quel denaro perché “ha una famiglia alle spalle che da sempre si occupa di lei e dei suoi figli, che l’ha sempre sostenuta. Rinunci al reddito e lo lasci a chi ne ha bisogno”. Lo Stato di diritto e le tutele da applicare anche ai “cattivi” di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 2 ottobre 2019 Il “reddito” alla Saraceni. È ben comprensibile che abbia portato polemica il reddito di cittadinanza ottenuto da Federica Saraceni, giudicata corresponsabile dell’omicidio di D’Antona. Ma si crede che non abbia torto chi, come il padre Luigi, si domanda amaramente se sia giusto che lo Stato non riconosca a una condannata senza mezzi altra scelta, per sopravvivere, che quella di prostituirsi. È chiaro che si tratta in questo caso di una dichiarazione, diciamo così, interessata, e qualcuno potrebbe - non senza ragione - obiettare che forse chi è in rapporti così intimi con il responsabile di un delitto indiscutibilmente terrificante dovrebbe sorvegliare con un supplemento di delicatezza le proprie manifestazioni. Ma queste sono faccende di stile, mentre nel merito è sicuro che se la legge attribuiva quel diritto a quella persona non si vede per quale motivo mai bisognerebbe revocarglielo. E qui si viene alla polpa della questione. In buona sostanza, l’idea (sbagliatissima) è questa: che quella provvidenza di Stato, il reddito di cittadinanza, non dovrebbe potersi concedere al responsabile di questo o quel delitto. Ma non ci si rende conto della pericolosità di una simile idea. Si può pensare infatti quel che si vuole della opportunità o no che lo Stato conceda queste provvidenze, e c’è una buona somma di argomenti adunati a spiegare che è sbagliatissimo concederle (non a quella condannata, ma a chiunque). Ma il requisito per riceverne dovrebbe risiedere nella condizione di bisogno, non nel fatto che il percipiente possa vantare un curriculum umano che compiace. E la reazione “democratica” che va montando a proposito di questa vicenda sembra nutrita esattamente dal pregiudizio secondo cui non è il bisogno a giustificare il riconoscimento della provvidenza, ma il fatto che a richiederla sia una persona, per capirsi, “per bene”. Da lì a stabilire che il reddito di cittadinanza può ottenerlo solo chi vota per Tizio o Caio, o chi come Tizio o Caio la pensa, il passo è molto breve. Dice: ma qui non si tratta di voti o pensieri, ma di comportamenti criminali e tra i più immotivati e feroci. E sia. Ma è un’obiezione che non spiega in nessun modo, come dovrebbe comportarsi l’ordinamento davanti a uno stato di bisogno che non può vantare il supplemento di un passato incensurato. Che cosa ne facciamo, di questi? Siccome sono stati cattivi mettiamo nella legge che non hanno diritto di essere in stato di bisogno? E allora dite che un’assassina può morire di fame, lei e tutta la sua stirpe di Massimo Adinolfi Il Foglio, 2 ottobre 2019 Lo scandalo del reddito di cittadinanza alla ex brigatista Saraceni. Non so quale sia il modo migliore per impressionare l’opinione pubblica e lucrare sulla vicenda: “Brigatista in panciolle riceve soldi dallo Stato”? Oppure, più direttamente: “Uccidi e ti sarà dato”? In un caso o nell’altro, e nei molti altri casi in cui la vicenda è rimbalzata sui giornali, prevale su tutto l’indignazione: diamo il reddito di cittadinanza agli assassini? Che enormità! La Lega ha addirittura annunciato di voler bloccare il Parlamento finché il sussidio non sarà ritirato, ma anche nella maggioranza, anche nel Pd si percepisce l’imbarazzo: c’è qualcosa che non va, nella legge, qualcosa non ha funzionato, controlleremo, verificheremo, correggeremo. Evidentemente, nessuno ha il coraggio di dire che una legge, che fornisce un sostegno economico a una persona che è agli arresti domiciliari e ha due figli a carico, non è affatto una cattiva legge. Non si trova uno straccio di parlamentare - ma neanche un magistrato, per la verità - che prenda in faccia il vento dell’impopolarità e dica: forse è giusto, forse ha senso, forse può servire. Non benché, ma proprio perché la legge aiuta una detenuta, che ha certamente qualche difficoltà in più, non in meno, a trovare un lavoro e di che sfamare i propri figli. Oppure si ritiene che un’assassina può (o deve) morire di fame, lei e tutta la stirpe che ha generato? Se è così, perché non dovremmo essere coerenti e abolire le mense in carcere, almeno per coloro che si sono macchiati di reati di sangue? Che se la vedano da soli! Oppure: perché non irridiamo e additiamo indignati al pubblico ludibrio coloro che si preoccupano della qualità della vita dei detenuti, dell’affettività, dell’igiene o del cibo negli istituti penitenziari? Che sono tutte queste manfrine, tutte queste smancerie? Questi sono delinquenti, gente che ha sparato, gente che ha ammazzato: se la sono cercata, che vogliono ora? Questa del resto è la logica del “buttare via la chiave” e del far marcire in galera: probabilmente, il solo fatto che Federica Saraceni non sia rinchiusa in qualche gattabuia desta rabbia, in coloro per i quali il reinserimento e la finalità rieducativa sono tutte stronzate (scritte, però, nella Costituzione). In questo caso, la legge considera che una persona in determinate condizioni economiche, a più di dieci anni di distanza dalla sentenza, può essere fatta oggetto di certe politiche di assistenza. Il presidente dell’Inps ha confermato: i requisiti di indigenza sussistono; per questo, a meno che non si ritenga sia giusto che un’ex terrorista versi in condizioni di povertà, insieme con la sua prole maledetta, a meno di non avere una concezione vendicativa della giustizia penale, che si riverberi anche sulle condizioni economiche e sociali, non riesco a vedere nulla di sbagliato in tutto ciò. Vedo al contrario qualcosa di nobile, che fa la superiorità etica dello Stato sulla stupida violenza criminale. Ma certo, lo hanno chiamato reddito di cittadinanza e ora si accorgono che non avevano le idee chiare su cosa significasse cittadinanza: quali obblighi, quali doveri ma anche quali diritti. Non è la sola cosa su cui non avevano le idee chiare, quando, con l’introduzione del reddito, hanno addirittura abolito la povertà (così disse l’attuale ministro degli esteri, che la Farnesina l’abbia in gloria). Ma questa è un’altra storia, e non è il caso di rifarla qui, dove si parla di diritti, dignità, umanità: queste sconosciute. Certo, è un paradosso che il reddito vada a chi ha ucciso un uomo la cui missione di studioso fu quella di aiutare i bisognosi. Ma è un paradosso che squassa la coscienza di chi commise quel delitto, ma che uno Stato può e deve invece rivendicare a suo merito. Non vergognarsene, come purtroppo sta accadendo. Ok al pc in carcere, se motivato di Michele Damiani Italia Oggi, 2 ottobre 2019 L’avvocato può portare il computer in carcere per lo svolgimento del colloquio con il proprio cliente. Per ottenere l’autorizzazione, però, è necessario che il legale descriva dettagliatamente le ragioni che rendano “indispensabile l’ausilio di strumentazione informatica durante il colloquio”. È quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 38609/2019. La Corte ha respinto il ricorso di un avvocato al quale era stata negata la possibilità di svolgere il colloquio con il proprio pc. Nel motivare l’inammissibilità del ricorso, la Corte ha evidenziato in quali casi l’avvocato possa entrare in carcere con il proprio dispositivo. Per prima cosa “si impone la preliminare necessità di verifi care in che termini un’istanza del genere sia funzionale all’esercizio di difesa”. La questione, infatti, “non è quella di stabilire in astratto se il difensore possa entrare o meno in carcere con il suo pc”. Piuttosto, è necessario che “siano adeguatamente illustrate dal difensore le ragioni che rendano realmente indispensabile l’ausilio di strumentazione informatica”. Nel caso di specie, l’avvocato aveva motivato l’utilizzo del portatile affermando l’esistenza di un “corposo fascicolo penale” che il cliente avrebbe dovuto visionare e non avrebbe potuto farlo senza un pc. Per la Corte, la motivazione è del tutto generica, in quanto “non sono state specificate le ragioni per cui non era stato possibile stampare tutti gli atti processuali necessari”; inoltre si potevano superare le criticità “utilizzando uno dei computer in dotazione alla struttura, mediante l’utilizzo di files esterni”, come una pennetta Usb. “L’introduzione di un pc potrebbe favorire, anche tramite l’uso di internet, l’accesso a informazioni estranee a quelle strettamente funzionali alla conoscenza degli atti processuali utili all’esercizio delle prerogative difensive”. Nel caso in cui, per esempio, sia stata verificata e dettagliata l’assoluta impossibilità di utilizzare documenti cartacei o l’assenza di pc interni alla struttura, l’introduzione sarebbe stata concessa. Calabria. “Illegittima la nomina del Garante dei detenuti”, presentato ricorso al Tar lanuovacalabria.it, 2 ottobre 2019 Sub judice la nomina del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria. L’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani, Emilio Enzo Quintieri, anch’egli candidato alla carica di Garante, difeso dall’Avvocato Fabio Spinelli del Foro di Paola, ha impugnato il Decreto n. 5 del 30 luglio 2019, con il quale il Presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto, sostituendosi all’Assemblea Legislativa, ha nominato l’Avv. Agostino Siviglia del Foro di Reggio Calabria, Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute e private della libertà personale. Il ricorso è stato presentato al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, al quale è stato chiesto non solo l’annullamento del Decreto perché illegittimo per vari motivi in fatto e in diritto, ma anche la sospensiva dello stesso, in attesa della definizione del giudizio. Oltre a Quintieri ed a Siviglia, in corsa per la carica di Garante, vi erano altri quindici candidati, dichiarati idonei dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale con Deliberazione del 23 ottobre 2018. Altri tre aspiranti, invece, sono stati esclusi perché privi dei requisiti stabiliti. La Regione Calabria, una delle ultime in Italia, con Legge Regionale n. 1/2018 ha istituito il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, prevedendo all’Art. 3 che, il medesimo, debba essere eletto dal Consiglio Regionale con deliberazione adottata a maggioranza dei due terzi dei Consiglieri assegnati e che in mancanza di raggiungimento del quorum, dalla terza votazione, l’elezione avvenga a maggioranza semplice. Dopo innumerevoli sollecitazioni, il 24 ottobre, la Proposta di Provvedimento Amministrativo n. 234/10 “Elezione del Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale” veniva depositata presso la Segreteria Assemblea del Consiglio Regionale e comunicata all’Aula nella seduta del 16 novembre e rimase ferma per molti mesi fino all’11 marzo 2019 quando, per la prima volta, venne iscritta all’ordine del giorno del Consiglio Regionale. In tale seduta, però, a seguito della rivisitazione dell’ordine del giorno, non venne trattata e rinviata alla seduta del 15 aprile ma, anche in tale seduta, per altra rivisitazione dell’ordine del giorno e per la mancanza del numero legale poiché la maggioranza aveva abbandonato l’aula, venne ulteriormente rinviata alla seduta del 29 aprile. Come nelle altre occasioni, in tale seduta, vi fu una rivisitazione dell’ordine del giorno e la elezione del Garante Regionale, su proposta del Capogruppo del Pd Sebastiano Romeo, approvata dall’Aula, venne rinviata a data da destinarsi. Successivamente, nonostante vi furono altre quattro sedute dell’Assemblea Regionale (28 maggio, 17 giugno, 24 giugno e 15 luglio), la questione non venne più iscritta all’ordine del giorno, nonostante una diffida in tal senso, fatta da Quintieri, all’Ufficio di Presidenza ed alla Conferenza dei Capigruppo Consiliari. Fino a quando, lo scorso 30 luglio, il Presidente Irto, esercitando il “potere sostitutivo”, procedeva alla nomina del Garante Regionale, scegliendo l’Avv. Siviglia, peraltro in carica come Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Reggio Calabria nonché Console della Repubblica di Tunisia per la Calabria, scrivendo nel provvedimento che tale potere gli era stato conferito dal Consiglio Regionale, con decisione unanime, assunta nella seduta del 29 aprile. Tale circostanza non risponde al vero poiché né nella seduta indicata né in altre, il Consiglio Regionale, si è mai pronunciato in merito, oltre al rinvio dell’elezione a data da destinarsi. Ritengo che la nomina del Garante sia illegittima ed annullabile - dice l’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani - poiché il Presidente Irto non poteva, nella maniera più assoluta, nominare detta Autorità, spettando tale prerogativa esclusivamente in capo al Consiglio Regionale, come prevede lo Statuto Regionale, la Legge Regionale istitutiva ed il Regolamento Interno del Consiglio Regionale. Quanto al “potere sostitutivo” non poteva essere esercitato dal Presidente perché la Legge Regionale che ha istituito il Garante, non gli ha attribuito espressamente tale potere; l’Art. 113 comma 2 del Regolamento Interno del Consiglio Regionale è molto chiaro e preciso prevedendo che il Presidente possa sostituirsi all’Assemblea “qualora la Legge attribuisca esplicitamente tale potere”. Ma non è solo una questione di “incompetenza relativa” e violazione e falsa applicazione delle disposizioni legislative, statali e regionali, vi sono altri motivi, tutti eccepiti nel ricorso, che rendono il decreto di nomina illegittimo: eccesso di potere e violazione di legge per difetto di motivazione e di istruttoria, violazione dei principi di legalità, trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa. La nomina del Garante, per quanto di natura fiduciaria - conclude il radicale Quintieri - non è un “atto politico” che può essere svincolato da qualsiasi obbligo di motivazione che renda conto della ragione della scelta operata che appare arbitraria, ingiusta, illogica ed irragionevole. Nel decreto impugnato non risultano esplicitate, neppure in maniera sintetica, le ragioni che hanno indotto il Presidente Irto a scegliere, tra più candidati ritenuti idonei, un aspirante all’incarico rispetto agli altri. Il Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria, ricevuto il ricorso e l’istanza di sospensiva, ha già provveduto a fissare la Camera di Consiglio per il prossimo 2 ottobre alle ore 9, in cui il Collegio giudicante deciderà se sospendere o meno l’efficacia del provvedimento impugnato. Non è escluso che, all’esito della Camera di Consiglio, il Tribunale, trattenga la causa in decisione, pronunciando una sentenza in forma semplificata. I Giudici Amministrativi che si occuperanno del caso saranno Caterina Criscenti, Presidente e Relatore, Agata Gabriella Caudullo, Referendario ed Antonino Scianna, Referendario. Al momento si è costituito in giudizio, con una “memoria di stile”, senza alcuna critica al ricorso, il Presidente della Regione Calabria On. Mario Oliverio, difeso dall’Avvocato Angela Marafioti dell’Avvocatura Regionale di Reggio Calabria. Parma. Trasferimenti no-stop di detenuti. Il Garante: “celle invivibili, adesso basta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2019 La denuncia del Garante al Dap: “si rischiano proteste, il sistema è al collasso”. I detenuti vengono dislocati da altre carceri per motivi disciplinari o per la chiusura di alcune sezioni. Solo negli ultimi tre mesi sono stati 50 i casi. Trasferimenti continui al carcere di massima sicurezza di Parma che già risente problematiche di sovraffollamento e criticità come il centro clinico, già in affanno, visto il numero consistente di detenuti con problemi fisici. Una movimentazione che, com’è stato evidenziato da Il Dubbio, riguarda la “girandola dei detenuti”, trasferiti di continuo da un carcere all’altro per motivi disciplinari o per la chiusura delle sezioni. Così com’è avvenuto al carcere di Voghera, dove è stata chiusa la sezione di alta sicurezza AS1 e quindi sono stati trasferiti i detenuti che vi erano reclusi in quello di Parma. A questo si aggiunge, negli ultimi tre mesi, un arrivo netto di 50 detenuti reclusi nella sezione AS3 da altre carceri. Diversi, ad esempio, provengono dal carcere di Secondigliano. Per questo motivo, il garante locale dei detenuti del carcere di Parma ha inviato una lettera urgente al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, per ripristinare il rispetto dei diritti dei detenuti, in un carcere nel quale non è presente un direttore con nomina stabile dall’ottobre del 2011 e caratterizzato per la sua complessità, dovuta da una parte all’elevato numero di circuiti detentivi, come le sezioni di media e alta sicurezza, 41bis compreso. Il Garante Cavalieri, tramite la lettera al Dap, spiega che il trasferimento a Parma di circa 50 detenuti AS3 dallo scorso mese di luglio ad oggi e, recentemente, l’assegnazione dal carcere di Voghera di 10 detenuti AS1, sette dei quali con ergastolo ostativo, che portando a 129 gli ergastolani presenti ovvero il 20% dei reclusi, ha “compromesso la vivibilità delle celle per i detenuti con lunghe condanne e, spesso, costretto i detenuti a vivere con un compagno malato, anch’esso bisognoso di maggior tutela” e accade che “i detenuti, pur di non vivere in cella con un compagno, preferiscono farsi rinchiudere nelle celle di isolamento e avviare forme di proteste”. Ma non solo: “Nel reparto di media sicurezza - denuncia il garante locale - si assiste all’arrivo da altri istituti di detenuti con forti problematiche disciplinari che, inevitabilmente, peggiorano la qualità delle relazioni tra detenuti e tra detenuti e operatori penitenziari, arrivando così al verificarsi di eventi critici che hanno superato, nel numero, la soglia della normale tollerabilità da parte di un sistema che sempre più si espone alla concreta possibilità del verificarsi di eventi irreparabili e drammatici”. D’altronde, come detto, grava anche il sovraffollamento. Il garante locale Cavalieri spiega che “sabato scorso, 21 settembre, i detenuti presenti erano 646 contro una capienza regolamentare di 455 persone, ben 191 detenuti di troppo con inevitabile deperimento della qualità dei servizi interni, dell’accesso al lavoro dei reclusi e dei lunghi tempi di attesa per interventi di tipo sanitario”. Raggiunto da Il Dubbio, il garante locale del carcere di Palma fa notare anche una contraddizione. “Recentemente - spiega Cavalieri - è stata siglata dal Dap una convenzione con l’università di Parma, creando un polo universitario in carcere, il quale prevedeva nelle sezioni di alta sicurezza delle celle singole per i detenuti che fanno studi universitari. Chiaro che, con questi trasferimenti, le celle singole non ci sono più”. Ma, ricordiamo, c’è anche il problema delle assegnazioni di detenuti per motivi sanitari che superano il numero dei posti presenti nei reparti di assistenza intensiva e paraplegici. “Sono decine quelli qui destinati perché è presente un reparto di assistenza intensiva (Sai) - denuncia il garante locale - che però non risulta avere posti letto liberi, occupati da detenuti con degenze lunghissime, anche di molti mesi e pertanto con un ricambio praticamente inesistente”. E cosa accade di conseguenza? “Ciò costringe detenuti parimenti ammalati, rispetto a quelli ricoverati al Sai - spiega il garante Cavalieri- a restare in celle ordinarie di sezioni ordinarie, con i conseguenti problemi di conciliazione tra necessità sanitarie e spazi detentivi inadeguati”. San Gimignano (Si). Corleone: migliorare le condizioni di vita nel carcere met.provincia.fi.it, 2 ottobre 2019 Il Garante dei detenuti della Toscana ha visitato la struttura penitenziaria in provincia di Siena: “Rispettare la capienza regolamentare, fare migliorie e rilanciare il polo universitario e scolastico” Rispettare la capienza regolamentare, intervenire con delle migliorie minime, rilanciare il polo universitario e la sezione scolastica. Sono questi i suggerimenti principali avanzati da Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti della Toscana, per ristabilire un buon clima di vivibilità all’interno del carcere di San Gimignano, di recente al centro delle cronache per una vicenda di presunte torture ai danni di alcuni carcerati sulla quale sta indagando la procura di Siena. Corleone ha avanzato queste proposte al termine di una visita all’interno della struttura carceraria, nella quale è stato accompagnato dalla garante dei detenuti di San Gimignano, Sofia Ciuffoletti. Nel corso della visita Corleone ha avuto un colloquio con il direttore del carcere e con il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, entrambi in servizio da pochi mesi nella struttura, e con il responsabile dell’area educativa. “Al centro dei colloqui - ha dichiarato Corleone - ci sono stati i temi che ritengo necessari per rendere più dignitosa la permanenza in carcere dei detenuti e le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Il Garante regionale ha osservato che il carcere di San Gimignano, trovandosi in aperta campagna, presenta difficoltà per i trasporti, il regolare approvvigionamento idrico e le comunicazioni telefoniche. “Queste difficoltà vanno rimosse - ha detto, - per superare i problemi di gestione della struttura e per riaffermare in toto i principi costituzionali del rispetto dei diritti umani e della dignità della persona. Dobbiamo cioè garantire che i detenuti trovino le condizioni per un percorso di possibilità per un loro reinserimento sociale al termine del periodo di pena e che gli agenti penitenziari possano svolgere un lavoro efficace e non alienante, visto che in passato, in questa struttura, ci sono stati casi di agenti che si sono tolti la vita”. Oggi nel carcere di San Gimignano sono presenti 358 detenuti (128 qualificati di media sicurezza, per reati connessi, per la gran parte, a spaccio e consumo di droga, e gli altri 230 qualificati di alta sicurezza). L’amministrazione penitenziaria ha avanzato l’ipotesi di eliminare la presenza di carcerati qualificati di media sicurezza e di prevedere la presenza solo di detenuti qualificati di alta sicurezza. “Può anche essere una soluzione per dare omogeneità alla struttura e al trattamento delle persone - commenta Corleone - però a mio parere si può fare solo rispettando la capienza regolamentare dei detenuti, che è stabilita in 250. Lo si può fare con un intervento minimo, che è quello trasformare in celle singole tutte le celle oggi a doppia branda. Ma accanto a questo servono anche altri interventi di riqualificazione complessiva della struttura e delle condizioni di vita”. Il Garante della Toscana ritiene importante potenziare il polo universitario, che attualmente interessa 30 detenuti. “Questa - spiega - è una delle sezioni in cui togliere la doppia branda dalle celle e dove prevedere la creazioni di spazi da dedicare a biblioteca e stanze per lo studio, dotate di computer e utilizzabili per ospitare i tutor e i professori per i momenti di lezioni e per gli esami”. Serve anche creare un’apposita sezione scolastica attrezzata, ha aggiunto ancora Corleone, anche per i detenuti iscritti all’Istituto alberghiero Ricasoli. Corleone ha spiegato che con il direttore del carcere è stato concordato di applicare il regolamento per la parte che riguarda la presenza di refettori o mense, “così da rendere conviviale il momento del consumo dei pasti”, e di eliminare i pesanti sgabelli di legno, scomodi e in passato usati come arma per offendere, con “sedie in plastica, leggere e ignifughe, che permettano di riposare anche la schiena”. Interventi necessari sono stati individuati anche per la sistemazione dei bagni delle celle, che sono privi di doccia e acqua calda. “Superare l’uso delle docce comuni - afferma Corleone - è una questione di rispetto della dignità della persona e è utile a evitare sprechi di acqua e a mitigare alcune criticità igieniche. A questo proposito sarebbe importante anche dotare di un lavandino esterno ogni bagno, così da non dover sciacquare un bicchiere o un piatto in prossimità del gabinetto”. I detenuti hanno sollecitato al garante anche la possibilità di poter accedere a più canali televisivi, anche per rispondere al bisogno dei detenuti stranieri di poter fruire della televisione. “C’è una soluzione in corso e speriamo di risolvere il problema in tempi brevi”, dice il Garante. Dopo l’incontro con gli agenti, Corleone ritiene importante “garantire un’abitazione a chi lavora all’interno del carcere, affinché non sia costretto a dormire in caserma”. “All’amministrazione penitenziaria - aggiunge Corleone - chiedo che si riconosca al direttore del carcere, che è formalmente il direttore di Arezzo e qui viene per quattro volte a settimana, una soluzione di vita consona per il lavoro straordinario che fa, sacrificando la famiglia che è residente a Lecce”. Corleone, infine, ricorda l’appuntamento del 22 ottobre prossimo in Consiglio regionale per la presentazione di uno studio sulla correlazione droga e carcere. “Regolamentare la questione detentiva in relazione ai reati di droga - conclude - ci aiuterebbe forse a risolvere il problema del sovraffollamento nel carcere di San Gimignano e in altre strutture detentive della regione e del Paese”. Napoli. Proteste dei detenuti nel carcere di Secondigliano di Simona Volpicelli 21secolo.news, 2 ottobre 2019 Protesta dei detenuti del carcere di Secondigliano, per mancanza di linea Sky e la scarsa qualità di carne del vitto. Durante la giornata di lunedì 30 settembre, un episodio decisamente insolito è avvenuto presso il carcere di Secondigliano, in provincia di Napoli. I detenuti si sono “uniti” ed organizzati in una protesta, riguardante sia la mancanza di segnale Sky nelle celle, sia la dubbia qualità della carne loro offerta. La protesta è stata inscenata da circa quaranta detenuti, appartenenti al circuito Media Sicurezza nel Centro Penitenziario, i quali, verso le 13.00 del mattino, hanno dimostrato il loro dissenso, per le suddette “mancanze” loro offerte, attraverso un blocco effettuato nel cortile, rifiutandosi di rientrare nel rispettivo reparto di appartenenza. Si sono così barricati nel cortile del carcere, rifiutandosi di rientrare nelle apposite celle, utilizzando i carrelli del vitto per creare una barriera ed ostruire i passaggi. Le motivazioni che hanno scatenato la protesta dei detenuti riguardano, nel dettaglio, sia la mancanza della trasmissione della linea Sky, offerta ai detenuti dalla Curia di Napoli e trasmessa nelle celle, sia la qualità della carne, che, secondo il loro giudizio, non sarebbe di buona qualità. Ovviamente, sono stati attimi di tensione, tanto che i poliziotti hanno pensato di dover intervenire in un’azione anti - sommossa per riportare la situazione ad uno status regolare, ma, per fortuna, hanno cercato, con ottimi risultati, di far ragionare i detenuti, riuscendo a far si che rientrassero nelle loro celle, evitando così l’utilizzo di azioni di forza. La protesta è stata placata in un paio d’ore, tanto che alle 15.30 i detenuti erano già rientrati regolarmente nelle rispettive celle. Pescara. Carcere sovraffollato, risposta del ministero di Marcella Pace Il Centro, 2 ottobre 2019 Dopo la segnalazione di Pettinari (M5S), il sottosegretario annuncia la redistribuzione dei detenuti. Sovraffollamento della casa circondariale. Sottodimensionamento dell’organico in servizio effettivo. Malfunzionamento dei sistemi di sicurezza automatizzati, danneggiati durante uno degli eventi alluvionali della scorsa primavera. Carenza di posti dedicati a detenuti con problemi psichici. Sono queste le criticità in cui versa il carcere di Pescara, accertate dal vice presidente del Consiglio regionale Domenico Pettinari e segnalate al ministro Alfonso Bonafede e al sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Criticità che sono state ulteriormente constatate nella visita di ieri mattina del garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, accompagnato proprio da Pettinari. L’11 giugno scorso, Pettinari, dopo un’ispezione, ha inviato una prima lettera al ministro Bonafede, alla quale è seguito, il 19 settembre, un sollecito, diretto al sottosegretario Ferraresi. Nella nota il vicepresidente fa riferimento a un “pesante sovraffollamento” ma anche a “turni massacranti”. Alla comunicazione è stata allegata una relazione della segreteria provinciale di Pescara del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. E i numeri parlano chiaro. Il carcere di San Donato ha una capienza di 270 reclusi, mentre ne detiene 390. L’organico del personale di polizia penitenziaria ammonterebbe a 160 unità ma in servizio effettivo ce ne sono 126, di cui 13 ispettori, 2 sovrintendenti, 96 assistenti uomini e 15 donne. “Le 34 unità di poliziotti mancanti”, riporta la relazione, riguardano “17 non assegnate e 17 distaccate in altri uffici”. Il sindacato, pertanto, suggerisce di far rientrare almeno 15 unità maschili, tanto più che il personale è gravato da turni fino a 12 ore. “Nella corrispondenza con il ministero”, sottolinea Pettinari (del M5s), “ho posto più volte la questione delle strumentazioni usurate per le porte elettriche che dividono un settore dall’altro e dell’elevato numero di detenuti a fronte di pochi agenti di polizia penitenziaria. Una carenza ancor più evidente nel reparto psichiatrico della casa circondariale di Pescara. Il reparto, gestito dalla Asl, ha spazio per 6 detenuti con problemi psichiatrici, ma spesso a causa del sovraffollamento il numero cresce, toccando anche punte di 20 persone che necessitano di assistenza psichiatrica. Quando lo spazio manca, questi detenuti sono trasferiti in altri settori del carcere, entrando così a contatto con altri ospiti. Si creano situazioni potenzialmente molto pericolose che il poco personale deve gestire al meglio delle sue possibilità. Il rischio purtroppo è grande”, commenta Pettinari. Ma qualcosa potrebbe accadere. “Dal ministero, proprio questa mattina” (ieri per chi ci legge), “ho ricevuto una risposta a firma del sottosegretario Ferraresi che mi aggiorna sull’impegno a monitorare l’interlocuzione per quanto riguarda l’elettrificazione dei cancelli”. In merito al sovraffollamento, la soluzione potrebbe giungere dall’operazione di ridistribuzione di 280 carcerati su tutto il territorio nazionale, dei quali 91 nel distretto del provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise. “Per la situazione relativa alla popolazione detenuta nel corso dell’anno 2019”, scrive a questo proposito Ferraresi, “al fine di garantire un’equa distribuzione sul territorio nazionale dei reclusi, sono stati emessi provvedimenti deflattivi per la movimentazione di circa 280 unità”. Nessun riferimento, invece, al sottodimensionamento dell’organico, mentre viene ribadita la presenza di un reparto per 7 detenuti affetti da disturbi psichiatrici. “Su quest’ultimo punto, tornerò a chiedere maggiori delucidazioni. L’attenzione è alta”, conclude Pettinari, “e la risposta di Ferraresi mi fa ben sperare sull’intenzione di non abbandonare a sé stessa la casa circondariale di Pescara, dal canto mio di certo non abbasserò la guardia e continuerò a sollecitare il ministero e tutti gli organi competenti su quanto accade in Abruzzo”. Milano. Il carcere oltre le sbarre, 700 volontari impegnati per il recupero dei detenuti di Silvia Morosi Corriere della Sera - Buone notizie, 2 ottobre 2019 Bollate - Le “Carte Bollate” per informare. Un giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti, aiutati nella redazione da alcuni volontari, giornalisti professionisti ed esperti di comunicazione. Un bimestrale che non si occupa solo di raccontare la situazione e i problemi dentro il carcere, ma che fa informazione, per raccontare il mondo “visto dalle sbarre”. Nato nel 2002 e attualmente diretto da Susanna Ripamonti, Carte Bollate ha l’obiettivo di creare canali di dialogo con la società civile ed essere uno strumento di dibattito con l’Istituzione carceraria. Dai primi mesi del 2011 ha anche avviato un’attività di formazione, rivolta alle scuole di giornalismo e ai giornalisti professionisti. San Vittore - Diventare chef tra feste e buffet. Scoprirsi chef all’interno del carcere è possibile grazie alla Libera Scuola di Cucina gestita dalla cooperativa sociale “A&I”. Un meccanismo virtuoso di reinserimento nel lavoro che dal 2012 coinvolge le detenute in percorsi formativi che ne sviluppino le competenze professionali, spendibili un domani nella ristorazione. La particolarità di questo progetto è quella di affiancare alla teoria anche la pratica, con l’organizzazione di eventi didattici nei quali - guidati dagli educatori sperimentare il lavoro sul campo con la simulazione di buffet, l’organizzazione di feste a tema o buffet in carcere aperti alla cittadinanza, imparando anche il servizio a tavola. Opera - Riscatto (e lavoro) arrivando dal pane. Un forno che cuoce a pieno ritmo, un gruppo di detenuti in cerca di riscatto e la voglia di creare con il lavoro un ponte con il mondo esterno. È nato così nel 2013 il progetto della cooperativa “InOpera”, un laboratorio di panetteria e prodotti da forno - fatti come una volta - all’interno della Casa di reclusione: “Rispondiamo al mercato con un prodotto naturale, che dura di più, che aiuta a evitare sprechi e offre qualità e risparmio per il consumatore”. Solo così, con una professionalità in mano, chi per troppo tempo è stato lontano dalla vita civile può tornare a guardare al futuro con fiducia e responsabilità. Beccaria - Rugbisti in campo con gli “All Blacks”. Imparare sul campo l’importanza delle regole e il significato della lealtà. Sono questi i principi che portano alla meta la “Freedom Rugby”, la squadra del minorile Beccaria attiva dal 2008. Ogni sabato i ragazzi prendono parte agli allenamenti organizzati per loro da alcuni volontari a rotazione tra allenatori, educatori e giocatori dell’As. Rugby Milano, che varcano il portone di via Calchi e Taeggi. Tra i tanti traguardi ottenuti anche l’arrivo nel dicembre 2009 degli “All Blacks”, scesi nel piccolo campo dell’Istituto per un allenamento, e nel 2012 la realizzazione del documentario “All Bec, il senso di una meta”, che racconta il significato profondo di questa esperienza (che va oltre le regole del gioco). Bollate - Un vivaio di rose e futuri giardinieri. Si chiama Cascina Bollate, è una cooperativa nata nel 2007 nel carcere milanese da cui prende il nome. Vi lavorano giardinieri detenuti e non, che coordinati da Susanna Magistretti imparano un mestiere in un vivaio di erbacee perenni, graminacee, buddleje e una collezione di rose antiche messa a punto con Anna Peyron. Obiettivo: portare dentro una impostazione professionale, portare “fuori” lavoratori e prodotti di qualità. “Il giardino - ricorda il loro motto - non è solo un luogo di pace, è anche un posto dove attraverso i fallimenti si imparano la pazienza, la costanza, la precisione”. San Vittore - Viaggio sulla Nave fuori dalla droga. C’è una ‘Navè al quarto piano del terzo raggio per i detenuti con problemi di dipendenza. Un reparto speciale dove si cerca di dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un reparto rivoluzionario in cui dal 2002 le celle sono aperte dodici ore: in questo tempo si susseguono attività terapeutiche sulle sostanze e le dipendenze, lezioni di legalità, la realizzazione del mensile L’Oblò, l’appuntamento settimanale con le prove del Coro, l’educazione all’ascolto della musica con il progetto “C02” di Franco Mussida, gli incontri sull’arte e molto altro. Opera - “Opera liquida”: il teatro che unisce. Il teatro come strumento di espressione e condivisione. Dal 2009 l’associazione e compagnia ‘Opera liquida’ è attiva all’interno del carcere con un laboratorio per i detenuti di media sicurezza. L’idea è di utilizzare il palcoscenico come luogo di riflessione, oltrepassando le sbarre, su temi di attualità, portando in scena opere originali che nascono dai testi degli attori detenuti: l’idea - si legge sul sito - è quella di “trasformare la liquidità da dato negativo della vita contemporanea a valore”. L’esperienza del teatro unisce così alla società le persone che stanno scontando una pena, in una riflessione che può favorire il cambiamento e il superamento di pregiudizi e luoghi comuni. Beccaria - Imparo il mestiere e qui non torno più. Come abbattere il tasso di recidiva tra i minori che hanno avuto un’esperienza in carcere? La risposta è una: con il lavoro. È questa la convinzione che ha spinto il minorile Beccaria a realizzare insieme con la cooperativa Cidiesse - nata nel quartiere di Città Studi nel 1989, inizialmente occupata nel reinserimento lavorativo di ex tossicodipendenti - un laboratorio per insegnare ai ragazzi reclusi a realizzare circuiti elettrici per l’automazione industriale: i giovani imparano, così, a leggere schemi elettrici e a comporre i quadri. Il corso inizia durante il periodo di detenzione, ma prosegue anche dopo l’uscita dal carcere. Dalla strada al lavoro: “Dal bullo al bullone”. Milano. Al via il corso per volontari con Sesta Opera San Fedele chiesadimilano.it, 2 ottobre 2019 “Fragilità psichiche e carcere: imparare ad avvicinare e accompagnare autori di reato con patologie psichiatriche”. Da sabato 12 ottobre (ore 9, piazza San Fedele 4) il corso per volontari penitenziari promosso da Sesta Opera San Fedele onlus. È dedicato al trattamento delle fragilità psichiche in carcere il ciclo di incontri che Sesta Opera San Fedele onlus, associazione di volontariato penitenziario, promuove in collaborazione con l’Area Carcere e Giustizia di Caritas Ambrosiana e Seac (Coordinamento nazionale enti e associazioni di volontariato penitenziario). Gli incontri si terranno a partire da sabato 12 ottobre fino a sabato 16 novembre (Sala Ricci, piazza San Fedele 4, dalle ore 9-12.30; no sabato 3 novembre) con l’intervento di esperti, magistrati, psicologi e responsabili delle attività di volontariato. Un’occasione aperta a tutti, per approfondire i temi dell’amministrazione della giustizia e del disagio in carcere. “Un tema spinoso ma purtroppo sempre più diffuso negli istituti penitenziari”, ha sottolineato il Presidente di Sesta Opera, Guido Chiaretti. Il quadro della situazione verrà presentato sabato 12 ottobre da Pietro Buffa, Direttore del Prap Lombardia, e da Tiziana Valentini, coordinatrice degli psicologi che operano nelle carceri milanesi dell’Uos Psicologia Settore Penitenziario dell’Ospedale Santi Paolo e Carlo. Il trattamento e la presa in carico delle persone con fragilità in carcere e nelle misure alternative saranno illustrati sabato 19 ottobre da Giovanna Di Rosa, Presidente Tribunale di Sorveglianza di Milano, insieme a Cosima Buccoliero, Direttore del Carcere di Bollate e del Beccaria, e da Severina Panarello, Direttore Uiepe Lombardia. Sabato 26 ottobre le esperienze di disagio e rischio suicidario e i diritti alle cure saranno al centro degli interventi di Elisabetta Palù, Vice Direttore carcere di San Vittore, di Roberto Bezzi, Responsabile Area educativa del carcere di Bollate, e di Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano. Modalità di accompagnamento e di inclusione sociale di detenuti con problemi psichiatrici e il ruolo del Terzo settore saranno invece illustrati sabato 9 novembre, con la partecipazione di Luca Mauri della Cooperativa A&I, responsabile del progetto “Sulla Soglia” che da anni si avvale di un team multidisciplinare, e di vari responsabili delle attività di Sesta Opera. Infine, sabato 16 novembre verranno proposti criteri, atteggiamenti, metodi e strumenti per avvicinare, incontrare e accompagnare i detenuti. L’iscrizione al corso (50 euro) potrà essere effettuata direttamente sabato 12 ottobre, prima dell’inizio dell’incontro. Per ulteriori informazioni è possibile contattare, da lunedì a venerdì (ore 9.30- 12.30) Sesta Opera San Fedele (tel. 02.863521) oppure scrivere a: sestaopera@gesuiti.it. Reggio Calabria. “Eppur si muove”, convegno su carcere, Costituzione e speranza reggiotoday.it, 2 ottobre 2019 Si discuterà di carcere, Costituzione e speranza nella sala conferenze di Palazzo Alvaro nei prossimi 4 e 5 ottobre nel convegno dal titolo “Eppur si muove”. La prima giornata si aprirà alle ore 15 con parte introduttiva a cura di Armando Veneto avvocato e presidente del Consiglio delle Camere penali. La prima sessione ha come titolo “Ieri, oggi, domani. Un bilancio sulla riforma e sullo stato attuale della penalità penitenziaria”. Ad intervenire: Fabio Gianfilippi, Riccardo Polidoro, Rita Bernardini, Carmelo Occhiuto a coordinare questa prima parte il magistrato del tribunale di Reggio Calabria Fabrizio Forte. “Fiato alla speranza: L’ergastolo ostativo e il dialogo tra le Corti” il tema della seconda sessione che partirà alle 17,15. Interverranno Davide Galliani, Marcello Bortolato, Roberto Lucisano, Roberto Piscitello, coordinerà l’incontro Gianpaolo Catanzariti avvocato, responsabile nazionale Osservatorio carcere Unione delle Camere penali italiane. Sabato 5 ottobre dalle 9 alle 13 la seconda giornata con la parte introduttiva tenuta da Mariarosaria Guglielmini, magistrato e segretario generale Md. Inizio della terza sessione previsto alle 9,30 su tema “ Una penalità da rieducare. Carcere e risocializzazione”, a cura di Arturo Capone, Francesca Vianello, Gioacchino Criaco, Gemma Tuccillo con il contributo di Lucia Castellano, sessione coordinata da Cinzia Barillà magistrato Corte di Appello di Reggio Calabria. “Le emergenze del carcere e il carcere dell’emergenza” si svolgerà a partire dalle 11, protagonisti della sessione conclusiva: Elisabetta Zamparutti, Mauro Palma, Alessio Scandurra. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Calogero Paci coordinerà la quarta sessione di lavori. Le conclusioni saranno affidate a Gian Domenico Caiazza e Riccardo De Vito, Gianpaolo Catanzariti avvocato, responsabile nazionale Osservatorio carcere Unione delle Camere penali italiane, coordinerà la parte finale del convegno. L’evento è in corso di accreditamento per la formazione degli avvocati. Per contatti e iscrizioni: info@camerapenaledireggiocalabria.it. Genova. Torna il Teatro nel carcere di Marassi, sono le Voci dall’Arca di Andrea Carotenuto Il Secolo XIX, 2 ottobre 2019 Il Teatro e la musica tornano in carcere con la seconda edizione di “Voci dall’Arca”. Dopo il successo della sua prima edizione, la rassegna conferma la sua linea artistica e la sua organizzazione nelle due oramai classiche sezioni: “Note d’autunno”, dal 12 ottobre al 7 dicembre 2019, e Parole di primavera, dal 14 aprile al 31 maggio 2020. Il principale obiettivo di “Voci dall’Arca” è quello di portare la società civile nel carcere e le voci del carcere oltre le mura di recinzione grazie ad una programmazione che “sdogani”, per i temi trattati e le caratteristiche degli interpreti, il teatro del carcere dal contesto detentivo per aprirlo al territorio e ad un pubblici sempre più numeroso. La Rassegna, attraverso una programmazione di spettacoli ricchi di implicazioni sociali e civili, intende promuovere cultura, inclusione sociale ed educazione alla legalità utilizzando il teatro come un “ponte” tra la popolazione detenuta e la cittadinanza attiva. Per questo motivo, per ogni spettacolo in programma, è anche prevista una replica dedicata alla popolazione detenuta, nell’ottica di sviluppare un percorso articolato di educazione alla teatralità e di formazione alla visione. I concerti, gli spettacoli e gli eventi collaterali scelti per questa seconda edizione continuano ad essere accomunati dall’idea di mettere insieme un cartellone che, pur con un elevato livello artistico, non trascuri le contaminazioni di genere e le integrazioni con artisti e operatori che muovono i loro passi al di fuori dei circuiti ufficiali ma con le radici ben piantate sul terreno delle contraddizioni sociali, delle mediazioni culturali e degli inevitabili disagi determinati dall’appartenere ad una frangia marginale e spesso contradditoria, ma al contempo così ricca di spunti, per sollecitare un’approfondita analisi sociale, etica e artistica. Un cartellone ricco di appuntamenti che apre la stagione il 12 ottobre con la Compagnia Arakne Mediterranea, un gruppo di artisti, studiosi e ricercatori che si propongono di diffondere e far conoscere le tradizioni, le danze, gli usi e i costumi della terra salentina. Un’occasione festosa per l’inaugurazione di questa seconda edizione della rassegna che prosegue poi con altri appuntamenti fra i quali l’Ulisse di Igor Chierici e Luca Cicolella e Die Mauer di Eutopia Ensemble, concerto concepito in occasione del trentennale della caduta del muro di Berlino. In un momento storico nel quale si ricomincia tristemente a parlare di innalzare nuovi muri, è il tema del “dialogo” quindi a guidare le principali scelte per la programmazione di questa seconda edizione: dialogo fra culture, dialogo fra generazioni, dialogo come unica possibilità per superare egoismi, conflitti e confini nei quali la civiltà occidentale sembra oggi sempre più spinta dalla paura a rinchiudersi, nell’illusione di poter così preservare i propri privilegi. Tutto ciò sul palcoscenico di un teatro che, collocato dietro le mura di un carcere ma aperto alla città, acquista così una sempre più forte valenza simbolica. I titoli in programmazione nella sezione teatrale, oltre al tema del dialogo, come per “Antropolaroid” di Tindaro Granata, “Dialogo” di Mauro Simone e “La Classe” di Voci erranti, mettono al centro della loro ricerca anche e soprattutto il fenomeno dell’immigrazione, come accade per “Profughi da tre soldi” della Compagnia Scatenati e “Italiani Cincali” di Mario Perrotta. Altre importanti novità vanno a completare questa seconda edizione: alcune culturali, come la tavola rotonda organizzata in concomitanza con il concerto Die Mauer / Il Muro che, prendendo spunto dalla caduta del muro di Berlino, propone una riflessione sul tema dell’integrazione; altre di tipo organizzativo, come ad esempio la possibilità di acquistare una card per assistere a più spettacoli ad un prezzo scontato. La rassegna Voci dall’Arca, finanziata dalla Compagnia di San Paolo e con il sostegno della Regione Liguria, dal Comune di Genova e dell’Otto per mille della Tavola Valdese, è stata realizzata in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Genova - Marassi e consolida la collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, l’Istituto Vittorio Emanuele II- Ruffini, le Associazioni Fuoriscena, Echo Art ed Eutopia Ensemble. Per assistere agli spettacoli programmati al Teatro dell’Arca è obbligatoria la prenotazione online da effettuare entro tre giorni dall’evento sul sito: www.teatronecessariogenova.org. Spoleto (Pg). Una mostra-convegno sul volontariato nelle carceri tuttoggi.info, 2 ottobre 2019 L’evento, organizzato da Fulgineamente, vuole mettere in relazione i cittadini di Foligno con una realtà carceraria. L’associazione Fulgineamente, presieduta da Ivana Donati, organizza a Foligno, nei giorni 4, 5 e 6 ottobre, una mostra-convegno sul volontariato in carcere, presso la sala Piermarini in corso Cavour, con il patrocinio del Comune di Foligno e della Fondazione Carifol. L’associazione opera, con numerosi volontari, da tre anni nella casa di reclusione di Spoleto con il progetto “Lib(e)ri dentro”, e nell’ultimo anno anche nel carcere di Capanne. L’evento vuole mettere in relazione i cittadini di Foligno con una realtà, quella carceraria, sulla quale si riversano tanti pregiudizi, e che può invece riservare sorprese ove si ponga mente al cammino di riconciliazione che tanti detenuti compiono. Questo cammino molto spesso passa dagli studi scolastici, dall’arte, dalla cultura in generale, dalla musica e dal teatro, con il contributo, a volte determinante, dei volontari. In questo contesto nascono opere artistiche di rilevante valore, itinerari scolastici che si concludono con la laurea, oppure interpretazioni teatrali di successo. A questo proposito la compagnia SineNomine, diretta dal prof. Giorgio Flamini, che presenterà a Foligno due spettacoli, costituisce una ibridazione tra il dentro ed il fuori, poiché annovera tra le sue fila attori detenuti e attori professionisti. Il momento del confronto sarà rappresentato dalla tavola rotonda di domenica 6 ottobre alle 10, nella quale i volontari parleranno della loro esperienza e dove interverranno anche detenuti ed ex detenuti. Il programma in particolare prevede: venerdì 4 ottobre alle 17, alla sala Piermarini in corso Cavour, inaugurazione della mostra; alle 17.30 la prof.ssa Daniela Masciotti, il dott. Giovanni Spada e il sig. Ye Jiandong illustreranno il progetto sul lager di Bolzano, da loro curato sotto la direzione della prof. Olga Lucchi, di cui sarà ricordata l’appassionata attività in carcere. Si concluderà alle 19 con un aperitivo. Il sabato mattina, 5 ottobre, sono previste visite guidate delle scuole superiori di Foligno con letture di scritti di detenuti. Il pomeriggio del sabato sarà dedicato alla presentazione di due tesi di laurea. La prima “Il cibo in carcere”, alle 16, vedrà protagonista il dott. Tommaso Amato, laureato in scienza delle comunicazioni nel 2017. La tesi sarà illustrata dal prof. Giovanni Pizza, docente dell’Università di Perugia. La seconda “Lettere dal carcere di Antonio Gramsci”, alle 18, verrà presentata dal prof. Fausto Gentili e dal dott. Luigi Della Volpe, che con questo lavoro ha conseguito la laurea nel 2017. Il mattino di domenica 6, a partire dalle 10, ci sarà la già menzionata tavola rotonda sul volontariato in carcere. Il pomeriggio, per la felicità di adulti e bambini, la compagnia SineNomine proporrà alle 16, presso la sala Piermarini, lo spettacolo “Pinocchio scomposto”, realizzato nell’ambito del festival di Spoleto di questo anno, e che ha avuto ampi consensi di pubblico e critica. Alle 17.30 si proseguirà con la presentazione della terza tesi a cura della prof.ssa Francesca Gianformaggio, che insieme al dott. Patrizio Trovato parlerà de “I paesaggi di Giuseppe Verga”. Gli incontri del pomeriggio si concluderanno, alle 18.30 con un libro: “Il risolutore”, scritto dal detenuto Giambattista Scarfone, pubblicato da Morlacchi; ne parleranno il cugino dell’autore, dott. Antonio Scarfone e le volontarie Alessandra Squarta e Luciana Speroni. L’iniziativa si concluderà allo Zut, alle ore 20.30, con lo spettacolo teatrale “Monologhi” interpretato dagli attori della compagnia SineNomine, per il quale è necessaria la prenotazione al numero 3472939271. Responsabili e curatrici del progetto sono Rita Cerioni e Lucia Vezzoni, volontarie nella casa di reclusione di Spoleto. Piazza Armerina (En). Trovare la libertà nelle pagine di un libro di Elisa Saccullo Quotidiano di Sicilia, 2 ottobre 2019 Grazie a un’intensa campagna di sensibilizzazione, l’istituto ha ricevuto in dono quattrocento volumi. Importante iniziativa culturale promossa dalla Casa circondariale di Piazza Armerina. La Casa circondariale, in concomitanza con la settimana nazionale dedicata alla promozione della lettura “Io leggo perché…” ha messo in campo tutta una serie di iniziative con l’obiettivo di rilanciare le attività risocializzanti e culturali. Tra i primi progetti avviati c’è la riapertura della Biblioteca carceraria, con una campagna per l’incremento dei volumi grazie alle donazioni di privati e di associazioni. Tramite l’impulso dato dalla direzione, più di quattrocento nuovi volumi di narrativa, testi didattici e testi in lingua straniera hanno arricchito, raddoppiandone la consistenza, la dotazione della biblioteca. Due detenuti, che svolgono attività a titolo volontario, hanno sistemato e catalogato i nuovi libri, distribuendoli ai detenuti che ne hanno fatto richiesta. La geografia degli istituti penitenziari assegna alla Casa circondariale il compito di svolgere attività di risocializzazione e, per questo, si stanno allestendo alcuni ambienti per creare aule didattiche e laboratori. Una volta terminata la ristrutturazione, anche la biblioteca sarà ospitata in un nuovo più ampio locale, per consentire ai detenuti che ne faranno richiesta di accedervi per scegliere i libri da chiedere in prestito. Un libro va guardato, toccato, sfogliato e solo dopo comprato o preso in prestito. E la valorizzazione della biblioteca rappresenta una grandissima opportunità per i detenuti, che grazie alla lettura possono crescere culturalmente ed eticamente. L’attività della Casa circondariale, però, non si ferma soltanto a questo. Grazie agli operatori della Caritas, è ripresa nei giorni scorsi, quest’anno con il supporto della regista Samantha Intelisano, l’attività teatrale con l’obiettivo di mettere in scena, nei prossimi mesi, una rappresentazione aperta al pubblico esterno. Tutto con lo scopo di creare un dialogo con la società esterna e attenuare l’isolamento del carcere. Milano. “Guerra di parole” tra studenti universitari e detenuti di San Vittore affaritaliani.it, 2 ottobre 2019 Torna la Guerra di Parole, sfida dialettica che vede confrontarsi studenti dell’Università Statale di Milano e detenuti di San Vittore. Studenti dell’Università Statale di Milano sfidano i detenuti del carcere di San Vittore in una guerra... di parole. Torna con una nuova edizione la particolare sfida dialettica promossa da PerLaRe-Associazione Per La Retorica, che prevede anche un corso gratis di public speaking per tutti i partecipanti. La squadra degli studenti e quella dei detenuti saranno preparate separatamente da PerLaRe e si incontreranno tra loro solo il giorno del dibattito, che si terrà a Milano nel carcere di San Vittore, il 23 novembre. Le lezioni di public speaking dedicate agli studenti si terranno nella sede dell’Università. Sono previsti in tutto quattro incontri, con l’esperta di retorica Flavia Trupia, l’attore e regista Enrico Roccaforte, il rapper Amir Issaa. Una giuria di esperti decreterà infine la squadra vincitrice. Iscrizioni entro il 14 ottobre inviando una mail a info@perlaretorica.it in cui siano riportate le seguenti informazioni: nome, cognome, facoltà. Sono ammessi gli iscritti a tutti gli indirizzi di studio. Saranno accettati fino a 20 studenti, in base all’ordine dell’invio dell’e-mail. L’iniziativa è sostenuta da Toyota Motor Italia ed è organizzata da PerLaRe - Associazione Per La Retorica, Università degli Studi di Milano La Statale, Crui - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, Casa Circondariale di Milano San Vittore, insieme a Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere UCPI. “La Guerra di Parole - spiegano gli organizzatori - non è un talent show. Gli organizzatori non cercano talenti innati, ma ragazzi e ragazze che abbiano voglia di migliorare le proprie capacità di parlare in pubblico e di mettersi in gioco”. Obiettivo del progetto #GuerradiParole, giunto alla quarta edizione, è preparare i partecipanti ad affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. La squadra vincitrice sarà quella maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili, senza perdere la calma, alzare la voce o insultare. In generale, le gare di retorica hanno la finalità di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. La #GuerradiParole è un format registrato e ha vinto il premio Prodotto Formativo dell’Anno 2016. Fine vita. Cosa succederà dopo la sentenza Cappato? di Flora Casalinuovo Donna Moderna, 2 ottobre 2019 Pronunciandosi sul caso Dj Fabo, la Consulta ha stabilito che aiutare una persona a morire non è reato. “Ma non significa aver legalizzato il suicidio assistito” spiega il medico Vito Di Piazza. “Ogni caso farà a sé. In attesa di una legge che ancora manca. Aiutare chi sceglie il suicidio assistito, in molti casi, non sarà più reato. Lo ha deciso la Corte Costituzionale, che è intervenuta nei giorni scorsi sul caso Marco Cappato. Il leader dell’Associazione Luca Coscioni aveva accompagnato in Svizzera Dj Fabo, cieco e tetraplegico, e per questo rischiava 12 anni di carcere. Abbiamo chiesto a Vito Di Piazza, medico primario a Udine e coautore del libro Vivere e morire con dignità (Nuova Dimensione) di commentare la sentenza. “Dire che da oggi la “dolce morte” diventerà possibile è un errore. È come ammettere di essere arrivati a un traguardo dopo aver fatto pochi passi. Perché la Consulta, nel pronunciarsi sul caso di Marco Cappato, prima di tutto ha messo dei paletti: il malato deve essere in una condizione irreversibile, senza speranze di guarigione, ma lucido e consapevole della sua decisione. Il suicidio assistito deve avvenire in una struttura pubblica e previo parere di un comitato etico territoriale. Proprio su questi 2 ultimi aspetti nutro dei dubbi. I nostri ospedali difficilmente saranno pronti a questa pratica e tanti medici invocheranno l’obiezione di coscienza. I comitati etici, poi, non sono ovunque e non sempre sapranno decidere in tempi brevi. Per ora, quindi, ogni caso sarà una storia a sé e pazienti e famiglie dovranno sopportare un calvario di dubbi e dolore. La verità, infatti, è che il tema del fine vita fa paura e molti medici liquidano l’argomento in corridoio, invece di parlarne con empatia e accompagnare malato e parenti verso una fine dignitosa, in cui la libertà del singolo è più importante di tutto. La Corte Costituzionale, poi, ha chiamato il Parlamento a decidere sul tema (in Italia manca ancora una norma sul fine vita, ndr). Ma io che lavoro in corsia da anni non credo che vedrò presto questa legge. Parole come eutanasia e suicidio assistito sono un campo minato in questo Paese. La prova è proprio la norma sul testamento biologico, entrata in vigore quasi 2 anni fa. In questo tempo, non ho mai avuto un paziente che lo abbia redatto. Pochi sanno della sua esistenza, non tutti i registri comunali o ospedalieri (dove depositare il modulo con le proprie volontà, ndr) sono pronti. Eppure sarebbe un passo avanti per la dignità di chi non ha più speranze: dichiarando di non volere trattamenti salvavita come idratazione e alimentazione, un paziente sarebbe staccato dalle macchine e accompagnato alla fine con la sedazione profonda. Senza bisogno di eutanasia”. Migranti. Ius culturae, quella sinistra senza coraggio di Gad Lerner La Repubblica, 2 ottobre 2019 La politica dei due tempi non ha mai funzionato: né in economia meno che mai sui diritti civili. Vi ricordate? Li chiamavamo Generazione Balotelli, quei minorenni che pur essendo italiani di fatto restavano privi di cittadinanza. Ebbene, nel frattempo Super Mario ha raggiunto la bella età di 29 anni ma ancora la stiamo aspettando, quella benedetta legge. Il perché si riassume nella sindrome che sembrerebbe attanagliare pure l’attuale governo: “Non vorrete mica fare un favore a Salvini e a Meloni?”. Si resta fermi così da oltre un decennio. Con la sinistra che ha paura di fare la cosa giusta e la rinvia a un futuribile momento propizio, salvo poi recriminare per l’occasione perduta. I Cinque Stelle che per loro natura scelgono di non scegliere, perché la cittadinanza ai figli degli stranieri sarà pure una scelta di civiltà, ma resta argomento “divisivo”. E la destra che minaccia e gongola. Possibile che debba finire così anche stavolta? Giovedì arriva in commissione Affari costituzionali un disegno di legge denominato “ius culturae” perché condiziona il rilascio della cittadinanza al compimento di un intero ciclo scolastico; e già suscita preoccupazione che a firmarlo sia una pericolosa estremista che risponde al nome di Laura Boldrini. Dalla Farnesina il ministro Luigi Di Maio si affretta a dichiarare: “Credo che oggi non sia una priorità”. E Matteo Renzi, appena fuoriuscito dal Pd, lo asseconda: “Se non ci sono i numeri, perché i Cinque Stelle non ci stanno, prendiamone atto. Ma non trasformiamolo in un tormentone”. È lo stesso Matteo Renzi che pochi mesi fa accusava il suo successore a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni, di essere sfuggito al voto parlamentare sullo “ius soli”. Ma prima ancora, è lo stesso Matteo Renzi che il 14 giugno 2014, dopo la vittoria trionfale delle Europee, parlando dal palco dell’assemblea nazionale del Pd con issato alle spalle un 40,8% scritto a caratteri cubitali, prometteva solennemente: “A settembre lo ius soli sarà legge”. Bastò l’esitazione di un Alfano a fargli fare retromarcia. Finalmente la segreteria del Pd sembrerebbe compatta nel dichiarare che è la volta buona: la riforma s’ha da fare. Ma ecco s’avanza la deputata Messia Morani che propone di rinviarla al giugno 2020: “Lo ius culturae è un provvedimento sacrosanto - premette - ma parlarne ora è un errore, il Paese è troppo diviso”. Quale miracolo dovrebbe compiersi affinché fra nove mesi, invece, il riconoscimento della italianità dei figli di immigrati residenti da un congruo numero di anni, al termine della scuola dell’obbligo, passi sul velluto? Quanti ulteriori atti di eroismo dovranno compiere degli altri Adam e Ramy, i bambini della scuola Vailati di Crema che scongiurarono il dirottamento di un autobus, perché Salvini e Meloni digeriscano la “concessione” di un diritto già vigente in molti Paesi europei? La sindrome paralizzante del “non facciamo un favore a Salvini e a Meloni” è l’ultima declinazione di uno dei più ricorrenti errori della sinistra italiana alle prese con scelte di natura riformista: la politica dei due tempi. Prima dimostriamo che siamo capaci di governare i flussi migratori, limitando il numero degli arrivi. Prima facciamo i respingimenti. Prima acceleriamo la scrematura di chi non ha diritto all’accoglienza. E solo poi, in un secondo tempo, dopo aver dimostrato che anche noi sappiamo fare la faccia cattiva, ci potremo permettere il lusso di varare provvedimenti di integrazione/naturalizzazione degli stranieri residenti. Quand’anche si tratti di bambini privi di legami con i Paesi d’origine dei genitori. Aspetta e spera. Solo che la politica dei due tempi non funziona mai, né in economia né tanto meno in materia di diritti civili. Affonda le speranze riformiste e finisce per allargare i consensi elettorali della destra che pretenderebbe di contrastare. I fratelli minori della Generazione Balotelli continuano a subire l’umiliazione di chi vorrebbe sentirsi cittadino come gli altri ma finisce nel tritacarne delle lungaggini burocratiche: lo raccontava ieri a Repubblica la campionessa di arte marziale taekwondo, Alessia Korotkova, costretta a ritirarsi dalle competizioni perché da maggiorenne, per indossare la maglia azzurra, devi per forza avere la cittadinanza. I nostri figli, a scuola, hanno smesso da tempo di considerarsi diversi per cittadinanza o per colore della pelle. Possibile che il governo resti incapace di accompagnarne il cammino? P.S. L’autore di questo articolo è immigrato in Italia che aveva tre anni ed è rimasto apolide fino all’età di trent’anni. Migranti. Ius soli, insistere ora è un regalo a Salvini di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 2 ottobre 2019 Una legge seria sulla cittadinanza agli immigrati e più ancora ai loro figli è necessaria. Ma è sbagliato continuare a riproporre semplificazioni come invece sta avvenendo. Ogni mattina, quando si alza, Matteo Salvini dovrebbe mandare una torta a certi avversari che gli fanno tutti i giorni lo stesso regalo. Cosa vorreste, voi, se foste al posto del segretario della Lega, ammaccato dopo aver infilato una serie di errori? Sperereste che qualcuno tornasse alla carica con lo ius soli. Manco a dirlo, c’è chi l’accontenta. E insiste tutti i giorni: ius soli! Ius soli! Ius soli! Come Matteo Renzi che su quelle due parole continuò a battere e ribattere come una cinciallegra impazzita contro un vetro. Fino a perdere. Il che oggi consente al leghista di barrire: Eccoli! Sono loro stessi che lo chiamano ius soli! Quello vogliono: basterà partorire a bordo di un barcone per essere italiani! Sia chiaro: che una legge seria sulla cittadinanza agli immigrati e più ancora ai loro figli vada assolutamente fatta è sacrosanto. Ed è una vergogna che sia stata finora bloccata da questa insensata rissa sullo ius soli o meglio il suo stravolgimento. Le parole pesano. E pare davvero impossibile che chi si spaccia per classe dirigente non sappia che, come hanno scritto Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel libro L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale lo ius soli puro (la cittadinanza automatica alla nascita: punto) è ormai, letteralmente, fuori dal mondo. Era applicato nel 1948 dal 47 per cento dei Paesi, nel 1975 dal 31 per cento e oggi, di fatto, solo negli Stati Uniti. Dove, com’è noto, è aperto un dibattito. Tutti gli altri Paesi, infatti, sia che venissero dallo ius sanguinis sia dallo ius soli, sono passati a un sistema misto. Temperato. Che tenesse conto sia dell’uno sia dell’altro sistema. Come quello proposto di Italia. Una scelta di buon senso che nel 2015 fa raccoglieva per l’Istat il via libera di oltre il 70 per cento degli italiani. Consenso poi perduto. Tema: perché tornare dunque sulla stessa semplificazione insistendo come hanno fatto nei giorni scorsi Matteo Orfini (“per fare lo ius soli ci vogliono solo pochi giorni”) e Roberto Giachetti e perfino Roberto Saviano che ha associato in un tweet ius soli e ius culturae come fossero più o meno la stessa cosa? Mah... Le battaglie serie vanno vinte. Non sventolate per la propaganda. Migranti. La strage che (per un po’) sconvolse l’Europa di Leo Lancari Il Manifesto, 2 ottobre 2019 Lampedusa 3 ottobre 2013. Furono 368 le vittime del naufragio al largo dell’isola, 155 i sopravvissuti. Le immagini delle bare allineate all’interno dell’hangar, con le quattro più piccole e bianche posizionate davanti a tutte, hanno fatto il giro del mondo e resteranno tra quelle destinate a diventare uno dei simboli dei tanti drammi dell’immigrazione. Furono 368 le vittime del naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 davanti Lampedusa, la tragedia che, almeno per qualche tempo, riuscì a cambiare le politiche europee sull’immigrazione. Dopo quel dramma, infatti, il governo italiano, allora premier era Enrico Letta, diede il via all’operazione Mare nostrum che in 12 mesi di attività riuscì a salvare più di 160 mila uomini, donne e bambini. Grazie a quella missione “l’Italia ha salvato l’onore dell’Europa”, dirà anni dopo il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, quando ancora la politica dei porti chiusi era presente solo nei peggiori incubi. Non sono ancora le cinque del mattino quando il barcone con a bordo tra i 500 e i 550 migranti partiti il primo ottobre dal porto libico di Misurata, si avvicina finalmente alle coste italiane. Solo mezzo miglio separa l’imbarcazione, un vecchio peschereccio lungo venti metri, dall’isola dei Conigli. Non più di due chilometri dal porto di Lampedusa. In quei giorni l’isola è ancora piena di turisti che si godono la coda dell’estate, gli alberghi sono pieni, gli ombrelloni degli stabilimenti tutti occupati. Condizioni meteorologiche favorevoli alla partenze dei migranti, tanto che quella stessa notte la Guardia costiera era intervenuta in soccorso di altri due barconi con 460 persone a bordo. Nessuno quindi, probabilmente, si aspettava che una terza imbarcazione fosse in arrivo. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti uno degli scafisti avrebbe acceso uno straccio per attirare l’attenzione dei soccorritori, provocando così un incendio. Presi dal panico, i migranti si sarebbero spostati tutti sullo stesso lato del peschereccio provocandone il rovesciamento. A centinaia caddero in acqua, molti dei quali affogarono subito, ma furono tantissimi quelli che rimasero prigionieri sullo scafo. I primi ad accorgersi di quanto stava accadendo furono alcuni pescatori che intervennero subito, ma i tentativi di salvataggio furono resi più difficili della nafta che si era mischiata all’acqua. “Mi sono salvato aggrappandomi ai corpi senza vita dei miei compagni di viaggio che galleggiavano accanto a me”, racconterà anni dopo uno dei sopravvissuti, Eskindr, un giovane eritreo diciottenne all’epoca della tragedia. “Sono rimasto in acqua quattro ore, ho aiutato altra gente a restare a galla e a salvarsi durate quel tempo”. Quella di Lampedusa fu sopratutto una strage di eritrei. Delle 368 vittime, 360 fuggivano infatti dall’Eritrea, mentre le restanti otto provenivano dall’Etiopia. 155 furono invece le persone tratte in salvo, tra cui 41 minori. Per quella strage il 13 febbraio 2015 un somalo indicato dai sopravvissuti come uno degli scafisti, è stato condannato a 30 anni di carcere per tratta di esseri umani, associazione per delinquere e violenza sessuale. Sentenza confermata il 15 aprile 2016 dalla Corte di Assise di Appello di Palermo. Grazie al Comitato 3 ottobre, nato immediatamente dopo la tragedia, il 16 marzo del 2016 il Senato ha invece approvato in via definitiva l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione che si celebra ogni anno a Lampedusa il giorno del naufragio. L’anno scorso nessun esponente del governo gialloverde partecipò alle cerimonie. Ma va detto che neanche il nome di un esponente del nuovo governo giallorosso appare finora nel programma delle manifestazioni di quest’anno. Droghe. È tempo di valutare le politiche di Susanna Ronconi Il Manifesto, 2 ottobre 2019 Dal totale fallimento dell’approccio determinato dalle Convenzioni internazionali nel gestire e governare il fenomeno alla sparizione di queste evidenze in fase di rilancio della strategia Onu, un convegno a Roma per fare il punto. Il recente meeting del Segmento ad Alto Livello della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) del marzo 2019 ha posto, in maniera anche più evidente di sempre, la spinosa e irrisolta questione della valutazione delle politiche globali sulle droghe. Da un lato l’evidenza - nelle cifre fornite dalle stesse fonti istituzionali nonché dagli interventi di molti degli stati membri e delle organizzazioni della società civile - del totale fallimento dell’approccio determinato dalle Convenzioni internazionali nel gestire e governare il fenomeno, dall’altro lo sfarinarsi, fino alla sparizione dal discorso politico, di queste evidenze in fase di rilancio della strategia Onu sulle droghe. La potente inerzia della risposta politica globale ai fenomeni del consumo di droghe, su cui vivono di rendita interi sistemi di potere, economici e geopolitici, continua a riproporre il tema del dialogo tra ricerca (per la valutazione dell’impatto e dei risultati) e politica, e l’esito appare scoraggiante. Il nodo non è certo tecnico, le politiche pubbliche si possono valutare ed esistono modelli soddisfacenti per farlo, ma è decisamente politico: perché, stando sul livello globale, è evidente che una seria valutazione degli esiti non direbbe solo e tanto che le strade intraprese non portano agli obiettivi prefissati, ma finirebbero con il mettere in discussione gli obiettivi stessi. Quel “mondo senza droghe” della war on drugs finirebbe sotto processo come obiettivo strategico della politica globale ben più dei fallimenti tattici per (non) raggiungerlo. Questo temono i difensori dello status quo, a prescindere dai drammatici costi umani, economici e di giustizia sociale che sono sotto gli occhi di tutti. Ed è proprio questo che sa il movimento per la riforma delle drug policy che sulla valutazione continua a puntare, come ben evidenziato, per esempio, sia dalle iniziative di valutazione indipendente (come il Rapporto ombra curato da Idpc in occasione di Vienna 2019) che dal rilancio dell’approccio di valutazione basato sul rispetto dei diritti umani e ancorato agli obiettivi Onu dell’Agenda 2030. Accade così anche in Italia. Anzi peggio, perché noi non abbiamo nemmeno un Piano d’azione nazionale sulle droghe da valutare (quello di Giovanardi e Serpelloni risale al 2010, mai approvato dalle Regioni e mai riscritto) e l’inerzia è ormai cristallizzata da una indifferenza della politica mai vista prima. I dati contenuti nella Relazione annuale al Parlamento non sono, agli occhi di un decisore politico, uno strumento utile per capire quale direzione si debba prendere: ci sono dati di processo (cosa si fa), elementi di conoscenza del fenomeno del tutto parziali, e nessun indicatore di risultato e tanto meno di impatto (cosa cambia e in che direzione cambia). Anche da noi, sono ricerche indipendenti quelle che cercano risposte a questo vuoto: l’annuale Libro Bianco, per esempio. Serve uno scatto, su questo terreno. Lunedì 7 ottobre, un gruppo di associazioni cercherà di fare un passo avanti, si troverà a Roma per discutere di valutazione delle politiche sulle droghe e offrire ai politici una sponda razionale per ripensarle. L’appuntamento è a Roma alle ore 15.00 presso la Sala di Santa Maria in Aquiro in Piazza Capranica 72(iscrizione gratuita ma obbligatoria entro venerdì 4 ottobre alle 12 su fuoriluogo.it). Una occasione - fornita dal progetto europeo Civil Society Forum on Drugs Project, partner italiano del Forum Droghe - per chiamare la politica ai suoi compiti e, insieme, per offrire quel vasto patrimonio di sapere che il movimento di riforma, nazionale e globale, ha accumulato. E che sarebbe davvero ora di investire. Droghe. Quando i farmaci uccidono di Greta Privitera Vanity Fair, 2 ottobre 2019 Dai voti brillanti all’overdose: la storia di Anna è quella di tantissimi americani caduti nella trappola degli antidolorifici facili e dell’eroina. Un’epidemia che si può fermare solo colpendo Big Pharma. Nel 2017 30 mila americani sono morti di overdose da oppiacei. La dipendenza di solito inizia con la prescrizione di potenti antidolorifici che creano assuefazione in tempi rapidissimi. Anna - leggings, felpa lunga e chignon biondo spettinato - era la più bella di First Street. Sapeva di esserlo, ma non lo dava a vedere, soprattutto alle ragazzine vicine di casa che la studiavano da dietro le persiane delle loro camerette. Nel quartiere, un sobborgo per ricchi dirigenti di Ford e General Motors a 30 chilometri da Detroit, dicevano che era la più brava delle tre sorelle: prendeva bei voti e giocava a calcio nella squadra del liceo. Piaceva a un sacco di ragazzi: era l’immagine dell’adolescente modello. Finito il liceo è partita per il college, io sono rientrata in Italia e ci siamo perse di vista, ma ogni volta che tornavo in Michigan avevo notizie dei suoi successi: aveva preso due lauree in marketing. Sui social la sua vita sembrava perfetta: selfie con le amiche, fidanzati bellissimi, feste universitarie e vacanze in bikini. Poi, un pomeriggio post natalizio del 2015, l’ho incontrata in un centro commerciale vicino a casa sua: vederla mi ha sconvolto. “Quel periodo è stato il più difficile della mia dipendenza”, racconta ora, “ero appena passata al metadone”. Non lo sapevo, nessuno sapeva, e ritrovarmi davanti alla sua versione infernale mi ha sconvolto: aveva la pelle grigia e gli occhi socchiusi, i pensieri sconnessi e trenta chili in più che la rendevano irriconoscibile. Quando ho chiesto informazioni ad amici comuni mi è stato risposto: “Soffre di mal di testa fortissimi, ed è in cura”. Poi, un anno dopo, è stata proprio lei che su Facebook ha spiegato l’abisso: “Sono lucida, da un mese. Ho fatto uso di oppioidi, e poi di eroina, per 4 anni”. La storia di Anna assomiglia a quella delle protagoniste di Euphoria, la serie Hbo in onda dal 26 settembre su Sky Atlantic, che racconta il tormento di un gruppo di adolescenti tra droga, alcol e sesso. E proprio come Rue - interpretata dalla bravissima Zendaya - dice: “So solo che a un certo punto non volevo altro che provare quella sensazione di nulla totale”. Anna ha fatto parte delle centinaia di migliaia di americani dipendenti da farmaci a base di oppio che negli Stati Uniti chiamano opiodemic, l’epidemia che nel 2017 ha ucciso per overdose trentamila persone. “Tutto è partito davvero da un mal di testa. In alcuni momenti il dolore era così forte che finivo in ospedale. Dopo il college sono tornata a vivere dai miei per capire che cosa mi stesse succedendo. Un dottore mi ha prescritto un antidolorifico oppiaceo, il Vicodin, quello del Dr. House per capirci, ed è iniziata così la mia dipendenza”. Dice di ricordarsi molto bene la sensazione che ha provato la prima volta che in pronto soccorso le hanno fatto una flebo di Dilaudid, un potente analgesico derivato dalla morfina: “Mi sono detta “non so che cosa sia, ma so che mi piace moltissimo”. Gli analgesici che le prescrivevano erano quelli che si danno per la cura del dolore nel post operatorio, o nelle terapie palliative. Nel suo caso, come in tanti altri, il dottore era diventato lo spacciatore legale. Anna oggi si chiede se questi professionisti agiscano in buona fede oppure no. Nelle ultime settimane, le due multinazionali farmaceutiche Purdue Pharma e Johnson & Johnson sono finite sulle prime pagine dei giornali perché accusate di essere tra i colpevoli della opiodemic, per il loro marketing aggressivo che spinge i medici a prescrivere i farmaci a base di oppioidi anche quando non è necessario. “C’erano giorni in cui ingoiavo anche venti pillole in 24 ore”. Usava Vicodin, Dilaudid, Benadryl, Oxycontin, Norco. Non ha mai provato il Fentanyl, l’oppiaceo sintetico, ottanta volte più forte della morfina, che lo scorso agosto ha ucciso Andrea Zamperoni, lo chef italiano che viveva a New York, e che negli ultimi anni sta facendo una strage. “Queste pillole mi facevano sentire bene, invincibile, anestetizzavano la mia tristezza, mi rendevano euforica, almeno per un po’. E per avere le prescrizioni mi sono trasformata in un’attrice”. Quando non aveva più niente in casa, andava su internet e leggeva i sintomi peggiori per mentire ai dottori del pronto soccorso che alla fine la riempivano delle sostanze di cui aveva bisogno. Comprava anche dagli spacciatori di prescrizioni che vendevano le prescrizioni di anziani bisognosi di fare qualche soldo. “Né i miei amici, né la mia famiglia immaginavano nulla. In quel periodo facevo la cameriera e mi illudevo che, una volta risolti i miei casini, avrei trovato il lavoro dei sogni. In realtà pensavo solo a come recuperare l’oppio e non farmi beccare. Finché ho potuto ho curato la superficie - belle macchine, bei vestiti - per nascondere il marcio che era cresciuto sotto”. Ma poi non ce l’ha più fatta, la dipendenza era impossibile da mascherare. “Non avevo più un amico. Condividevo il mio problema solo con i fidanzati, ragazzi con altri segreti da nascondere. Era come se tra simili avessimo un tacito accordo di copertura: “Io non dico cosa fai, tu non dici cosa faccio”“. Uno di questi usava l’eroina, abitava in un paese vicino al suo, tra i suburb più ricchi d’America. “Una sera del 2014, mentre guardavamo un episodio di Breaking Bad, l’ho provata anch’io e ci sono finita dentro. La sniffavamo, a volte ce la facevamo in vena. Poi, quando lui ha deciso di disintossicarsi, ci siamo lasciati”. Anna racconta che nel 2015 ormai era chiaro che la sua vita fosse un disastro, ma sua madre e suo padre facevano fatica ad ammetterlo, sapevano che abusava di farmaci che loro chiamavano “per il mal di testa” ma non volevano vedere tutto il resto. “Sono anche finita in carcere dopo aver guidato senza patente, me l’avevano tolta per guida in stato di ebbrezza. Ci sono stata due mesi. Lì, le compagne di cella mi hanno insegnato come trovare l’eroina a Detroit: ora che non avevo il fidanzato dovevo arrangiarmi”. Ammette però che ha sempre preferito le medicine all’eroina, non le piaceva bucarsi, nemmeno andare dagli spacciatori: “I dottori erano meglio”, dice. Nei quattro anni di dipendenza, Anna ha avuto almeno quindici crisi di astinenza: “Come stai male quando non hai l’oppio in circolo è impossibile da spiegare. Ti senti sotto un treno, vai fuori di testa, vomiti, non riesci a mangiare, vuoi solo sdraiarti su un pavimento fresco perché dentro vai a fuoco, piangi, speri di morire. L’unica soluzione è rifarti”. Nell’ultimo periodo non usciva nemmeno più di casa, lo faceva solo per prendere la roba. “Mi capitava di pippare in cameretta, mentre mia madre era in cucina a preparare la cena, e magari mia nipote nella stanza accanto a disegnare”. Ormai sniffava per scendere dal letto, per stare in piedi, per camminare, per respirare. Una sera, durante una cena in famiglia, la sorella più piccola, litigando con i genitori, ha svelato il segreto: “Vi arrabbiate con me, ma non vi rendete conto che quella si fa di eroina?”. Finalmente il sipario era crollato e Anna poteva piangere, disperarsi e chiedere aiuto, non c’era più nessuna parte da brava ragazza da recitare. La madre è diventata l’angelo custode che l’ha accompagnata nel percorso di disintossicazione: prima il metadone, poi la rehab, e infine la comunità in Florida, nella quale ha vissuto due anni, dal 2016 al 2018. “Oggi ho 30 anni e vivo dai miei nonni a due chilometri da casa dei miei genitori. Faccio la cameriera in un ristorante italiano della zona e l’anno prossimo vorrei iscrivermi a veterinaria”. Hong Kong. Proteste senza fine, la polizia spara e ferisce un attivista di Alessandra Colarizi Il Manifesto, 2 ottobre 2019 Nel giorno che celebra la nascita della Repubblica popolare cinese nell’ex colonia sono state ferite circa 50 persone, 180 gli arrestati. Tutto era stato preparato nei minimi dettagli: la parata militare più imponente di sempre; la festosa sfilata in piazza Tian’anmen con i simboli del miracolo economico; il rituale appello all’unità nazionale e alla “riunificazione pacifica alla madrepatria”. E invece il 70° anniversario della Repubblica popolare sarà probabilmente ricordato per gli scontri violenti andati in scena a Hong Kong, dove da giugno la popolazione protesta contro l’ingerenza cinese e l’erosione dell’autonomia promessa nel 1997 al momento dell’handover. A nulla sono servite le misure di sicurezza preventive dispiegate in mattinata per assicurare il pacifico svolgimento dei festeggiamenti, quest’anno organizzati al coperto, senza fuochi d’artificio, e presieduti dal capo segretario Matthew Cheung in sostituzione della governatrice Carrie Lam, convocata in extremis a Pechino per le celebrazioni. Dopo una prima marcia pacifica nel centro di Hong Kong Island, nel pomeriggio di martedì nuovi disordini si sono verificati tanto a Causeway Bay e Admiralty, sede degli uffici governativi, quanto a Kowloon e nei Nuovi Territori, dove la polizia ha fronteggiato alcuni manifestanti armati di bombe Molotov con lacrimogeni, cannoni ad acqua e, per la prima volta, persino colpi d’arma da fuoco, fino a ieri diretti solo verso l’alto. Secondo quanto confermato dalla polizia, nel sobborgo di Tsuen Wan un ragazzo è stato colpito al petto da un proiettile mentre tentava di aggredire un agente con una spranga di ferro. Il diciottenne, ricoverato presso il Princess Margaret Hospital, è in condizioni gravi ma non in pericolo di vita. Sarebbero almeno sei i colpi sparati dagli agenti in varie parti della città, stando a quanto riportato dalla stampa locale. Il bilancio provvisorio è di circa 50 feriti, compresi alcuni poliziotti attaccati con un liquido corrosivo. Oltre 180 sono le persone arrestate in relazione a violenze commesse in 13 distretti. Da tempo, a Hong Kong, la ricorrenza del 1 ottobre rappresenta un’occasione per protestare contro il soffocante abbraccio della madrepatria. Ma quest’anno il tentativo di introdurre una legge che - se approvata - avrebbe compromesso l’indipendenza giudiziaria dell’ex colonia britannica ha fatto lievitare il malcontento popolare a un nuovo massimo storico. Dopo mesi di marce pacifiche e scontri violenti il provvedimento è stato formalmente ritirato, mentre il governo locale ha provveduto a riallacciare il dialogo con i cittadini promettendo misure volte a rilanciare la mobilità sociale e ridurre il costo della vita, arrivando persino a ventilare l’introduzione di riforme politiche una volta ristabilito l’ordine. Una proposta a cui ieri i manifestanti hanno risposto esponendo le cinque dita della mano. Cinque come le richieste finora disattese, prima tra tutte l’avvio di un’indagine sull’operato della polizia e l’introduzione del suffragio universale per cui si erano battuti invano gli Ombrelli nel 2014. Il visibile affanno dell’amministrazione locale rende oggi l’intervento diretto di Pechino un’ipotesi non più così remota. Avviando le celebrazioni, nella giornata di ieri il presidente cinese Xi Jinping ha promesso “prosperità e stabilità” sotto il motto “un paese due sistemi”, riaffermando però la necessità di tutelare la sovranità nazionale. Un monito reso più minaccioso dal recente assembramento di nuovo personale militare nella regione amministrativa speciale. Secondo Reuters, al momento Pechino manterrebbe in loco la forza attiva più massiccia di sempre se ai membri dell’esercito regolare si somma il personale della Polizia armata del popolo, corpo armato controllato direttamente da Xi con funzioni antisommossa. Arabia Saudita. Trump impone il silenzio, un anno dopo non c’è giustizia per Khashoggi di Michele Giorgio Il Manifesto, 2 ottobre 2019 “I leader mondiali non hanno agito contro i veri responsabili”, commenta con amarezza Hatice Cengiz la compagna turca del giornalista saudita, assassinato e fatto a pezzi nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Hatice Cengiz non trova pace. La società civile internazionale è dalla sua parte ma si sente tradita. “I leader mondiali non hanno agito contro i veri responsabili”, commenta con amarezza la promessa sposa di Jamal Khashoggi, assassinato e fatto a pezzi un anno fa nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Lei fu l’ultima che lo vide varcare la porta dalla quale il giornalista saudita non sarebbe più uscito vivo. Cengiz da giorni sottolinea che non lascia dubbi il rapporto della relatrice speciale dell’Onu Agnes Callamard. Fa riferimento a “prove credibili” sulle responsabilità del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) nell’operazione per far tacere Khashoggi, in un modo o nell’altro. Cengiz sa anche che i centri per i diritti umani hanno più volte chiesto giustizia per il giornalista che dalle pagine del Washington Post e altri media non esitava, quando necessario, a criticare apertamente la monarchia saudita. Per questo il reporter aveva deciso di vivere in un esilio autoimposto negli Stati Uniti. Ma queste voci seppur importanti non possono bastare a chi, come lei, ha sete di verità. Khashoggi non era un oppositore accanito della famiglia Saud ma aveva la “colpa” di aver condannato le presunte riforme proposte da MbS. A segnare il suo terribile destino è stata anche la vicinanza al movimento dei Fratelli musulmani, nemico del regime saudita. Cosa sia accaduto un anno fa solo sanno tutti, anche il Congresso Usa e la Cia. Ma l’evidenza si scontra con il muro del silenzio eretto dall’uomo più potente del mondo, Donald Trump. Il presidente Usa si è anche rifiutato di ricevere Cengiz quando chiese al Congresso verità per il suo Jamal. Trump ha messo al primo posto gli affari del petrolio e le decine di miliardi di dollari che l’Arabia saudita spende ogni anno in armi di fabbricazione statunitense. E ha salvato il rampollo reale e l’Arabia saudita, uno dei principali paesi che violano i diritti umani e civili, delle donne, della stampa, e responsabile da oltre quattro anni di pesanti bombardamenti aerei in Yemen. Per Washington, gli Stati sono “canaglia” solo se nemici degli Usa. Solo chi è in malafede come Trump può credere alle parole di MbS che, in una recente intervista, ha proclamato la sua estraneità all’uccisione di Khashoggi. Non si può avere fiducia nella giustizia saudita e nel processo in corso a Riyadh, dove sono state chieste cinque condanne a morte per altrettanti esponenti di secondo piano dell’entourage del principe ereditario. Pagheranno loro le colpe di altri. “Jamal mi disse solo: aspettami qui fuori, ci vediamo tra poco. Mi consegnò il cellulare per evitare che potesse essere spiato”, ricorda Cengiz. Furono le ultime parole che il giornalista pronunciò prima di entrare nel consolato saudita per ritirare i documenti necessari per il loro matrimonio. Di lui si sono perse le tracce, i suoi resti non sono mai stati ritrovati. Intercettazioni telefoniche arrivate nelle mani delle autorità turche, dimostrano che la sede diplomatica si trasformò in macelleria. Dopo aver strangolato il giornalista, i suoi carnefici lo fecero a pezzi e lo sciolsero nell’acido. Turan Kislakci, presidente dell’associazione della stampa arabo-turca e amico di Khashoggi, ha riferito che la pericolosità di MbS era nota ma mai il giornalista si sarebbe aspettato che “una cosa del genere potesse accadere in Turchia”. Le indagini condotte da Ankara portarono quasi subito all’identificazione di 15 persone, giunte a Istanbul prima dell’appuntamento del giornalista e ripartite subito dopo la sua uccisione. La richiesta di estradizione dei sospetti non è mai stata accolta. Dopo più di due settimane di tentativi maldestri di deviare le indagini, il 19 ottobre Riyadh ammise che Khashoggi era stato ucciso all’interno del consolato da un gruppo di uomini ma ancora oggi nega qualsiasi responsabilità della casa reale. Le settimane successive furono dense di rivelazioni. La Cia, grazie ad intercettazioni di conversazioni telefoniche di MbS e i suoi stretti collaboratori, ha messo a disposizione di Trump un rapporto inequivocabile sulle responsabilità dell’erede al trono saudita. La Casa Bianca ha chiuso gli occhi davanti ad ogni evidenza. Lo stesso hanno fatto gli Stati europei, comprati dai petrodollari dei Saud, buoni alleati dell’Occidente e ora anche di Israele. MbS dopo qualche mese di purgatorio, è stato riaccolto a braccia aperte dalla “comunità internazionale”. La Turchia continua a reclamare giustizia ma l’impegno del “sultano” Erdogan appare il frutto più della rivalità tra Ankara e Riyadh che di un sincero desiderio di verità. In un comunicato congiunto, 20 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty, chiedono che sia strappato il velo del silenzio sull’assassinio di Jamal Khashoggi. Yemen. I ribelli Houthi liberano 290 detenuti, anche tre cittadini sauditi asianews.it, 2 ottobre 2019 La decisione rientra nelle iniziative di pace promosse dall’Onu nel quadro dell’accordo di Stoccolma. Fra questi vi sarebbero anche 42 sopravvissuti a un raid aereo della coalizione filo-saudita contro una prigione a Dhamar. Le due parti si sono impegnate a rilasciare circa 7mila detenuti. I ribelli Houthi in Yemen hanno deciso di rilasciare, in modo unilaterale, almeno 290 detenuti. È quanto annunciano gli operatori del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), secondo i quali la decisione nasce all’interno delle iniziative di pace promosse dalle Nazioni Unite per un Paese da oltre quattro anni in guerra. Fra questi vi sarebbero anche 42 sopravvissuti a un raid aereo contro una prigione a Dhamar, nella parte occidentale del paese, il mese scorso, in cui sono morte oltre 100 persone. A sferrare l’attacco sarebbe stata la coalizione araba a guida saudita, che sostiene il governo dello Yemen riconosciuto a livello internazionale. L’inviato speciale Onu auspica che il passo compiuto dai ribelli filo-iraniani possa fungere da viatico al rilascio di altri prigionieri su entrambi i fronti. Difatti la liberazione di prigionieri rientra nel processo di pace promosso dalle Nazioni Unite per mettere fine al conflitto. L’accordo - raggiunto in Svezia a dicembre con la mediazione Onu - ritiene prioritario lo scambio di prigionieri tra gli Houthi, che controllano Sana’a e gran parte dello Yemen occidentale, e il governo yemenita sostenuto sul piano militare da una coalizione formata nel marzo 2015 dall’Arabia Saudita. Ieri Abdul Qader al-Murtada, capo del Comitato Houthi per gli affari dei prigionieri, aveva annunciato il rilasciato 350 detenuti nel corso della giornata, tra cui tre cittadini sauditi. “L’iniziativa - afferma - mostra la nostra credibilità nell’applicare l’accordo svedese e invitiamo la controparte a compiere un passo analogo”. Le due parti si sono impegnate a rilasciare circa 7mila detenuti, ma l’attuazione di questa promessa è lenta a concretizzarsi. La Cicr non ha voluto fornire particolari dettagli sull’identità dei detenuti, oltre al riferimento ai sopravvissuti all’attacco di Dhamar. “Il rilascio - spiegano in una nota - è un passo positivo che darà nuova linfa all’iter dei rilasci, del trasferimento e del rimpatrio di detenuti legati al conflitto” nel quadro degli accordi di Stoccolma. “Invito le parti a incontrarsi - ha sottolineato l’inviato speciale Onu per lo Yemen Martin Griffiths - alla prima opportunità e di riprendere le discussioni su un futuro scambio di prigionieri”. L’annuncio degli Houhi è giunto a un giorno di distanza dall’uccisione di oltre 200 combattenti filo-sauditi e alla cattura di altri 2mila, nel contesto di un attacco sferrato nella provincia di Najran, lungo il confine con il regno wahhabita. La guerra in Yemen divampata nel 2014 come conflitto interno fra governativi filo-sauditi e ribelli sciiti Houthi vicini all’Iran, degenerato nel marzo 2015 con l’intervento della coalizione araba guidata da Riyadh, ha fatto registrare oltre 90mila vittime, fra civili e combattenti. Per l’Onu il conflitto ha innescato “la peggiore crisi umanitaria al mondo”, circa 24 milioni di yemeniti (l’80% della popolazione) necessitano di assistenza umanitaria e l’emergenza colera preoccupa ancora. I bambini soldato sarebbero circa 2500 e la metà delle ragazze si sposa prima dei 15 anni. Somalia. Gli Usa: “Abbiamo ucciso tre terroristi”. Ma erano contadini di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 ottobre 2019 Tre “terroristi di al-Shabaab” uccisi da un attacco aereo statunitense in Somalia nel marzo 2019 erano contadini senza alcun collegamento col gruppo armato. Lo ha rivelato un’indagine, resa pubblica ieri, di Amnesty International che ha anche accusato il Comando militare Usa in Africa (Africom) di non aver contattato i familiari di una delle tre vittime dopo che, a maggio, era emerso chiaramente che questa era un civile. I tre uomini avevano complessivamente 19 figli. Ecco i fatti. Tra le 15 e le 16 del 18 marzo 2019 un attacco aereo statunitense colpì un suv Toyota Surf nei pressi del villaggio di Abdow Dibile, a cinque chilometri di distanza da Afgoye, nella regione del Basso Shabelle. A bordo c’erano tre uomini di ritorno dal lavoro nei campi. L’impatto distrusse il veicolo uccidendo all’istante l’uomo alla guida, Abdiqadir Nur Ibrahim (46 anni), e Ibrahim Mohamed Hirey (30 anni). Il terzo passeggero, Mahad Nur Ibrahim (46 anni, fratellastro di Abdiqadir), morì in un ospedale di Mogadiscio dopo un’agonia di tre mesi per, secondo il referto ufficiale, arresto cardiaco a seguito di setticemia, con oltre il 50 per cento del corpo ustionato. Non vi sono prove che Africom abbia cercato di mettersi in contatto con lui durante il ricovero. Il 19 marzo Africom diffuse un comunicato nel quale descriveva le vittime come “tre terroristi”, senza fornire alcuna prova. Il comunicato proseguiva affermando che “Africom [era] a conoscenza di notizie riguardanti vittime civili” e avrebbe esaminato ogni informazione al riguardo. A maggio un giornalista di “Foreign Policy” ha informato Africom che Ibrahim Mohamed Hiray era un civile e ha fornito i contatti della sua famiglia, che finora non è mai stata chiamata. Ad agosto Amnesty International ha messo a disposizione di Africom ulteriori prove, ma il comando militare ha rifiutato di smentire che i tre civili fossero “terroristi”: “Quell’attacco aereo è stato condotto contro militanti di basso rango di al-Shabaab (…) Le informazioni raccolte prima e dopo l’attacco indicano che tutte le persone ferite o uccise erano membri o affiliati di al-Shabaab”. Africom non ha mai modificato la sua posizione iniziale rispetto a tutti i casi che Amnesty International ha finora sottoposto alla sua attenzione. Sull’attacco aereo del 18 marzo Amnesty International ha intervistato 11 persone, direttamente o da remoto: familiari delle vittime, persone recatesi sul posto e personale di Hormuud Telecom, l’azienda in cui lavorava uno dei tre deceduti. L’organizzazione per i diritti umani ha poi esaminato articoli di stampa, dichiarazioni dell’amministrazione Usa, la documentazione relativa all’acquisto del veicolo, carte d’identità, referti medici e fotografie del luogo dell’attacco e dei corpi delle vittime. Tutte le persone con cui Amnesty International ha parlato hanno escluso categoricamente che i tre uomini fossero membri di al-Shabaab. Lo stesso gruppo armato non ha impedito ai familiari di recuperare e seppellire i resti delle vittime, cosa che generalmente non accade se le vittime sono suoi militanti. Le dichiarazioni di Africom sull’attacco del 18 marzo e la successiva corrispondenza con Amnesty International sollevano forti dubbi sulla qualità della raccolta d’informazioni d’intelligence e sulla decisione di colpire “affiliati” di al-Shabaab. Si potrebbe essere di fronte a una violazione del diritto internazionale umanitario. In un rapporto diffuso il 20 marzo 2019, l’organizzazione aveva già contestato l’affermazione di Africom secondo cui le sue operazioni militari avevano causato “zero vittime” tra la popolazione civile somala. Appena due settimane dopo, Africom aveva ammesso che il rapporto di Amnesty International aveva reso necessario riconsiderare il numero delle vittime civili. Sei mesi dopo, non c’è ancora alcuna novità. Gli attacchi aerei statunitensi in Somalia sono fortemente aumentati dall’inizio del 2017, quando il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che dichiarava il sud della Somalia “zona di ostilità attive” (ne abbiamo recentemente parlato qui). Da allora, Africom ha condotto almeno 131 attacchi, con droni o aerei guidati. Quello di Abdow Dibile è uno dei 50 attacchi che Africom ha dichiarato di aver condotto da gennaio a metà settembre del 2019. Questo numero supera quello degli attacchi del 2018 (47) e degli ultimi nove mesi del 2017 (34).